Russia on the Road, il lavoro e la vita quotidiana, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Termina il racconto della nostra visita alla mostra “Russia on the Road- 1920-1990”,  che presenta  nel Palazzo Esposizioni a Roma dal 15 ottobre al 15 dicembre 2015 circa 60 opere di artisti russi espressive della spinta creativa del loro talento artistico tra i vincoli e i messaggi propagandistici del “Realismo socialista”. E’ stata realizzata in collaborazione  soprattutto con l’Istituto d’Arte Realista di Mosca, su un’idea di Aleksej Ananjev,  a cura di Nadeshda Stepanova e Matteo Lanfranconi.  Il Catalogo curato dall’Istituto contiene saggi di Lanfranconi, Leonid Lerner e Gian Piero Piretto.

Abbiamo commentato in precedenza il contenuto generale della mostra soffermandoci poi, in particolare, sulla prima sezione, quella relativa all’irruzione dei mezzi di trasporto nella realtà di un territorio sterminato dove le comunicazioni sono vitali. La velocità e rapidità delle nuove linee ferroviarie e degli aerei, insieme all’introduzione dell’automobile nel primo ‘900, sono stati eventi epocali che gli artisti hanno celebrato con le loro opere. Sia perché ne hanno tratto ispirazione, sia per la spinta del regime che ne ha fatto uno strumento di propaganda sul progresso nella nuova Russia.

Nei dipinti che abbiamo già commentato prevalgono le macchine e, anche quando vi sono figure umane, spesso sono degli addetti e comunque sono sovrastate dall’imponenza e dall’mportanza prevalente dei mezzi raffigurati. Le persone, quando riprese,  in genere sono viste da lontano, come nei due quadri di Labas del treno “in corsa” con i passeggeri nel vagone o nella “Metro”, allineati sui gradini della scala mobile, senza poterne osservare atteggiamenti ed espressioni; anche la figura ravvicinata di donna emancipata al volante del quadro di Pimenov “La nuova Mosca” è vista di spalle, strumentale rispetto alla circolazione moderna nell’arteria cittadina in un contesto di accelerata crescita urbana.

Le tre sezioni successive,“Road movie sovietico”, “Amore e macchine” e “Russia selvaggia”,  entrano, invece, nella vita delle persone, consentono di valutarne atteggiamenti ed espressioni, a livello individuale e collettivo, delineando un affresco quanto mai colorato e colorito di una realtà nella quale il regime ha imposto regole rigide condizionando fortemente anche l’attività degli artisti per sottoporla alle esigenze della propaganda.

Le limitazioni e l’impronta dell’arte nel “Realismo socialista”

Nonostante tali vincoli, tuttavia, non si può negare validità a un periodo che troppo sommariamente è stato ritenuto non illuminato dall’arte intesa come espressione di una libera ispirazione unita al talento; anche il “Realismo socialista” ha prodotto veri capolavori e sarebbe semplicistico liquidare la produzione artistica di mezzo secolo nel ‘900  come manifestazione di mera propaganda asservita agli interessi del regime. Per cui vi sarebbe stato un nuovo Medioevo, il realismo celebrativo imposto negli interminabili anni bui compresi tra le avanguardie degli anni ’10 e  il ritorno alla libera manifestazione artistica iniziato a fine anni ’60 ma espresso a livello internazionale solo a partire dagli anni ’90.  Niente di più sbagliato, e la rivalutazione in atto di questo periodo, dovuta anche alla presenza di grandi artisti – citiamo per tutti Alecsandr Dejneka – risponde all’esigenza di “sdoganamento” che ha riguardato in genere gli artisti ritenuti compromessi con i regimi imperanti, anche di segno opposto al comunismo: si pensi a Mario Sironi e a Gabriele d’Annunzio.

