“Uncinematic” di George Drivas e “Corpo a corpo”, con i “Leoni” della Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, dal 22 giugno al 24 settembre  2017, due  mostre contemporanee:  “/Uncinematic” di George Drivas, con una serie di cortometraggi , “Closed Circuit”,  e la trilogia “Social Welfare”, “Empirical Data”  e “Sequence Error”, fino a “Kepler”, in un linguaggio narrativo che mette in relazione ambienti e architetture alienanti con situazioni e soggetti immersi in un’atmosfera di sospensione; e  “Corpo a corpo-Body to Body”, con 15 artisti  che esprimono, soprattutto con il mezzo fotografico, l’autodeterminazione della donna, dagli anni ’60 e ’70 al periodo attuale. Dall’apertura delle due mostre sulla scalinata di accesso e nel largo antistante sono collocati i “Leoni”, di Davide Rivalta, come simbolo e metafora allusiva.

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Il “Time is Out of Joint” dell’arte, e i “Leoni” di Rivalta

Una sorta di ideale trilogia espositiva, dunque, nell’intensa attività espositiva della Galleria Nazionale che si sta rilanciando all’insegna del “Time is Out of Joint”,  un “tempo, mondo, natura, fuori squadra, disarticolato, sconnesso” che, nella parole della direttrice Cristiana Collu, “va ricomposto, ‘messo al diritto”,  e questo creando “nuove inaspettate relazioni nello spazio simbolico del museo. Relazioni che non rispondono alle ortodosse e codificate leggi della cronologia e della storia (dell’arte), ma si muovono assolte e svincolate in una sorta di anarchia che… non ha nulla a che vedere con il disordine, ma si appella a qualcos’altro che viene prima delle regole”. 

Di qui la riorganizzazione delle sterminate collezioni che contano circa 20.000 opere, in base a un criterio che “supera la consueta trama cronologica e si dirama in percorsi simultanei in cui le opere sono accostate per assonanze, rimandi e citazioni”.  E gli artisti, dall’800 ai giorni nostri? “Insieme ai grandi nomi della storia dell’arte, le opere di artisti contemporanei italiani e stranieri permettono un’apertura dello sguardo a stimoli e situazioni differenti”.  Questo il risultato atteso: “Rileggendo le opere in situazioni diverse da quelle in cui si erano originariamente formate, si moltiplicano le prospettive e le letture possibili”.

Nell’ambito della mostra permanente dello storico museo così riorganizzata si inseriscono le mostre temporanee, che hanno visto le fotografie e i video, le pitture e le sculture dell’allusivo  “L’intervallo e la durata”, poi l’originale novità del “Beauty Contest”,  l’inedito “concorso di bellezza”  ideato da Paco Cao, tra personaggi femminili e maschili raffigurati nei dipinti selezionati appositamente, e infine la mostra di “Guido Strazza, Ricercare”, un viaggio intrigante nel suo mondo che alla forma e al colore sostituisce, per così dire, il segno, sul quale ha costruito una teoria oltre che una pratica magistrale nell’incisione e in altre forme espressive.

Le due nuove mostre contemporanee sono accompagnate dall’installazione dei “Leoni/Lions” di Davide Rivalta sulla scalinata nella quale campeggia la grande scritta in bianco “Time is Out of Joint”. Sono accoccolati in varie positure, di colore tendente al marrone ma più scuro della realtà che li rende quasi irriconoscibili a distanza dato che la loro presenza, come si legge nella presentazione, “si sottrae alla statuaria: nella visione ravvicinata, infatti, la figura, senza per questo dissolversi, cede il passo al gesto formante, all’evidenza magistrale della somiglianza e si offre come magistrale risultato di un processo in atto”., una “verisimiglianza naturalistica”  nella “sospensione di un istante che mantiene una distanza proprio mentre l’oltrepassa””.

