Pirri, spazio colore e luce, Fortuna e i silos, al Macro Testaccio

di Romano Maria Levante

Due mostre in contemporanea al Macro Testaccio dal 12 aprile al 4 giugno 2017: “Alfredo Pirri, i pesci non portano fucili” al Padiglione B, a cura di Benedetta Carpi de Rosmini e Ludovico Pratesi, presenta  una antologica di 50 opere dagli anni ’80 ad oggi, che spaziano dalla stampa fotografica alle composizioni con vari materiali fino alle installazioni;“Pietro Fontana, S,I.L.O.S.”  al Padiglione A, a cura di Pietro Gaglianò presenta a sua volta una serie di installazioni a forma di Silos, con alcune opere in lambda su carta.. Ambedue le mostre sono promosse da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale e Soprintendenza capitolina ai Beni Culturali; e realizzate in collaborazione con delle gallerie, la prima con Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea ed Eduardo Secci Contemporary, la seconda con Montoro 12 Contemporary Art di Roma.

Luce, colore e materiali negli spazi di Pirri

Conoscevamo di Alfredo Pirri  l’ingresso realizzato per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, un pavimento di specchi spezzati con sopra qualche statua, che rendeva emozionante l’accesso alle sale in cui è esposta la straordinaria galleria artistica del museo romano di  Valle Giulia. Abbiamo scritto “che rendeva”, dato che la nuova direzione lo ha eliminato per sostituire a questa emozionante “ouverture”  un anonimo salone con dei divani, nell’intento di rendere più accattivante l’entrata, ma ha tolto la magia indefinibile che si ripeteva invariabilmente ogni volta che si visitava il museo.

Non abbiamo mancato di esprimere il nostro dissenso verso chi ha fatto svanire l’incanto degli specchi spezzati – non si interrompe un’emozione, per ripetere uno slogan di qualche anno fa, e tanto meno si cancella –  come non manchiamo di manifestare la soddisfazione di aver ritrovato gli specchi spezzati sul pavimento nell’opera “Passi”, 2017, che segna il passaggio tra le due sezioni dell’attuale mostra di Pirri, anche se sono pochi metri di transito rispetto alla vastissima estensione che aveva l’analogo pavimento nella Galleria d’Arte Moderna; sono lastre in vetro extra chiaro argentato di 6 mm infrante meccanicaente. E’ stato come recuperare qualcosa di prezioso, anche se nella forma di una rapida evocazione della memoria piuttosto che di una replica.

L’artista, da noi interpellato, ci ha detto che non ha utilizzato gli specchi eliminati dalla Gnam, l’installazione, quindi, è completamente nuova anche se tecnica e ispirazione sono le stesse. E’ come se gli specchi sul pavimento si spezzassero sotto i passi del visitatore, e lo portassero a meditare sull’ambiente circostante: qui è un transito tra i mondi evocati da Pirri, là era  lo spazio sconfinato dell’arte moderna che veniva incontro per poi dilatarsi a dismisura.

E cosa mostrano le due sezioni della mostra di Pirri unite dal corridoio di specchi spezzati? Lo spazio, la luce e il colore in una serie di opere molto diverse, nella latitudine espressiva alla quale fa riferimento il titolo, apparentemente criptico, ma legato a un progetto omonimo iniziato nel novembre 2016 con la mostra RWD/FWD nello studio dell’artista.

Il titolo “I pesci non portano fucili” dall’opera di Philip K. Dick “The Divine Invasion”  evocano una società del futuro fluida come il mare aperto nel quale ci si immerge per riemergere in forme nuove in un ambiente pacifico senza armi e conflitti, con una rete culturale in cui le istituzioni sono autonome e dialogano tra loro.

La fluidità, con il continuo cambiamento, è alternata alla fissità nell’itinerario artistico di Pirri ripercorso con le 50 opere della mostra che partono dagli anni ’80 e arrivano ai giorni nostri.