In questo contesto, Matteo Lanfranconi sottolinea i motivi autentici alla base dell’ispirazione degli artisti di maggiore talento, che mantenevano la loro spinta spontanea pur venendo a coincidere con la mistica di regime. Perché era autentica l’enfasi sulla moltiplicazione delle possibilità di azione e  movimento in un territorio sconfinato e in una megalopoli come Mosca, al punto di configurare l’Uomo nuovo la cui accresciuta potenza ben si coniugava con quella del regime sovietico.

Alla base dell’impostazione del regime c’era la visione che l’arte doveva contribuire alla creazione di un mondo nuovo, un “realismo idealista” divenuto “realismo socialista”, e anche per questo doveva essere “comprensibile alle masse”, secondo il pensiero di Lenin  che voleva arrivare al popolo.  Questo criterio non si affermò subito dopo la Rivoluzione di ottobre:  nel primo decennio,  pur ponendo l’arte al servizio dello stato proletario, rimase un pluralismo in cui trovò spazio la sperimentazione  sia pure entro la conciliazione tra realismo ottocentesco e linguaggio moderno;  e convissero l’Associazione dei pittori della Russia Rivoluzionaria , legata al realismo celebrativo,  e l’Associazione dei pittori del cavalletto, che cercava di rispondere alle nuove esigenze senza sacrificare lo slancio modernista, alla quale era vicina l’Ost che prediligeva lo “stile del presente”.

Poi l’Associazione rivoluzionaria  ebbe il sopravvento sulle altre due che sparirono,  e anche la sua linea realista e documentarista degradò nel “più spiccato asservimento dell’arte alle funzioni educative e formative del popolo – osserva Lanfranconi –  con un progressivo abbandono del piccolo formato in favore della scala monumentale meglio accessibile alle grandi masse popolari”.  Così nacque e si sviluppò il “Realismo socialista”, “incardinato sui principi della lealtà al partito e del contenuto ideologico  e radicato in una matrice intrinsecamente romantica, orientato a un ideale, il  ‘ radioso avvenire’ come sorta di succedaneo del “paradiso in terra”.

Dopo gli anni ’20,  le forme espressive  della nuova realtà dinamica lasciarono  il modernismo retrocedendo all’accademismo ottocentesco.  Anzi, dopo il 1936,  furono aspramente combattute le nuove tendenze impressioniste e il formalismo e venne bandito tutto quanto era al di fuori del “Realismo socialista”, anche di artisti importanti. Si affermò la “Teoria del riflesso”  per cui l’arte doveva essere lo specchio della realtà, anche se rifletteva l’utopia idealista della fede nel “radioso avvenire”.   Doveva essere “a prova di popolo” come evidenza narrativa e contenere i valori  del regime, essere cioè “socialista nel  contenuto e realista nella forma”, senza possibili alternative.

Con la fine della seconda guerra mondiale alla “Teoria del riflesso” si aggiunse quella del “Non conflitto”,  assumendo che la società sovietica aveva cancellato ogni contrasto sociale; ciò diede il via ad immagini improntate all’ottimismo con il popolo appagato della condizione sociale e lavorativa in una natura essa stessa metafora della felicità goduta dalle persone; il tutto  in uno stile sempre più precisionista quasi per fotografare una realtà, nel momento in cui si evocava l’utopia.

Alla morte di Stalin nel 1953 la destalinizzazione determinò il “disgelo” anche nell’arte, gli artisti a poco a poco si liberarono dai rigidi schemi celebrativi dell’utopia collettivista per rappresentare la realtà partendo dai valori semplici dell’esistenza: ci fu al riguardo quello che Lanfranconi definisce una “sorta di revival impressionista”. Si afferma la corrente dello “Stile severo”- che riuniva elementi di varia provenienza tra cui il realismo politico di Guttuso – e senza ripudiare il “Realismo socialista”  introduce “una dimensione morale ed etica rispetto alla rappresentazione della condizione umana via via più lontana dalla radiosità trionfalista della pittura staliniana”.