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 “Hic sunt leones”, viene proclamato,  e alla loro presenza viene dato un duplice significato, oltre al riferimento alla storia della Galleria. Il leoni diventano “simbolo e metafora dei territori inesplorati, delle terrae incognitae dell’arte” , che dovranno essere ancora scoperte o resteranno segrete ma custodite, queste ultime forse per alludere allo sterminato giacimento culturale dei depositi con le opere non aperte al pubblico;  e  nello stesso tempo sono l’espressione dell’atteggiamento  richiesto in “un luogo  dove ospitare e abitare l’utopia, dove avere coraggio, energia, forza, sempre all’erta. vigili e pronti allo scatto al di là di ogni mansueta apparenza”. 

“Vaste programme” avrebbe detto De Gaulle,  ma noi confidiamo che venga realizzato.

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 /Uncinematic,  video sull’alienazione e la solitudine

Il titolo della prima mostra della nuova stagione della Galleria Nazionale, “L’intervello e la durata”, potrebbe riassumere in qualche misura le “performance” cinematografiche di George Drivas  che nella mostra curata da Daphne Vitali  vediamo in diverse salette dove vengono  presentati cortometraggi insoliti, con  fotogrammi singoli che però non hanno la fissità dell’immagine fotografica, dato che vengono sostituiti da fotogrammi successivi con i quali, però, non si realizza il movimento ma si dà il senso di una sospensione.

L’intervallo tra un fotogramma e l’altro e la durata della sospensione creano un clima di “suspence”  mentre si cerca di ricostruire mentalmente una storia evocata nel video in modo criptico.  Un esercizio che fa seguire le immagini mettendo alla prova la propria capacità di intuire e collegare.

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E’ un procedimento tecnicamente molto semplice che si basa su un elemento ben noto: l’immagine cinematografica in movimento deriva dalla successione di una serie di fotogrammi singoli, 24-25 al secondo, perciò, prendendone soltanto alcuni,  l’immagine diviene fissa ma, essendo fotogrammi in sequenza intervallata anche se discontinua, si crea, nelle parole dell’autore, “una pausa provocatoria, un dettaglio, un interessantissimo ‘niente'” che viene riempito dall’attesa ansiosa dell’osservatore, tanto più che l’ambiente rappresentato lo merita. “Alla fine tutte le mie opere, afferma Drivas, prendono forma dagli elementi mancanti; traggono il loro significato da quello che non dicono, da quello che non mostrano”.

Non si tratta di un espediente per accrescere la resa spettacolare del filmato, è qualcosa di ben più ambizioso, attiene agli intenti e ai contenuti: “La mia opera sfida il pensiero lineare, l’approccio causa-effetto, la narrazione inizio-sviluppo-fine”. E questo perché “si ferma, riparte, si congela, lascia intervalli aperti  e domande senza risposta. Talvolta non ha un vero inizio o una vera fine”. E, nei contenuti: “E’ una fetta di storia, la parte mancante di un film. Il suo pieno significato risiede nella piena partecipazione dello spettatore, in un certo modo, richiede l’attivazione della creatività dello spettatore. Lo spettatore deve riempire i punti mancanti, porre le domande importanti e dare le risposte”. 

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Ci torna in mente la nostra esperienza giovanile, allorché si entrava nel cinema ad ogni ora, senza porre attenzione all’orario di inizio del film, per cui ci si trovava a sforzarsi di immaginare cosa era avvenuto prima per poter seguire la vicenda che continuava a sciorinarsi sullo schermo senza conoscere le premesse, né riguardo ai personaggi né riguardo alla vicenda, capitava anche di vedere prima il secondo tempo e poi il primo tempo con le conseguenze immaginabili. Si dovevano “riempire i punti mancanti”, ed erano tanti, ci si ponevano “domande importanti”  e si era costretti a “dare le risposte”, come  ci indica oggi Drivas nella sua stimolante provocazione.

La sua opera ha suscitato riflessioni sul rapporto tra fotografia e cinema, e sulle diverse implicazioni che derivano dall’immagine fissa e da quelle in movimento. La curatrice afferma che “l’immagine fissa, a differenza della ‘presenza’ filmica dell’immagine in movimento, è la ‘registrazione’ di qualcosa che appartiene al passato”  e cita il saggio di Roland Bathes  secondo cui  “il cinema, proprio in ragione del movimento, perde la sua relazione con la temporalità dell’immagine fissa”, e l’affermazione di Laura Mulvey che “rallentando diventano visibili momenti e significati chiave che non erano percepibili quando si celavano dietro il flusso narrativo e il movimento del film”.   

