Il “Soft Power” in una ricerca di Civita sulla seduzione della cultura

di Romano Maria Levante

All’Aula  Ottagona del Museo Nazionale Romano nelle Terme di  Diocleziano a Roma, il 23 novembre 2017 è stato presentato il rapporto “Il Soft Power dell’Italia”,  di Giuliano da Empoli, promosso dall’Associazione Civita presieduta da Gianni Letta, presente alla manifestazione, con il contributo della BNL, in un dibattito,  moderato dal Vice Presidente  vicario dell’associazione Nicola Maccanico, cui hanno partecipato, oltre all’autore,  Luigi Abete, CEO dell’Italian Entertainmen Network, Nicola Trussardi presidente della Fondazione omonima, e Matteo Renzi, segretario del Partito Democratico.  Abbiamo notato la direttrice del Museo, prima del dibattito,  illustrare la straordinaria visione sotterranea delle antiche rovine sotto il vetro di parte del pavimento illuminato per l’occasione,  una dimostrazione pratica del  “Soft Power”.   Il dibattito è stato interessante, ma per la novità del tema ci riferiremo soltanto al contenuto del rapporto. 

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Cos’è il “Soft Power”

“Soft Power”,  un ossimoro tra due termini contrapposti, il potere  non è “soft” morbido, ma “hard”, duro. In questo caso, però,  si parla del “potere di seduzione”  come ebbe a dire il creatore del termine e non solo,  Joseph Nye,  precisando che “il potere non risiede necessariamente nel  partner più forte, ma nella chimica dell’attrazione”. Questo nelle relazioni sentimentali, ma cos’è il “Soft Power” che ci interessa? Giuliano da Empoli lo spiega così: “In modo analogo, il Soft Power di un paese misura la sua capacità di attrazione sugli altri, l’influenza che è in grado di esercitare non attraverso le risorse quantificabili della forza militare o di quella economica, bensì attraverso la sua cultura, i suoi principi, il suo stile”.

La capacità di attrazione segue i percorsi più diversi, e supera ogni ostacolo, com’è avvenuto con la caduta della “cortina di ferro”,  secondo quanto scrive Reinhold Wagnleitner nel suo “The Empire of Fun”: “Per quanto importanti siano stati il potere militare  e la promessa politica nel porre le basi del successo americano nell’Europa della guerra fredda, è stato il fascino economico e culturale a conquistare veramente il cuore e le menti di gran parte dei giovani in favore della democrazia occidentale”. E, in modo ancora più diretto, quasi beffardo: “Ogni volta che è entrato in scena il consumismo reale, il comunismo reale ha dovuto fare un passo indietro”.  Viene ricordata anche la sarcastica domanda di Stalin, “Quante divisioni ha il Papa?” per sottolinearne la colpevole sottovalutazione, sin da allora, del “Soft Power” del Pontefice, che si rivelerà così efficace nel papa polacco da sconfiggere senza armi le divisioni sovietiche.

Viene ricordato come il cupo dittatore della Corea del nord tema più le chiavette USB che diffondono i disincantati serial televisivi americani in antitesi  alla sua propaganda, che il bottone atomico ostentato da Trump: chi sta diffondendo queste chiavette tra la popolazione dalla sua residenza di Seul, Kang Chol-hwan, nemico  numero uno del regime nordcoreano, ha detto: “Quando i nostri contenuti avranno raggiunto il 70, 80 per cento della popolazione il regime nordcoreano non avrà più alcuna possibilità di sopravvivere”.  

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 Le componenti del “Soft Power”

Il  “Soft Power”  di un paese ha tre componenti, nell’impostazione di Nye:  la cultura, i suoi valori e come sono percepiti, le sue politiche a livello internazionale.  Ma attenzione, lui stesso in un approfondimento successivo ha precisato: “Il Soft Power non è una forma di idealismo  o di liberalismo. E’ semplicemente una forma di potere, un modo di ottenere gli scopi desiderati”. Il potere inteso in senso tradizionale ha sempre cercato di coartare per asservirle le espressioni libere e ideali, compresa l’arte, nel caso del “Soft Power” invece l’arte ne è una componente, come parte della cultura e dei valori.

