Botero, lo stile inconfondibile nella mostra al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra “Botero” al Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016, espone 48 opere, di cui 43 grandi dipinti  e  5 grandi sculture, dell’artista colombiano dallo stile inconfondibile aperto  e  misterioso, solare ed enigmatico che stimola il visitatore oltre che il critico alla ricerca della chiave interpretativa della sua affascinante singolarità. Promossa da Roma Capitale con il patrocinio della Regione Lazio, prodotta e organizzata da “Arthemisia” con MondoMostreSkira, a cura di  Rudy Chiappini che ha curato anche il Catalogo Skira. Un progetto didattico è collegato alla mostra.

A distanza di un anno, un nuovo evento artistico ha per protagonista Botero a Roma: dopo  la ” Via Crucis, la passione di Cristo” nella Pasqua 2016 al Palazzo Esposizioni, la mostra tematica al Vittoriano alla cui presentazione ha partecipato l’artista, con Iole Siena, presidente di “Arthemisia” –  il gruppo che ha affiancato ripetutamente le grandi sedi espositive romane nell’organizzare le mostre e dal 2016  ha la titolarità esclusiva dell’Ala Brasini del Vittoriano – e con  Rudy Chiappini, curatore della mostra, presente l’ambasciatore di Colombia. L’artista ha parlato delle radici stilistiche e di contenuto  delle sue figure dilatate dalle forme prorompenti, in una visione dell’arte e della vita disincantata e popolare che porta alla condivisione di sentimenti sereni.

E’ questo un tema appassionante data la singolarità nel panorama artistico mondiale di un approccio così originale e per tanti versi azzardato perché rischia di cadere nella caricatura e nel grottesco. Ma non è così, anzi dinanzi alla sua galleria di dipinti si resta come soggiogati e colti da tenerezza,  per nulla portati al riso, bensì presi nell’intimo dalla percezione di un messaggio di profonda umanità.

La  prosecuzione ideale delle altre mostre di  Botero a Roma

Avevamo provato questa sensazione dinanzi alle stazioni della Via Crucis che dipinse per celebrare i suoi 80 anni,  il Cristo gonfio al posto di quello ischeletrito della tradizione suscitava un sentimento di pietà non minore, quasi fosse ancora più indifeso nella tenerezza che esprimeva, mentre nei suoi carnefici le forme ingrossate moltiplicavano la violenza cieca, insana e perversa.

Ora  si prova sempre tenerezza dinanzi alle figure prorompenti delle 48 grandi opere esposte, ma premono anche altre sensazioni e  sentimenti ben diversi da quelli suscitati dal dramma della Passione. La suddivisione delle opere in 8 sezioni tematiche permette di misurare queste sensazioni dinanzi a situazioni diverse anche se rappresentate con lo stesso stile inconfondibile: si va dalle Natura morte alla Religione, dalla Politica al Circo, dalla Vita latino-americana ai Nudi, fino alle Sculture, con la premessa delle Versioni da antichi maestri in cui Botero si è cimentato,  come De Chirico e altri artisti,  tutte immagini serene. Non sono presenti nella mostra  opere di quattro cicli su vicende drammatiche, “Corrida” e  “Violencia in Colombia”, “Abu Grahib” e “Via Crucis”.

Si può  essere tentati di cogliere l’evoluzione stilistica, tra il  d’aprés  “Velàsquez” del 1959 e la “Passeggiata sulla collina” del 1977, tra le 4 opere della fine degli anni ’80 e le 7 della fine degli anni ’90 fino alle 32 dal 2000 in poi, di cui ben 20 dal 2005, l’ultima  “Carnevale” del 2016.  Ma si resterebbe delusi data la costanza della sua cifra stilistica che esprime una visione ferma e radicata.

Neppure nella precedente grande mostra antologica di Botero a Roma, tra il dicembre 1991 e il febbraio 1992 al Palazzo Esposizioni, con 60 dipinti, 39 disegni, 16 sculture e in più la travolgente sezione di 37 opere sulla “Corrida”, dalla vasta galleria ordinata in modo cronologico si avvertivano segni apprezzabili di mutamenti. La mostra attuale si pone come la sua prosecuzione ideale, solo  “Il bagno”, del 1989,  fu presentato anche allora, le altre sono tutte inedite per Roma e c’è il meritorio aggiornamento dell’ultima serie degli anni ‘2000 dopo  la “Via Crucis” dipinta nel 2010-11 presentata, come abbiamo ricordato, un quarto di secolo dopo nello stesso Palazzo Esposizioni.

