Sironi, l’artista della grandezza e della tragicità, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

“Mario Sironi. 1885-1961” si intitola la mostra antologica aperta al Vittoriano dal 4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015.  E’ una  grande esposizione con 140 opere dei diversi periodi, che segue la mostra del 1993 alla Gnam, presentando anche inedite opere giovanili. L’artista ha attraversato simbolismo e divisionismo, futurismo, metafisica ed espressionismo  in un’arte passata dai cupi “Paesaggi urbani” alle grandiose Pitture murali decorative per il regime fascista e per questo esposto a un ingiusto  boicottaggio. Realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, insieme all’Archivio Sironi di Romana Sironi.

Percorriamo il doppio binario con cui si può considerare l’arte di Mario Sironi, quello dei sentimenti personali legati al suo temperamento e alle vicende della  vita e quello della cifra stilistica in cui si è espresso. 

Sono due percorsi che si sovrappongono perché nel ciclo della sua vita le pulsioni interiori si traducevano in forme pittoriche aderenti alle tendenze di volta in volta seguite. Ma li teniamo separati per evidenziarne più compiutamente l’evoluzione nel tempo.

Le costanti della sua arte: la grandezza e la tragicità

Grandezza e tragicità sono stati i termini con i quali sono state riassunte le sue pulsioni interiori, e in effetti sono alla base di tanta parte della sua espressione artistica.

La grandezza riflette la sua formazione a Roma, nel centro della classicità e della romanità. La “città eterna”  fu decisiva nella sua concezione dell’arte. “L’ideale della Grande Decorazione che Sironi coltiva negli anni trenta – scrive la curatrice Elena Pontiggia – si forma in lui ben prima di quegli anni  (e ben prima del fascismo) guardando  l’Arco di Tito e il Colosseo, la basilica di Massenzio e la Colonna Traiana, il Pantheon  e le Terme di Caracalla, gli affreschi di Raffaello e di Michelangelo”.  Lo dichiarò lui stesso a proposito della “Pittura murale” del 1931, l’ispirazione “a far grande” gli venne negli anni giovanili  guardando “gli splendidi fantasmi dell’arte classica”.

Precisamente dagli anni ’10, ben prima che il fascismo  richiamasse i fasti grandiosi dei “colli fatali di Roma”.  Aderì poi all’ideologia del regime perché gli sembrava realizzasse i suoi ideali in cui la grandezza si traduceva nell’ “Uomo nuovo” e nei valori della classicità, nel segno della patria e della famiglia, della cultura e della giustizia imperniati sul lavoro, come fonte di dignità e nobiltà, da quello delle fabbriche a quello delle campagne.  E li tradusse nell’arte di cui scriveva: “L’Arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza, altezza di principi”. C’è grandezza nelle sue opere monumentali:  pur celebrative dell’ideologia del regime collimavano  con la sua visione,  lo si vede nelle opere in cui rappresentava l’uomo al lavoro,  con un senso di forza e solennità.

Una posizione analoga l’abbiamo trovata in Deineka, il grande artista russo del “Realismo socialista”, anch’egli legato alla mistica del regime perché coincideva con i valori da lui fortemente sentiti, anche qui la dignità dell’uomo sul lavoro e non solo. Entrambi sono diventati strumento della propaganda dei rispettivi regimi, ma non per acquiescenza o sudditanza, tanto meno per opportunismo, quanto perché vedevano  riconosciuti e tradotti in azione politica i valori in cui credevano. Ma a nessuno dei due sfuggiva quanto stava avvenendo nella realtà, entrambi registrarono l’allontanamento dell’ideologia dalle loro convinzioni, di qui la delusione e la reazione.

Sironi scriveva nel 1937, al ritorno dall’Esposizione Universale di Parigi con la sua opera monumentale “L’Italia illustrata”: “Cercherò come sempre di chiudere gli occhi dove non voglio vedere e tirare avanti a tutta forza, con tutta la mia forza: credere poco, obbedire anche  troppo, combattere sempre”. E, più esplicitamente, in un diverso momento: “So bene che ora il fascismo contiene il movimento opposto che ha debellato”, con “ora” sottolineato.