La cultura e i valori di un paese non hanno bisogno di essere spiegati, sono il patrimonio accumulato in secoli di storia, tradizioni  e di arte, ma deve essere comunicato ed oggi vi sono canali impensabili per la loro diffusione a livello mondiale, ma proprio per questo non basta possederli, occorre saperli trasmettere.

Avviene lo stesso nel campo delle politiche internazionali, a differenza del passano non passano più soltanto per i canali ufficiali, bensì coinvolgono altri attori, “dai rappresentanti delle Ong fino a interi settori delle opinioni pubbliche nazionali”, e non ci si rivolge più alle algide rappresentanze diplomatiche, o alle autorità costituite di altri paesi, ma “direttamente alle opinioni pubbliche , con messaggi fatti per coinvolgere e convincere”. Questo allargamento senza confini della comunicazione ha un nome, “public diplomacy”.

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Viene definita la “battaglia della comunicazione e del Soft Power”,  prevalere è “più importante che vincere una guerra”  con le armi perché una tale vittoria è effimera,  come dimostrano le vicende belliche americane dopo l’attacco dell’11 settembre che ha fatto tagliare gli investimenti nel  “Soft Power” a vantaggio degli armamenti, senza risolvere i problemi che le avevano generate, anzi spesso aggravandoli. Mentre le notevoli spese in “Soft Power” negli anni della Guerra fredda hanno segnato la fine dell’Unione Sovietica.

Abbiamo detto che non basta avere il patrimonio di cultura e di valori su cui si basa il “Soft Power”, si deve anche saper comunicare, e questo richiede investimenti. E per investire risorse adeguate occorre porre obiettivi precisi, per il “Soft Power” ne vengono indicati  quattro.

Il primo è la ricerca dell’influenza  all’estero, che ha portato i maggiori paesi, e anche l’Italia, a creare una rete di Istituti di cultura nel mondo. Segue immediatamente la promozione economica, in particolare delle Industrie culturali e creative, anche con finalità che vanno oltre tale settore costituendo un richiamo  per le esportazioni in generale, per gli investimenti dall’estero e il turismo  Gli altri due obiettivi riguardano la promozione della pace e del dialogo interculturale contro i fanatismi, e la tutela delle diversità culturali che restano una ricchezza anche e soprattutto nel mondo globalizzato.

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Le misure e le classifiche del “Soft Power”, Cina e Russia in basso

Quelle fin qui riportate sembrerebbero affermazioni generiche. Tutt’altro, si tratta di una visione molto chiara,  al punto che dal 2010 sono stati costruiti strumenti  in grado di misurare il “Soft Power” dei singoli paesi.  Lo si è fatto inizialmente aggregando alcuni  indicatori,  dal numero dei turisti a quello degli studenti stranieri, dall’export culturale  ai risultati sportivi,  dalla stabilità delle istituzioni alla rete diplomatica.  Di recente è stato messo a punto un metodo  più raffinato dallo stesso Joseph Nye, l’ideatore del “Soft Power” ,  basato su 75 parametri di 6 categorie,  “Government”  sulle libertà democratiche e la stabilità delle istituzioni ed “Education” sull’università e gli studenti stranieri,  “Enterprise”  sul sistema economico e l’innovazione e  “Culture”  su industrie culturali, turisti esteri e risultati sportivi,  “Engagement”  sulla proiezione internazionale e “Digital” sulle connessioni di Internet anche nella pubblica amministrazione.

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Le misure del “Soft Power”  hanno portato a tre classifiche che vedono tutte nei primi 4 posti  USA, Germania e Regno Unito, con la Francia tra il !° e il 5°, l’Italia all’11° posto, inferiore alla posizione che occupa nelle classifiche sul PIL, in cui occupa il 6° posto, regressione sorprendente se si considera che nel nostro paese si stima risieda  il 70%  del patrimonio artistico mondiale e sul piano culturale l’Italia sia tra i primi paesi, fattori questi basilari per il “Soft Power” ma non sufficienti perché, come si è detto, è cruciale la comunicazione. Del resto,  una “retrocessione” di questo tipo, per lo stesso motivo,  si nota anche nel turismo dove siamo indietro a paesi molto meno attrattivi del nostro rispetto ai pregi ambientali, storico-artistici e culturali. Anche qui è un problema di impegno attivo nella promozione dell’immagine, con i relativi investimenti,  nella competizione nulla avviene  automaticamente, occorre conquistarlo.