Pertanto tutto l’interesse si concentra nell’interpretare la cifra stilistica costante, applicata a diversi contenuti accomunati da una visione che cercheremo di decifrare, partendo dalla formazione riflessa nella sua biografia di artista sudamericano legato al proprio paese, che però ha frequentato a lungo l’Europa e gli Stati Uniti, e ne è stato  influenzato. In questa interpretazione ci aiuteranno le sue stesse parole riportate efficacemente nel Catalogo come originali schede delle opere esposte.

La formazione cosmopolita, fino all’escalation

Nato a Medellin, nella provincia colombiana di Antioqua, dove studiò dai Gesuiti, fu affascinato dalla corrida, la sua prima opera è un acquerello con un torero, anzi per due anni frequentò una scuola per toreri, aveva 12 anni, è di quarant’anni dopo il suo celebre ciclo pittorico la “Corrida”. E’  precoce, a 16 anni la prima esposizione a Medellin.  La sua formazione risente fortemente delle tradizioni locali, lo affascinano le figure dei santi e gli altari barocchi, con l’arte precolombiana e i muralisti messicani tra cui Diego Rivera;  di Picasso lo attira “il non conformismo nell’arte”, cui dedica un apposito articolo  a seguito del quale viene espulso dal collegio, ha appena 16 anni. 

A 20 anni lascia Medellin per  la capitale Bogotà dove fa subito la prima esposizione e conosce personaggi dell’avanguardia colombiana, impiega i primi guadagni per raggiungere l’Europa. Un anno in Spagna, pochi giorni a  Barcellona, poi Madrid; quindi  Parigi dove più che l’avanguardia lo attirano gli antichi maestri al Louvre. Ma è in Italia, dove soggiorna dal 1953 al 1955, che viene affascinato dagli artisti del Rinascimento, si appassiona a Giotto e Piero della Francesca, Masaccio e Leonardo, e alla metafisica di De Chirico, è colpito dalle critiche d’arte di Berenson e Longhi. Con  base a Firenze, percorre la Toscana in motocicletta, visita Arezzo e Siena, Venezia e Ravenna.

Torna a Bogotà ma i suoi quadri dipinti a Firenze non hanno successo, ben diversi dallo stile di moda delle avanguardie, finché nel 1956 ha l’illuminazione del volume, nascono le forme dilatate. Si sposa e si trasferisce  a Città del Messico dove vive con la vendita dei propri quadri. Ma non si ferma, l’anno dopo il salto negli Stati Uniti, una mostra a Washington e contatti diretti a New York con l’espressionismo astratto, la galleria Gres si offre di appoggiarlo.

Nel 1958, ha soltanto 26 anni, si divide tra la Colombia – dove insegna pittura a Bogotà ed illustra il maggiore quotidiano, e partecipa al Salone d’arte tra accesi contrasti – e gli Stati Uniti dove  a ottobre  nella mostra alla galleria Gres le opere esposte sono vendute quasi tutte il giorno stesso  dell’inaugurazione;  espone a una collettiva a New York e vince il “premio Guggenheim internazionale 1958”.

Di nuovo in Colombia nel 1959-60, e ancora a New York dove si stabilisce al Greenwich Village, ma arrivano i momenti difficili. Si separa dalla moglie, da cui ha avuto due figli, Fernando e Lina, la galleria Gres chiude, la sua prima mostra nella galleria newyorkese, “The Contemporaries” nel 1962  riceve molte critiche, l’opposto dell’esordio alla galleria Gres di quattro anni prima.  Ma reagisce alle contrarietà della vita e dell’arte,  si sposa di nuovo nel 1964, dopo sei anni avrà il terzo figlio Pedro; intanto ha trasferito lo studio prima nell’East Side poi nella 14^ Strada sempre a New York, ma non trascura la sua terra,  vince il 2° premio al Salone di arte moderna di Bogotà.

E l’Europa? Non l’ha dimenticata, espone nel 1966 in tre città tedesche, ma nello stesso anno sfonda negli Stati Uniti con la mostra intitolata “Opere di Fernando Botero”, in un celebre museo, un successo di pubblico e di critica meno effimero del precedente, ne parla bene anche “Time”.

