Sironi, gli anni ’30 e la Grande decorazione, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Continua il racconto della nostra visita alla mostra antologica aperta al Vittoriano dal  4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015, dedicata a “Mario Sironi. 1885-1961”  con  140 opere dal’inizio del ‘900  all’inizio degli anni ’60, realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, con l’Archivio Sironi di Romana Sironi. Abbiamo in precedenza ricordato  la grandezza e la tragicità nelle sue opere, con riferimento alla sua figura di uomo e di artista in un periodo storico particolare, commentando le opere dagli esordi alla fine degli anni ’20. Ora passiamo alla fase esaltante delle pitture murali degli anni ’30.

La Pittura murale celebrativa degli anni ‘30

Con gli anni ’30 cambia tutto,  dai quadri passa alla pittura murale, affreschi e mosaici, rilievi monumentali e vetrate  con cui si immerge nell’amata classicità. Si avvale dell’esperienza acquisita fin dagli inizi con l’attività di illustratore anche a fini politici, e la traduce in una grandiosità compositiva che occupa interamente le pareti decorate, di qui il nome di “Grande decorazione”.

La pittura murale la sente complementare all’architettura, che ne amplifica l’effetto scenografico, ed è il mezzo più adatto a diffondere il messaggio politico che per lui, più che propaganda, è trasmissione di valori dell’uomo in cui crede, indipendentemente dall’ideologia che li diffonde con enfasi interessata. Analoga fu, nello stesso periodo,  la posizione di Deineka, il grande pittore russo tra i massimi esponenti del “Realismo socialista”  al di là dell’adesione ideologica per la fede nei valori dell’uomo, nel lavoro e nello sport, su cui faceva leva il regime comunista.

Sironi utilizza gigantografie stampate o affrescate, spesso con scritte a caratteri cubitali, nella gamma cromatica preferisce tinte discrete  e qualche colore rosso  nell’accostamento più adatto a  renderne massima la visibilità e l’effetto sull’osservatore.  

Alterna pitture murali per eventi  temporanei a pitture per destinazioni definitive usando le prime anche come  dei test per soluzioni scenografiche da utilizzare in via permanente. Mariastella Margozzi, nel saggio in Catalogo “Potenza dell’immagine. La grande decorazione di Sironi” afferma: “Non c’è soluzione di continuità tra le due tipologie, piuttosto un’evoluzione continua di impostazioni generali e soluzioni iconografiche e una trasformazione delle immagini, che da epiche diventano ieratiche, passando dalla narrazione della storia in atto alla celebrazione del mito”.

Le immagini riguardano ambienti, come le periferie urbane da lui rappresentate anche nei quadri, e le fabbriche, le campagne e i porti; e soprattutto personaggi, per lo più lavoratori, per esprimere i valori – dal lavoro alla casa e alla famiglia – della tradizione italiana, in una narrazione allora moderna e attuale. Soggetto prevalente nella prima metà del decennio “Il lavoro”, nella seconda metà “L’Italia fascista”; ci sono due mosaici su altri temi, la “Giustizia” e “L’Annunciazione”, con dei riferimenti impliciti all’ideologia del regime.

I grandi cartoni  murali, “clou” della mostra

Il “clou” della mostra sono proprio le grandi  pitture murali evocate con gigantografie per lo più di circa 3 metri per 2 cui è stato dato il posto d’onore nella rotonda centrale, l’effetto scenografico è notevole.

“L’allegoria del lavoro”, 1933,  comprende un insieme di figure maschili nude e una femminile con il peplo, è l’unico esposto con parecchie immagini, era un cartone preparatorio per la Triennale di Milano di quell’anno: nella pittura definitiva di cui è una piccola parte  fu eliminato il soldato posto all’estrema destra , perché servire la patria in armi non poteva essere considerato lavoro.

L’affresco finale, di ben 11 metri per 10,  era collocato a sua volta nella “Galleria della Pittura Murale”, che Sironi volle fortemente per lanciare il ritorno della Grande decorazione, dopo i fasti del  passato:  una successione di affreschi e di opere di artisti da de Chirico a Severini, Campigli e Funi,  nel Salone d’onore del Palazzo dell’Arte. La Galleria rappresentava l’Italia nelle sue varie espressioni, dal lavoro alla vita familiare, dallo studio allo sport.