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Troviamo  molto in basso la posizione della Cina,  che la classifica di Nye pone al 28° posto e le altre due  tra il 17° e il 20°;  e della Russia,  al 26°-27° posto nelle varie classifiche.

Per la Cina,  a prima vista la posizione sorprende, perché è  il paese il cui Presidente , Hu Jintao,  ha introdotto ufficialmente il “Soft Power”  nel dibattito politico nel 2011, insieme allo “sviluppo culturale”, e in precedenza lo aveva posto al centro del dibattito pubblico da anni; ed è il paese che nel 2004 lanciò un vasto piano di diffusione all’estero di “Istituti Confucio”, tipo British Council”, ne son  stati creati 500 che diventeranno 1000 entro il 2020. La spiegazione si trova nell’immagine oppressiva  della Cina di Mao, da rimuovere dopo che all’assolutismo politico del governo comunista autoritario è stato associato il capitalismo di mercato e l’apertura all’estero con presenze massicce nei vari continenti, perfino con l’acquisizione di celebri squadre di calcio. Alla salvaguardia dei diritti individuali contrappone la tutela della dimensione collettiva, non contrastando le autorità dei paesi di penetrazione, come quelli africani,  anche se oppressive, quindi senza le ingerenze politiche che invece compiono i paesi occidentali per salvaguardare i diritti umani ed esportare la democrazia.

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Sorprende anche la posizione ugualmente arretrata della Russia che ha sempre investito nel “Soft Power”,  cercando di far leva sull’essere stata decisiva nella sconfitta del nazismo e sull’essere il “paradiso” dei lavoratori, ma dovendo scontare l’oppressione non solo all’interno ma anche sui paesi del blocco sovietico, dal muro di Berlino  ai carri armati su Budapest e Praga per spegnere le “primavere” di libertà.  Dal 2012 con Putin,  dalla poco convincente difesa  del modello russo, si è passati al tentativo di demolire il modello americano anche con “fake news”, il tutto veicolato da una comunicazione sempre più capillare  e  invasiva che si avvale di una serie di media , compresi i  “social network” più avanzati. Questo rovesciamento fa pensare a una sorta di “Soft Power” negativo che si affianca al “Soft Power” positivo dell’autocelebrazione.

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Il “Soft Power” dell’Europa in generale e dei suoi paesi in cima alla classifica

La posizione dell’Europa nel “Soft Power” mostra anch’essa aspetti paradossali al punto di essere definita “vaso di coccio” tra Stati Uniti e Russia nonostante le  sue forti radici culturali che dovrebbero renderla leader in questo campo. Ma forse la consapevolezza delle  identità che racchiude al suo interno, tanto forti quanto potenzialmente antagoniste,  l’ha portata a rinunciare a un’unità di valori fondata sui sogni e le passioni, per ridursi alla dimensione tecnica  e burocratica, a cui Da Empoli dedica queste eloquenti parole:  “Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: una macchina poderosa ma senz’anima che s’inceppa ad ogni imprevisto ; laddove a colpire non è tanto – o non solo – l’ignavia dei governanti quanto l’indifferenza dei popoli”.   

Questo crea il paradosso della sua posizione di inferiorità   verso gli Stati Uniti, il primo paese esportatore e il quinto importatore di prodotti culturali, laddove  l’Europa è il primo importatore mondiale, soprattutto dagli Usa, e soltanto il secondo esportatore.. Con la crisi economica si sono avuti “tagli e riforme”, i primi nelle risorse dedicate, i secondi nell’organizzazione di strutture nei singoli paesi creati in epoche ben diverse, con altre esigenze.   La dimensione è nazionale, ai vari paesi ci si deve dunque riferire.

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E allora di particolare interesse ci sembra la “Soft Power” di Germania, Francia e Regno Unito, Brexit a parte,  perché, come si è rilevato in precedenza, sono ai primissimi posti  nelle relative classifiche.

La Francia è il paese che ha puntato maggiormente sul “Soft Power” per mantenere l’immagine nel mondo che nel XVIII secolo aveva fatto del francese la lingua internazionale almeno della diplomazia e della  aristocrazia. E lo ha fatto  con reti di promozione culturale all’estero che richiedono notevoli investimenti,  è il paese la cui spesa pro-capite  in questo campo è la più alta al mondo:  citiamo solo 150 “Instituts Francais” e 1000 sedi dell’Alliance Francaise, 400 scuole e licei per l’estero, emittenti radiofoniche e televisive che trasmettono in molte lingue, con forme di coordinamento pubblico di recente aggiornate.

