Botero, le prime 3 sezioni pittoriche della mostra al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al  Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016, la mostra “Botero”  presenta – in 8 sezioni tematiche con 48 opere, di cui 43  grandi dipinti  e  5 imponenti  sculture – le caratteristiche raffigurazioni dell’artista colombiano prevalentemente realizzate dal 2000 in poi, che intrigano per la personalissima  conformazione dei volumi, gonfi e ridondanti in un figurativo deformato. La mostra, promossa da Roma Capitale con il patrocinio della Regione Lazio, è prodotta e organizzata da “Arthemisia” con “MondoMostreSkira”, e curata, insieme al Catalogo Skira, da  Rudy Chiappini.

Il mondo molto particolare di Botero

Abbiamo cercato di interpretare la matrice, i motivi e i risultati dell’opera di un artista così insolito e intrigante come Botero iniziando dalla sua formazione, marcata dalle immagini della civiltà e delle tradizioni  latino-americane su cui si sono innestati i valori della grande arte europea ed italiana, con l’immersione nel mondo statunitense scosso dalle avanguardie dell’espressionismo astratto e non solo. La quadratura del cerchio dell’attaccamento alla sua terra con la continua separazione è stata la “sintesi di regola e passione”, mentre i suoi corpi gonfi dalle forme stravolte sono una trasfigurazione favolistica della realtà che non suscita riso ma tenerezza e “la stessa disarmata fiducia con cui si guarda dentro una scatola magica”, per cui l’osservatore guarda “divertito, perplesso, incuriosito” e comunque sereno.

Verifichiamo ora queste considerazioni generali con la galleria delle opere esposte in un allestimento che ha posto le sculture in successione nella rampa di accesso, a parte il “Cavallo”, all’esterno nello spazio antistante, con le 7 sezioni pittoriche isolate nelle rispettive “enclave” e poste opportunamente in una successione che ne sottolinea la continuità e complessiva omogeneità.

Si vede che il suo è un mondo molto particolare, come  lo è il figurativo controcorrente rispetto alle avanguardie imperanti:. “Il passaggio dal mondo normale al mondo  di Botero non comporta nessuna metamorfosi – ha scritto Paolo Mauri nel 1991 – semplicemente per Botero il mondo è così”. In altre parole: “In Botero la grassitudine… è un approdo mentale: la diversità si rivela dunque soltanto ad un visitatore che venga da un altro mondo, da un diverso pianeta”. Con queste particolarità: “Dunque la grassitudine è una caratteristica che Botero regala ai suoi personaggi e non una loro caratteristica connaturata. Come dire che Botero inventa i soggetti e li vede in questo modo a prescindere dalla loro reale esistenza. La grassitudine è nella mente del pittore e diventa un tratto dell’anima dei soggetti”.  

Percorrendo la galleria delle  48 opere esposte, i soggetti sembrano  accogliere il visitatore come ospite gradito:  “Se un quadro di Botero può spingere al sorriso, la visione di molte opere annulla l’effetto comico: c’è un che di malinconico, di perplesso,  di metafisico in questa grassitudine  esibita senza ostentazione, senza rumore, senza dramma”. 

Nel passare in rassegna le sezioni  si trova conferma all’enunciazione dell’artista: “Per me lo stile è un linguaggio che deve essere coerente… La mia opera è un tentativo che ho seguito durante tutta la vita  perché il volume è un pensiero che porto con me per sempre”. Commenta il curatore Rudy Chiappini: “Il linguaggio, dunque, è l’ossequio alla propria continuità sorretto da un ‘pensiero dominante’ , e quel pensiero determina lo stile”. Con questi contenuti: ” Tuttavia per quanto il linguaggio si perfezioni, e la forma si purifichi, i soggetti di vita civile, di vita privata, di corride, di circo, di bordello, di matrimonio, di violenza, di feste campestri, dell’apparato di religiosità cattolica  sono tenacemente persistenti e rappresentano l’universo di visioni cui Botero non può rinunciare”. Sono le visioni offerte al visitatore  che cercheremo di raccontare, citando le parole stesse dell’artista efficacemente riportate nel Catalogo come originali schede alle singole opere, dopo una concisa introduzione del curatore alle singole tematiche. Nello stesso tempo faremo riferimento anche alle opere viste nella mostra del 1991-92 come logico completamento, in un’integrazione che valorizza l’attuale aggiornamento: una staffetta ideale di Botero a Roma.

