Zaza, il corpo confine del mondo, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna  dal 6 dicembre 2014 al 15 febbraio 2015, la  mostra “Michele Zaza. Il confine del mio corpo è il confine del mio mondo”,   24 sequenze fotografiche e una serie di cartoni con 6 disegni e 16 progetti: un uso molto particolare del mezzo fotografico insieme alla scultura e ai disegni di un artista presente da oltre quarant’anni
con continuità sulla scena artistica in Italia e all’estero.  La mostra è curata da Angelandreina Rorro,  catalogo di  Maretti Editore. 

Le mostre personali e collettive

Nella biografia di Michele Zaza colpisce la successione di mostre personali e collettive a cadenza annuale quasi senza interruzioni dal 1972  al 2014. Le personali, dalla mostra a Milano del 1972,  intitolata “Cristologia”, a 24 anni,  all’ultima, nel 1014, a Parigi, nella Galerie Bernard Bouche; le collettive  da Rio de Janeiro e Filadelfia nel 1973, fino alle più recenti a  Livorno e Firenze nel 2014.

Nel quarantennio una presenza continua, anno dopo anno, nelle mostre collettive, mentre sue mostre personali  mancano soltanto nel  1984, 1986-87, 1989-90, 2002, negli altri 36 anni è sempre presente.

Le mostre personali lo vedono, negli anni ’70, dopo Milano a Bari e Napoli, Roma e Genova, Brescia e Torino, all’estero a Zurigo e Basilea,  Parigi, New York e Monaco.

Negli anni ’80 ancora mostre a New York e Parigi, Milano e Bari,  Roma e Genova, inoltre espone a Venezia, Troyes e Berna.

Anni ’90, espone  a Mosca nel 1996, e oltre alle città italiane già citate, è all’Aquila e Andria. 

Con gli anni 2000 alle presenze italiane aggiunge Strasburgo, torna a Parigi nel 2006 e nel principato di Monaco nel 2008; fino alla mostra parigina del 2014 e a quella attuale a Roma.

La cavalcata artistica nelle mostre collettive è ininterrotta, dopo Rio e Filadelfia nel 1973  è presente a Colonia e New York l’anno successivo, poi  a Parigi e Basilea, Nizza e Zurigo, Belgrado e San Paolo, Stoccarda e Gand, con ritorni a New York
e Parigi; per l’Italia lo troviamo a Firenze e Bologna, Roma e Genova,  Venezia e Torino,  e siamo solo negli anni ’70. 

Nel decennio successivo torna a New York e Parigi e va a Londra e Berlino, Amburgo e Stoccarda, Ginevra e Monaco, oltre a Roma  e Acireale, Bologna e Ravenna. 

Con gli anni ’90, oltre a tornare a Parigi e Ginevra, va a Los Angeles, per l’Italia a Bari e Napoli, Genova e Firenze,
Modena e Milano.

Negli anni ‘2000 di nuovo a Parigi e Ginevra, Roma e Milano, in  più va a Berlino, Bruxelles  e Bordeaux, in Italia va a
Rimini e  Treviso, Napoli e Todi. 

Dal 2010 lo troviamo all’estero a Lugano, Parigi e Mosca, in Italia  a Milano e Bari,  Ravello e Verona, Roma e Torino, Brescia e Saronno, infine a Livorno e  Firenze nel 2014.

Abbiamo ripercorso analiticamente l’itinerario espositivo, cosa per noi inconsueta anzi inedita, sorpresi da questa presenza
ininterrotta sulla scena artistica nazionale e  internazionale, in un così ampio arco temporale;  perché non si tratta di un
artista “facile”, nel senso dell’immediata comprensibilità della sua espressione artistica, tutt’altro. Ma il fatto che la sua specificità non nelimita la diffusione stimola ancora di più l’interesse di questa mostra e  ne accresce il valore tanto più che citroviamo dinanzi a un uso della fotografia molto particolare associato a una scultura anch’essa del tutto personale.

Qualche nota biografica, la descrizione dei soggetti  prevalenti insieme all’autoanalisi dell’autore precedono la descrizione delle opere che a un’apparente semplicità uniscono significati reconditi.