Dieci anni dopo Khruscev cerca di chiudere le aperture  che con il pluralismo avevano portato al distacco dell’arte dalle esigenze dello stato sovietico,  e così farà il successore Breznev, ma gli artisti non tornarono nell’alveo celebrativo, molti restarono lontani dalla visione rassicurante del regime e mantennero lo spirito anticonformista e  libertario  proprio dell’arte.

Convissero quindi, nel panorama artistico russo,  nei trentacinque anni dopo la morte di Stalin. “tendenze progressiste, una serie di ‘ritorni all’ordine’ più o meno acconciati alle aggiornate esigenze, proposte non allineate e, infine, movimenti sotterranei o clandestini di  rottura”.

La fine degli anni ’80 segna la dissoluzione del regime, e con essa termina ogni limitazione e ogni condizionamento alla libertà espressiva degli artisti. Per cui il periodo precedente, dopo la fase di oscuramento e declassamento,  diventa un terreno di studio e di analisi per scoprire il valore artistico che nessuna imposizione esterna ha potuto cancellare.

Proseguiamo, quindi, la visita commentando le opere che, esprimendo gli atteggiamenti e i volti della  gente comune colta nella quotidianità, rendono a seconda delle fasi in cui sono state realizzate, dagli anni ’20 agli anni ’80, le diverse  situazioni  degli artisti sovietici  rispetto ai vincoli alla loro creatività e i modi con cui  hanno potuto manifestare il proprio talento.

Dai mezzi di trasporto alle persone nella loro umanità

Anche nella sezione “Road movie sovietico”  come nella precedente, ci si riferisce ai  mezzi di trasporto ma ripresi non più da  protagonisti dell’irrefrenabile sviluppo, bensì  come veicoli sui quali  le persone sono viste nei volti e nelle espressioni, protagoniste assolute della nuova vita.

“Assistente di volo”, 1973, di Jurij Pimenov rende la personalità della hostess che percorre con le sue borse una via di Mosca con le cupole del Cremlino sullo sfondo, gli aerei non ci sono affatto, è una scena di vita urbana  con l’elegante silhouette della giovane donna, moderna e determinata come quella al volante nel suo celebre quadro  “La nuova Mosca”   della sezione precedente che abbiamo citato ricordando la donna sportiva  di Tamara de Lempicka sulla Bugatti verde.  

La gente della Metropolitana è un tema prediletto dagli artisti, considerando il significato che veniva dato dal regime alla monumentale realizzazione con la quale si intendeva  fare del luogo più frequentato dalla popolazione moscovita  una “dimora”  per il popolo lussuosa  come la reggia degli Zar. Ma non viene celebrato il lusso quanto l’umanità dei frequentatori. “Sulla scala mobile. Metropolitana di Mosca”, 1941-43, di Grigorij Segal,  dà una immagine ravvicinata  rispetto a quella da lontano di Labas di “Metro” nel 1935, vediamo persone dei più diversi ceti, professioni ed età, anche un neonato in braccio e l’intellettuale che sbircia il giornale.  “Due donne di città. Bozzetto per il quadro ‘In metro'”, 1962,  sono viste ancora più da vicino, sedute in attesa con lo sguardo assente. Invece sono molto vigili “Le impiegate della metropolitana Nadezda Alekseeva e Faina Tjaguseva”, 1971-72, di Semen Rotnitskij, efficienti e pronte nella loro divisa blu con il basco rosso.  Il quadro più recente, “Città. Ora di punta”, 1982, di Marija Dreznina, mostra l’uscita dalla stazione sulle scale della Metro di un gruppo di persone riprese nell’oscurità per sottolinearne la solitudine, l’atmosfera è mutata, non c’è più l’enfasi modernista, tutt’altro.

Naturalmente non mancano i due mezzi urbani per eccellenza, tram e autobus, anche se a Mosca è la Metro il fiore all’occhiello. “In tram”, anni ’30, di Julija Razumovskaja, fa vivere il clima delle ore di punta, con  in primo piano due donne dentro il veicolo che guardano la gente affollarsi all’esterno per salire.  Mentre “Autobus di provincia”,  1970-71, di Boris Rjanzov, è una ripresa da lontano della fila di gente alla fermata che sale sul pullman in uno scenario  nevoso.