Nel 1967 di nuovo in Europa, Germania e Italia, oltre che a New York e in Colombia, un pendolarismo senza sosta, è il periodo in cui si rafforza la sua formazione cosmopolita. Secondo lui un artista latino-americano deve trovare un propria “autenticità”, “l’arte deve essere indipendente”,  la pittura deve trovare radici, “perché esattamente queste radici danno significato e verità al creato”, ma aggiunge: “Nello stesso tempo, però, non voglio dipingere soltanto campesinos sudamericani. Voglio essere capace di dipingere di tutto, anche Maria Antonietta e Luigi XVI, ma sempre con la speranza che tutto ciò che faccio sia pervaso dall’anima latino-americana”.

Sono parole che sembrano il sigillo della sua formazione, punto di arrivo e anche di partenza. Ha interiorizzato i potenti stimoli della sua terra, poi ha conosciuto la grande arte rinascimentale e non solo, che lo ha colpito e affascinato, è anche entrato in contatto con la modernità statunitense, in particolare le avanguardie dell’espressionismo astratto. Può superare l’angoscia che attanaglia l’artista fino a quando “non padroneggia il proprio mestiere e non sa esattamente quello che desidera esprimere”. Perché o ha delle idee ma non sa come esprimerle artisticamente, oppure sono confuse in quanto non le sente sue.  “Arriva poi il momento – afferma – in cui il pittore riesce a dominare la tecnica e al tempo stesso tutte le sue idee diventano chiare: allora il suo desiderio di trasportarle fedelmente sulla tela diventa così preciso e impellente che il dipingere si trasforma in gioia”.

Ormai l’artista è lanciato, si divide tra New York, con un nuovo studio sulla 5^ strada, e Bogotà, ma affitta anche un appartamento a Parigi dove si trasferirà nel 1973 dopo 13 anni trascorsi a New York.  Tornano i momenti difficili nella vita familiare, nel 1974 la tragedia, il figlio Pedro muore a 4 anni in un incidente stradale, l’anno dopo si separa dalla moglie. Si immerge ancora di più nell’arte, è come se volesse far tornare in vita il figlio ritraendolo in dipinti, disegni e sculture, nel 1976-77 si dedica essenzialmente alla scultura, crea 25 opere su vari temi, anche animali e oggetti. In memoria del figlio dona 16 opere per la sala a lui dedicata nel Museo d Medellin.

Le mostre in Sudamerica, negli Stati Uniti e in Eropa si moltiplicano negli anni in un’escalation inarrestabile, ma ci frmiamo qui perché ci interessava la parte della sua biografia che consentisse di meglio interpretarne l’opera.

La quadratura del cerchio della sua arte

Possiamo dire che la sua formazione è nella biografia, non tanto o non solo per gli artisti di cui ha conosciuto l’opera e lo hanno influenzato, ma soprattutto per il suo dividersi tra il Sudamerica, in Colombia e Messico, gli Stati Uniti a New York e l’Europa in Spagna e Italia. Tutto questo gli ha dato un mentalità cosmopolita, ma anche un problema interiore, tanto che così precisa l’apparente contraddizione tra il suo sentire di artista con una peculiare forma espressiva e la formazione, che gli ha attirato critiche come se avesse tradito le proprie origini allontanandosi dalla sua patria: “Si trova in tutta la mia pittura un mondo che ho conosciuto durante la giovinezza. E’ una specie di nostalgia e ne ho fatto il soggetto centrale del mio lavoro. Ho vissuto quindici anni a New York, ma questo non ha cambiato nulla della mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito di latino-americano. Il rapporto con il mio paese è totale”.  

Lo ha dimostrato con il ciclo “Corrida”, di cui non vediamo opere nella mostra attuale, ma segnaliamo quelle viste nella mostra del 1991-92,  ben 36 opere di cui 18 grandi dipinti, e 18 tra disegni, sanguigne e acquerelli del 1984-88. Un tema così sentito che, come abbiamo ricordato, fu oggetto del primo acquerello che riuscì a vendere sulla piazza di Medellin, e nel quale c’è la propria esperienza personale di allievo di una scuola di toreri, che lasciò il giorno in cui, trovatosi di fronte al toro, fu bloccato dalla paura della morte. E questo, azzardiamo, forse ha indirizzato la sua arte verso la rimozione di ogni tensione, per un clima di serena contemplazione, non solo nella corrida, di cui da possibile protagonista divenne illustratore, ma anche nello spettro dei molteplici soggetti della sua arte. 