Anche il Regno Unito ha una  rete capillare di presenza all’estero con il “British Council”, presente in 150 paesi e 230 città del mondo, per dispensare, oltre all’insegnamento della lingua – che avviene anche attraverso a la miriade di scuole sorte spontaneamente nel mondo per far apprendere la   lingua divenuta internazionale – anche un’immagine di creatività nelle arti, in letteratura e nel design, e la promozione degli studi in patria. A ciò si aggiunge il World Service della BBC con 200 milioni di ascoltatori in 28 lingue, fino al 2014 finanziato dal Foreign Office,  poi inserito nel canone della BBC.

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Il terzo paese ai primi posti nelle classifiche sul “Soft Power”, la Germania, ha dovuto scontare il passato asservimento della politica culturale alle esigenze del  regime nazista, per cui la Repubblica Federale ha privato giustamente la promozione culturale  di ogni connotato politico.  Tra le strutture a ciò dedicate, spicca il “Goethe Institut”,  assimilabile al “British Council” per struttura e funzioni, insegna la lingua e promuove la cultura tedesca  in 75 paesi e 130 città del mondo;  ci sono anche 142 scuole tedesche in 72 paesi nei vari continenti, oltre alla rete radiofonica “Deutsche Welle”, che trasmette in 30 lingue in  60 paesi e un  servizio televisivo ” All News” in tedesco e inglese, spagnolo e arabo.

Tra gli altri paesi  la Spagna si segnala per essere all’11-12° ° posto delle classifiche, vicina all’Italia,  la sua rete di presenza all’estero è abbastanza recente, l'”Istituto Cervantes”  con 54 sedi in 20 paesi è stato creato nel 1991, la sua peculiarità è di promuovere la cultura ispanica, con mezzo miliardo di persone di madre lingua in 22 paesi,  e non solo quella spagnola in senso stretto. Per la comunicazione  abbiamo il canale satellitare della televisione pubblica  con più di 15 milioni di abbonati nell’America Latina e Radio Exterior, rivolta alle ex colonie africane e al Mediterraneo in genere, in francese  e inglese, arabo ed ebraico, portoghese e russo.  Per il resto soltanto la Svizzera e i Paesi Scandinavi  hanno reti di istituti culturali all’estero, anche se molto più ridotte di quelle citate, e promuovono iniziative culturali significative.

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Siamo giunti così a quello che il rapporto definisce “il sistema italiano di ‘Soft Power'”. Ha radici antiche che purtroppo si sono logorate nel tempo per l’illusione di poter vivere di rendita sul patrimonio artistico e culturale accumulato. Nel “Grand Siecl”, 1550-150, si affermò il “modello Itallia”, non più come fenomeno di élite ma di massa, come ha scritto ammirato lo storico Francese Braudel parlando di “splendore dopo lo splendore”  perché il predominio culturale seguì quello finanziario.

Il Rapporto, nel citarlo, dà questa spiegazione:”L’egemonia culturale italiana non si sviluppa solo perché il nostro paese continua a sfornare geni e capolavori. Ma anche – e forse soprattutto – perché in quel periodo il Bel Paese inventa l’industria culturale”. Vengono creati a Roma i Musei Vaticani, a Firenze la prima Accademia di Belle Arti, a Venezia il primo Teatro dell’opera per il pubblico, l’Italia diventa un polo di attrazione per gli stranieri. . “E’ questo il punto decisivo. La capacità di far leva sul patrimonio per reinventare il proprio ruolo nel mondo. Non da custodi. Da innovatori. Da imprenditori. E perché no, da maestri”.  Seguendo l’insegnamento di Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero”.

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Ma non basta l’inventiva e la carica innovativa: “Perché si trasformi in Soft Power è necessario un ingrediente ulteriore, le istituzioni”. E proprio le istituzioni furono protagoniste nel “Grand Siecl”, a loro si deve la creazione di sedi dedicate all’arte e alla cultura,  a loro la capacità di attrarre i visitatori da ogni patte proiettando all’esterno un’immagine in cui la cultura e l’arte si univano ai pregi storici e ambientali, di qui il “Grand tour”  in Italia, che era il fiore all’occhiello dell’élite europea.