Fabrizio D’Amico nel 1991 ha citato le parole di Soavi: “E’ impensabile che a un personaggio di Botero possa capitare un dramma”,  e di Sciascia:  “In loro è assente la gioia come è assente il dolore”, e ha concluso: “Perché il dramma è l’ultima
precipitazione di una vita, l’insanabile contraddizione di due verità inconciliabili, è giusto e necessario che l’umanità di Botero, che allontana da sé la vita a prezzo della propria faticosa immensità, ne sia preservata”.

Abbiamo già visto come questo si riscontri anche nel ciclo “Corrida”, ci limitiamo a riportare un’altra citazione del 1991 di Ana Maria Escallon: “Goya osserva, quasi sempre, i tori dall’interno, mentre Botero li guarda dall’esterno, per una necessità d’esprimersi in un mondo differente, dove il cuore non batte, la vita non si rischia, la fortuna non esiste. E’ un mondo dall’anima lasciva, colmo di poesia,di forme piene che lasciano spazio a colori armonici”. Il trionfo del colore, dunque, mentre “l’atmosfera ieratica nega il furore della ‘fiesta’, l’espressione è contratta in un gesto congelatore  di emozioni, perché ciò che interessa a Botero è l’espressione d’impassibilità”. Anche in “Muerte de Ramon Torres”, 1986, dove il torero a terra inanimato sembra addormentato piuttosto che ucciso dal toro sopra di lui cavalcato dallo scheletro di morte quasi in un gioco.

L’atmosfera muta nei tre cicli in cui il suo atteggiamento distaccato verso il dramma si trasforma in diretta partecipazione, con uno spirito umanitario che va oltre l’angoscia per la tragedia della sua terra lacerata dalla guerra civile. Nel 2000 dipinse il ciclo “Violencia in Colombia”, e  il ciclo “Abu Ghraib” accomunati dalla  ribellione contro le violazioni dei principi di umanità perpetrate nel suo paese con il sanguinoso conflitto intestino come nella grande democrazia degli Stati Uniti con le torture ai prigionieri nel famigerato carcere della guerra irachena.

Ha scritto Conrado Uribe Pereira nel 2016: “Come cittadino del mondo , qui l’artista assume una posizione globale e, per i quattordici mesi di lavoro che costituiscono, come Botero stesso ha dichiarato, una parentesi nella sua carriera, ha prodotto questa sorta di catalogo particolare nel quale raccoglie un frammento delle oscure cronache dell’attualità”.

E’ stata “una parentesi nella carriera”, sono “serie anomale nella carriera di Botero che ne attestano una coscienza politica che va dal locale al globale”, dunque; dieci anni dopo, nel 2010, per i suoi 80 anni, nel ciclo della “Via Crucis” torna la denuncia evocata nel “Crocifisso” avente per sfondo i grattacieli di New York con evidente riferimento ad “Abu Ghraib”. E torna il tema drammatico della violenza e dell’oltraggio all’umanità di Cristo, indifesa come quella dei perseguitati, espresso senza toni forti ma con un senso di pietà reso più struggente dalle forme ridondanti dell’essere indifeso che accentuano la tenerezza per lui in un’atmosfera di rassegnata contemplazione.

Così conclude Pereira sui tre cicli che lo hanno portato “a contravvenire in parte alle sue stesse norme, a rendere più impervio un sentiero faticosamente costruito nel corso della sua carriera artistica”: “Più che come un tradimento come qualcuno ha affermato, questa svolta, in cui fa incursione il dramma, dovrebbe essere considerata come un nuovo sviluppo, nel quale la continuità si accompagna alle trasformazioni che arricchiscono e potenziano l’opera”.  

Non potevamo non farne parola anche se i temi della mostra attuale non comprendono queste  “serie anomale” rispetto  alle sue espressioni consuete. Lo stesso artista le considera, come abbiamo visto, “una parentesi nella sua carriera”, di cui resta il segno incancellabile di natura morale e umana con tutto il suo valore civile e politico.