 La sua formazione e l’ispirazione familiare

Nella biografia spicca l’incontro con l’arte delconterraneo Pino Pascali, artista affermato che studiò
per la tesi del  diploma da “maestro d’arte in decorazione pittorica”, conseguito  a Bari nel 1971. Pascali ebbe una prima profonda influenza su di lui, che così ne parla:  “La sua opera nella sua totalità mi fece capire che l’uomo non abita nel paesaggio ma è il paesaggio che abita nell’uomo. Il rapporto relazionare è direttissimo nel senso che la terra d’origine viaggia con l’uomo”, con riferimento alla  Puglia e al suo mare, comune ai due artisti, Zaza è nato a Molfetta in provincia di Bari nel 1948.

Segue  il corso di scultura di Marino Marini all’Accademia di Brera, seguendo la sua vocazione sin dall’infanzia di  “manipolare la materia”, da ragazzo  costruiva giocattoli rudimentali e le sue prime opere sono  sculture razionali e
minimali; a Milano  frequenta l’ambiente artistico,  conosce Giacometti, Moore e Brancusi, la percezione visiva e la forma plastica come modularità e interazione lo colpiscono in modo particolare. Quindi torna a Bari da Assistente  di Amerigo Tot alla cattedra di scultura dell’Accademia.

Troviamo, quindi, pittura e scultura nella sua formazione, ma c’è un’altra forma espressiva che lo interessa ancora prima di
diplomarsi. Già nel 1970  fotografa  le situazioni da lui stesso create: chiama “Simulazione d’incendio” la ripresa
fotografica di un fuoco da lui appiccato a legni scolpiti nella villa comunale di Molfetta per muovere l’apatia dei passanti e registrarne le reazioni. E’ una prima prova della sua creatività mediante un fatto esistenziale in cui la realtà diventa arte con  l’immagine smaterializzata; poi oltre alla realtà esterna registra con il mezzo fotografico la propria vita  familiare,
ma non per mera documentazione, bensì per superare il vissuto. 

Dal 1972 riprende  i genitori e se stesso, sulla base di un’idea creativa organizza un vero  e proprio “set”:   la fotografia è il momento finale di una composizione elaborata.  Presenta le immagini nello stesso anno alla  prima mostra personale nella Galleria Diaframma di Milano, con il titolo impegnativo “Cristologia “.  

I genitori  diventano “protagonisti di una nuova vita, di una nuova identità, di una ritrovata identità”, e la famiglia, secondo il suo intendimento, viene riunita “intorno a un unico corpo di padre-madre-figlio”. E’ il tema della personale alla Galleria Marilena Bonomo di Bari nel 1973,intitolata “Dissidenza ignota”.    

Alla fine degli anni ’80, scomparsi i genitori,, diventano  protagonisti con lui la moglie Teresa e la figlia Ileana: per il loro vissuto gli consentono di  costruire rappresentazioni sulla base di idee e pensieri.

Perché ritrae i membri della propria famiglia? L’artista lo spiega così: “Tramite l’uso della fotografia esprimevo un atto di rivolta teso a trasfigurare il quotidiano omologato . Le azioni, che venivano fotografate non erano performance impropriamente dette teatrali, ma proposte di vita alternativa, tentativi di modificare in positivo e creativo, nel cuore della propria casa, l’opaca interazione del loto vissuto quotidiano”. Per lui è “una sorta di arte dell’esistenza capace di traguardare i limiti della conformità e della ripetizione infinita”: come nella “Simulazione d’incendio” per scuotere  l’apatia dei conterranei ora vuole scuotere il tran tran all’interno della propria famiglia facendo diventare i genitori “protagonisti di una nuova vita, di una nuova identità, di una ritrovata identità”.

E’ vero che è il vissuto personale, ma non limita la visione rinchiudendola nell’ambito familiare. Lo afferma la direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Maria Vittoria Clarelli:”L’io, il tu, il noi, si pongono in relazione secondo gli
assi dei legami madre-figlio, figlio-padre, padre-figlia, marito-moglie, che però trascendono l’accidentalità autobiografica per risalire all’universale del mito”. Del resto, prosegue, “tutte le cosmogonie sono basate sui rapporti parentali. Il mondo, l’universo, il deserto, evocati nei titoli dei suoi lavori, sono per Zaza sia orizzonti sentimentali sia recinti semantici”.