La tragicità è l’altra componente della sua visione, legata a una angoscia esistenziale che sente fortemente il peso della condizione umana, oppressa dai misteri insondabili della vita e della morte. Una sofferenza interiore che si trova in tanti suoi scritti, li cita Romana Sironi: “… trovarmi nel freddo, nell’angoscia, vedere la morte, andarle incontro e dirle portami via”; e poi “Pace all’anima mia – pace al mio corpo martoriato, pace ai miei occhi sbarrati sull’orrore e pieni di lacrime – senza altra luce che quella che negli immensi orizzonti corona debolmente le vette della terra, miserie e lacrime e il lungo smoderato soffrire di tanti anni…”.   Gianni Rodari, che lo salvò quando il 25 aprile 1945 fu catturato da un gruppo di partigiani di cui faceva parte, ha scritto di lui: “Per me la sua pittura è una lezione di tragedia. Non c’è pittore che valga i suoi quadri”. 

Con il trasferimento a Milano all’età  di oltre trent’anni, alle visioni grandiose della Roma classica si sostituiscono le periferie desolate, ai templi della romanità le fabbriche fumose, la natura stessa sembra scomparsa, sopraffatta dalla alienante realtà urbana: tutto questo alimenta l’angoscia esistenziale che troviamo in lui già nei primi anni della giovinezza e si riflette nella sua produzione artistica dove predominano queste immagini cupe.

Romana Sironi scrive che di Roma “il ricordo è vivissimo. Parlava poco, amava ascoltare i racconti di Roma, della Roma che aveva tanto amato nella sua grandiosità, che era stata fonte ispiratrice di tanti suoi capolavori”.  E  aggiunge che  Margherita Sarfatti alla Biennale di Venezia del 1924 lo definì “romano di educazione, nato da una famiglia lombarda a Sassari”, sottolineando “di tutti i nostri pittori italiani d’oggi, egli è anche il più romano, per la sua tendenza alla grandiosità”. Amedeo Sarfatti  precisa  che “si considerava romano e del romano aveva anche l’accento”.

A Roma non dipingeva ancora le periferie, come fece poi con quelle milanesi, ma dovette assorbirne, insieme alla grandiosità classica del centro storico, lo stesso clima.  Lea Mattarella, nella sua nota in Catalogo sulla “Roma plurale di Mario Sironi”, ricorda come Guido Ceronetti  abbia scritto di Sironi che per lui “la città è il monumento alla Solitudine, un cimitero di solitudini, spazi simbolici dove patiscono senza fine, perdutamente, microsensibili, e ti figuri storie di dolore e occhi aperti nel buio dietro quelle finestre” che rappresenterà cieche; e ricorda che Enzo Siciliano,  a commento della mostra del 1995 alla Gnam,  associò Sironi a Pasolini “testimoni di una disperazione nei confronti del mondo che trova proprio nel paesaggio urbano la sua potente esplicazione” parlando di “un ‘sole nero’ che li accomuna. Sorge ogni mattina sui palazzi delle loro periferie così lontane e così vicine”.

Le due pulsioni contrastanti, grandiosità e tragicità,  sono compresenti nelle sue opere, e solo una visione superficiale può vedervi l’una e non l’altra spinta interiore. Anche nelle opere monumentali di regime dove la grandezza è connaturata al soggetto c’è un’intima tragicità, un dramma; mentre in quelle visibilmente drammatiche come le periferie urbane non manca la grandiosità.

Questa compresenza è espressione di una personalità complessa, con una forte passionalità che gli fa abbracciare ciò che risponde alla sua visione, e lo rende distaccato da una società in cui non si riconosce. L’uscita in positivo da queste spinte opposte sta nella fiducia nella costruzione dell'”Uomo nuovo” dall’alta moralità, all’insegna di valori spirituali e di energia.

Il suo sogno si dissolse, alla fine del regime in cui aveva riposto tante speranze,  nelle rovine della seconda guerra mondiale, e l’angoscia esistenziale non fu più contenuta dall’utopia  di grandezza.  Ma non venne meno quella che Romana Sironi definisce “una moralità inflessibile, intransigente, una coerenza testimoniata anche  a prezzo della vita”. E ricorda quando “cadute le disperate ideologie del fascismo, per orgoglio, per rispetto di se stesso, per la fierezza del suo temperamento, non riesce a rinnegare il passato, là dove molti l’avevano fatto, ma resta dalla parte dei vinti, pronto a pagare il duro prezzo della disfatta che lo relegava nell’isolamento più assoluto”.

Ne dà conferma Luigi Cavallo: “Sironi  prende su di sé il peso della sconfitta, l’annientamento dei valori in cui aveva creduto.  Nel fuggi fuggi dal regime che si verificò dopo l’8 settembre 1943, non si mise mascheramenti, restò dalla parte in cui aveva militato e se ne assunse le conseguenze”.