Ma c’è di più, la mostra non fornisce solo un’antologica tematica o cronologica bensì, come spiega il curatore Ludovico Pratesi nella presentazione, “permette una lettura complessa e ragionata della ricerca di Alfredo Pirri attraverso un itinerario espositivo strutturato come un’opera in sé. Lo spazio del Macro Testaccio viene interpretato dall’artista in maniera da sottolineare le componenti fondamentali del suo pensiero, per invitare il visitatore a condividere un’esperienza immersiva giocata sull’armonia tra spazio luce e colore”.

L’immersione avviene nella città , considerata come spazio aperto di incontro e condivisione e non solo come conglomerato urbano, e la visione dello spazio svaria dall’aspetto architettonico a quello simbolico modulato nelle sue più diverse espressioni.

Pratesi precisa: “Come l’accordo musicale ha una natura sincronica, che risiede nella sovrapposizione istantanea di note, indipendentemente da quelle che sono precedute e si susseguono,  così il percorso espositivo implica una struttura che viene disegnata dall’idea di un’immagine simbolica della città che contestualmente ripercorre le grandi tematiche dell’opera di Pirri. Nelle quali utilizza i materiali più diversi, la legno  al rame, dal vetro al bronzo, dal lattice al plexiglass, con uso di olio e acquerello, smalto e vernice, e l’impiego della fotografia oltre che della pittura e della composizione materica più variegata.    

“Quello che avanza”, del 2017, è la più recente delle 50 opere esposte ed apre la mostra, con  144  stampe fotografiche di 100 x 70 cm in diverse tonalità blu con la tecnica della cianotipia.

In plexiglass  le 3 “Kindertotenlieder”, 2015, con pasta di colore e le 3 “Arie”, 2013-14 in piume e colore.  A un altro dei quattro elementi riserva i 2 acquerelli su carta con acciaio e vernici acriliche, “Acque”, 2007.

Ancora plexiglass, con piume d’oca conciate, vernici acriliche  e resina epossidica per “Le Jardin feérique”,. 2006,  mentre nell’installazione “Verso N”, 2003, di 5 componenti,  a tale materiale di base unito a cartone museale è applicato smalto e colore acrilico, con il risultato di delineare “un orizzonte immaginario, un paesaggio spirituale attraversato da fasci di luce che si irradiano nello spazio riflettendo i colori della pittura”, leggiamo nella presentazione.  

Nel nostro andare a ritroso nel tempo torniamo agli anni ’90, rappresentati da una nutrita serie di opere, la più recente “La stanza di Penna”, 1999, un profilo cittadino  formato da copertine di libri in una luce che richiama il tramonto.

All’inizio del decennio “Gas”, 1990, un installazione di 20 tele frottage a olio su tela ognuna grande 110 cm di forma quadrata, con 6 elementi di oltre 3 m per 1,5 a intonaco e pigmenti colorati su struttura di metallo. Alla base sempre il concetto di spazio, questa volta attraversato da una materia invisibile, un’atmosfera indefinibile che la composizione propone all’osservatore.

Dello stesso 1990  “Per Noi – Acqua con polvere”, 100 piccoli elementi di cm 30 x 20 in  inchiostro di china su vetro e carta, pigmenti in polvere, nastro telato; e “Colorea”, una grande composizione cromatica di quasi 5 m x 3, in olio su legno .

Precedente di un anno le 3  lacche “Squadra Plastica”, 1989, 2 in poliestere su legno con acrilico, in una rosso, nell’altra blu,  la terza  in lacca e tempera alla caseina su legno.

Tra queste opere che segnano gli estremi del decennio abbiamo  “Facce di gomma”, 1992, altri 100 elementi di cm 25 x 12, quindi ancora più piccoli di quelli sopra citati di Per Noi”, e nello stesso anno “Faccia di gomma con copertina”, in lattice di gomma e cartone, garza e cementite, tempera vinilica. Oltre a un “Senza Titolo”, 1994, lunga 2 m in bronzo patinato  e bronzo nichelato.

