Ventrone, nella mostra “Matrix” le sue nature morte, ad Amelia

di Romano Maria Levante

Ad Amelia (Terni),  nell’ex Collegio Bocciarini, originariamente collegio francescano del XIII-XIV secolo, la mostra “Luciano Ventrone . Matrix. Oltre la realtà”, presenta, dal 19 novembre 2017 al 25 febbraio 2018, un’antologica di 30 dipinti dal 1990 al 2017, insieme alla collezione archeologica del Museo tra cui la statua bronzea del generale romano Germanico e l’ara di Dioniso del I sec. a. C. La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura Città di Amelia, e organizzata dall’Associazione Archivi Ventrone in collaborazione con Sistema Museo, è  a cura di Cesare Buasini Selvaggi che ha curato anche il Catalogo di Carlo Cambi Editore.   

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Una presentazione inconsueta quella della mostra di Ventrone. In un palazzo nobiliare romano Vittorio Sgarbi ne ha parlato in un incontro nel quale ha sciorinato i suoi ricordi e i suoi giudizi, rispetto all’artista e non solo. La presentazione è stata pirotecnica, come si può immaginare. L’artista  è nato a Roma e vive e lavora tra Roma e Collelongo, presso L’Aquila.

Ha esposto per la prima volta in una personale a Roma nel 1963alla galleria “Il Fanale”, in tutto ne abbiamo contate 75, di cui circa 25 all’estero, tra Oslo e Colonia, San Pietroburgo e Mosca, Londra e Shanghai, New York e Tokyo. Lemostre collettive con la sua partecipazione superano le 200, precisamente 205. La bibliografia è sterminata. I maggiori critici hanno scritto sui suoi cataloghi, citiamo solo Federico Zeri e Vittorio Sgarbi, Duccio Trombadori e Achille Bonito Oliva.

I giudizi di Vittorio Sgarbi e Federico Zeri

Ciò premesso, per una brevissima presentazione, chi è Ventrone per Sgarbi, che ha curato una sua mostra alla Mole Antonelliana di Ancona nel lontano 1999, e poi a Como   nel 2010, oltre a scrivere di lui nl catalogo  della mostra di Brindisi del 2001? Un “ostinato genetista , specializzato in nature morte di solare evidenza”. E’ un genere antico che l’artista, senza volerlo emulare, rinnova  facendone “un’impressione universale del mondo”. 

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Ma non è “iperrealismo” come si potrebbe credere per la nitidezza della composizione in cui “il rombo cromatico dell’immagine si rifrange contro il compatto silenzio del fondo nero”. Non lo è  perché non deforma nel mentre riproduce la visione fotografica. “La materia di Ventrone è impalpabile, trasparente come se fosse illuminata da dietro, più vicina alla diapositiva che alla fotografia”.Non è la riproduzione meccanica della realtà, perché si presenta “con una costante deformazione anamorfica e un’implacabile freddezza che denuncia la provenienza ‘concettuale’ della sua operazione”, La sua pittura, quindi, non è una mera derivazione dalla pittura classica e si può definire “pittura colta” che ha anche un “grande riscontro di interesse popolare”.

Dopo il giudizio del “presentatore” della mostra, è d’obbligo quello di Federico Zeri che dal 1983 si è interessato a Ventrone  dopo aver letto un articolo di Antonello Trobadori e gli ha suggerito di dedicarsi al tema delle “nature morte”, poi ne ha curato una mostra a Londra nel 1989 e scritto di lui nei cataloghi delle mostre del 1990 e 1992 a Roma e Brindisi. Per Zeri le nature morte di Ventrone “non sono prese direttamente dalla realtà oggettiva, ma dalla  sua riscoperta compiuta attraverso il meccanismo ottico della fotografia”.

Del resto, la nostra percezione è largamente filtrata da media visivi oltre che fotografici. “Nel lavoro di Ventrone questo filtro non è né abolito né ignorato; al contrario viene accentuato, ed è d’aiuto per raggiungere una riscoperta della trasparenza, della densità”, in modo da “rimanere in armonia con un ambiente che non è più quello tradizionale, ma quello alterato dalle macchine”.Anche Zeri parla dell’ “iperrealismo”, nel senso che se “le sue radici risiedono nel periodo, ormai sorpassato, dell’iperrealismo, è evidente che oggi i suoi lavori siano in grado di superarlo ampiamente e, quindi di evitarne le insidie”, in questo collima, a sorpresa, con Sgarbi.