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Forse proprio per questo Drivas si definisce non regista o sceneggiatore ma “documentarista”,  e chiama i suoi filmati “documentari” per sottolineare l’aderenza alla realtà anche se poi le nega l’evidenza assoluta: “Che cos’è reale e cosa non lo è? Come possiamo provare la differenza, come possiamo concordare su ciò che è reale, come possiamo capire la documentazione, qualunque cosa significhi?”. La risposta risiede nella consapevolezza dei propri limiti ma anche del proprio potenziale che può consentire di superarli, in modo da poter “comprendere e accettare un fatto, progettare la struttura all’interno della quale ci muoviamo e, in sostanza, esistiamo”.

Ma andiamo ai contenuti delle sue opere documentaristiche, partendo da come sono costruite le sue storie. “I suoi eroi, secondo la Vitali, sono personaggi spersonalizzati, esseri senza passato e senza futuro, senza identità, e spesso senza nome. L’architettura e gli elementi architettonici assumono un ruolo di grande rilevanza, dando forma ai suoi fotogrammi stilizzati”. Il clima che ne deriva è di sospensione, in un’atmosfera di solitudine e spaesamento, in definitiva di alienazione. “Tempo e durata diventano concetti fluidi, persino insignificanti o irrilevanti”.

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Quindi “i suoi film potrebbero essere visti ovunque  e in qualunque momento, nel futuro o nel passato perché trasmettono un sentire futuristico  e. al tempo stesso, retrospettivo”. Sommano, quindi, le caratteristiche opposte attribuite alla visione cinematografica in movimento  e all’immagine fotografica fissa, e del resto il procedimento è a metà, reiterando immagini fisse in sequenza con una progressione incessante.

Ne risulta, osserva Saretto Cirinelli, che non ci troviamo mai né di fronte al cinema-cinema né alle fotografia-fotografia  ma ad una sorta di fusione a freddo dei due”. E aggiunge:  “Grazie alla sua ineluttabile dimensione documentaria l’immagine fotografica,quand’anche proposta in proiezione non duplica il tempo, come fa il cinema, ma lo sospende, lo gela, e nel far ciò, appunto documenta il suo immobile trascorrere… e induce tacitamente l’osservatore a dissolvere la stasi  di ciascuna immagine per supplire a quelle mancanti”. 

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Ciò lo pone in una situazione psicologica di tensione, a prescindere dal motivo. E’ questo il risultato, fermando l’immagine si crea ogni volta la “suspence” che invece nel filmato cinematografico nasce soltanto nei momenti conclusivi o in situazioni chiave; qui l’abbiamo nel normale sviluppo di storie rese criptiche ed enigmatiche ad ogni passaggio di fotogramma del quale si ignora quello immediatamente successivo.

Il  resto lo fanno i protagonisti, definiti prima nel loro carattere misterioso, e gli ambienti: in esterno facciate di grattacieli e grandi edifici in costruzione, di cui i fotogrammi fissi dilatano l’imponenza spesso incombente sui personaggi inermi dinanzi a tali dimensioni smisurate; effetto che negli interni di stazioni o nei vastissimi atri e sale di grandi “corporation”  alimenta la profonda solitudine e l’atmosfera di alienazione.

Il tutto è molto realistico, fa rivivere situazioni personali vissute nelle normali vicende della vita, quando le situazioni ambientali esterne opprimenti hanno la proiezione interiore nel senso di angoscia e spaesamento che prende quando ci si sente soli dinanzi a soggetti ostili. Ci ricordano l’atmosfera opprimente del primo film di Ermanno Olmi, “Il posto”, inizio anni ’60, premio della giuria al Festval di Cannes, con i concorsi e i colloqui, le ansie e le attese dei protagonisti.http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1633f205bd0.jpg

Le misteriose storie metropolitane di /Uncinematic

Sono cortometraggi di lunghezza diversa, i più brevi  “Closed Circuit”   e “Development Plan” durano meno di 5 minuti, il più lungo “Empirical Data”  34′; intermedi  “Beta Test” e “Case Study” , “Sequence Error” e “Kepler” tra i 10′ e i 15′.  Vi sono icastici messaggi di marca prettamente informatica, alcuni con delle conclusioni di ordine manageriale che orientano molto sommariamente sull’intreccio della vicenda, ma se ne può prescindere dando anche diversi significati, non ha rilevanza la storia sottesa alle immagini quanto il clima che le stesse creano.