Le persone e le cose, il corpo e il volto

La curatrice della mostra Angelandreina Rorro spiega così questa sua visione artistica: “Le persone della sua vita sono fondamentali, partire da esse significa cercare una verità nel proprio lavoro, significa avere materiale reale e vissuto attraverso cui elaborare pensieri e fornire idee e rappresentazioni”. E lo sono ancora di più quando fanno parte della sua famiglia, la maggiore fonte di ispirazione come si è visto.

Ma ci sono anche le cose per le quali mostra interesse, fino agli anni ’80 piatti vuoti e molliche di pane, zolle di terra e piccole sculture di cartapesta, sveglie e lampadine, poi si aggiungono cuscini e ovatta: anche qui siamo nell’ambito del vissuto familiare.  Per la Clarelli “sono cose che conservano la memoria delle relazioni personali e sociali alle quali era destinato il loro uso, anche quando diventano materiali con i quali comporre altre immagini”. L’artista ne dà conferma così: “Il pane  è l’archetipo dell’alimentazione e per me, nato e cresciuto nella povertà e nell’essenzialità, aveva il sapore di una conquista necessaria per l’esistenza. Il mio cuscino compariva in funzione di supporto sia a briciole di pane che a piccole sculture di cartapesta dipinte in vari colori, come simbolo onirico della lotta  tra la dura realtà e i molteplici dischiudimenti
dell’immaginazione”, mentre “l’ovatta diveniva nuvola, simbolo di lievitazione”, e la ricorda usata dal padre  per medicare le ferite alle mani provocate dal freddo e dal lavoro.

Come per le  persone, anche per le cose, gli oggetti, c’è una valenza che trascende il vissuto personale: “Attraverso di
essi –  afferma –  siamo nel mondo e allo stesso tempo attraverso  di essi il mondo è rappresentato in noi”. Le cose   sono al
centro della parte scultorea della sua arte,  iniziata dopo il 1985,  che allarga ancora di più la sua visuale oltre il proprio mondo: “Questi elementi plastici e tattili – è sempre l’artista –  hanno una valenza archetipa con richiami al cielo, al sole,  alla terra e al corpo. Essi proiettano infiniti significati, aperture dell’immaginazione in una visione oniric-cosmologica”. C’è un maggiore impegno compositivo, con il colore e la tridimensionalità, la fotografia è collegata alla scultura: “Gli elementi lignei vengono ripetutamente relazionati con volti che appaiono  e scompaiono mediante l’apertura e la chiusura delle mani, in caso di maschile e femminile, attraverso occultamento alternato dell’uno o dell’altro”. L’autoanalisi dell’artista aggiunge: “Sia le sculture che i volti ripetono gli stessi movimenti per offrire alla fruizione una visione cosmica unitaria”.

La visione unitaria passa dalla bidimensionalità alla plasticità delle forme, e alle persone e alle cose si aggiunge un nuovo
soggetto protagonista: “Il corpo – è sempre l’artista – rende esistente il mondo nel senso che è l’unica figurazione concreta della coscienza  e della conoscenza della storia del mondo”.  Lo raffigura  immobile e ieratico, e afferma:  “L’arte non offre possibilità alternative alla condizione umana, ma è al contrario la risultante di questa condizione”.

 “Abitare il corpo”  è intitolato il commento della curatrice della Rorro, che scrive: “Michele, il ‘pensatore di immagini’, il ‘pittore plastico’ ha lavorato e lavora molto sul corpo come elemento di sintesi tra persone e cose, tra persone paesaggio, tra
stato fisico e psichico dell’uomo”. In definitiva,  “il corpo è l’istante significativo della scultura di Zaza, nel senso che lui lo elegge a sintesi e centro della sua poetica”.

L’altro fondamentale soggetto dell’arte di Zaza, dopo le persone, le cose e il corpo, è il volto, che lo ha attirato in modo particolare negli ultimi anni. Per lui “il volto è il luogo specifico delle mutazioni fisiche e psichiche.  Il volto è lo spazio della rivelazione assoluta, la zona dove si concentrano i segni del tempo vissuto e della verità”. Viene presentato nelle  più
diverse angolazioni, frontalmente e di profilo, in bianco e nero e a colori, in senso fisico e metafisico, e collegato, come gli altri soggetti, ad una visione più alta: “La trascendenza trasforma il volto in una sorta di axis mundi capace di collegare il mondo reale con il mondo ideale, l’invisibile con il visibile. Insomma il volto diviene il contenuto umano fondamentale”. Altre sue parole: “Dipingo il volto affinché, attraverso la verità dei colori, si configuri come cielo, terra, presenza cosmica”; nel dire questo si riferisce non solo al pennello ma anche alla macchina fotografica.