Una scelta coraggiosa che non fu senza contraccolpi. Seguì  un “astioso confino” in cui fu relegato perché la condanna del  regime  nell’ideologia e nelle scelte culturali ed artistiche fu per lui una “damnatio memoriae” a cui invano hanno reagito uomini di cultura come Giovanni Testori, pure  ben lontani politicamente da lui: “Credo che una delle colpe più gravi della critica italiana nei confronti dell’arte moderna sia stata quella di ostinarsi a trattenere in una sorta di limbo, quasi in un ‘a parte’, il caso che fu invece di forza primissima  e di primissima grandezza di Mario Sironi”.

Testori  gli attribuisce il merito di “una chiarezza di posizioni, costi quel che costi, e in quelle posizioni l’umile  e feroce coerenza”.  Una coerenza in cui si riflette “la dolorosa coscienza della dignità che è nell’uomo”, in Sironi riflesso “della sua tensione morale e della sua trasfigurazione poetica: che fu scontrosa, fuligginosa, rocciosa, granitica e carbonizia,  ma, insieme, larga, solenne, sacralmente illuminata e illuminante”.

Ci viene di associare Sironi a Gabriele d’Annunzio per il trattamento assai simile che ha subito nel dopoguerra, sebbene dopo le convergenze nazionalistiche il fascismo lo avesse relegato nella “gabbia d’oro” del Vittoriale e lui stesso ne avesse preso le distanze, salvo un riavvicinamento a Mussolini nell’avventura africana. Anche l’angoscia esistenziale associata all’idea di grandezza e all’iniziale adesione al fascismo perché sembrava incarnarla ci fa accomunare la personalità dei due grandi italiani, oggi finalmente sdoganati dopo la lunga “damnatio memoriae”  del dopoguerra.

Ha dipinto fino all’ultimo, e se la sua pittura divenne più cupa, con i toni di premonizione accentuati, secondo Cavallo “non è sopito il suo anelito a far grande, il suo pensiero plastico”,  per cui “abbiamo momenti assai alti di una presenza messa comunque in tensione da grandi capacità di dare emozione”.

E ci emoziona fino alla commozione anche il ritratto conclusivo che ne fa Romana Sironi: “Una personalità speciale, magnetica, possente, mossa sempre da sentimenti forti, passionali, combattuto  tra speranze utopiche e disperazioni acute. Era bello, gli occhi azzurri, nella folta cornice di capelli neri, a volte si accendevano furenti e lampeggianti se l’argomento non era di suo gradimento ma erano capaci anche di dolcezza e tenerezza”.

L’inizio dell’arte pittorica,  simbolismo e divisionismo   

La curatrice Pontiggia traduce così i caratteri salienti riassunti nella sua produzione pittorica, fin qui evocati: “L’arte di Sironi è una lezione di tragedia. Ma c’è dell’altro. La pittura di Sironi è anche una lezione di grandezza, Le due cose combaciano nelle sue opere come le valve di una conchiglia.  Tragedia, cioè drammaticità, tensione, espressionismo, romanticismo. Grandezza, cioè forza, equilibrio, solennità, classicità”.

E aggiunge: “E’ stato un romantico innamorato della  classicità e un pictor classicus intriso di romanticismo. In questa concordia discors, in questa discordia armoniosa consiste l’altezza della sua arte. E in questa duplicità consiste anche la sua unicità”. Che gli ha fatto percorrere le diverse correnti pittoriche del suo tempo in un itinerario artistico esaltante intrecciato alle vicende della vita,  cui la curatrice dedica un’attenta e dettagliata ricostruzione di cui daremo dei rapidi cenni.

Ne ripercorriamo la storia mentre passiamo in rassegna le opere esposte in mostra, che citeremo di volta in volta – e non ne citeremo altre – inserendole nel mosaico della sua vita artistica.

Mostrò il suo talento fin dalle elementari, i suoi disegni furono messi in vendita da un cartolaio;  il suo primo quadro conosciuto con cui si apre la mostra è “Marina”, dipinto  nel 1899-900,  a 14-15 anni,  è stato riconosciuto dalla sorella Cristina il Porto Canale di Pesaro, c’è già il suo senso materico e dei volumi. A 16 anni si cimenta in  copie dei maestri, la sua formazione e ispirazione é a largo raggio, vediamo una “Copia da Utamaro”, il maestro giapponese di cui riproduce su cartoline alcune figure molto delicate e bidimensionali, distaccandosi nell’occasione dai suoi volumi.