Com’è diventato il “sistema Italia” dopo i fasti del “Grand Siecl”  lo vedremo prossimamente, insieme ai possibili rimedi che vengono indicati per valorizzare le nostre potenzialità inespresse e “reinventare”, quindi, il “Soft Power” oggi decaduto..   

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Info 

Giuliano da Empoli, “Soft Power dell’Italia”,  ricerca di Civita, Marsilio Editore, maggio 2017. pp. 112, formato 19 x 29; dal  libro sono state tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà  pubblicato in questo sito il 15 febbraio p. v. Cfr. anche, in questo sito, i 2 articoli sul III Rapporto di Civita  “L’arte di produrre Arte – Competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo” a cura di Pietro Antonio Valentino, che usciranno il 14 e 18 febbraio p. v.

Foto

La prima immagine è la fotografia scattata da Romano Maria Levante alla Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano durante l’incontro, con Matteo Renzi e Luigi Abete al centro, Giuliano da Empoli all’estrema destra. Mentre le altre immagini rappresentano alternativamente copertine di libri e avvisi vari sul “soft power” nel mondo: sono tratte da vari siti web, che si ringraziano per l’opportunità offerta. Precisiamo che sono state inserite  ritenendole di pubblico dominio, ma qualora fossero soggette a copyright e comunque i titolari dei siti ne chiedessero la rimozione,  saranno immediatamente eliminate trattandosi di mere illustrazioni senza valore di un resoconto che non ha finalità nè risvolti di ordine economico, comemrciale e pubblicitario.

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di Romano Maria Levante

All’Aula  Ottagona del Museo Nazionale Romano nelle Terme di  Diocleziano a Roma, il 23 novembre 2017 è stato presentato il rapporto “Il Soft Power dell’Italia”,  di Giuliano da Empoli, promosso dall’Associazione Civita presieduta da Gianni Letta, presente alla manifestazione, con il contributo della BNL, in un dibattito,  moderato dal Vice Presidente  vicario dell’associazione Nicola Maccanico, cui hanno partecipato, oltre all’autore,  Luigi Abete, CEO dell’Italian Entertainmen Network, Nicola Trussardi presidente della Fondazione omonima, e Matteo Renzi, segretario del Partito Democratico.  Abbiamo notato la direttrice del Museo, prima del dibattito,  illustrare la straordinaria visione sotterranea delle antiche rovine sotto il vetro di parte del pavimento illuminato per l’occasione,  una dimostrazione pratica del  “Soft Power”.   Il dibattito è stato interessante, ma per la novità del tema ci riferiremo soltanto al contenuto del rapporto. 

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Cos’è il “Soft Power”

“Soft Power”,  un ossimoro tra due termini contrapposti, il potere  non è “soft” morbido, ma “hard”, duro. In questo caso, però,  si parla del “potere di seduzione”  come ebbe a dire il creatore del termine e non solo,  Joseph Nye,  precisando che “il potere non risiede necessariamente nel  partner più forte, ma nella chimica dell’attrazione”. Questo nelle relazioni sentimentali, ma cos’è il “Soft Power” che ci interessa? Giuliano da Empoli lo spiega così: “In modo analogo, il Soft Power di un paese misura la sua capacità di attrazione sugli altri, l’influenza che è in grado di esercitare non attraverso le risorse quantificabili della forza militare o di quella economica, bensì attraverso la sua cultura, i suoi principi, il suo stile”.

La capacità di attrazione segue i percorsi più diversi, e supera ogni ostacolo, com’è avvenuto con la caduta della “cortina di ferro”,  secondo quanto scrive Reinhold Wagnleitner nel suo “The Empire of Fun”: “Per quanto importanti siano stati il potere militare  e la promessa politica nel porre le basi del successo americano nell’Europa della guerra fredda, è stato il fascino economico e culturale a conquistare veramente il cuore e le menti di gran parte dei giovani in favore della democrazia occidentale”. E, in modo ancora più diretto, quasi beffardo: “Ogni volta che è entrato in scena il consumismo reale, il comunismo reale ha dovuto fare un passo indietro”.  Viene ricordata anche la sarcastica domanda di Stalin, “Quante divisioni ha il Papa?” per sottolinearne la colpevole sottovalutazione, sin da allora, del “Soft Power” del Pontefice, che si rivelerà così efficace nel papa polacco da sconfiggere senza armi le divisioni sovietiche.