Hanno un protagonista unico gli altri grandi cartoni preparatori. Per “L’Italia tra le Arti e le Scienze” , fu realizzato dall’artista nel 1935 un affresco monumentale collocato nell’Aula magna dell’Università di Roma dell’architetto Piacentini, cui l’artista fu molto legato; al riguardo c’è nel Catalogo l’accurata ricostruzione dei loro rapporti di Roberto Dulio. Ecco i due cartoni esposti.

Il primo,  “L’Astronomia”  è un’imponente e statuaria figura femminile dai tratti angolosi che guarda in basso, la tunica alla vita, le braccia piegate dinanzi al seno nudo, ben diversa dalle raffigurazioni classiche in cui la figura allegorica era serena e guardava il cielo; la visione drammatica dell’artista che dà l’impronta al cartone preparatorio non si trasferì sull’affresco finale in cui guarda in alto con le braccia levate verso il cielo. 

Nell’altro cartone, “Condottiero a cavallo”, l’immagine equestre è imponente,  lo si vede dalle minuscole dimensioni del codazzo di gerarchi e militi che non arriva alle ginocchia del gigantesco cavallo il quale, peraltro, pur essendo altissimo è esile come un ronzino, il contrario dei poderosi destrieri delle statue equestri. Se ne comprende subito il motivo, così spicca maggiormente il cavaliere, che tiene le redini senza baldanza ma con sicurezza, con stivali ed elmo, dal volto ingentilito e la fisionomia inconfondibile del condottiero per antonomasia: il Duce del fascismo.

Era l’anno della spedizione d’Africa, l’anno successivo sarà proclamato l’impero. Nel 1936 l’artista è impegnato in due grandi affreschi per il sacrario della Casa Madre dei Mutilati di guerra di Piacentini, “Rex Inperator” e “Dux”.  Vediamo esposto “L’Impero” , preparatorio del primo dei due affreschi citati, rappresenta l’Italia imperiale che scortava Umberto I: una figura di adolescente, con una tunica dal panneggio classico, nella mano sinistra il globo senza alcun trionfalismo, l’atteggiamento sereno; il lato bellico era nell’altra figura che fa da scorta, un soldato.

Non sono figure astrattamente allegoriche ma identificative, quelle dei cartoni preparatori di manifestazioni celebrative del 1936, che vediamo in mostra.  “Il lavoratore”  (o “Agricoltore”),  realizzato per il mosaico monumentale “L’Italia corporativa”, che lui chiamava “costruttrice” , è una figura maschile imponente e statuaria: la struttura geometrica la rende rigida, il volto di profilo dal mento volitivo secondo Emily Brown potrebbe ricondurre ancora al Duce, ma la Pontiggia la considera ipotesi suggestiva però priva di adeguate verifiche. Era la figura centrale, intorno le figure di contorno del costruttore  e degli agricoltori, della madre e della casa, fino  alla Legge e alla Giustizia.

Mentre “Lo studente” , per l’affresco “Venezia, l’Italia e gli studi” destinato all’Aula magna della Ca’ Foscari a Venezia, è altrettanto imponente  e geometrico, l’artista ha cercato di dargli  movimento con il ginocchio sinistro piegato, in aggiunta alla stabilità del ginocchio destro visto frontalmente. Però, anche se c’è il libro in un riquadro in alto, ciò che spicca è il fucile tenuto dal braccio destro, secondo il mussoliniano “libro e moschetto”, e il corpo nudo da atleta pronto a scattare.  “Il connubio, di ascendenza nietzscheana, osserva la Pontiggia, esprime una svalutazione della cultura libresca non accompagnata dalla cultura fisica, atletica, militare”. L’artista lo sente  come il russo Deineka che del “Realismo socialista”  condivideva proprio questo orientamento.

E siamo al cartone allegorico per eccellenza,  il più grande, esteso per oltre 5 metri, si tratta dello “Studio preparatorio per la Giustizia tra la Legge e la Forza”,   per il mosaico al Palazzo di Giustizia di Milano realizzato nel 1938. Oltre alle 3 figure allegoriche indicate nel titolo, c’è quella che rappresenta la verità, che l’artista definisce “come suprema aspirazione”, considerandola “simbolo della vita e delle forze che naturalmente si combattono per degli ideali umani”. Vi sono tanti simboli, dalla bilancia al capitello espressione della romanità imperiale, scritte e motti,  ma ciò che colpisce di più è l’immobilità delle figure femminili che impersonano le allegorie, viste frontalmente senza che i loro sguardi si incrocino, in una ieraticità che è anche un monito.

