Seicento italiano, 2. Le ultime tre sezioni della mostra alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria LevanteSi conclude la nostra visita alle opere esposte  alle Scuderie del Quirinale nella mostra “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni dei Reali di Spagna” , aperta dal 14 aprile al 31 luglio 2017. Le 60 opere esposte sono  del Patrimonio Nacional, che gestisce le collezioni della Corona e ha collaborato nell’organizzazione della mostra con ALES, la società “in house” del MiBACT, presidente e A.D. Mario De Simoni,  che gestisce le Scuderie del Quirinale. La mostra è curata da Gonzalo Redin Michaus, come il catalogo Skira.

     Abbiamo già raccontato le prime due sezioni, con Barocci e Caravaggio, Guercino e Guido Reni, dopo aver rievocato la creazione delle Collezioni dei Re di Spagna, che soprattutto con Filippo IV vollero arredare i nuovi edifici e saloni reali con opere di artisti italiani che amavano in modo particolare. Questa rievocazione è stata una cavalcata sull’evoluzione artistica del ‘600 nel superamento del manierismo, tra naturalismo,  realismo e idealismo, fino a barocco.

Il trionfo del barocco con Bernini e Algardi

Passiamo alla  3^ sezione della mostra, “La Roma di Bernini” che intende sottolineare l’irruzione del barocco attraverso una serie di sculture di Bernini e Algardi.

Il percorso espositivo, però, non compie un salto così brusco, prima presenta il dipinto di Giovanni Lanfranco e bottega,  “Trionfo di un imperatore romano con due re prigionieri”, 1634-36, lungo oltre 3 metri e 60, del cosiddetto “barocco decorativo” che l’artista  portava avanti con Rubens e Pietro da Cortona.  E’ uno dei 6 quadri sul ciclo della storia di Roma commissionati a Lanfranco  dall’ambasciatore spagnolo per il palazzo del Buen Retiro  ultimato nel 1633. Il quadro raffigura il corteo con dei colpi di luce su figure e volti ma con forme rotondeggianti di tipo barocco.

Dopo Lanfranco, pittore di corte in Spagna per dieci anni, uno spagnolo autentico, il grande Velasquez, al secolo Diego Rodriguez de Silva, che presumibilmente dopo il primo viaggio in Italia – vi tornerà venti anni dopo –  dipinse “La tunica di Giuseppe”, 1630-34, anch’esso di grandi dimensioni, 2 metri e 13 per 2 e 84,  e “La fucina di Vulcano”. 1630.

In entrambi, e possiamo vederlo nella “Tunica” esposto in mostra, troviamo un ritorno alla visione caravaggesca pur nell’impostazione classicista. Infatti, come afferma il curatore Gonzalo Redin Michaus, l’artista non cercava “di stabilire un repertorio di carattere universale delle espressioni dell’essere umano e tanto meno intendeva fissare – come faceva, ad esempio, Reni – una bellezza ideale valida per tutte le proprie figure”. Ed ecco la sua linea artistica: “Per il maestro spagnolo, come per Caravaggio, entrambe le cose dovevano avere il proprio fondamento nella realtà e tradurre al contempo una verità assoluta, comprensibile a tutti”. Il realismo è “nel volto tra l’attonito e l’orripilato di Giacobbe”, che raffigura “la reazione di un individuo reale e concreto dinanzi a una notizia sgradita, ma è allo stesso tempo l’ incarnazione stessa della sorpresa, riconoscibile da qualsiasi osservatore”.

Soggiornò in Italia anche Charles Le Brun,  del quale vediamo esposto “Cristo morto compianto da due angeli”, 1642-45. rappresentazione iconografica meno frequente della “Pietà” sulle ginocchia della Madonna; è disteso a terra, con i due piccoli angeli-putti che sollevano appena un lembo del sudario, è come se nessun essere umano fosse degno di piangerne la morte.