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Il giudizio del curatore Cesare Biasini Selvaggi

Il curatore della mostra Cesare Biasini Selvaggi, che ha scritto di lui nei cataloghi delle mostre di Londra e Mosca del 2004, dopo aver esteso il concetto di bellezza dai canoni estetici  a qualcosa di più profondo, afferma che “osservando le sue opere appare subito evidente come l’artista abbia mirato più all’interiorità, nonostante esiti formali dall’apparente verisimiglianza fotografica”.  E spiega come Ventrone riesca a rivelare “la bellezza interiore, ‘sottocutanea’, che va all’essenza stessa delle cose”. 

Lo studioso vi trova un riflesso della “psicologia della forma”, la Gelstad, che prese piede all’inizio del XX secolo in Germania, secondo cui mentre i sensi trasmettono le sensazioni, la mente le organizza componendole in un “tutto”, quindi con un ruolo attivo e non una funzione passiva.  Seguendo questo processo di natura sensoriale, per l’artista “è di vitale importanza decostruire per ricostruire, conseguendo così un nuovo accesso al mondo e un’inedita visione della sua bellezza”. Ventrone lo ottiene con “la sfaccettatura dei piani e la loro disposizione secondo un ordine dettato da esigenze compositive”, ricomponendo la realtà dopo averne individuato con precisione quasi microscopica le singole parti. “Il risultato è come un’immagine riflessa in uno specchio, i cui frammenti riflettono porzioni dell’immagine da diverse angolazioni, ma che riescono a comporsi lo stesso nel nostro occhio per farci capire qual è la cosa riflessa dallo specchio in frantumi”. 

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Non si pensi a duplicazioni alla Warhol o artifici del genere, il risultato è non solo assolutamente figurativo ma tale da poter essere accomunato ai grandi capolavori classici delle “nature morte”, si pensi alla  “Canestra di frutta” di Caravaggio, la citiamo perché le opere di Ventrone sono per lo più cesti o vasi con frutta o fiori,  a parte quelli su ruderi antichi ai quali fa riferimento il sindaco di Amelia, Laura Pernazza, sottolineando il “silenzioso e nobile ‘dialogo’ tra i dipinti di Luciano Ventrone e i reperti archeologici della storia amerina”. Si  riferisce alla esposizione parallela in mostra, ma anche all’ispirazione che ne ha tratto dagli inizi degli anni ’80, li vediamo in 4 opere esposte del 1990-91.  “Nel suo universo dunque, commenta il sindaco, il passato non si rinnega, si studia, si vive, si racconta, si cita. Comunque si supera”. Eccome se si supera, il curatore addirittura si riferisce a quanto di più attuale ci sia, i “pixel”.   Perché l’artista ha usato la fotografia digitale, e prima quella analogica, come “punto di partenza, dal quale decorre l’astrazione del soggetto, che si priva del suo essere materia per divenire un reticolo pulviscolare dalle fattezze di punti luce e colore”. I “pixel”, colori codificati non visibili, riesce a coglierli successivamente “con la pittura raggiungendo il massimo grado di astrazione concettuale”.  Questo “senza, tuttavia, cedere mai alle lusinghe della letteratura e del sentimento”.

Ricordiamo che Sgarbi ha parlato di “provenienza concettuale” e di “pittura colta”, e Duccio Trombadori parla di “prova di oratorio”, della stessa “incorruttibilità di una memoria elettronica”, perfino di “gara con la cibernetica”.