Della fine degli anni ’70 il trittico “Il mattino”, 1978,  formato di tre parti che, come in una sequenza cinematografica, presentano  la fabbrica,  la casa e al centro il filobus con una persona stretta nel suo soprabito in fila per salirvi, lo stesso pittore Andrej Volkov, l’atmosfera è quanto mai triste,  è un quartiere dormitorio con l’aria stagnante, sono gli anni grigi di Breznev senza slanci. Anche qui la persona si vede da lontano, la psicologia è resa di riflesso dallo squallore ambientale.

In primo piano, invece, la persona ripresa in “Mikad, Raccordo anulare di Mosca (parte del ciclo Autobus di linea”), di Semen Fajbisovic:  siamo nel 1984, è vista da dietro mentre guarda fuori dal finestrino ma, a differenza del quadro con le due donne  “In tram”, fuori non c’è gente in fila per salire, l’autobus corre nella campagna che si vede in una inquadratura  il cui precisionismo richiama il “fotorealismo” americano, basato su appositi  scatti fotografici. Ci ricorda, per la vista posteriore e la sua ampiezza,  il quadro di Pimenov, con il bus invece dell’auto.

Un’inquadratura per molti versi analoga è quella  ferroviaria di Eduard Bragovskij, “In viaggio”, 1961,  due persone sono viste di profilo sedute l’una di fronte all’altra davanti al finestrino che dà su un paesaggio innevato,  i colori  dei loro abiti contrastano con il biancore della neve, sono vicine ma estranee,  diverse nell’atteggiamento e forse nella destinazione, rendono  lo spirito del viaggio.

C’è un altro tipo di viaggio con uno scopo e una destinazione comune, quello degli studenti, il clima è molto vivace. E’ gioioso in “Andando a studiare”, 1953, di Anatolij Papjan, in piedi guardano con interesse fuori dal finestrino dello scompartimento, indicando qualcosa. Altrettanto vivace in “I versi di Majakpovskij”, 1955, del grande Alecsandr Deineka,  anche qui studenti , maschi e femmine, che li declamano, altre persone li ascoltano con il paesaggio che scorre dal finestrino. Scena idilliaca, come i versi del Poema di ottobre ” e la vita è proprio bella, e si vive proprio bene”.

Gioiosa anche “La brigata della locomotiva”, 1957, di Andrej Kurnakov, questa volta sono i macchinisti  a essere ripresi sorridenti; mentre in Tajset”, 1959, di Viktor  Popkov,  due lavoratrici del cantiere ferroviario con alle loro spalle un treno in corsa,  sono viste nella dura quotidianità.

Nella “Stazione Kazanskij”, 1081, di Alecsandr Petrov, domina la vista degli scambi dei binari, sembra che manchi la presenza umana, invece si intravede nello specchio retrovisore della locomotiva appena delineata il viso del macchinista, modello  è stato il padre dell’artista.

Ci sono anche due visioni marine molto diverse: “Sulla zattera”, 1949, di Jakov Romas, riprende la tranquilla discesa del fiume  di una famiglia di lavoratori fluviali con una tavola apparecchiata; “Porto di Leningrado”, 1964, di Petr Korostelev,  mostra una grande nave, le automobili sul molo e i passeggeri, particolari resi con un precisionismo fotografico.

I lavoratori con le macchine  e nell’ambiente

Ancora più  espressive della psicologia individuale le immagini dei quadri esposti nella sezione “Amore e macchine”,  che riguardano non gli utilizzatori dei mezzi ma i lavoratori, spesso donne a porre in rilievo l’emancipazione femminile e il ruolo paritario attribuito dal regime. Vediamo così due lavoratrici nelle ferrovie, in “Viaggi-strade”, 1954, di Mikhail Anikeev e “Sulla tratta. Addetta allo scambio dei binari”, 1959, di Gennadij Dar’in,  l’atmosfera ferroviaria è resa dal vapore e dal vento del treno in arrivo, l’atteggiamento di entrambe è fermo e deciso; e  “Mar’jam Vasil’kova, camionista della fabbrica Kamaz”, 1970, di Viktor Kudel’kin,  dall’espressione ancora più determinata nel reggere il volante in abiti da lavoro ma con un fazzoletto rosso sgargiante che ne mette in rilievo la femminilità in un’occupazione considerata fino ad allora maschile.