Di qui il modo distaccato con cui ha raffigurato in tutti i suoi aspetti questo importante momento tradizionale e ancora attuale della vita sudamericana. Come commentava nel 1991 Ana Maria Escallon, “Botero non condivide il denso e lacerante mondo di Goya; Botero omette il dramma”. E spiegava che “tutto lo scenario della corrida implica tumulto,
frastuono, tensione e morte; tutto ciò è assente nei quadri perché essi non vogliono essere la realizzazione di una cronaca taurina, né la rappresentazione psicologica di un duello tra la vita e la morte; il quadro esiste solo come bisogno d’espressione, colmo di una realtà lontana che non può ammettere le regole della logica quotidiana”. La morte, però, non è assente, ci torna in mente lo scheletro che cavalca il toro in “Toro muriendo”, 1985 e in“Muerte de Ramon Torres“, 1986,  questa volta mentre l’animale scalpita sul corpo inanimato del torero, opere della mostra antologica del 1991-92 che citiamo, come faremo con altre delle varie tematiche, nel segno della continuità delle due mostre di Botero a Roma.

Vicinanza alla terra, la sua, rafforzata  nel 2000 con il ciclo pittorico “Violencia in Colombia”, un impegno che lo ha fatto partecipare intensamente, anche diffondendo all’estero la sua denuncia,  alla tragedia del proprio paese sconvolto dalla guerra civile, che lui fa risalire alla mancanza di giustizia sociale  e all’ignoranza. Un impegno appassionato mosso non solo dal patriottismo ma anche dalla sensibilità umana, come archetipo di tutte le ingiustizie: alle violenze sanguinose in Colombia si sono aggiunte le torture del carcere di  “Abu Ghraib”, due suoi cicli pittorici correlati.  Ai quali ha dedicato interviste coraggiose nel 2005, sulla sua arte come “accusa permanente”, mentre già nel 2004 quando fece donazioni al Museo colombiano era stato definito “Testimonio de la barbarie”.

Ma torneremo più avanti su questo aspetto altamente drammatico del suo impegno di artista e di persona dall’alta sensibilità umana, anche se è estraneo alla mostra  che, ripetiamo,  non espone opere di tali cicli né della “Via Crucis” del 2010-11, a parte un “Cristo crocifisso” del  2000. 

Ora  vogliamo sottolineare che la nostalgia non si traduce in malinconia ma, come scrive il curatore Rudy Chiappini, è “corretta dal sorriso, da una diffusa, non sarcastica ironia in cui non trovano spazio gli stati d’animo estremi”. E si esprime indirettamente nella presenza delle suggestioni della sua terra impresse in lui prima degli influssi cosmopoliti: l’arte precolombiana e l’artigianato popolare, le derivazioni creole e l’iconografia cristiana, con tutti gli altri stimoli delle realizzazioni  delle civiltà latino-americane, Colombia e Messico, che ha ricevuto dall’infanzia. Ma ha sentito anche come la dominazione spagnola, con l’arte barocca, abbia prodotto una deformazione negli artisti locali cui non si è assoggettato, avendo una visione più vasta.

Quindi, sempre nelle parole del curatore, “l’insopprimibile rapporto con la sua terra, testimoniato dalla fecondità e dalla purezza formale, non fa tuttavia di Botero un artista etnico, folcloristico, ma costituisce il presupposto obbligato di un transito, di una meditazione del raggiungimento della consapevolezza di poter creare e dar vita a un’arte originale e autentica connaturata al temperamento latino-americano”. 

Come ha potuto realizzare  una simile quadratura del cerchio?  Mediante l’alchimia degli influssi cosmopoliti che ha saputo metabolizzare avendo recepito dalla cultura europea la curiosità e l’inquietudine intellettuale per raggiungere l’arte autentica quale “interpretazione della realtà attraverso l’intelligenza e la sensibilità che portano alla consapevolezza stilistica”. Il tutto  in una “sintesi perfetta di regola  e di passione”. Perché, prosegue Chiappini, “la sua è un’arte fedele alle proprie radici ma al tempo stesso alimentata dalla conoscenza, dal confronto con altre sensibilità e altri linguaggi, affascinata dall’incontro con le opere del Trecento e Quattrocento italiani”.