Il primo, “Closed Circuit”, 1955, riguarda un’indagine su un crimine che viene soltanto immaginato, ma si dichiara che è un caso irrisolto; ciò che si vede sono due individui, un uomo e una donna, prima isolati, poi che si allontanano insieme, fino alla misteriosa scomparsa, forse un amore che degenera nel presunto crimine,  il mistero regna sovrano.

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M intendiamo soffermarci sulla trilogia “Social Software”, realizzata negli anni successivi,  che  ripete situazioni dell’opera precedente e  comprende due storie,  anch’esse con un protagonista maschile e uno femminile, e la storia di una città, Berlino, dove si svolgono le due vicende. Il titolo  evoca il prodotto informatico di comunicazione, si riferisce a una missione per verificare un programma.  

Oltre ai protagonisti sono in grande evidenza gli edifici pubblici, non fanno da sfondo, sono fondamentali nel  creare il clima delle vicende, come osserva la Vitali: “Attraverso la freddezza dell’architettura modernista e la poesia degli spazi vuoti catturati, i personaggi rispecchiano l’incertezza  e la lotta per l’autodeterminazione  e la comunicazione in un agglomerato urbano contemporaneo”.

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La prima storia, “Beta Test”, 2006, mostra due protagonisti  impegnati  nella prova di un software, ma all’inizio sembrano essi stessi sottoposti alla prova e manipolati o almeno osservati, quasi in una inversione dei ruoli con le macchine,  per poi cercare di sottrarsi al controllo riaffermando la propria volontà.  Entrambi con il cappotto, l’uomo il maglione con il collo alto, la donna l’abbottonatura anch’essa stretta al collo, sempre insieme, prima piccole figure in una grande scalinata, poi in ambienti chiusi ristretti, tutti simboli legati all’evoluzione della storia, pur misteriosa.

Di “Case Study”, 2007,  ricordiamo immagini di scale mobili della stazione,  poi il sottopassaggi e l’atrio, fino all’esterno con una figura di donna sola, un cappotto scuro sempre nell’ombra. Nessun’altra persona intorno e neppure sullo sfondo, evento raro nelle stazioni, quindi significativo, è come se dai due personaggi della prima storia si passasse ad uno solo per qualche motivo.

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Questa dissolvenza si completa nella terza parte, “Development Plan”, 2009, nessuna figura umana, ma immagini di grandi caseggiati, facciate imponenti, viali deserti delimitati da alti edifici,  in primi paini e campi lunghi, quasi a voler giustapporre la riqualificazione urbana a quella personale.

Accostiamo all’ultima storia “Kepler”, 2014, pur riguardando la città di Tiblis in Georgia e non Berlino,  perché presenta altre immagini di grandi edifici, di un progetto urbano  controverso,  e riguarda l’ambiente e il rischio tossico, per questo prende nome dall’ultimo pianeta scoperto  che potrebbe essere abitato, oltre ai caseggiati immagini inquietanti di armadi con reperti nei liquidi.

Per ultime, anche se precedenti,  abbiamo lasciato “Empirical data”, 2006, e “Sequence error”, 2011, perché fanno sentire  la solitudine e l’alienazione dell’individuo indifeso nell’ambiente ostile, in questo casi quello dell’accoglienza e delle grandi “corporation”.