Dopo questo maxi cartone, due mini del 1940,  “Studio di affresco, Figura”, una delle 12 temperedi una raccolta del 1943 presentata da Massimo Bontempelli,  forse autonoma e non collegata a un preciso affresco, la donna con la tunica dal panneggio essenziale richiama in forma di bassorilievo la statuaria classica femminile; e“Composizione (Pegaso)” con Bellerofonte che lancia al galoppo il cavallo alato, l’artista si ispira al mito eroico, la disillusione che gli farà abbandonare tali temi è vicina, ma ancora si sente di volare pur nel suo animo  pessimista facile alla depressione.

Il ciclo di Pitture murali

Abbiamo citato soltanto i cartoni preparatori esposti in mostra, il ciclo di pitture murali dell’artista è molto nutrito ed è interessante ripercorrerlo, anche perché legato ad eventi emblematici su cui il regime faceva leva per diffondere i suoi messaggi nel modo più efficace.

Mariastella Mangozzi nel Catalogo ne fa un’ampia ricostruzione illustrando le singole iniziative, e ne dà questo giudizio di sintesi: “Sironi ne è stato certamente il massimo esponente, proprio perché il suo stile non è stato decorativo in senso stretto, ma ha conferito alla decorazione una nuova dignità, quella di rappresentare la storia in fieri, con tutta la forza delle sue azioni e dei suoi messaggi. Egli non ha messo a punto una decorazione come narrazione (come quasi tutti i suoi colleghi), bensì come attuazione del dramma, nel senso greco del termine”.

Ed ecco una rapida carrellata sulle  tante scene della sua liturgia drammatica ed epica insieme, ricavata dalla precisa elencazione della Pontiggia e dall’illustrazione dettagliata della Margozzi. .

Il preludio della grande rappresentazione si trova nel 1928-29, con l’allestimento di tre padiglioni fieristici  dedicati alla stampa insieme all’architetto Muzio: alla fiera di Milano, alla mostra internazionale di Colonia  e all’esposizione internazionale di Barcellona.  Importanti nella creazione di un linguaggio nuovo per dominare le grandi superfici e trasmettere significati simbolici.

Lo spettacolo inizia a Monza, alla Triennale di arti decorative del 1930, dove realizza la Galleria delle Arti Grafiche, con vetrate dipinte ed elementi architettonici.

Poi nel 1931 e 1932 a Roma, al Ministero delle Corporazioni,  è di scena la “Carta del lavoro”, anche qui una grande vetrata, questa volta su progetto dell’architetto Piacentini. L’artista raffigura l’Italia turrita,  liberata dalle catene, che consegna al popolo la Carta del lavoro promulgata nel 1927: in alto i luoghi in  cui si lavora, moderni come fabbriche e aeroporti, antichi come la campagna, ai lati figure allegoriche dei mestieri tutelati dalla Carta del lavoro in campo agricolo e industriale e delle discipline come architettura e scultura, per edificare la nuova Italia che risorgeva sui valori sociali di lavoro, patria  e famiglia.

Sempre nel 1932 a Bergamo  due pannelli decorativi  di 3 metri  e mezzo per il Palazzo delle Poste, con l’allegoria del lavoro nei campi, l’Agricoltura, e del lavoro in città, l’Architettura.  Prosegue così la “narrazione” dell’economia nuova e dell’umanità nuova,  con figure allegoriche simbolo dell’operosità italiana in una visione di grandezza proiettata nel futuro.

Nello stesso anno di nuovo a Roma  per allestire nel Palazzo delle Esposizioni una mostra rimasta aperta per due anni, celebrativa del  decennale della Rivoluzione fascista: una successione di ambienti in ognuno dei quali un fatto storico particolare con l’inevitabile contorno  propagandistico.