In quegli anni, in cui approfondisce il romanticismo e il pensiero di Nietsche e Schopenhauer, sente l’influsso del simbolismo europeo,  partecipando a Roma al “gruppo dello scultore Prini”, con altri giovani pittori di orientamento simbolista; fu influenzato anche dall’estetismo inglese. Del periodo simbolista vediamo un ex libris per la madre Giulia,  una giovane donna che scrive “Ars et amor”, 1901-02, su un muro alla cui sommità c’è un satiro, su uno sfondo scuro; e il piccolo dipinto “Il pascolo, 1902-03, simboli l’albero per la vita e la pecora con l’agnellino per la maternità.

Nel 1904 conosce Severini e Boccioni, che definisce  “il mio migliore amico e l’ultimo”, così si intitola, tra l’altro, l’accurata ricostruzione di Virginia Baradel della loro amicizia. Per il suo tramite entra in contatto con Giacomo Balla, che lo converte al realismo nei contrasti tra ombra e luce, staccandolo dall’iniziale simbolismo.  Lo abbandona ritenendo letteraria e troppo astratta la teatralità del simbolismo tedesco e le stilizzazioni decorative del simbolismo viennese rispetto  alla “naturalezza” del Novecento italiano che Boccioni e Balla gli facevano apprezzare.

Rappresenta il momento di transizione “La chiesa del Ghisallo”, 1903-05, in cui c’è ancora l’albero simbolico al centro, ma in un contesto naturalistico. Mentre “La sorella Cristina al pianoforte, 1905,  a inchiostro su carta, con linee spezzate, nel suo bianco e nero intenso riflette le ricerche luministiche di Balla e del gruppo intorno a Prini.  

E’ la fase del divisionismo, anche se la sua sensibilità architettonica – il padre e lo zio erano ingegneri progettisti e lui stesso si iscrisse a ingegneria che lasciò presto – gli faceva mantenere i volumi non dissolvendoli nella luminosità e nelle linee divise.  Un’opera significativa di questa fase è “La madre che cuce”, 1905-06,  si avverte la divisione delle linee ma sovrastata dalla volumetria dell’ambiente e dell’arredo, e anche il cromatismo non è dominante.

A Parigi, dove soggiorna con Boccioni, non è attirato dagli impressionisti allora imperanti, quanto dai capolavori classici esposti al Louvre e dalla metropoli.  Oltre alle suggestioni classiche, già fortemente sentite  a Roma,  viene colpito dal moderno paesaggio urbano, lo si vede in alcuni  paesaggi romani in stile divisionista dopo il 1905.

Tra il 1907 e il 1911, aperto uno studio a Milano, va due volte in Germania dove conosce il post espressionismo tedesco  e approfondisce la cultura tedesca cui si è appassionato attraverso la filosofia di Nietsche e il pathos di Wagner da amante della musica. Riflessi di questa esperienza nell’ “Autoritratto”, 1909-10, con il camice del pittore, il viso aggrottato tra luce e ombra ha un senso drammatico come il suo temperamento; e nel “Ritratto del fratello Ettore”, 1910,  anche qui luce e ombre e sebbene sia adolescente non c’è spensieratezza  ma una “crescita dolorosa”, nonché nel “Ritratto della madre”, 1910,  una testa scultorea nel buio,  di marca post-espressionista.

Da amante dell’arte classica non può aderire alla provocazione di Marinetti del 1909  di distruggere i musei, quindi si allontana da Boccioni e Severini al centro del movimento futurista, cui si avvicina solo nel marzo 1913 dopo aver visto la loro mostra a Roma, partecipando a un “banchetto futurista”. Ne sono espressione i lavori “decostruttivi” di questo periodo e le opere in cui traduce il “dinamismo plastico” del futurismo in una “plasticità dinamica”: “Una serie di volumi obliqui ma saldi che possono essere inclinati, ma non incrinati dal movimento”, commenta la Pontiggia.  Di questo anno “Testa”, 1913, diversissimo dalle opere precedenti, c’è la scomposizione picassiana del volto che diventa una maschera, con ombre sugli occhi che le danno una forte drammaticità.  