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In “Empirical data” viene seguito un  georgiano immigrato in Grecia nelle difficili fasi del suo inserimento e dei tentativi di integrazione. Vediamo lunghe sequenza su un ponte, con un accompagnatore, finché lo saluta, e si allontana, sempre  sul ponte che sottolinea la sua solitudine; dalla solitudine al gelo della “receptionist”  che lo attende seduta a un tavolo, e alla “suspence” dei successivi incontri valutativi di vari “formati”, con tre persone intorno a un tavolo, poi a tu per tu  con uno di loro in un buio angosciante, fino all’uscita seguita da una presentazione a una platea. I messaggi informatici parlano di parametri, comportamento e vigilanza, fino a concludere sembra con valutazione positiva sulla capacità di collaborazione.

“Sequence Error” utilizza il termine informatico che indica l’errore di sistema quando gli elementi di una sequenza non seguono l’ordine prestabilito per definire ben altra crisi di sistema, quella che porta l’azienda ai licenziamenti sovvertendo la normale regolarità del suo sistema interno.  Vediamo la scena in cui il dirigente comunica la notizia a un certo numero di dipendenti seduti intorno a tavolo, poi  il singolo dinanzi alla commissione ristretta, fino al singolo solo con se stesso in un’attesa sconsolata. Un gelo maggiore di quello visto prima intorno all’immigrato georgiano.

Ma le storie sono secondarie, ciò che conta, sottolinea la Vitali,  è “la narrazione di spazi urbani deserti, che sottolineano la solitudine, l’incertezza e l’ansia,  come nei film neorealisti italiani. Inoltre, l’alienazione nelle opere  non  si manifesta soltanto in ambienti urbani esterni, ma anche in  ambienti interni. Gli elementi architettonici possono simboleggiare sentimenti muti: in particolare, le pareti illustrano la capacità (o l’incapacità) dei personaggi di stabilire relazioni reciproche”.

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Abbiamo cercato di illustrarlo, come abbiamo cercato di rendere la più generale peculiarità della forma espressiva basata sul fermo immagine in sequenze fisse ma provviste di una loro dinamica, terreno sul quale si era mosso Andy Warhol nel suo “Empire”  ma con modalità diverse,  riprese  a camera fissa di soggetti statici.

La migliore conclusione crediamo possano essere le parole di Drivas  su questo suo procedimento innovativo: “Basati su immagini fisse, i miei film procedono e si bloccano allo stesso tempo, raccontano una storia e interrompono la narrazione ogni volta. Funzionano come intero, come un’unità singola, quando in realtà sono costituiti da frammenti, da piccole parti e da dettagli.”.  Con questi effetti: “Ogni mio lavoro si sviluppa lungo due direzioni: da un lato la linearità , la narrazione, il racconto di qualcosa che procede e che si sviluppa, dall’altro l’irreale, la pausa, il dimenticarsi di come andrà a finire, congelati nel momento fotografato” .  In altri termini: “Una ‘lentezza velocizzata’ simile al non-ritmo dei sogni, una rapidità percepita in maniera quasi ipnotica, cosicché il tempo e la durata diventino quasi irrilevanti…”.

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 “Corpo a corpo, Body to Body”, di scena l’autodeterminazione femminile

La seconda mostra, curata da Paola Ugolini,  contemporanea a “/Uncinematic”,  ripercorre il cammino dell’autodeterminazione femminile,  attraverso le opere di 15 artisti nelle diverse fasi in cui il processo si è manifestato, dagli anni ’60-’70 al presente .

Ma prima di accennare  a tali contributi, va rilevato che la forma espressiva comune è quella che utilizza il  linguaggio del corpo, la cosiddetta “Body Art”, diffusasi all’inizio degli anni ’60 dopo gli happening della fine degli anni ’50  in America con John Cage e il suo allievo  Allan Kaprow e in Giappone con il gruppo Gutai. Il collegamento è costituito dal comportamento, preso come elemento centrale, prima negli happening, poi nella traduzione artistica,  ma soggetto protagonista e comunque canale del comportamento è il corpo.

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La “Body Art” comprende una serie di espressioni artistiche diverse, e a questo riguardo va ricordato che  la sua diffusione avviene allorché i confini tra le varie forme tendono a cadere fino ad una fusione delle diverse arti, anzi si parla addirittura  di sparizione dell’opera di tipo tradizionale, quadro e scultura, per assumere il corpo come strumento espressivo. L’inscindibilità tra arte e vita, alla base degli happening ricordati ma in effetti già di matrice dannunziana, viene  considerata anche come riferimento della Body Art.    