Le opere in mostra, soprattutto fotografie  

Troviamo questi motivi nelle 23 sequenze e nelle altre opere in mostra, cioè i cartoni con 6 disegni e 16 progetti nei quali sono scritte delle riflessioni meritevoli di essere approfondite, come faremo più avanti. 

Molte immagini in  bianco-nero, tra le quali le prime del 1972, dalla” Simulazione d’incendio”,  di cui  abbiamo parlato come inizio creativo di un’arte volta a scuotere le inerzie e le normalità, a “Tre immagini  per un deserto mentale volontario”, 1972, una figura china a terra con sveglia e lampadina, oggetto che torna in “Eterno presente”,  in una sedia d’epoca su  uno scoglio nel mare.

Del 1974  “Dissoluzione, mito e stile”, una serie di immagini con una persona di spalle, tra vedute desolate  di una spiaggia deserta”; e  “Naufragio euforico. La felicità e il dovere nella ripetizione omologata”, una sequenza di 18 immagini di vita quotidianità di una persona nel buio con la luce sul volto. In  “Dissoluzione e mimesi”, 1975,  la persona è seduta alla tavola imbandita, vista in 5 posizioni con differenze impercettibili; mentre in “Mimesi” le immagini sono 10, un corpo visto di fronte in 5 di esse, una scala nelle altre 5, in un’oscurità rotta da un fiotto di luce; che vediamo nell’immagine dallo stesso titolo in due riprese, in una c’è anche la persona, nell’altra  soltanto la lampada accesa. Medesimo tema in  “Anamnesi”, 1975, persona e lampadina con un tenue colore rosato.  

Anche in“Ritratto celeste”, 1978, il colore è appena accennato, c’è una testa che in due opere intitolate “Neoterrestre”,  1979,  è tra forme imprecisate in  sequenze rispettivamente di 21 e 10 immagini. 

In ambito cosmico ancora di più Cielo abitato”, 1985,  34 immagini su fondo nero oppure ocra scuro con uno o più volti alternati oppure insieme a corpi celesti, esprime il rapporto tra il volto umano e  il mondo.

Siamo agli anni ’90, vediamo figurazioni geometriche quali “Iperione”, 1990, e “Icona”, 1994, e forme scultoree quali le
3 immagini di “Corpo centrale” ,1996, e “Cercatemi altrove”, 1997-98.

Con gli anni ‘2000 esplode il colore, in“Ritratto magico”, 2005, è raffigurato un viso verde, mani intrecciate bianche e rosse appoggiate  a un cuscino che le separa dal volto e completa la bandiera; sempre un viso, ma coperto dalle mani aperte in “Viaggiatore assoluto”, 2009, e “Viaggiatore magico”, 2010, mentre in  “Paesaggio magico”, 2011,  due visi molto piccoli dentro un portale misterioso, un arco con delle figure alate su un fondo blu.

Gli ultimi titoli aprono un nuovo fronte interpretativo: “L’uso frequente della parola ‘magico’ – commenta la Clarelli – si direbbe alluda non tanto a una prassi quanto a una dimensione, a uno spazio altro, a un’atmosfera al tempo stesso familiare e straniante”. C’è qualcosa di misterioso, l’arco a sesto acuto in cui sono inseriti i due volti con le immagini che lo punteggiano ne è un esempio, e questo dà importanza alla sezione della mostra in cui troviamo scritte rivelatrici in una serie di cartoni con schizzi enigmatici.

I disegni e i progetti

In questa sezione sono esposti anche 6  disegni del ciclo “Paesaggio”, né persone, corpi, volti, ma cose, in formazioni
nebulose o geometriche, tra giochi infantili  e visioni cosmiche, creatività e fantasia indecifrabile. Ma l’attenzione è attratta dai 16  progetti datati  1998-2010 con le scritte cui si è accennato.