Del decennio precedente 2 opere circolari, entrambe del 1985  del diametro di circa 1,5  m su legno, “Canto” in grafite,  e “Il pensiero dell’Alba” in tecniche miste, e una quasi quadrata del 1988 intitolata “Cure” in rame brunito e acciaio ramato, vernice acrilica e luce,  come materiale di base.

Abbiamo lasciato per ultime le due opere evocative di temi letterari “Ratto d’Europa”, 1996, in rame brunito dell’altezza di  2,60 m, e “Inferno, Purgatorio, Paradiso”, 1887,  un trittico di 3 piccoli elementi, ciascuno di cm 21 x 17, in lacca acrilica e colore vinilico su legno. 

E’ di trent’anni fa, una delle più la”remota” delle opere esposte conclude il nostro viaggio espositivo a ritroso nel tempo, ma è nella parte iniziale dell’itinerario artistico dell’autore.  Aveva allora trent’anni, essendo nato a Cosenza nel 1957, da molti anni lavora a Roma dove partecipa con il suo particolare concetto di spazio collegato alla superficie e di ambiente collegato al colore e alla luce anche a progetti multidisciplinari con architetti.

Delle opere esposte abbiamo voluto citare i materiali perché ci sembra un aspetto rilevante la sua ricerca da alchimista moderno. Sono tanti e combinati nei modi più diversi, ma tra tutti ci piace ricordare ancora l’approdo all’estrema semplicità materica delle “lastre in vetro extra chiaro argentato tipo ‘Safe mirror’, spessore 6 mm poggiate su pedana e infrante meccanicamente”, così la definizione tecnica: sono i vetri spezzati di “Passi”  che ci hanno emozionato nel ricordo del grande pavimento in vetri spezzati della Gnam.  Un’altra “Roma sparita” che non dimenticheremo.

I “S.I.L.O.S.” di Fortuna

Molto diversa nella concezione oltre che, ovviamente nel contenuto, la mostra di Pietro Fortuna. Infatti non è  cronologica trattandosi di opere realizzate appositamente per la mostra nel 2017, ma antologica delle tematiche affrontate dall’artista.

Per questo viene presentata come “un osservatorio che mette in luce come per Pietro Fortuna il processo e l’ideazione siano stati sempre preminenti rispetto all’esito”; nelle 33 opere esposte “si condensa il senso del fare come prassi e come nucleo teorico, come rivendicazione di autonomia, come possibilità, e diritto, dell’arte a essere improduttiva”.  La preminenza del “processo”‘ che segue l’ “ideazione” rispetto al risultato, valorizza il lavoro artistico dell’autore dell’opera, il “fare” indipendentemente dalla conclusione.

C’è un pensiero filosofico dietro questa impostazione, l’arte viene vista come “forma del divenire”, libera e senza vincoli legati ad una conclusione prevista, così può distinguersi nettamente dalla produzione anche culturale che è finalistica, tendente al risultato. 

L’artista non deve progettare ma “fare”  senza conoscere in anticipo lo sbocco del suo lavoro, quindi senza elaborare un progetto che lo vincolerebbe e senza venire incalzato dall’attesa della conclusione con il compimento dell’opera.

Quindi si ha una totale indipendenza dal tempo inteso come misura della durata del  lavoro artistico, come ha scritto nel 1995 Rocco Ronchi: “Il ‘fare’, qui come altrove, è un gesto compiuto che non domanda nulla al tempo pur impiegandolo”, e riferendosi espressamente alle opere dell’artista ha aggiunto: “E’ a questa loro sorprendente indipendenza dal tempo che tali forme del fare devono quel loro senso di quiete, di perfezione e di inutilità che infondono nell’osservatore”.

Sul senso di “inutilità” si potrebbe discutere, perché i Silos sono l’immagine concreta di depositi di merci non utilizzate nell’immediato ma in quanto necessarie richiedono di essere stipate in scorte per l’emergenza; la “quiete” è  invece indiscutibile, la movimentazione in genere non è continua.