In questo quadro è naturale che il tema dell’autodeterminazione della donna venga espresso attraverso immagini in cui il corpo è protagonista, con scene anche di quotidianità personale o familiare, con sottolineature a particolari considerati significativi se non emblematici.

Negli anni 1960-70, la disparità tra uomo e donna era vistosa,  anche in campo artistico la loro presenza nelle grandi rassegne espositive era esigua, ancora nel 1975 Ketty  La Rocca scriveva alla critica americana  Lucy Lippardi che “ancora, in Italia, essere una donna e fare il mio lavoro è di una difficoltà incredibile”.  Su questa condizione  di  netta inferiorità  della donna in campo sociale  si esercitano le opere di Marina Abramovic con Ulay e Sanja  Ivakovic, Ketty La Rocca e Gina Pane, Suzanne Santoro e Francesca Woodman.

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Lo strumento prescelto è soprattutto quello fotografico, insieme a forme performative, viene ricordato che sin dai primi anni ’60 le artiste se ne servirono “per continuare lo scardinamento del linguaggio e dei mezzi espressivi classici e sottolinearne l’inadeguatezza”, mentre il linguaggio veniva considerato inadatto ad esprimere stati d’animo particolarmente complessi.

Una lotta che porta a indubbi risultati, dagli anni  70 la situazione va cambiando positivamente, sulla spinta femminista si ha la riappropriazione del corpo con l’autodeterminazione e la libertà sessuale, in campo artistico viene rivendicata maggiore apertura e qualcosa si muove, sempre più rapidamente. L’arte diventa strumento “esteticamente e socialmente efficace allo stesso tempo”, come affermava  Lucy Lippard, aggiungendo che era caratterizzata “da un elemento di divulgazione e da un bisogno di connessione di là dal procedimento e dal prodotto”.

Le opere esposte che riflettono questa fase di positivo riequilibrio di posizioni sono delle artiste dell’ultima generazione, la coppia formata da Eleonora Chiari e Sara Goldschmied,  Chiara Fumai e Silvia Giambrone, Valentina Morandi e Alice Schivardi  , fino al collettivo artistico con sede a Parigi di Claire Fontaine.  Il linguaggio è quello della destrutturazione visiva, con fotografie, collage e video, e resta il più adatto ad esprimere sentimenti e concetti difficili da rendere con altri mezzi espressivi dell’arte, compreso il linguaggio. D’altra parte, per contemperare  le ragioni dell’estetica con quelle della politica sono questi gli strumenti artistici che risultano  più adeguati.

Ci sono anche due testimonianze artistiche maschili. quasi a voler dimostrare che le donne non sono state lasciate sole nella battaglia per vedersi riconoscere la parità di diritti, ed è stato giusto ricordarlo. Sono Claudio Abate, con due fotografie molto diverse, le persone sono accoccolate ai margini di una vastissima sala, forse una palestra, oppure si muovono in piedi su una piccola piattaforrma, e Tomaso Binga, che con “Alfabetiere pop”, 1977, presenta i cartelloni per il primo apprendimento dei bambini con inseriti piccoli corpi femminili nudi nelle posizioni più varie, spesso acrobatiche, nell’illustrazione delle parole “dado” ed “erba”, “imbuto” e “luna”, “rosa” e “uva”, “vaso” e “zappa”: l’innocenza infantile, quindi, di fronte a evocazioni tutte da interpretare, comunque tormentate.

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Visitando la galleria soprattutto fotografica ci si immerge nella quotidianità e nelle altre situazioni con le quali viene resa la lotta per l’emancipazione. In altre mostre di alcuni anni fa è stata illustrata l’evoluzione nel ruolo della donna, nei più diversi settori della società e momenti storici; questa volta l’angolatura è diversa, squisitamente artistica, con la denuncia degli abusi che vorremmo relegati al passato, purtroppo i  ricorrenti femminicidi sono continua fonte di sgomento e di orrore.