Nei primi 7 cartoni cerca di penetrare nei misteri dell’origine, l’espressione “il confine del mio corpo è il confine del mio mondo” la traduce nel primo progetto in una figura archetipa, che ripete in quello seguente con l’iscrizione: “L’utero celeste è la radice dell’universo; io sono l’alba e il tramonto”. Poi è ancora più esplicito: “Estraneo, là dove mi trovo, l’indifferenza rende vuoto lo spazio, nel vuoto dello spazio si sviluppa l’idea del corpo”.

I 3 cartoni seguenti recano le scritte  “Centro rivelatore”, “La radice del corpo”, “La visione segreta”, sempre con l’immagine archetipa sovrastata da un piccolo volto che  scompare nel settimo cartone dove  scrive: “Cercatemi altrove.
Cercatemi  nell’essenza, cercatemi accanto agli angeli. Cercatemi nella dimensione del saluto. Cercatemi là dove abitano ancora i messaggeri dell’assolutezza”.

Nei 9 cartoni successivi è protagonista “il viandante che arriva a casa, è diventato già esperto riguardo all’essenza degli dei e dei gioiosi”, diventa “il viaggiatore azzurro”.  A questo punto tra forme geometriche scure contornate di luce, queste altre scritte: “L’universo guarda l’uomo. L’uomo guarda l’universo. L’universo guarda se stesso . L’uomo guarda se stesso. Il tempo guarda l’universo e l’uomo”.

Filosofia o fantasia? In un altro cartone scrive: “Sul sentiero dell’immagine mi trovo (si ritrova)  la via dell’immaginario”, e siamo nel campo cosmico, parla di costellazioni. Poi ecco “Il viaggiatore ascetico”, le immagini sono plurime , sempre spuntano dei piccoli volti,  si legge “L’arte è l’invisibile nel visibile. Il misticismo fa coincidere visibile e invisibile: tutte  le cose sono trasparenti”.

E’ un misticismo ricco di umanità: “L’anima non può dimenticare la sua propria vocazione divina, si sente esule sulla terra e respira, respira, respira, respira, respira”.

Nel penultimo cartone esposto, al centro ci sono i simboli del “rinoceronte alato” – anche Salvador Dalì attribuiva al rinoceronte significati straordinari – con la scritta: “Le immagini e le metafore sono la lingua madre, innata, la stessa che costituisce la base poetica della mente e rende possibile la comunicazione con tutti gli uomini e tutte le cose”.

L’ultimo cartone “Visione segreta”,  mostra in alto il volto coperto dalla mano. 

Sono simboli,  quelli delineati nei cartoni, forme elementari pur nella complessità dei concetti evocati. La Clarelli osserva: “Il mistero, sembra dirci Zaza, risiede nella semplicità dei simboli, che si svelano come tali solo a chi ha dedicato l’attenzione necessaria, ma che sussistono comunque come elementi visivi capaci di liberare l’immagine dalla contingenza, di renderla in qualche modo classica”. L’artista raggiunge questo risultato con “la concentrazione sui temi essenziali e la straordinaria economia dei mezzi espressivi. La narrazione è scarnificata ma sopravvive, anche quando l’esito è del tutto metaforico”. 

Metafore da decifrare, dunque, ed è questa una sfida intrigante che accresce l’interesse per il visitatore.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma. Da martedì a domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45) , il venerdì fino alle ore 22,00 (biglietti fino alle 21,15), lunedì chiuso. Ingresso museo-mostra intero 13 euro, ridotto 10,50 euro, prima domenica del mese accesso gratuito. Tel. 06.32298221; www.gnam.beniculturali.it. Catalogo “Michele Zaza. Il confine del mio corpo è il confine del mio mondo”, Marietti Editore, novembre 2014, pp. 96, formato 21 x 21, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Per questa mostra cfr. anche il nostro articolo in http://www.fotografarefacile.it. del febbraio 2015; per Salvador Dalì e il rinoceronte, citato nel testo, cfr. i nostri articoli sulla mostra al Vittoriano usciti in questo sito il 28 novembre, 2 e 24 dicembre 2012.        . 
 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia la Gnam con i titolari
dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, due delle immagini di “Dissoluzione e mimesi”, 1975; seguono “Neoterrestre”, 1979, e “Viaggiatore assoluto”, 2009, poi “Viaggiatore magico”, 2020, e  due serie di cartoni di “Progetti”, 1998-2010, il primo cartone con il rinoceronte; in chiusura la sequenza di “Naufragio euforico. La felicità e il dovere nella ripetizione omologata”, 1974.