La sua posizione di profilo con le braccia tese la accostiamo a quella  di “L’escavatorista”, 1969, di Michail Anikeev di cui abbiamo citato “Viaggi-strade”, anche se la figura maschile esprime tensione e potenza, come la statua di un atleta greco.

C’è anche l’abbinamento uomo-donna in due situazioni molto diverse. “Nelle steppe del pre-Volga”, 1934, di Alecsandr  Samokhvalov, mostra  la donna sul cingolo del trattore con le braccia larghe che sembra volare verso le conquiste dell’emancipazione, mentre l’uomo più in basso le tende il braccio in un movimento  che è “al tempo stesso attrazione e opposizione”. Invece in “Camion in panne. Studio per il quadro ‘In viaggio'”, anni ’50-’60, di Gelij Korzev, mentre il camionista è disteso sotto il veicolo impegnato nella riparazione, la donna con il bambino in  braccio è seduta in attesa sul parafango interiore, non è la donna emancipata e lavoratrice ma la mamma. Viene ricordato che questo abbinamento ricorda la scultura simbolica “L’operaio e la colcosiana” di Vera Mukhina , e anche la falce e martello univa il lavoro femminile in agricoltura a quello maschile nelle fabbriche. E’ stato accostato addirittura  alla celebre composizione di Caravaggio “Il riposo durante la fuga in Egitto”, considerandolo un’anticipazione del successivo ciclo biblico in cui si impegnò l’artista.

Biblica pure nel titolo, oltre che nella composizione, “La creazione del mondo”, 1973, di Jurij Pimenon, l’autore del citato “La nuova Mosca”, con la donna emancipata al volante della decappotatbile; qui le due figure nude evocano Adamo ed Eva, tra l’acqua e il verde di un giardino terrestre con una grande ruota di camion. Mentre riporta agli atleti dell’antica Grecia “Azovstal'”, anni ’70, di Anatollij Sipov, l’aitante lavoratore novello Atlante davanti alla locomotiva sbuffante.

Oltre a queste immagini individuali o con due persone vi sono anche scene collettive: “Di ritorno dal turno in mare”, 1957, di Tair Salakhov, mostra un gruppo di lavoratori, uomini e donne, su una passerella in cui resistono alle folate di vento contrario, forse una metafora; nessuna spinta  contraria; mentre nel  “Ritratto di gruppo della brigata dei tagliatori di metallo Nakipov della fabbrica Kamaz”, 1978-80, cinque lavoratori in una pausa di lavorio visti in diversi atteggiamenti.

Lavoratori anche nella sezione “Russia selvaggia” in  varie situazioni.  Anatolij Sipov presenta  due opere in sequenza logica, anche se non cronologica: “Gabbiani”, 1971,  con tre uomini sulla barca impegnati nel tirare le reti mentre gli uccelli marini volteggiano intorno, in un celeste e blu dominante di tipo impressionistico; “La stagione della pesca”, 1969 , con tre donne in primo piano che portano ceste colme di pesce scaricato dalle barche per mano dei pescatori dietro di loro.

Mentre “Pionieri”, 1975,  di Oleg Ponomarenko,  e “La Brigata Zakharov. Fabbrica Kirovskij”, 1984-85,di Nicolaj Baskalov mostrano  due  scene molto diverse, che tuttavia possono considerarsi anch’esse in sequenza logica: la prima ritrae tre uomini al bivacco con gli stivali stesi ad asciugare al fuoco, nell’ambiente inclemente e sconosciuto; la seconda cinque operai  davanti a trattori monumentali, tra la neve nella quotidianità del lavoro, in una scena teatrale. In fondo,  si deve al coraggio dei “pionieri”  nel territorio sconfinato se il lavoro può dispiegarsi in modo così spettacolare.