Gli anni ’10: il periodo futurista con tratti metafisici

Ha trovato la propria cifra nel futurismo e partecipa alle sue manifestazioni, l’amicizia con Boccioni si rafforza, nell’aprile 1914 espone 16 opere alla “Esposizione libera futurista internazionale” dove è presente anche Kandinskij con artisti russi che influenzano alcune sue opere di quel periodo.  Nel 1915 si trasferisce  a Milano ed  entra nel gruppo dirigente del movimento,  esegue collage, disegni e composizioni futuriste con i caratteristici inserti  di lettere.  Di questo periodo “Il camion”,1914-15,  esprime l’interesse futurista per la città moderna e il movimento, ma è di tipo militare e, stretto tra un tram  e gli edifici, più che alla velocità fa pensare alla solidità della carrozzeria, è la variante di Sironi del futurismo come era stata del divisionismo, fedele ai volumi e alla drammaticità. 

Lo si vede anche nei collage futuristi “L’Arlecchino”, 1915,  che la Pontiggia considera “uno degli esiti più alti della stagione futurista di Sironi”, è bidimensionale e cromatico, ma a sinistra c’è il volume di una casa; mentre in “Il bevitore”, 1915-16, il tocco futurista del giornale è sovrastato dalla densità materica  e dalla figura drammatica, il viso ridotto a maschera; ugualmente drammatica “La ballerina” , 1916,  con gli occhi pesantemente bistrati e le membra slogate come una marionetta dà un’immagine di sensualità, piuttosto che del movimento di marca futurista.

Analoga considerazione per due oli dello stesso anno, 1916: in “Borghesi e tram rosso” l’ispirazione futurista è nel tema, la vita cittadina, e nel forte cromatismo, per il resto c’è la sua solidità volumetrica nelle due figure in primo piano e nella massa statica del veicolo; in “Il ciclista” la figura pur in movimento non dà l’idea della velocità ma della fatica  espressa dalla tensione delle gambe, e sullo sfondo i volumi delle abitazioni della periferia anticipano i “Paesaggi urbani”.

Si arruola nel Battaglione Volontari Ciclisti con il gruppo dei futuristi, da Marinetti a Boccioni a Russolo, partecipa ad azioni belliche e firma il manifesto di Marinetti “L’orgoglio italiano”.  Esegue dipinti futuristi sarcastici sui borghesi antipatriottici della “vecchia Italia” cui si contrappongono gli eroici soldati; e comincia a soffermarsi sulla figura in senso fauvista ed espressionista  che lo allontana dal futurismo, finché la morte di Boccioni lo distacca sempre più.

Poi un periodo di vita militare attiva  fino al marzo 1919 quando viene congedato e presenta alla “Grande esposizione futurista”  di Milano 16 opere di cui poche recenti e soprattutto poco futuriste. Torna a Roma dove alle riviste del movimento “Roma futurista” e “Dinamo”  preferisce la nuova rivista “Valori plastici” fondata nel novembre 1918 con de Chirico, Carrà, Savinio, Per lui, scrive la Pontiggia, “la pittura metafisica è una sorta di trauma visivo.  I manichini, le case dalla forma chiusa e precisa, i prismi e i poliedri… esercitano su di lui una profonda suggestione”, già l’influenza delle sagome di Carrà e Depero si nota in alcuni suoi ritratti del 1918. 

Lo colpisce una citazione platonica di Margherita Sarfatti della bellezza come forma stabile, fatta di linee e di tondi e l’articolo di  Carrà in “Valori Plastici”  che esalta la “solida geometria di oggetti”, di qui al dinamismo futurista viene a sovrapporsi la plasticità metafisica.  Afferma che “solamente l’idea platonica del reale può traslare nell’opera di fantasia una forma chiara della realtà”.

“Sironi crea così – è sempre la Pontiggia – un futurismo metafisico o una metafisica futurista, in cui una macchina non corre più ma esibisce l’enigma dei suoi ingranaggi”, si vede dai suoi dipinti del periodo in cui le figure non sono più in movimento ma in un’immobilità statuaria.  Anche nelle mostre,  ad opere futuriste ne affianca altre con “geometrie metafisiche e platoniche”.  Ma la sua metafisica è “fisicissima profondamente umana”, ritrae la vita quotidiana invece del “mondo ortopedico e antisentimentale” metafisico.

Siamo nel settembre 1919, si trasferisce in via definitiva a Milano, città che definisce “brutta ma solida”  rispetto alla “bella, sonnolenta Roma”. Nei suoi “Paesaggi urbani”  di fine 1919-20, in cui ritrae le periferie,  la Sarfatti ha visto la capacità di trarre “forza, grandiosità, ordine, armonia”  dallo squallore della città, una visione diversa da quella della critica moderna che vi vede solitudine e desolazione;  i primi critici, a questa sensazione negativa aggiungevano quella positiva di armonia e forza costruttiva.  Di lei vediamo esposto il bel “Ritratto di Margherita Sarfatti”, 1916, un volto con lo sguardo vivace e una luminosità diversa dai toni scuri tipici della drammaticità dell’artista.