Le versioni di antichi maestri

Abbiamo ricordato come dai suoi primi viaggi in Europa quando aveva 20 anni, in particolare in Italia e Spagna,  l’artista fu profondamente colpito, e quindi influenzato,  dai grandi maestri italiani, da Giotto a Leonardo, da Paolo Uccello a Piero della Francesca soprattutto, e spagnoli, da Velasquez a Goya, poi conoscerà anche Durer e Rubens, Manet e Cèzanne, trovando delle ideali  “affinità elettive”.

Le esprime dedicandosi ai “d’aprés” che, a differenza di quelli di altri grandi artisti come De Chirico, non riproducono con variazioni modeste le opere ispiratrici, ma le re-interpretano radicalmente nel proprio personalissimo linguaggio; che non è soltanto una cifra stilistica diversa, ma comporta una dilatazione dei volumi tradotta in un gonfiamento dei corpi che determina la notevole deformazione, resa ancora più vistosa dall’inevitabile confronto con l’originale.

Ma proprio questa verifica conferma quanto si è premesso, nessun effetto caricaturale, non sembrano irriverenti né suscitano comicità, al massimo ironia, e fanno apprezzare lo sforzo di rendere omaggio ai grandi maestri “cercando, a secoli di distanza – commenta il curatore – di renderne lo spirito, attualizzato e fatto proprio attraverso la sua idea originale del volume e dello spazio, del segno e del colore”.

La 1^ sezione pittorica con 8  “Versioni degli antichi maestri” evidenzia come si sia dedicato ai “d’aprés” non solo nella fase iniziale, ma nell’intero percorso artistico, come  De Chirico che sull’orlo della vita ultimava l’ultimo dipinto, ripetendo un “d’après” realizzato in passato: la prima è del 1959, seguono 3 de 1984 e 1998, e 4  dal 2005 al 2008.

Iniziamo con i “d’aprés” di Velasquez, sono 3, il primo, “Nino de Vallecas”, 1959, ancora non rivela interamente la sua cifra stilistica che si manifesta invece in un “Busto femminile”, 1984, e ovviamente in “L’Infanta Margherita Teresa”, nel quale la deliziosa grazia infantile dell’originale si trasforma in una forma  imbarazzata più che goffa, che non suscita riso ma ispira tenerezza. Nel ricordare di essere stato “copista” al Prado, dove conobbe i dipinti del maestro spagnolo, l’artista rivela: “L’arte che ammiravo nelle grandi stanze del Museo del Prado era per me impenetrabile, una vera scoperta, e la tecnica con cui quei capolavori erano realizzati mi affascinava”.

Dopo il “d’aprés” di Rubens, “Rubens e sua moglie”, 2005, in cui l’apparente  goffaggine delle due figure, con le mani simili a spatole che si uniscono, si traduce anch’essa in tenerezza, vediamo “Maria Antonietta”, 2005, figura dignitosa e accattivante, che serve all’artista per precisare come la scelta di questo come altri soggetti non significhi abbandono delle proprie radici: “Voglio che la mia pittura abbia radici, ma nello stesso tempo non voglio dipingere soltanto campesinos. Voglio essere capace di dipingere tutto, anche Maria Antonietta e Luigi XVI , ma sempre con la speranza che tutto ciò che faccio sia pervaso dall’anima latino-americana”.

Ed eccoci ai grandi maestri italiani, sono esposti i “d’aprés” di Piero della Francesca e Raffaello. Del primo parla così: “Di Piero della Francesca ho scoperto l’espressione più totale dell’arte: la pienezza del volume, delle forme composite, dei colori smaglianti, resi con tonalità difficilissime da creare. Il soggetto aveva una dignità straordinaria. Le figure emanavano un’impressione di monumentalità e di grande dignità”.  Possiamo dire che è proprio questa l’impressione che si ricava dal dittico esposto, “I duchi di Urbino”, la monumentalità non è resa dalla dilatazione dei volumi, appena percepibile, ma
dalla severità dell’espressione, c’è rispetto per la dignità della figura.

Invece nel “d’aprés” di Raffaello, “La Fornarina”, 2008, la dilatazione è evidente e l’immagine ne viene coinvolta: dalla grazia pudica e seducente si va all’imbarazzo timido, per questo tenero. Torna il mente il “d’aprés” di Leonardo, “Monna Lisa”, 1977, visto alla mostra del 1991-92, realizzato 30 anni prima di quello della “Fornarina”, analogo coinvolgimento nel tradurre nel proprio linguaggio: all’intrigante mistero di un sorriso indefinibile si sostituisce un atteggiamento di placida attesa.