Renate Bertlmann presenta una sequenza, “Deflorazione in 14 stazioni”, 1977, in cui il linguaggio del corpo si manifesta con  fotogrammi di gesti rapidi e violenti, e anche un riquadro molto diverso, “Verwanlungen”, 1969 (stampa 2013) con 149 volti femminili in altrettante acconciature con espressioni pensose. Gina Pane  con “Azione sentimentale, 1973, usa il linguaggio del corpo in sequenze multiple molto movimentate e inquiete, mentre Ketty La Rocca  con “Le mie parole e tu”, 1974, ci presenta il linguaggio delle mani in una breve sequenza fotografica, come tutte le altre in bianco e nero. Abbiamo anche le sequenze newyorkesi del 1976 di Francesca Woodman,  “Lighting Legs. Providence. Rhode Islands” , due gambe nude in primo piano in ambiente degradato, e “Senza Titolo. N. Y.

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Si torna nel colore e soprattutto nella tradizione con Alice Schivardi, “Ero figlia unica. Tutti con me e me con voi”, 2011-17, non più una sequenza di gesti ma una serie di fotografie staccate e indipendenti a colori da album di famiglia collegate dall’immagine di una placida vita familiare, tutti insieme appassionatamente in posa in montagna, in giardino,  e perfino sul grande letto matrimoniale”. E’ come se dopo tanta lotta per l’emancipazione si sia ritrovato il rifugio nella famiglia e nell’amicizia, la data recentissima potrebbe far pensare alla conclusione tranquilla di un percorso tormentato. 

Ma non manca, nello stesso periodo, una visione più problematica, come quella di Goldschmied & Chiari, “Dispositivi di “; mentre per la trasgressione vediamo il video di 5’44″i del 1977 di Valentina  Miorandi, “Moments of Pleasure“, un primissimo piano della bocca femminile con  le labbra  riprese in verticale in modo molto esplicito in due posizioni: teneramente socchiuse e invitanti, ma poi aperte fino a mostrare la dentatura in una aggressività da femminismo militante.

A parte queste sommarie citazioni, l’arte rivela ancora la sua capacità di incidere positivamente sui mali della società, lo abbiamo visto, tra l’altro, con le denunce artistiche di “Violenza in Colombia” e “Abu Grahib” di Botero, una parentesi drammatica della sua placida e beata visione artistica. Anche questa è una positiva conferma che riceviamo da questa mostra.

 Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFreccia  di Trenitalia.  Catalogo “/Uncinematic. George Drivas”, a cura di Daphne Vitali, La Galleria Nazionale, 2007, pp. 136, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Cfr. i nostri articol: in questo sito, sulle precedenti mostre della nuova stagione nella Galleria Nazionale,  “Beauty Contest” 30 marzo 2017, “Strazza”  11 marzo 2017, “L’intervallo e la durata” 1° ottobre 2016; e sugli artisti citati, “Botero” 2, 4, 6 giugno 2017 e 25 marzo 2016,  “Warhol”  15 e 22 settembre 2014; in cultura.inabruzzo.it sulla mostra “Le donne che hanno fatto l’Italia” 16 gennaio 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  direzione della Galleria Nazionale, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 18 immagini riguardano “/Uncinematic” di George Drivas, riprese, in particolare, dai filmati “Case Study”, “Empirical Data” e “Sequence Error” con fotogrammi fissati dal fermo immagine per poi abbozzare un movimento subito fermato, si sente solitudine e alienazione nelle sequenze con uomo o donna soli, in due casi insieme, in più il clima angoscioso  dei colloqui aziendali; le successive  4 immagini sono della mostra“Corpo a corpo- Body to Body”, riprendono, in particolare, le opere di Renate Bertlmann, “Deflorazione in 14 immagini” 1977, seguita da Ketty La Rocca, “La mia parola e tu” 1974, e Gina Pane, “Azione sentimentale”1973; infine, una delle foto di Alice Schivardi, “Essere figli tutti con me e me con tutti” 2011-17; in chiusura, Davide Rivalta, “Leoni”  2917 dinanzi all’ingresso monumentale della Galleria Nazinale.

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