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Altri giudizi di critici, da Bonito Oliva a Duccio Trombadori

Speculare  a tutto questo il giudizio di Achille Bonito Oliva, che ha scritto di lui sin dal 1997-98 in due cataloghi per le mostre di Bologna e Shanghai.Il critico, senza entrare nel processo compositivo che ha portato ad evocare la tecnologia fino alla cibernetica, considera quella di Ventrone una battaglia “contro la tridimensionalità cosmetica e cinetica della telematica” mediante “l’uso non feticistico, ma eticamente strumentale, del trompe-l’oeil”. La pittura, e in particolare la natura morta, dell’artista dà “la possibilità di ristabilire nell’uomo un tempo di sosta, di riflessione che la telematica tende a sottrarre con la sua capacità di soddisfare i ‘bisogni’ a distanza”.

Troviamo una concordanza con gli altri giudizi nella considerazione che “l’arte di Ventrone è investigazione, domanda, complicazione” e non semplice riproduzione quasi fotografica della realtà, come potrebbe sembrare a prima vista  “Natura da camera versus telematica” conclude Bonito Oliva, nel senso che “per Ventrone l’arte significa riaprire la camera, riportare l’uomo nello spazio problematico di una conoscenza senza fine”.

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Non è eccessivo questo giudizio, se dopo la Gelstad  citata dal curatore, troviamo la “Stilleben” nel commento di Paolo dell’Elce “, nel fatto che l’artista, “toccando i temi ontologici della presenza  e del visibile, muove da un astrattismo puramente formale degli inizi per approdare, negli anni Novanta, a un astrattismo concettuale”, così concorda con i giudizi dei primi due critici citati, ma parla anche di “deriva iperrealista”, Ponendo l’attenzione sulle “angurie spaccate e le melograne aperte” il critico lo lega al divenire, che va anche oltre il significato simbolico, ripensiamo ai frutti aperti nelle “nature morte” di Botero per sottolineare “il mistero della presenza delle cose”, in un senso esistenziale definito “più complesso”.

 Le immagini sono “trasfigurate esteticamente in una luce cruda e inquisitoria da ‘terzo grado'” per rivelare “ogni minimo dettaglio della dimensione esistenziale dell’oggetto”;  anzi, più che rivelare, per far “spalancare gli occhi”  su ciò che altrimenti non vediamo “per colmare quella distanza che ci separa, in quanto individui umani, da ciò che non siamo e non conosciamo”, Una eco dello “spazio problematico di una conoscenza senza fine” di Bonito Oliva. E questo va oltre la mera “restituzione della ‘vita silenziosa” della realtà quotidiana conosciuta superficialmente.

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Edward Lucie-Smith ha scitto di lui nei cataloghi per le mostre di Londra del 2006e 2008, 2013 e 2014, Montreal del 2012, New York e San Pietroburgo del 2010. In particolare afferma che  “le nature morte di Ventrone sono oggetti per la contemplazione, e offrono il tipo di passaggio verso gli stati contemplativi che prima erano solo di una pertinenza dell’arte religiosa”. Ma non viene negata la matrice tecnologica, anzi si afferma che l’artista crea “una fusione tra antiche credenze e magia tecnologica moderna” in senso metafisico, “parlano di unità con la natura”.

Invece Roberto Tassi definisce la sua “l’operazione più semplice cui un pittore si possa dedicare” e cita Caravaggio e gli infiniti pittori che si sono cimentati con le nature morte, ricordiamo la mostra che è stata  dedicata a questo tema alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Tale operazione consiste nello scegliere i frutti, ortaggi e fiori, metterli su un tavolo o in un cestino o un vaso, illuminarli e dipingerli, “lentamente, faticosamente”. E precisa: “Tutto questo è semplice, sostenuto solo dalla testarda umiltà di un poeta. Ma, come sappiamo ormai, non è semplice il significato”, per il contrasto tra le frutta e i vegetali con “il colore e la freschezza del momento, dell’attimo, del presente quotidiano” e gli accessori, specie se si tratta di un capitello antico, come quello nelle opere citate di Ventrone, che “contiene racchiuso entro la sua forma il sentimento del tempo”.Il critico parla anche del senso di profondità dato dalla “nera parete” che fa da sfondo alla maggior parte delle sue nature morte , come fosse uno “spazio del nulla”, ma “prelevato dalle profondità dei cieli”; e della luce, che “non è luce naturale né mentale, sembra venire da un diverso mondo o essere prodotta da un faro misterioso”..