La reiterazione dei “d’aprés” anche in epoca recente indica che per l’artista questi capolavori non sono pezzi da museo, come le cosiddette “lingue morte”, gloriose ma inattuali.

Nature morte

Così le “Nature morte”, di cui ne sono esposte 6 nella 2^ sezione pittorica, alle quali l’artista attribuisce un significato che va oltre la mera composizione di oggetti ma, come osserva il curatore, rivelano “un vero e proprio mondo a sé, ricco diversificato, regolato da regole precise”. Le enuncia lo stesso artista: “Quando dipingo una mela o un’arancia, so che si potrà riconoscere che è mia e che sono io che l’ho dipinta, perché quello che io cerco è dare a ogni elemento dipinto, anche al più semplice, una personalità che viene da una convinzione profonda”.

E’ come dare vita alle cosiddette nature morte, la cui definizione, pur in termini diversi, fu contestata da De Chirico che vi si dedicò chiamandole “nature silenti”. L’artista vi  imprime il proprio sigillo stilistico, ma proprio per renderle vive non le stravolge limitando la dilatazione, restano naturali pur se subito riconoscibili dall’osservatore come afferma di volere l’artista.

Lo vediamo nella “Natura morta dinanzi al balcone”, 2000, con una bottiglia e delle arance su un tavolo tondo coperto in parte da una tovaglia rosa shocking,  dinanzi a una ringhiera con sfondo di tetti. Tre arance sono intere, nella loro perfetta rotondità, la quarta è a metà, e questo dà vita alla composizione, rendendola dinamica. In “Arance”, un suo quadro del 1989, non in mostra, i frutti sono i soli protagonisti, poggiati su una cassapanca con una tovaglia di un giallo discreto, senza sfondo né altri oggetti; .anche qui tre arance intere, ma altre tre  a metà una delle quali anche sbucciata. Dieci anni dopo, dunque, torna lo stesso motivo, dare vita alla “natura morta”.

Analoghe considerazioni si possono fare per una “Natura morta” del 1970, in cui oltre a due arance tagliate  a metà e un grande  ananas anch’esso tagliato, ci sono delle bucce e delle posate, con una forchetta addirittura conficcata nell’ananas, quasi che l’artista avesse colto l’attimo fuggente di uno spuntino interrotto, sospensione accentuata dal cassetto del
tavolino rimasto socchiuso.

Vediamo l’aggiunta di altri elementi compositivi nelle ultime due “Nature morte” di questo tipo, dove la frutta è ulteriormente diversificata, sempre con l’elemento vitale dello spuntino evocato.

In “Natura morta con frutta e bottiglia”, 2000, ci sono anche un cestino pieno di pomi, un piatto e una forchetta, oltre  alla bottiglia piena per metà, con una tovaglia verde chiaro su cui sono poggiate due banane intere e una tagliata a metà che, con lo spicchio d’arancia, dà vita alla natura morta.

Mentre “Natura morta con caffettiera”, 2002, mostra un cromatismo più intenso, di nuovo il mobiletto dal cassetto semiaperto con la tovaglia rosa shocking, una maggiore varietà di frutta, tre mele verdi, due banane e altro in una fruttiera bianca, una pera, una mela verde e due ciliegie sul tavolo dov’è anche un coltello e una fetta di cocomero rosso su un piatto blu, lo stesso colore della grande caffettiera e della parete di sfondo con uno specchio che riflette i frutti poggiati più in alto.

Questa la descrizione dell’artista: “Quando guardate una delle mie nature morte noterete che i coltelli e le forchette, la frutta, il tavolo, il tovagliolo, ogni cosa è resa nella stessa maniera, perciò l’intero lavoro irradia un senso di unità, armonia e coerenza. Questo è ciò che comunica la sua verità essenziale” della quale, aggiungiamo, fa parte anche la vita data alle “nature morte”.

Non più frutti nella “Natura morta con lampada e fiori”, 1997, i fiori sono otto, sembrano rose non sbocciate di un colore sbiadito come la tovaglia, di un giallo più intenso il vaso con manico in cui sono raccolte in una composizione compatta. Al lato una lampada a olio grigia, grande come il vaso, con la fiammella accesa, il segno di vita come la forchetta all’angolo del tavolo con un pezzetto di cocomero, più piccolo della fetta nella “Natura morta con caffettiera”, ma evidente.