Siamo nel 1933, a Milano c’è la V Triennale, l’artista è nel direttorio e  dedica  la manifestazione alla Grande decorazione, secondo le sue concezioni esposte l’anno precedente nel “Manifesto sulla pittura murale”: con il titolo esiodeo “Le opere e i giorni” realizza un affresco  sul mito del lavoro di oltre cento metri quadri di parete, a decorare il salone d’onore chiama grandi artisti, de Chirico e Campigli, Severini e Funi. Con la “Galleria della pittura murale” crea un laboratorio creativo della Grande decorazione all’insegna della sua concezione dell’unicità dell’arte:  pittori, scultori e architetti sono messi a lavorare insieme e anche a più mani, dall’affresco al rilievo, fino  al mosaico.

Ancora Roma, nel 1934,  nell’aula magna della Città Universitaria sviluppa il tema decorativo “L’Italia tra le arti e le scienze”, affidatogli da Piacentini, con allegorie delle discipline storiche, artistico-letterarie e scientifiche  che si insegnavano nei padiglioni intorno al Rettorato; e allegorie della grandezza dell’Italia, una Vittoria alata a sinistra e un arco di trionfo a destra.

Nel 1935 si inaugura a Roma la Città universitaria e nel 1936  la scena si sposta a Milano, alla VI Triennale dove realizza un mosaico, da lui ritenuto una scelta di modernità, sull’Italia corporativa,  volto a delineare l’assetto politico-organizzativo che il regime ha dato al lavoro: l’Italia  raffigurata sul trono viene sostenuta da coloro che ne sono protagonisti, lavoratori e contadini, costruttori  e militari; l’opera per i ritardi dei mosaicisti veneziani fu completata solo l’anno dopo.

Sempre a Milano, nel 1936, una decorazione ancora a mosaico, per un’aula del Palazzo di Giustizia progettato da Piacentini, sulla “Giustizia e la Legge tra la Forza e la Verità”.  L’abbiamo già descritta commentando il cartone preparatorio esposto in mostra, aggiungiamo solo che si vuol evidenziare la discendenza dalla giustizia e dalla legge di Roma di cui sarebbe erede il fascismo.

Il set torna ancora a Roma, tra il 1936 e il 1939, nel sacrario della Casa madre dei Mutilati della Prima Guerra mondiale, vicino Castel Sant’Angelo,  ai lati delle porte di accesso gli affreschi con le figure equestri di “Rex Imperator” e “Dux”,  come pilastri del regime; mentre ai lati delle altre porte le allegorie dell’esercito e dell’impero, del fascismo e della cultura”, anche a questo abbiamo accennato nel commento dei cartoni.

Nel 1936-37 è di scena a Venezia, all’università “Ca’ Foscari”,  l'”Italia e gli studi”, abbiamo visto la figura dello studente con il fucile imbracciato nel segno del motto  “libro e moschetto”, nel 1937  a Parigi, all’Expo, due bassorilievi in gesso sull'”Italia colonizzatrice”,  e sull’ “Impero italiano d’Etiopia”  proclamato l’anno prima.

Siamo nel 1938, a Milano cala il sipario sulle grandi decorazioni murali, il set è il Palazzo del Popolo d’Italia, l’artista con l’architetto Muzio progetta l’intervento che consiste in un grande rilievo sull'”Impero”  dello scultore Sessa, una figura di donna questa volta armata, con intorno il popolo italiano, uomini e donne in difesa della patria nel duro periodo delle “inique sanzioni”. Molti altri rilievi ed elementi decorativi  e un lussuoso salone d’onore mai ultimato, perché i lavori cessano nel 1941. “L’Italia era già in guerra – conclude la Margozzi – e il mondo sironiano, fatto di epicità e grandezza, di grande fede nell’ideologia fascista, stava già andando in frantumi”.

Gli allestimenti  e i progetti non realizzati

Faceva anche allestimenti per manifestazioni in cui lavorava strenuamente in contatto con l’architetto, sempre coerente con la sua concezione, e il suo sogno, di un’unità di tutte le arti.