La presentazione scava ancora di più nei significati reconditi di una forma artistica particolare e di un pensiero che sconfina nella filosofia: “L’ umanesimo di Fortuna si distanzia da quell’individualismo che si realizza nella dialettica tra interrogazione privilegiata e risposte necessarie. Forse in questo si trovano le ragioni del suo pensiero: il fare coincide con il tempo e lo spazio per una cerimonia più vicina alla vita, a come questa si mostra”.

Troviamo questo orientamento nella biografia dell’artista, che ha studiato filosofia ed architettura. Nato nel 1950 a Padova, ha una notevole esperienza internazionale, non solo si sposta  tra Roma e Bruxelles, le due città in cui vive, ma dopo aver lavorato da giovanissimo a scenografie nei più grandi teatri italiani – La Scala di Milano, la Fenice di Venezia e il San Carlo di Napoli – negli anni ’80, tra i 30 e i 40  anni,  lo troviamo alla XVI Biennale di San Paolo e alla XII Biennale di Parigi, al Kunstverein di Francoforte e alla Kunstler House di Graz,  oltre a Ville Aston a Nizza e alla Galleria Comunale d’Arte Moderna a Bologna.

Nel decennio successivo, siamo agli anni ’90, eccolo con installazioni e opere di grandi dimensioni al Palais de Glace di Buonos Aires e al Museo d’Arte Moderna di Bogotà e a Le Carré Musée Bonnat di Bayonne, oltre che alle gallerie d’Arte Moderna di San Marino e Roma e al Museo Pecci a Prato.  Le presenze più recenti lo vedono al Watertoren, Centre for Contemporary Art di Vissingen e al Tramway di Glasgow, in Italia a Carrara alla XII Biennale Internazionale di Scultura e a Napoli alal Fondazione Morra, e soprattutto a  Roma al  Macro, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna  e alla Quadriennale, dove

La sua vivacità intellettuale lo ha portato a fondare, negli anni ’90, una sorta di cenacolo culturale, se è lecito questa definizione datata per il luogo d’incontro tra moderni protagonisti nel campo dell’arte, della musica e del pensiero, citiamo Pistoletto e Kounellis, Philip Glass e Jan Fabre, Carlo Sini e Kankell, “Opera Paese” è il nome di questo stimolante laboratorio culturale.

Il quadro che abbiamo tracciato con le notizie disponibili farebbe pensare a opere cerebrali, con intitolazioni particolarmente elaborate, criptiche, da decifrare. Tutt’altro. Vediamo 6 grandi cilindri, sono i suoi Silos, o meglio S.I.L.O.S., sembrano effettivamente tali,  “Senza Titolo”, anche se si intravvedono delle scritte identificative.

A fronte di questi 6 grandi contenitori in materiali vari, in media di 3 metri per 3,  le opere in lambda su carta, 11 piccolissime, di 24,5 x 31cm applicate all’alluminio, e  3  più grandi di 80 x 115 cm,  tutte “Senza Titolo” anch’esse; e non sono intitolati i 3 collage su carta di 1 m per 80 cm circa, le 2  grafiche inchiostro su carta di 180 x 140 cm e l’opera in acciaio, PVC e carta alta 160 cm.

Vi sono 3 eccezioni all’assenza di titoli, la più recente, del 2017 come tutte le altre fin qui citate, in legno e oggetti vari per un’estensione di 12 metri, intitolata  “Picnic”; le altre 2 sono a matita e inchiostro su carta, i titoli intriganti:“All forward, full speed ahead”, 2016, che fa pensare a un messaggio futurista,  e “Think not that”, 2011, che fa semplicemente pensare.

Come tutta la sua opera, quale che sia la percezione e il giudizio del visitatore, non lascia indifferenti e pone molti interrogativi. In ogni caso è un bel risultato sorprendere e  far riflettere.