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Abbiamo già accennato alla definizione di “prova di laboratorio” con riferimento all’elettronica di Duccio Trombadori, nel senso di “calligrafia quasi elettronica” ottenuta con “un insieme di partiture fredde con millimetriche armonie di nature silenti che sbocciano dal meccanismo ottico in cromatismi differenziati”. Ricordiamo che De Chirico ebbe a definire “nature silenti” e non “nature morte” le proprie composizioni sul tema, e ripensiamo ai “pixel” citati dal curatore in una collimante interpretazione.

Trombadori va ancora oltre nel descrivere il “bagno di luce ultranaturale” in cui la natura morta è immersa: “Il quadro si presenta come la gigantografia di una miniatura elaborata al microscopio per la piatta monocromia dei suoi fondi e per il punto di vista ravvicinato fin quasi alla forzatura del cono ottico”. E afferma: “A Ventrone piace vivisezionare la luce che mangia o produce il colore”. ,  La sua è una “micrometrica ricostruzione del dato di  natura” attraverso la superficie dipinta, il contorno e il fluire della luce, e “in questo passaggio fotoelettrico la percezione della assoluta relatività di spazio e tempo conta assai più del disegno per determinare il trionfo dei colori”.Il tiolo dato dal critico al suo commento è eloquente, “Il Mistero della Evidenza”.

I “mille pennelli” di Ventrone descritti da Sergio Zavoli

I  critici citati finora hanno sottolineato una serie di aspetti della pittura di Ventrone, alcuni riferendosi alla tecnologia anche nei suoi aspetti specialistici, altri al cromatismo e alla luce, chi ha parlato di complessità chi di semplicità.

Sergio Zavoli, autore di testi per i cataloghi delel mostre di Bologna del 2004 e New Yrg del 2008,  ha un approccio diverso, con cui chiudiamo questa carrellata di giudizi da parte di autorevoli critici. Parla di una sua visita all’atelier del pittore a Collelongo vicino L’Aquila, tra cavalletti e tavolozze, colori e soprattutto pennelli.  Definisce “rarità quasi sovrana il numero, la foggia, la misura dei pennelli. In un batter d’occhio ne vedi alcune centinaia e non mi stupirei se fossero mille e più ancora. Sono tutti in fila, dai piccolissimi ai piccoli, ai grandi”. Ci sono anche quelli in disuso che “continuano a vivere alla pari degli altri, come tante presenze sottilmente totemiche”.

Non ci sentiamo di omettere la loro descrizione, tanto è pittoresca, se si può usare questo aggettivo: “Sono esili, soffici, fino a diventare folti  e compatti ed essere un pennello vero  e proprio, d’artista, da usare a braccio fermo, con tre dita soltanto, come una piuma o un bisturi”. Ed evoca il gioco dello “Shangay” con la raggiera di pennelli sul tavolo: “Bisogna vedere con quale ritualità si svolge la scelta del pittore, e dopo l’uso l’abbandono, senza dubbio, un pentimento, una nostalgia”.

Dopo le “nature morte”, vive anche se “silenti”, vivono anche i pennelli, e vive la composizione illuminata da una luce che, nelle parole di Tassi, “blocca, candisce, tormenta, cristallizza e congela quella frutta, quelle foglie, quelle verdure”; e nelle parole di Trombadori, “luce e colore assumono unità in una forma armonica e omogenea, all’improvviso riconoscibile e familiare per lo spettatore”.

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Le  nature morte esposte in mostra, per lo più con frutti, alcune con fiori 

Dopo tanti giudizi critici, passiamo in rapida rassegna le opere esposte:  9 al piano terra del Museo, 7 delle quali recenti e 2 dei primi anni ’90 con i vegetali poggiati sui reperti archeologici dell’antica Ameria;  20 dipinti recenti ai piani superiori dove sono in vista anche i reperti archeologici con iscrizioni funerarie di illustri famiglie armerine tra cui la Gens Roscia di cui parla Cicerone.