Ritroviamo la bottiglia piena a metà della “Natura morta con frutta e bottiglia” nella “Natura morta con strumenti musicali”, 2004, su un mobile questa volta dal cassetto chiuso, c’è un trombone con un mandolino sull’immancabile tovaglia, che diventa di colore arancio in sintonia con gli strumenti illuminati da una luce gialla. Danno vita alla composizione l’archetto dello strumento e i fogli dello spartito musicale, appoggiati come per una sospensione momentanea dell’esecuzione. Ci tornano  in mente tre dipinti non in mostra: la “Natura morta con Le Journal”, 1989, con il mandolino e, oltre agli oggetti dei quadri descritti, la caffettiera con uno sbuffo di liquido,  l’arancia intera e quella sbucciata fino a una fetta sottile sopra il giornale, la natura non è morta, è viva; la “Natura morta con violino”, 1965, dove  non c’erano ancora questi segni di vita; e “Interno con figure”, 1990,  dove i segni di vita erano  non solo nelle arance tagliate, ma nelle due persone, un uomo e una donna di spalle, sedute a tavola per lo spuntino che è solo evocato in tutti gli altri dipinti.

L’artista si lascia andare a una vera confessione, ricordando come un errore nel disegno del mandolino con il foro centrale troppo piccolo gli aveva fatto esclamare “Ma qui c’è una proporzione diversa, è straordinario”. Poi aggiunge: “E ho dipinto subito il quadro esagerando il volume del mandolino, dilatandolo, dando il massimo rilievo alla forma. Questa dilatazione, questa affermazione dell’oggetto nello spazio era ciò che avevo cercato anche nei classici”. E così si chiude armonicamente e coerentemente il cerchio con i suoi “d’aprés” che abbiamo già commentato.

Religione 

La 3^ sezione pittorica ci porta nel  campo della “Religione” che ritroviamo nella sua prima formazione, quando le tradizioni colombiane e i riti religiosi, insieme alle immagini sacre, erano dominanti. “Io non sono religioso, afferma l’artista, ma nell’arte la religione è parte della tradizione”.  Poi si sono aggiunte le realizzazioni artistiche dei  maestri europei su temi sacri, una tradizione a livello universale. .

Il curatore osserva che nel suo mondo il “clima favolistico”  fa sì che “la realtà deve fare sempre i conti con lo sconfinamento in una fantasia che determina compiutamente i pensieri e i gesti della gente. In un simile contesto la religione si pone come un esempio di pratica del soprannaturale che permea la quotidianità da tradursi in sorpresa, in contemplazione estatica, in forma adattata a un pensiero pronto a plasmare uniformemente le cose e le persone”.

Ma a parte queste considerazioni, la selezione delle 5 opere sul tema è una escalation rituale: dai seminaristi al monsignore, dal nunzio al cardinale, dalla  Madonna col Bambino fino al Crocifisso.

Il “Seminario”, 2004, raffigura  in un ambiente spoglio quasi metafisico nelle arcate di sfondo, cinque seminaristi in quattro  posizioni: uno sulla sinistra in ginocchio mentre prega con lo sguardo verso l’alto e le mani giunte,  un altro in primo piano sdraiato mentre legge il breviario con la testa appoggiata alla mano destra, un terzo a destra seduto su una poltrona con il rosario nella mano sinistra, come un quarto in piedi al centro, al pari del quinto dallo sguardo attonito, più degli altri raffigurati. Sono come presi da un senso di arcano stupore, accomunati in un quieto raccoglimento dal quale sembra contagiato il gattino sulla destra, nero come le loro tonache, e come loro assorto.

Saliamo di livello con il monsignore di “Passeggiata sulla collina”, 1977, ha il rosario che pende dalla mano sinistra e un curioso ombrellino nero nella destra aperto sebbene non vi sia il sole ma un cielo nuvoloso su un prato verde; le forme gonfie, ma non in modo debordante,  in una composizione semplice ed essenziale, danno un senso di leggerezza che non intacca la serena compostezza del prelato. Un ombrellino lo ricordiamo in altri due dipinti non in mostra. Nella“Passeggiata al lago”, 1989,  è di colore rosso porpora perché in mano a un cardinale in veste talare con strascico della stessa tinta, in una composizione molto diversa con la figura umana minuscola dinanzi al gigantismo degli alberi nel bosco, che si riflettono nelle acque.  In “La passeggiata”, 1978, è nero, tenuto in mano da una signora, che ha nell’altra un borsellino, intorno due grandi alberi su un prato verde sconfinato.