Prima delle sculture barocche  vediamo ancora due dipinti, un altro Cristo, questa volta  calato dalla Croce, è la “Deposizione” di Giovan Francesco Romanelli, 1661-62, di cui viene sottolineata la “straripante vitalità barocca” presa da Bernini, temperata dalla classicità di Raffaello; e “Santo Stefano protomartire e arcidiacono”, di Charles Mellin, 1630, a braccia conserte, grandezza naturale, gli occhi rivolti in alto, la sua è “una tavolozza sensuale e una pennellata pastosa”.

 Siamo giunti così alle sculture, vediamo lo straordinario “Cristo crocifisso” 1654-56, di bronzo, di Gian Lorenzo Bernini il grande maestro del Barocco, un’opera alta 1 metro e 40, commissionata dalla Spagna per il Pantheon reale dell’Escorial, dove rimase poco tempo per essere poi spostato in una parte del monastero non aperta al pubblico, inaspettatamente sostituito dal Crocifisso meno pregiato di Guidi, allievo del suo rivale Algardi. forse perché non era dorata. E’ una figura composta, serena come se dormisse con la testa appena reclinata, dalla forte carica devozionale . Di Bernini c’è anche il modello in bronzo dorato della “Fontana dei quattro fiumi”, 1651-65,  un bozzetto alto 1 metro  e mezzo della grande fontana commissionatagli da papa Innocenzo X nell’ambito del progetto di trasformazione barocca dello spazio urbano romano, con la personificazione dei fiumi a simbolo dei quattro elementi. Fu l’unica committenza che ebbe da questo papa, il quale preferì Algardi ritenendo Bernini compromesso con il suo predecessore inviso, Urbano VIII.Ad  entrambi Diego de Aragon, 4° duca di Terranova, che considerava Roma “madre universale delle novità”, nel 1654 commissionò  in modo equanime una serie di opere per Filippo IV. Invece al solo Algardi furono commissionate 4 coppie di sculture per il “Salone degli specchi” dell’Alcazar, di cui abbiamo già parlato.

 Di Alessandro Algardi, dunque, vediamo “Nettuno”  e “Cibele”, 1665-66, due  sculture  movimentate alte oltre un metro, suo il modello, con le figure di contorno che sembrano roteare intorno alla figura centrale che dà il nome alle opere, le due in basso sono femminili in groppa a cavalli marini per Nettuno,  putti in groppa a leoni per Cibele.

Su invenzione di Algardi,modello di Ferrata e Da Cortona, fusione di Loti e Artusi, l’“Altare di Leone I: Incontro tra Attila e papa Leone I Magno”, alto 1 metro, quindi poco meno delle due sculture precedenti, una sorta di bassorilievo in argento in una nicchia con trabeazione di bronzo dorato, composizione con vitalità e dinamismo dato da figure intrecciate e sovrapposte. Nel “Calvario”, 1680-84, c’è un “Cristo” crocifisso, opera forse di Algardi, di dimensioni minori di quello di Bernini e dalla figura più tormentata, ai suoi piedi la “Maddalena”, di Antonio Raggi, sgomenta, con la veste attorcigliata.

Con la “Sacra Famiglia” di Giovanni Battista Foggini, 1679-83, un ovale in bronzo dorato su lapislazzuli e legno, si chiude la spettacolare sezione dedicata al barocco.

La ricerca dell’ideale nell’equilibrio tra arte e natura

Nella 4^ sezione, “Ideale e Accademia. da Albani a Maratti”, si celebra, per così dire, l’ulteriore evoluzione del passaggio dalla natura e dal realismo all’ideale.