In questo contesto si collocano “Le notti bianche”, 1966-67, di Aleksei Michajlov e “Il villaggio di Polascel. Addio”, 1996, di Evgenij Kravtsovisa, che concludono la nostra rassegna:  l’ambiente polare si riflette nel primo dipinto nell’uomo  che torna a casa tra la neve e il gelo con in mano la pagnotta di pane; nel secondo  nella scena dei saluti in partenza su una barca nella pittoresca campagna russa del nord, ci sono amici ospitati dall’artista, la moglie e lui stesso ripreso di spalle. Due immagini che rendono la profonda umanità e il duro sacrificio nel resistere alle difficoltà  della vita e del lavoro.

In fondo, sono i motivi profondamente umani che si  innestano su quelli di esaltazione celebrativa. L’insieme, con i relativi  contrasti e sinergie,  rappresenta i contenuti e la cifra artistica dell’importante stagione pittorica  del ‘900 artistico russo. E’ un arco temporale di 70 anni, in larga parte dominato dal “Realismo socialista”, in cui le forme espressive hanno  il grande merito di descrivere una società e un periodo storico così tormentato con il linguaggio universale e coinvolgente  dell’arte.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Russia on the Road” anche “Impressionisti e Moderni” e “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, per quest’ultima cfr., in questo sito, i nostri articoli il 1°, 14 e 23 novembre 2015. Catalogo “Russia on the Road 1920-1990”, Istituto dell’Arte Realista Russa, 2015, pp. 192, formato  20 x 25,5, note e 3introduttive di  Matteo Lanfranconi, Leonid Lerner, Gian Piero Piretto, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 18  novembre scorso, con 13 immagini sulla 1^ sezione  e sulla 2^ sezione, “Road movie sovietico” qui commentata. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli, in questo sito su Deineka 1°e 16 dicembre 2012, su  Guttuso  25, 30 gennaio 2013 ; in “cultura.inabruzzo.it” ,su  Tamara  de Lempicka 3 articolinelgiugno 2011,  Realismi socialisti 3 nel dicembre 2011 in “fotografia.guidaconsumatore.it”  su Rodcenko 2 articoli  nel dicembre 2011 e su Tamara de  Lempicka 5 luglio 2011  (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare l’Istituto dell’Arte Realista Russa, per l’opportunità offerta. Le 13 immagini sono di opere della 2^ sezione, “Road movie sovietico”,  3^ sezione, “Amore e macchine”, 4^ sezione, “Russia selvaggia”.  In apertura,   Jurij Pimenov, “Assistente di volo“, 1973; seguono,  Semen Fajbisovic, “Raccordo anulare di Mosca”, 1984, e Mikhail Anikeev, “Viaggi-strade”, 1954; poi, Anikeev, “L’escavatorista”, 1935, e Tair Salakhov, “Di ritorno dal turno di mare, 1957; quindi, Aleksandr Dejneka,  “In aria”, 1932, e Victor Kudel’kin,  “Mar’jam Vasil’kova, camionista della fabbrica Kamaz”, 1979; inoltre, Kudel’kin, “Ritratto di gruppo della brigata dei tagliatori di metallo Nakipov della fabbrica Kamaz”, 1978-80, e  Anatolij Sipov, “Azovstal“, anni ’70; ancora, Aleksej Mikhajlov, “Le notti bianche”, 1066-67, e  Anatolij Sipov, “La stagione della pesca”, 1969; infine,  Sopov, “Gabbiani”, 1971, e Oleg Ponomarenko, “Pionieri”,  1975; in chiusura, Evgenij Kravtsov, “Il villaggio di Polascel’e. Addio”, 1996.