La solidità architettonica venne apprezzata anche dai futuristi e diviene una chiave di lettura anche della sua drammaticità: “Sironi – osserva la Pontiggia – esprime il dramma della vita moderna, anzi il dramma della vita in generale, ma di fronte a quel dramma suggerisce un atteggiamento non nichilistico”; la risposta alla sfida della vita è “costruire , perché è necessario… costruire e guardare in alto”, sono le parole che l’artista usò nel 1931. La Pontiggia conclude: “I ‘Paesaggi urbani’ sono lontani tanto dalle Piazze d’Italia quanto dalle città futuriste. Sono una ‘terza via’: una sorta di realismo sintetico e senza tempo che prenderà il nome di ‘Novecento'”.

Vedremo i “Paesaggi urbani” nella rassegna degli anni ’20, intanto ecco sei opere su carta del 1919 in cui si allontana sempre più dal futurismo. Due sono in tempera e olio: “Il sollevatore di pesi”,  una figura statica, quasi bloccata, in un’atmosfera sospesa di tipo metafisico;e “La lampada”, con un manichino dechirichiano, che la Pontiggia definisce “l’esempio più alto della breve stagione metafisica dell’artista”. Altri due sono collage: il  “Il camion giallo”, sigillo della mostra, in cui di futurista ci sono frammenti di scritte, mentre esprime l’opposto della velocità, è bloccato nella strada che occupa interamente, con i grandi volumi abitativi cari all’artista; e “Studio per un paesaggio urbano”, forse in preparazione di un olio, i cui sono compresenti i motivi futuristi nell’aereo in volo, quelli metafisici nell’atmosfera sospesa e quelli del nuovo “Novecento” nelle forme solide delle abitazioni che si accavallano quasi in una volontà di ricostruzione.

Nonostante queste sue persistenti “deviazioni”, continua a partecipare a manifestazioni e mostre futuriste, e nel 1919 aderisce al fascismo: diventa collaboratore del  “Popolo d’Italia”  con i suoi disegni e le sue tavole su temi assegnatigli direttamente da Mussolini che esercita su di lui un forte ascendente, come lo esercita la spinta  nazionalistica dopo la “vittoria mutilata”; sarà pressnte nelle riviste del regime, come “Gerarchia”, e la mostra lo documenta.

A parte questo aspetto fondamentale, “credeva in un fascismo a sfondo sociale, di ascendenza ancor  socialista”,  tanto che la moglie Matilde lo definiva “anarchico e comunista”, Arturo Martini addirittura “bolscevico”.  Questi fatti inducono a non ridurre le sue espressioni artistiche all’adesione al regime, anche se è stata anch’essa un fatto conclamato da non trascurare per un’interpretazione equilibrata dei motivi psicologici ed ideologici sottesi alle sue opere.

Ne parleremo ancora, soprattutto per le sue “Pitture murali” degli anni ’30, celebrative del regime ma nello stesso tempo animate dalla sua concezione dell’uomo e dei suoi valori. Lo faremo prossimamente, nel seguito della appassionante cavalcata nella vita e nell’arte di Sironi.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492.  Seguiranno 3 articoli su Sironi in questo sito, tra dicembre e i primi di gennaio 2015,  rispettivamente sugli anni ’20, gli anni ’30, gli anni ’40 e oltre,  ciascuno con 10 immagini. Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su “Deineka”  il    26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012,   su “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, sul “Futurismo”  il 2 marzo 2014,  su  ” D’Annunzio”  il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013 ,  su “Pasolini” l’11 e 16 novembre 2012 e il  27 maggio e 15 giugno 2014;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009, sui  “Realismi socialisti”  3 articoli il 31 dicembre 2011,   su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010, sul “Futurismo”  il 30 aprile e 1° settembre 2009. .   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Il camion giallo”, 1919; seguono “Autoritratto”, 1909-10 e “Ritratto della madre”, 1910, poi “Ritratto del fratello Ettore’, 1910, e “L’Arlecchino”, 1915; quindi  “Il ciclista”, 1916 e “La lampada”, 1919, infine “Paesaggio urbano con taxi”, 1920, e alcune Pubblicità  da lui realizzate; in chiusura alcune Riviste del regime a cui collaborava. 

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