Seguendo la linea classicista,  Bellori nel suo discorso del 1664 all’Accademia romana di San Luca  suggeriva di “seguire gli antichi nella selezione delle parti più belle della natura, per poi concepire un’idea di perfetta bellezza mediante la propria immaginazione”, così il curatore riassume i concetti contenuti nel  testo del discorso dal titolo “Idea del pittore dello scultore dell’architetto”.  Quindi né la fantasia innaturale del manierismo, né il naturalismo spinto di Caravaggio, ma “un equilibrio tra arte e natura che tragga linfa dalla statuaria classica e dalle prove di Raffaello, Annibale Carracci, Poussin e Domenichino”. A questi avrebbe aggiunto poi Guido Reni, Andrea Sacchi e Carlo Maratti, “al culmine di una genealogia che iniziava con Carracci, continuava con il suo più fedele collaboratore, Franco Albani (1578-1660), e proseguiva con Andrea Sacchi, discepolo del precedente e maestro di Maratti”; aggiungiamo che 124 dipinti di quest’ultimo furono venduti nel 1772 dalla figlia Faustina  alla corona spagnola per il Palazzo reale destinato ai sovrani Filippo V ed Elisabetta Farnese. Sono i tre artisti che  troviamo nella galleria di dipinti di questa sezione.

 Di Francesco Albani vediamo “Sant’Andrea adora la croce del suo martirio”, 1610-17, un olio su rame  di piccolissime dimensioni, 22 per 16 cm, che rappresenta un episodio dei Vangeli apocrifi.  La figura dell’apostolo spicca per la luminosità del corpo, chiaroscurato con attenzione ai particolari della barba, in un viso dall’espressione orante accentuata dalle braccia allargate nella preghiera, mentre le figure degli aguzzini sono molto scure, senza volto, con colpi di luce solo sulle braccia, la tunica del bambino che regge il vassoio viene accostata a quella di un angelo di Annibale Carracci.

Ritratti molto espressivi di Sacchi e di Maratti, che fu suo allievo. La “Testa di anziano” di Andrea Sacchi, 1627-30,  richiama altre due teste dello stesso autore, una delle quali di “Sant’Andrea” , ma se ne differenzia perché più essenziale, non vi sono le mani i cui dettagli nelle altre sviano l’attenzione dal volto, che qui è l’unico soggetto della raffigurazione, reso con uno squarcio di luce nel collo e nella fronte che rischiara le ombre nere dominanti l’intera immagine dando corpo alla barba e al busto.

Completamente diverse dalla testa di Sacchi e anche tra loro le due figure  di Carlo Maratti. Il primo dipinto, “Ritratto di Francesca Gommi come santa Caterina”, 1683, della serie fatta avere dalla figlia dell’artista Faustina a Filippo V, raffigura la donna, che da mercante addetta alla vendita delle opere  di Maratti divenne sua amante per vent’anni; si sposarono solo nel 1700 alla morte della  prima moglie; perciò la raffigurazione nelle vesti di santa Caterina fu ritenuta sconveniente a quei tempi data la sua posizione ancora non legittimata. Nell’impiego di una modella anche chiacchierata per una santa e nello sguardo che fissa l’osservatore viene trovato un parallelo con la cortigiana-modella del Caravaggio, l’immagine luminosa spicca sul fondo nero, la mano sinistra morbida in primo piano, mentre la destra con le dita affusolate regge il simbolo della santa. 

Analoga luminescenza su fondo scuro in   “Lucrezia si dà la morte”, 1685,  che viene accostato a un ritratto di “Cleopatra” dello stesso artista: la luce ravviva il mantello rosso e la veste bianca che le lascia scoperto il seno riprodotto come il volto con grande attenzione anatomica  e delicata sensualità: all’eroina, che si uccise dopo la violenza subita da Tarquinio, fu accomunata la figlia dell’artista che resistette al tentativo di violenza del duca Sforza Cesarini divenendo un simbolo. 

Dopo la “Madonna col Bambino in gloria”, di Giacinto Calandrucci, 1685, già attribuita allo stesso Maratti, anch’essa acquistata da Filippo V, immagine iconica molto tradizionale, cambia tutto: siamo alle sculture, anche in questa sezione.

Apre la serie Francis Duquesnoy, suoi “Mercurio con amorino”, e “Apollo insegna a Cupido a tirare con l’arco”, 1630-40, due figure languide  con il corpo flessuoso piegato all’indietro in un gesto voluttuoso, di ascendenza greca e non romana, in una delicatezza  raffaellesca, l’opposto del vigore michelangiolesco.