Lo abbiamo visto nella biografia, i grandi maestri spagnoli come Velasquez e Goya, e soprattutto italiani, da Giotto a Leonardo, Paolo Uccello e  in modo particolarePiero della Francesca, gli hanno rivelato – sono parole dell’artista – “l’essenza del classicismo per l’organizzazione dello spazio, la serenità della forma e l’armonia dei colori, trasmettendo un grande senso di quiete”.  Perché “la storia dell’arte è la storia della bellezza e della sua creazione” e in questo senso fa sua la definizione di Poussin: “La pittura è un’interpretazione della Natura, con forme e colori, su una superficie piana per dare piacere”. 

Non poteva sintetizzare meglio la propria arte, l’inconfondibile effetto visivo che ne deriva, del quale comunque è intrigante esaminare componenti così insolite e singolari.

I  corpi gonfi  dalle forme stravolte come trasfigurazione favolistica della realtà

Con questa matrice insieme vasta e profonda, cerchiamo di decifrare il suo inconfondibile sigillo, le deformazioni dei corpi gonfiati che derivano dalla peculiare concezione del volume per lui fondamentale. Non sono caricaturali, non suscitano il riso, al massimo ironia  ma soprattutto  tenerezza, abbiamo detto:  “Tutto assomiglia ad un gioco da adulti su di un palcoscenico. Forse ad un rito” – ha scritto Fabrizio D’Amico nel presentare la mostra del 1991-92 – Nulla nasce, cresce,  si consuma e si estingue secondo il ritmo delle ore e delle stagioni; nulla avviene per conseguente, prevedibile, normale concatenazione logica”.

Ed è qui una chiave interpretativa accessibile al visitatore, senza  visioni intellettualistiche estranee alla poetica di Botero, che porta alla favola dove troviamo le deformazioni e i gigantismi – si pensi ad “Alice nel paese delle meraviglie” – e, anche se non sono delle favole, al “Gigante egoista” di Oscar Wilde e ai “Viaggi di Gulliver” che rivelano un mondo illogico ma metaforico e fiabesco.

“Al riparo dei loro corpi inadatti all’azione – prosegue D’Amico –  i personaggi di Botero rifiutano di sottoporsi ad ogni legge conosciuta della fisica e della ragione. Della morale, perfino”. Nessuna proporzione della realtà viene rispettata, i corpi sono trasbordanti rispetto ai letti e alle sedie che dovrebbero contenerli, gli arti non potrebbero svolgere le azioni richieste, come nel paradosso dell’acrobata sospeso in un impossibile equilibrio della sua figura tozza ma insieme aggraziata. Perché questo è il risultato incredibile, un’armonia superiore, pur nell’inverosimile e impensabile.

Così l’artista: “Nei miei dipinti mi muovo con una libertà che ho in un certo senso ereditato dall’arte antica italiana: quella di pensare che nessuna cosa corrisponda alla dimensione prospettica della composizione”. E  ancora: “Questo vuol dire che qualche volta lo spazio viene usato in modo soggettivo, al di là del rispetto delle proporzioni. La grandezza delle figure e degli elementi che compongono i miei quadri non segue le regole della prospettiva, ma mi serve semplicemente per creare un’armonia generale”.

Prevale  per lo più  la dimensione umana, venendo dilatate essenzialmente le persone, come per sottolineare la loro prevalenza rispetto alle cose molto più piccole, dagli oggetti  banali ai letti e ai bagni; sembrerebbe a prima vista  fare eccezione “Il ladro”, 1980, non in mostra, con la figura piccola al centro del dipinto che porta un grosso sacco pieno di roba rubata, ma i tanti tetti che occupano la scena sono in proporzione più piccoli, come le molte finestre che si intravvedono.

Nelle persone la dilatazione dei volumi riguarda la parte carnale dei corpi, mentre le bocche,  i nasi e altri organi sono per lo più minuscoli, con gli occhi alquanto piccoli e fissi, spesso rivolti all’osservatore come per interrogarlo o trasmettergli la loro umanità.

L’effetto non è solo visivo, è ben più profondo. Botero ci presenta un mondo che non ritroviamo nella realtà e non è neppure stravolto dall’espressionismo astratto o dall’astrattismo che ne fa perdere del tutto i contorni. E’ una realtà riconoscibile ma deformata senza divenire irriverente perché “monta, all’opposto, l’innocenza della favola”, e con essa “il sorriso, l’indulgenza, l’ironia accostante e quasi consolatoria di un mondo troppo smisurato per riguardare davvero la nostra esistenza, i nostri progetti o i nostri spaventi, un mondo che si può guardare con le stesse attese e lo stesso abbandono, la stessa disarmata fiducia con cui si guarda dentro una scatola magica o, al massimo, con la curiosità intensa e passeggera con cui da bambini spiavamo, dal pertugio di una serratura, le stanze e i gesti dei grandi”, così  ancora D’Amico.