Numerosi anche questi allestimenti: le sale centrali del Palazzo Esposizioni di Roma, per la mostra sulla Rivoluzione fascista nel 1932; la sala dell’aviazione nella Grande guerra per la mostra sull’Aeronautica italiana nel 1934  e il salone d’onore nel palazzo della Triennale per la mostra nazionale dello Sport nel 1935; il Padiglione Fiat alla Fiera campionaria di Milano nel 1936 e della sala Italia oltremare all’Expo di Parigi nel 1937; il salone Fiat al Lingotto per la mostra di Torino sull’Autarchia e la mostra nazionale del Dopolavoro al Circo Massimo nel 1938, fino a un nuovo Padiglione Fiat alla Fiera di Milano nel 1941.

E poi progetti non realizzati: per il Palazzo del Littorio, con Terragni rilievi e pitture murali nel 1934: per la colonia marina dei fasci all’estero a Cattolica due affreschi con la vela, la nave e il faro tra muri e architetture nel 1935, abbiamo già visto sul tema “Il molo” dipinto nel 1921; per l’atrio del Livanium a Padova con l’architetto Giò  Ponti nel 1938; infine per il Danteum  con il gruppo Terragni progetti di sculture nel 1939.

Si può capire come il suo impegno fosse frenetico, senza soste e potesse nuocere alla sua salute.  E quando con il crollo del regime tutto questo ebbe termine, prima dell’abbandono dei temi celebrati con tanta forza espressiva,  il lavoro torna ad essere sofferto e opprimente, i cavalieri appaiono come imprigionati: si vede nei dipinti degli anni ’40.

Il significato della Grande decorazione murale

Questa forma d’arte riflette, oltre al suo impegno ad alto livello nel regime,  una concezione per lui vitale secondo cui quando si devono esprimere grandi concetti la misura piccola del quadro è inadeguata: serve l’affresco della Grande decorazione che metteva fuori gioco mostre e gallerie, quindi gli strumenti di cui si serve l’arte moderna da lui detestati, le esposizioni e il mercato.

Non è soltanto una concezione artistica, ha anche un valore sociale e politico. Così la Pontiggia: “L’affresco, sostiene Sironi, è l’arte stilisticamente più alta per la grandiosità delle forme  e l’epicità dei soggetti che necessariamente comporta… Soprattutto, però, è un’arte per il popolo, non per i facoltosi collezionisti, ed è l’arte fascista per eccellenza per la sua dimensione popolare e sociale”. Il pensiero va alla monumentale “Metropolitana” di Mosca, ricca di opere d’arte  con cui la Rivoluzione comunista voleva offrire al popolo l’equivalente dei grandi e lussuosi palazzi  e della reggia di Zar e sovrani.  

Un altro dei suoi sogni utopici? Certo è che fu coerente con questa impostazione rifiutando non solo di partecipare alle mostre ma anche di dare suoi quadri alle gallerie tanto che nel maggio 1934 Barbaroux, titolare della Galleria Milano, lo citò in giudizio  per questi due rifiuti che  danneggiavano economicamente lui gallerista, oltre all’artista mosso da motivi ideali. Dovette  venire a patti impegnandosi a risarcirlo, a dargli entro un anno 6 quadri e a partecipare nei tre anni successivi ad almeno 4  mostre. Sei anni dopo vorrebbe citare lo stesso Barbaroux in giudizio per avere inviato ad una mostra di Zurigo 9 sue vecchie opere mentre lui non si sente rappresentato né dalla mostra né dai quadri, ma deve desistere, il contratto dava al gallerista questa facoltà.

Torna, in termini ancora più radicali, il rifiuto a partecipare alle mostre: non presenta opere alla Biennale di Venezia del 1934 né alle successive, e così per Quadriennale di Roma dal 1935 in poi; è bene precisare che il rifiuto si protrarrà anche nel dopoguerra, anzi nel 1952 diffiderà formalmente la galleria “Il Cavallino”  di organizzare una sua mostra personale parallela alla Biennale.