Chiudono la galleria della sezione 3 busti in marmo: “La regina Cristina di Svezia” di Giulio Cartari, 1681, “Semiramide”  e “Pentesilea”, di Johann Bernhard Fischer von Erlach, 1680-85. Il primo raffigura la regina al centro della vita culturale romana, legata a Bernini, al quale il busto era stato attribuito: è presentata come un’eroina vestita all’antica con la testa rivolta a sinistra in una posa autorevole. Gli altri due busti, con la regina dell’Assiria e la regina delle Amazzoni, evidenziano i loro caratteri distintivi, la colomba la prima, un solo seno per meglio tirare l’arco la seconda; le sculture si ispirano chiaramente alla statuaria classica delle divinità.Luca Giordano e de Ribera, tra Italia e Spagna, 

Si passa così all’ultima parte della mostra, la 5^  sezione, “Da Roma a Napoli. Da Napoli alla Spagna”,  nella quale viene sottolineata la presenza della scuola napoletana nelle collezioni dei Re di  Spagna, che dominarono Napoli per due secoli e ne furono artisticamente conquistati, una sorta di “Graecia capta, ferum victorem cepit…”. Il grande pittore spagnolo de Ribera andò a Napoli nel 1616 a 26 anni, ma dal 1606 era a Roma dove conobbe anche di persona Caravaggio che, tra l’altro,  soggiornò due volte a Napoli: di qui il titolo della sezione, che sottolinea anche l’altra direttrice della spola artistica, dall’Italia alla Spagna, protagonista e alfiere Luca Giordano.

Vediamo le opere di una nutrita serie di artisti operanti a Napoli e spesso anche a Roma, molti dei quali influenzati da de Ribera. Francesco Fracanzano  fu tra coloro che ne sentirono di più l’influsso, ma lo reinterpreta in modo meno naturalistico in “San Paolo”, 1630-40, espressione intensa, mani nervose. Mentre di Pietro Novelli, il maggiore pittore siciliano del ‘600 che conobbe Van Dyck a Palermo e de Ribera a Napoli, con “Lot e la famiglia in fuga da Sodoma”, 1640 è presente  una delle migliori opere, era stata “censurata” con una velatura sulla scollatura – rimossa in sede di restauro – ritenuta inadatta per la sua collocazione nel convento dell’Escorial.

Di Louis Cousin detto Luigi Primo o Gentile, fiammingo operante a Roma e Napoli, è esposto  “I quattro padri della chiesa latina“, 1635, in un naturalismo stemperato dall’impronta barocca. A Massimo Stanzione è stata attribuita definitivamente con il restauro “I sette arcangeli”, intorno al 1630, prima assegnato a un discepolo; era il principale rivale di de Ribera a Napoli.

A sua volta Domenico Gargiulo è rappresentato da due composizioni molto affollate, “La strage degli innocenti” e “Il ratto delle Sabine”, 1650, in un insolito abbinamento. Due opere anche per Andrea Vaccaro – che con Luca Giordano è tra gli artisti del ‘600 napoletano più presenti e apprezzati nelle collezioni reali spagnole – “La logica” e “Riposo durante la fuga in Egitto”, tra il 1640 e il 1660, lo stile naturalistico è addolcito dall’influenza di Guido Reni.

Giovanni Battista Beinaschi, piemontese, si stabilì a Napoli intorno al 1670 dopo aver operato anche a Roma, il suo “San Paolo eremita”, 1655-61, sorpreso e  sbigottito all’arrivo dell’aquila, ricorda l’ “Omero cieco” e si ispira allo stesso soggetto di de Ribera. Un moto di sorpresa anche nell’altra figura di santo solitario, “San Girolamo ascolta la tromba del Giudizio universale”, 1670-75, di Mattia Preti, la positura diagonale e i contrasti di luce richiamano il dipinto più caravaggesco di de Ribera sullo stesso soggetto.