Il titolo della mostra, “Matrix”, con il suo riferimento alla matrice che genera, allude, come indicano gli organizzatori, a “una sorta di realtà simulata dagli atomi che organizzano ogni cosa intorno a noi, nel mondo fisico o in natura”. Per questo motivo i soggetti delle composizioni “non vanno visti come tali, ma astrattamente, nella traduzione pittorica della loro struttura atomico-molecolare”. Ne deriva che “per la loro comprensione è richiesta prima un’osservazione ravvicinata, quasi da microscopio, per poi allontanarsi dai dipinti. Prendendone le distanze”.

Soltanto per mettersi alla distanza giusta, dato che non si possono prendere le distanze in senso lato da opere che quanto abbiamo riportato dei giudizi dei critici d’arte rende quanto mai intriganti.

Notiamo che tutte hanno dei titoli ben precisi, nessuna quello generico di “natura morta”,  e questo prova i contenuti profondi evocati da qualche critico, le dimensioni vanno da 60 x 50 a 100 x 100. Le prime 4 sono le più lontane nel tempo, dal 1990 al 1992,  intitolate “Quella luce di Amelia” e  “L’altra luce di Amelia”, “Moon light” e “L’ora felice”, recano bene in vista il rudere funerario di pietra con ampie volute sul quale è poggiata frutta con ortaggi, in 3 di loro spicca il rosso della fetta di cocomero sbocconcellata. Sono tutte con lo sfondo nero.

Troviamo le natura morte con frutta anche su sfondo chiaro, e non sembra esista una correlazione con il contenuto della composizione. Infatti le ciliegie le vediamo con lo sfondo chiaro in un vaso di vetro nell’opera “Voci“, 2015, e con lo sfondo scuro quasi nero in un cestino in  “Coerenza geometrica”, 2015-17. 

Neppure il contenitore della frutta è alla base della scelta dello sfondo perché ha lo sfondo scuro lo stesso vaso di vetro delle ciliegie, ora pieno di uva debordante nell’opera “Accordi”, 2015.  Ugualmente  per il cestino che invece delle ciliegie contiene noci, castagne e noccioline  in “Forme nella luce”, 2017. Così, sfondo chiaro nel cestino con l’uva di “Bacco”, 2009, e in quello con limoni e arance, alcune delle quali aperte,  di “Universi”, 2012-17, nel cestino colmo di  uva e arance, pere e mele con un pomodoro in “Ombre impalpabili“, 2017,  e in quello con uva e arancia aperta, una fragola e due nespole  in “Senza stagioni”, 2017;  lo sfondo scuro in “Memorie”, 2014-17 con uva e una fragola, metà arancia e un melograno aperto, motivo ricorrente, come si è detto. 

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Dai vasi di vetro e dai cestini ai vasi istoriati, ce ne sono 3 con delicate volute celesti, in “Assonanze”, 2015, i soliti uva e mela, metà melograno e un pomodoro;  negli altri due, entrambi intitolati “Antichi sapori” e datati 2011-17, soltanto mele di diversa intonazione cromatica, sempre molto sfumata nella rotondità dei pomi. C’è anche un cestino metallico a strisce alternate ad aperture, contiene solo due limoni e un grande melograno aperto, è intitolato “Diversi”, 2017.

Sono senza contenitori, cosa che consente di dispiegare i frutti e vegetali sull’intero fronte del dipinto,  le  altre composizioni.  Distese su una roccia con sfondo chiaro le cipolle di “Scaramanzia”, 2012-14, e con sfondo scuro i tanti piccoli frutti con la  metà aperta di un enorme frutto, sembra un melone,  in “Senza motivo apparente”, 2017; distese su una tela di sacco appena visibile l’uva e le fragole, la mela e la solita metà arancia in “Riposo”, 2011-16            .

Nessun supporto invece, neppure minimo,  in “Amalfi”, 2011-17, solo limoni, una diecina, di cui 4 aperti in primo piano su sfondo chiaro, e in “Falò”, 2009, con metà cocomero e intorno fette sbocconcellate su fondo scuro, il titolo evoca l’incendio cromatico.Altrettanto incendiari “Le sorelle”, e “Atomi successivi”, del 2015, questa volta è il melograno su sfondo scuro a sprigionare i suoi bagliori di un rosso brillante, nel primo due melograni aperti in primo piano e uno dietro, nel secondo il frutto è squadernato aperto  e mostra i chicchi della sua “balausta” in tutta l’estensione del dipinto come una gigantografia materica.