Come interpretare questo suo intransigente radicalismo? La Pontiggia si chiede se il suo è un “Realismo fascista” come c’era un “Realismo socialista” e, secondo Moravia, un “Realismo cattolico”, cioè se la sua sia “un’arte di propaganda e di Stato”. In effetti nel celebrare il lavoro e la patria dava enfasi alla dottrina sociale del regime e al suo nazionalismo patriottico, tanto che nel “Manifesto della pittura murale”  aveva auspicato un'”Arte fascista”, andando oltre la stessa volontà di Mussolini che l’aveva esclusa. Ma in pratica, argomenta la curatrice, non poteva nascere un “Realismo fascista”  sia perché  la sua visione dell’arte era affidata allo stile piuttosto che ai contenuti, sia perché “la sua concezione tragica della vita era intimamente e, per così dire, ontologicamente, in contrasto con le esigenze della propaganda e urtava contro qualsiasi annuncio di ‘magnifiche sorti e progressive'”. Lo si vede nella vetrata del Palazzo delle Corporazioni, in cui le monumentali immagini dei lavoratori hanno un sapore antico e  una “solennità dolorosa”, ben lontane dall’intento celebrativo legato alla contingenza propagandistica del regime.

Il fascismo se ne rese conto, perciò le sue opere non furono apprezzate dai gerarchi per il loro contenuto ideologico, tanto che Farinacci lo combatté con forza.  Anche in questo troviamo lo stesso paradosso di D’Annunzio, boicottato dall’antifascismo dopo esserlo stato dal fascismo.

Solo nelle realizzazioni effimere come gli allestimenti, nei quali non era in discussione l’arte, creava con un linguaggio teatrale un clima liturgico all’insegna dei dettami della mistica fascista. Ne è stata sopravvalutata la valenza dai suoi detrattori, dimenticando che erano progetti commissionati con precise direttive politiche alle quali non poteva sottrarsi; mentre allorché aveva l’autonomia dell’artista come nelle opere permanenti, faceva valere la sua visione non certo trionfalistica, anzi ripiegata nel pessimismo esistenziale che rendeva drammatica la sua grandiosità.

E così siamo arrivati all’ultima fase, dagli anni ’40 al dopoguerra fino a tutti gli anni ’50. Il percorso artistico segue la sua vicenda umana, certamente dolorosa se si pensa alle ripercussioni psicologiche del crollo dell’utopia in cui aveva creduto: un’utopia più umana che politica, l'”Uomo costruttore” che aveva trovato la cornice ideologica e, per parte sua, artistica in cui esprimersi e realizzarsi.

Vicenda umana di cui è eloquente l’episodio già ricordato, la condanna a morte da parte del gruppo di partigiani che lo fermò a Milano nel fatidico 25 aprile 1945; e il salvataggio ad opera di un componente del gruppo, Gianni Rodari che, pur dalla parte politica opposta, seppe riconoscere la visione artistica delle sue opere legata alla propria concezione  fornendogli il provvidenziale salvacondotto che lo sottrasse all’esecuzione sommaria già decretata. 

Ma prima di questo momento altamente drammatico le opere dell’inizio degli  anni ’40, nelle quali si vede il modo radicalmente diverso con cui rappresenta il lavoro, non più esaltazione ma sofferenza, anzi angoscia; nel dopoguerra la faticosa  ricostruzione di una propria cifra artistica fino a tutti gli anni ’50.  E’ il seguito della storia artistica e la conclusione della vicenda umana di Sironi, ne parleremo prossimamente.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso:  intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492. In questo sito i due nostri articoli precedenti sulla “grandezza e la tragicità” di Sironi il 1° dicembre, e sugli “anni ’20” della sua pitturail  14 dicembre 2014, il quarto e ultimo sugli “anni ’40 e oltre” è previsto per i primi di gennaio 2015, ogni articolo ha 10 immagini.  Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su “Deineka”  il    26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012,   su “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, su  “D’Annunzio”  il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009, sui  “Realismi socialisti”  3 articoli il 31 dicembre 2011,   su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Lo studente”,  1936; seguono  “Allegoria del Lavoro”, 1933 e  “Astronomia”, 1935,  poi  “Condottiero a cavallo”, 1935, e  “Figure (Il giudice)”, 1938;  quindi ” Cavallo e cavaliere”, 1943-44, e  “Composizione con cavaliere”, 1949; , infine“Il pastore (Uomo e case)”, 1940-42, e “Il Lavoro”, 1949;  in chiusura,  una sala della mostra con la Grande decorazione, vista dall’alto, il pannello orizzontale lungo e stretto è “La Giustizia tra la Legge  e la Forza”, gli altri due sono  “Condottiero a cavallo” e “Lo studente”, riprodotti separatamente all’inizio.