Cresce ancora il livello nella gerarchia ecclesiastica con i dipinti che raffigurano due alti prelati,  con le vesti rosse e la mitria sul capo, raffigurati nel 2004 in pose e atteggiamenti ben diversi.

“Il nunzio”  è in piedi con il pastorale nella mano destra e il rosario nella sinistra, mentre incede solenne davanti a dei banani lussureggianti con il piccolo chierico in cotta bianca che regge l’ombrello rosso dell’autorità vescovile. “E’ una variegata macchia di colore – commenta il curatore – che entra a far parte del paesaggio secondo la logica delle apparizioni capaci di trasformare l’evento, per noi inatteso, in marcata consuetudine”. Ricordiamo il “Vescovo in nero”, 1982, non in mostra, mentre benedice davanti a una nicchia, senza sfarzo.

Mentre “Il cardinale addormentato” è  immerso nel sonno con indosso i paramenti, mitria compresa,  in un ambiente spoglio in cui c’è soltanto un piccolo Crocifisso nella parete, su un letto spartano circondato da sei candele accese, come se fosse una veglia mortuaria. Ironia dell’artista?

Le due immagini sacre riportano alla iconografia cristiana, ma con una particolarità per “Nostra Signora di Colombia”, 1992: con in braccio il Bambino, invero quasi un ometto con camicia, calzoni corti e scarpe ha in testa una corona inconsueta per la Madonna, quasi un triregno da papa, mentre due piccoli angeli sostengono un piccolo telo verde dietro di lei. Null’altro di particolare, la figura è nobile, anche se la corona sembra fuori luogo e il telo precario e inadeguato.

Siamo giunti al culmine delle raffigurazioni religiose con “Cristo crocifisso”, 2000, in cui la dilatazione del volume non toglie armonia alla forma che ispira raccoglimento e rispetto senza drammaticità; le gocce di sangue che si intravedono nel corpo e nella croce sono leggerissime, quasi invisibili.  

Ci ricorda “Ecce Homo” , 1967, anch’esso composto e senza segni visibili di torture e sofferenza, e il successivo “Trittico della Via Crucis”, 1969, quarant’anni prima del ciclo dipinto nel 2010-11 per il suo 80° anno, sulle 14 stazioni con tanti disegni preparatori, in cui  il  “Crocifisso”, come abbiamo ricordato, polemicamente ha come sfondo i grattacieli di New York.

Prossimamente descriveremo le altre 4 sezioni pittoriche, dedicate alla “Politica” e al “Circo”, alla “Vita latino-americana”  e ai  “Nudi”, e infine le” Sculture”, anch’esse molto personali e caratteristiche.

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skira Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 2 giugno scorso, il terzo e ultimo uscirà il 6 giugno, con altre 13 immagini ciascuno.  Per  le citazioni di De Chirico, i suoi  “d’après” e la “natura silente” cfr. i nostri articoli in  www. culturainabruzzo.it , 8. 10, 11 luglio 2010 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito),  e il nostro articolo “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, in “Metafisica”,  Quaderni della Fondazione  Giorgio e Isa De Chirico,  n. 11-13 del 2013, pp. 403-418.

Foto 

Le immagini, relative alle prime 3 sezioni della mostra e alla sezione con le sculture, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “La Fornarina”, 2008; seguono, “Piero della Francesca” (dittico, parte destra), 1998, e “Maria Antonietta”, 2005; poi, “Natura morta davanti al balcone”, 2000, e “”Natura morta con strumenti musicali”, 2004; quindi, “Natura morta con caffettiera blu”, 2002, e “Cardinale addormentato”,2004; inoltre, “Nostra Signora di Colombia”, 1992, e “Seminario”, 2004; infine le sculture, “Donna a cavallo”, 2015, “Leda e il cigno” , 2006, e “Donna sdraiata”; s.d.; in chiusura, “Il Presidente. La first lady” (dittico, le due parti), 1969.