Da parte sua, l’artista afferma: “Voglio che alla fine del quadro ci sia calma e che tutto trovi il suo posto. Non voglio dipinti inquietanti, nel senso che per me il dipinto è pronto quando niente si può muovere, quando regna la calma. Rembrandt ha detto una cosa bellissima: ‘Il quadro per me è finito quando smetto di pensare’. La ritengo una definizione meravigliosa”.

Dacia Maraini osservava, sempre nel 1991: “L’arcano che intrappola il nostro sguardo incuriosito sembra nascere dall’enigmaticità che accompagna la distillazione della bellezza. Una bellezza che non consiste soltanto nella poetica scoperta della equiparazione dei corpi, animati e inanimati, ridotti al grado zero della pittura nella dilatazione sistematica delle forme. L’elefantiasi biscottata dei fantocci che ingombrano le scene di questo teatro boteriano non racconta tutta la verità”.  E non si trova neppure nei contenuti evocati. “Curiosamente, mentre osserviamo questi pesi massimi, rigorosamente fedeli alla loro estrema ‘lourdeur’, essi finiscono per diventare di una lieve e aurea leggerezza. Alla fine ci troviamo di fronte a un mondo di corpi goffi, soffici, in procinto di volare via. Come a dire che i segni si contraddicono e rivelano in ogni momento il rovescio di sé”.

Ci voleva la fantasia della scrittrice, lontana dalle elucubrazioni cerebrali della critica, per entrare in sintonia con il mondo favolistico dell’artista e far sintonizzare anche noi. Ripensiamo alla scena finale del film “Miracolo a Milano”, con le figure che lievitano e si innalzano sconfitta la forza di gravità, l’immagine della Maraini ci fa pensare anche a questi corpi in volo, liberati dal peso materiale che diventa riscatto morale dalle oppressioni di una vita difficile.

Usciamo dalla favola, torniamo alla realtà.  Nel 1991 Paolo Mauri commentava:”In queste storie l’antagonista vero non è mai dentro al quadro, ma è fuori: è colui che guarda divertito, perplesso, incuriosito. Dal personaggio, dalla sua grassitudine, dalla sua malinconia… E’ difficile non andare d’accordo con i personaggi dipinti da Botero e non desiderare alla fine di averne uno da guardare sempre”.

Nella mostra ce ne sono  quasi 50 da guardare, quante sono le opere esposte, compreso  il grande “Cavallo”  in bronzo nel largo antistante l’ingresso, anch’esso un richiamo quasi favolistico, ripensiamo al cavallo di Troia  che ha popolato le fantasie di tutti negli anni scolastici. 

Racconteremo la visita prossimamente facendo conoscenza dei  personaggi del teatro di Botero, un mondo  che abbiamo cercato di interpretare nelle sue motivazioni profonde e nelle sue espressioni più vistose.  Un mondo affascinante che ha i contorni della favola nella trasfigurazione della realtà.    

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skyra Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  Gli altri due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 4 e 6 giugno p. v. con altre 13 immagini ciascuno. Per i riferimenti del testo cfr. i nostri articoli in questo sito: “Accessible Art, 17 articoli sulle favole di Oscar Wilde” 3 gennaio 2017 e  “Alice, le meraviglie della favola nella galleria RVB Arts” 25 dicembre 2015.

Foto 

Le immagin, che rappresentano tutte le sezioni della mostra, i sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Picnic”, 2001; seguono, “Piero della Francesca”, dittico, lato sinistro, 1998.. e “Natura morta con frutta e bottiglia”, 2000; poi, “Il nunzio”, 2004, e “L’ambasciatore inglese”, 1987;quindi, “Il Presidente. La first lady”, dittico,  lato sinistro, e “Musici“, 2008; inoltre, “Pagliaccio“, 2008, e  “Carnevale”, 2016; ancora, “La vedova”, 1997, e “Atelier di sartoria”, 2000; infine, “Adamo ed Eva”, 2005,  e “Ballerini”, 2012, scultura; in chiusura, la presentazione della mostra al Vittoriano, al centro Fernando Botero con a fianco l’interprete e alla sua sinistra la presidente di Arthemisia Jole Siena e il curatore della mostra Rudy Chiappini.