E’ una carrellata coinvolgente per la varietà e intensità delle immagini, dalle figure singole alle composizioni anche molto affollate con la luce che svolge un ruolo primario nello scolpire le figure e in qualche caso si diffonde sull’intera  scena, spesso con l’evidente influsso di de Ribera.

Ma prima di parlare dello spagnolo trapiantato a Napoli, per gli effetti di luce e i “trapassi chiaroscurali” – per usare le parole di Marco Vincenzo Fontana –  che scolpiscono le immagini,  ci soffermiamo su Luca Giordano, napoletano, il più apprezzato dalla corte spagnola dove si fermò per un decennio, come abbiamo ricordato,  nella seconda metà del ‘600, celebre per la prontezza nel dipingere. Vediamo esposti “L’asina di Balaam” ed “Ebrezza di Noè”, 1665-66. Anche a lui viene attribuita una dipendenza quasi mimetica da de Ribera, ma in chiave barocca, in molti particolari dei dipinti: nel primo, l’angelo minaccioso, l’asina recalcitrante e il profeta ignaro che la sferza suscitando uno sguardo supplice molto umano; nel secondo, lo “spiccatissimo tenore ribeiresco del dipinto” si nota nei corpi scolpiti dalla luce, nel drappo rosso, su un fondo scuro nel quale la composizione si anima con straordinario dinamismo.

Siamo giunti, così, a Jacopo de Ribera, chiamato a Napoli “lo Spagnoletto”, di cui sono esposti in mostra 6 dipinti, trasferito a Napoli  nel 1616, a 26 anni, come abbiamo ricordato, dopo che nei dieci anni romani aveva conosciuto Caravggio, il cui influsso è presente in lui.

Lo vediamo nelle 3 opere scolpite dalla luce, i corpi tormentati in un  realismo che rimanda al Merisi, “San Francesco d’Assisi si getta in un roveto”, 1630-32, di 2 metri e mezzo per 1,80, dove il corpo è smagrito e scavato, il viso attonito rivolto verso l’angelo, un dipinto sullo stesso tema del 1642 è meno tormentato. Altrettanto “San Girolamo in meditazione”, 1635, che si inserisce nel filone di figure maschili  “prese a pretesto – scrive Giuseppe Porzio – per  una rappresentazione spesso compiaciuta della vecchiaia, secondo un gusto naturalistico che costituisce l’espressione meglio nota e e fortunata del fenomeno riberesco”, 

Il santo viene raffigurato anche in una situazione più tormentata con “San Girolamo penitente”, 1635, il critico appena citato lo definisce “una delle più originali e potenti invenzioni del pittore nell’ambito della sua vastissima produzione di santi eremiti”, con il corpo anche qui smagrito e scavato, quasi scolpito dalla luce, mentre la quarta opera che vediamo, “Giacobbe e il gregge di Labano”, 1632, non presenta questi segni di sofferenza, anche se il viso è attonito con i colpi di luce che illuminano sul fondo scuro la mano sinistra e il vello delle pecore.

Cambia tutto con le ultime 2 opere esposte. “San Francesco d’Assisi riceve le stimmate”, 1642, segue di un decennio la scena del roveto, il dipinto è altrettanto monumentale, metri 2,30 per 1,80, ma qui la scena è illuminata dall’azzurro del cielo, il santo ha le braccia aperte e il viso rivolto in alto, non è estasiato come si potrebbe pensare per l’insieme della scena, bensì attonito e preoccupato,  la distanza dalle altre opere dell’artista ha fatto dubitare sull’attribuzione fino al 1992.

Ancora più sorprendente il “Ritratto equestre di don Giovanni d’Austria”, 1648, siamo nella stessa fase più avanzata della vita artistica di de Ribera, anche qui irrompe l’azzurro del cielo e del golfo di Napoli dove si intravedono delle navi, in un ritratto equestre in cui il diciottenne condottiero non viene raffigurato in modo epico, come avrebbe giustificato la repressione della rivolta di Masaniello al comando di una flotta e migliaia di soldati; ma come un elegante principe vestito di velluto e broccato secondo le descrizioni delle cronache dell’epoca; del resto l’infante era colto e raffinato, amante delle arti e con il pittore dovevano esserci stati dei rapporti.