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Fin qui i frutti, ma ci sono anche 7 dipinti con i fiori, uno solo senza contenitore: si tratta di “Le mimose”, 2016, su fondo nero sono frammiste a fiori rosa e arancio prevalenti.

Altri 6 dipinti con un contenitore, in 3 di essi il vaso ha  rilievi classici: Vi sono rose rosse e rosa, gialle e bianche in “Musica latente”, 2012.17, e in “Note di colore”, 2014-17; anche in “Linea di pensiero”, 2013-14, ma qui il contenitore, sempre con rilievi classici,  è cilindrico e non svasato come gli altri due., “Musica” e “Linea di pensiero” sono su sfondo chiaro, gli altri su sfondo scuro.

Stesse rose in “Regine e reginelle”, 2015, e “Urbe”, 2015-6, mentre in “Dedalo”, 2015, solo fiori rosa e bianchi, queste tre opere hanno vasi diversi senza rilievi e lo sfondo scuro.

 La realtà tangibile che sembra immaginaria

Che dire, in conclusione? Non possiamo nascondere che  ci sono tornati in mente i  dipinti con uguale tema visti nella mostra dei 2014 al Vittoriano di Orlando Ricci, scomparso il 14 luglio 2016,  definiti “iperrealisti”. Chiameremmo così anche i dipinti di Ventrone  se per lui il discorso non fosse più complesso, come si è visto. Ma sentiamo in quei frutti  e in quei fiori la stessa impressionante evidenza visiva iperrealistica.

Nell’ammirarli,  una forza ci spinge  a prendere in mano il grappolo d’uva, come avveniva quando guardavamo quelli di Ricci. Ci ferma l’interrogativo posto dal curatore: “Chi mi assicura, a questo punto, che ciò che vedo esista, oltre che nella mia testa come idea, anche nella realtà”.

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Info

Museo Civico Archeologico e Pinacoteca “Edilberto Rosa”, Piazza A. Vera 10, Amelia (TR). Venerdì, sabato, domenica e festivi, ore 10,00-13,30 e 15,00-18,00, prefestivi 15,00-18,00. Infoline 348.9726993, call center Sistema Museo 199.151.123. Catalogo bilingue italiano-inglese “Luciano Vetrone. Matrix. Oltre la realtà”, a cura di Cesare Biasini Selvaggi, Carlo Cambi Editore, 2017, pp. 96, formato 24 x 28, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo., Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli: in questo sito, su Botero, 2, 4, 6 giugno 2017 e 25 marzo 2016,  Warhol  15 e 22 settembre 2014, De Chirico 20 e 26 giugno 2013, 17 e 21 dicembre 2016,  Caravaggio 27 maggio 2016, 6 giugno 2013,  Ricci, 27 giugno 2014; in cultura.inabruzzo.it, su  De Chirico 8, 10, 11 luglio 2010,  Caravaggio 8, 11 giugno e 21, 22, 23 gennaio 2010  (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito); a stampa in “Metafisica” della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, n.ro 11-13 del 2013, pp. 403-18 “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”

Foto

Le immagini sono  tratte dal Catalogo, si ringraziano gli organizzatori della mostra e l’Editore, con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta. In apertura, “Universi”, 2012-17; seguono, “Accordi”,  e “Ombre impalpabili”, 2017;  poi “Voci”, 2015, e “Bacco”, 2009; quindi, “Forme nella luce”, 2017, e “Musica latente”, 2012-1; inoltre,”Coerenza geometrica”, 2915-17, e “Regine e reginelle”, 2015; ancora, “Memorie”, 2014-17, e “Dedalo”, 2015; infine, “Senza motivo apparente”, 2017, Le sorelle”, 2015, e “Generosa 2”, 2014; in chiusura, “Falò”, 2009.  

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