Si parla di istruzione artistica ma anche di una seduzione da parte del nobiluomo della figlia o nipote di de Ribera  che gli avrebbe dato addirittura un figlio o una figlia, cosa che sarebbe dimostrata dal fatto che una figlia naturale dell’infante risultava nata “da una bellissima fanciulla, figlia del famoso pittore chiamato Spagnoletto Ribera”. Gabriele Finaldi, nel citare l’episodio, aggiunge che, sulla base delle ricerche di Ulisse Prota-Giurleo, “si tende a pensare che la madre della bambina fosse piuttosto una figlia di Juan, fratello dell’artista anche lui a Napoli, di cui si perdono le tracce  a partire dal 1627, o di uno dei fratelli di Caterina Azzolino, la moglie del pittore”.  E commenta così: “L’episodio si prestava a essere romanzato e il biografo degli artisti napoletani, Bernardo De Dominici, racconta la storia con molti dettagli, indicando che quel disonore costituì per Ribera la punizione divina, dato il suo carattere altero e la sua cattiva condotta nei confronti degli altri pittori in città”.

Sembrerebbe estranea questa storia più attinente al gossip d’epoca che alla vicenda artistica, ma ci piace concludere così il nostro racconto della mostra per sottolineare quale vastità di temi anche storici e umani presenta un’esposizione  dal notevole  impatto spettacolare e dall’importante valenza culturale: una simile carrellata tra gli stili e le tendenze più significative di un periodo cruciale della storia dell’arte è quanto mai rara soprattutto nella sua valenza documentaria e didattica.

Dopo la Francia del “Museo universale”, lora a Spagna delle collezioni reali, occorre aggiornare in termini edificanti e non di degrado, l’antica espressione “o Franza o Spagna, purché se magna”: se è cibo artistico, all’insegna della natura, della verità e dell’ideale, ben venga, è cibo dell’anima, alimento dello spirito. Da ritenersi salutare per la formazione morale e civile di cui si ha sempre più bisogno in un mondo globalizzato e in un’arte disorientata che rischia di perdere punti di riferimento vitali.

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Aperto tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato chiusura protratta alle 22,30. La biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50. Tel. 06.39967500; www.scuderiequirinale.it.  Catalogo “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle collezioni dei Reali di Spagna. “, a cura di Giordano Redin Michaus, Patrimonio Nacional, Scuderie del Quirinale, Skira,aprile 2016, pp. 228, formato 23,5 x 28. dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 30 maggio u. s.  con altre 12 immagini.  Per gli artisti citati, in particolare Lanfranco, cfr. i nostri articoli, in questo sito, 5, 7, 9 febbraio 2013.

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante in parte nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte dal Catalogo, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, Gian Lorenzo Bernini, “Cristo crocifisso”, 1654-56; seguono,  Jusepe de Ribera, “Giacobbe e il gregge di Laban”1632, e  “Ritratto equestre di don Giovanni d’Austria”, 1648; poi, Giovanni Battista Foggini, “Sacra Famiglia”, 1679-83, e  Luca Giordano, “La cattura di Cristo”, 1699-1700; quindi, Giovanni Battista Beinaschi, “San Paolo eremita”, 1655-61, e Andrea Vaccaro, “La logica”, 1650-60, inoltre, Alessandro Algardi, “Cibele”, 1655-56, e Giovan Francesco Romanelli, “Deposizione”, 1661-62,; infine,  Charles Mellin, “Santo Stefano protomartire e arcidiacono” 1630, e Giacinto Calandrucci, “Madonna con il Bambino in gloria”, 1685; in chiusura, Massimo Stanzione, “I sette arcangeli”.