Viene ricordato come il cupo dittatore della Corea del nord tema più le chiavette USB che diffondono i disincantati serial televisivi americani in antitesi  alla sua propaganda, che il bottone atomico ostentato da Trump: chi sta diffondendo queste chiavette tra la popolazione dalla sua residenza di Seul, Kang Chol-hwan, nemico  numero uno del regime nordcoreano, ha detto: “Quando i nostri contenuti avranno raggiunto il 70, 80 per cento della popolazione il regime nordcoreano non avrà più alcuna possibilità di sopravvivere”.  

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 Le componenti del “Soft Power”

Il  “Soft Power”  di un paese ha tre componenti, nell’impostazione di Nye:  la cultura, i suoi valori e come sono percepiti, le sue politiche a livello internazionale.  Ma attenzione, lui stesso in un approfondimento successivo ha precisato: “Il Soft Power non è una forma di idealismo  o di liberalismo. E’ semplicemente una forma di potere, un modo di ottenere gli scopi desiderati”. Il potere inteso in senso tradizionale ha sempre cercato di coartare per asservirle le espressioni libere e ideali, compresa l’arte, nel caso del “Soft Power” invece l’arte ne è una componente, come parte della cultura e dei valori.

La cultura e i valori di un paese non hanno bisogno di essere spiegati, sono il patrimonio accumulato in secoli di storia, tradizioni  e di arte, ma deve essere comunicato ed oggi vi sono canali impensabili per la loro diffusione a livello mondiale, ma proprio per questo non basta possederli, occorre saperli trasmettere.

Avviene lo stesso nel campo delle politiche internazionali, a differenza del passano non passano più soltanto per i canali ufficiali, bensì coinvolgono altri attori, “dai rappresentanti delle Ong fino a interi settori delle opinioni pubbliche nazionali”, e non ci si rivolge più alle algide rappresentanze diplomatiche, o alle autorità costituite di altri paesi, ma “direttamente alle opinioni pubbliche , con messaggi fatti per coinvolgere e convincere”. Questo allargamento senza confini della comunicazione ha un nome, “public diplomacy”.

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Viene definita la “battaglia della comunicazione e del Soft Power”,  prevalere è “più importante che vincere una guerra”  con le armi perché una tale vittoria è effimera,  come dimostrano le vicende belliche americane dopo l’attacco dell’11 settembre che ha fatto tagliare gli investimenti nel  “Soft Power” a vantaggio degli armamenti, senza risolvere i problemi che le avevano generate, anzi spesso aggravandoli. Mentre le notevoli spese in “Soft Power” negli anni della Guerra fredda hanno segnato la fine dell’Unione Sovietica.

Abbiamo detto che non basta avere il patrimonio di cultura e di valori su cui si basa il “Soft Power”, si deve anche saper comunicare, e questo richiede investimenti. E per investire risorse adeguate occorre porre obiettivi precisi, per il “Soft Power” ne vengono indicati  quattro.

Il primo è la ricerca dell’influenza  all’estero, che ha portato i maggiori paesi, e anche l’Italia, a creare una rete di Istituti di cultura nel mondo. Segue immediatamente la promozione economica, in particolare delle Industrie culturali e creative, anche con finalità che vanno oltre tale settore costituendo un richiamo  per le esportazioni in generale, per gli investimenti dall’estero e il turismo  Gli altri due obiettivi riguardano la promozione della pace e del dialogo interculturale contro i fanatismi, e la tutela delle diversità culturali che restano una ricchezza anche e soprattutto nel mondo globalizzato.

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Le misure e le classifiche del “Soft Power”, Cina e Russia in basso

Quelle fin qui riportate sembrerebbero affermazioni generiche. Tutt’altro, si tratta di una visione molto chiara,  al punto che dal 2010 sono stati costruiti strumenti  in grado di misurare il “Soft Power” dei singoli paesi.  Lo si è fatto inizialmente aggregando alcuni  indicatori,  dal numero dei turisti a quello degli studenti stranieri, dall’export culturale  ai risultati sportivi,  dalla stabilità delle istituzioni alla rete diplomatica.  Di recente è stato messo a punto un metodo  più raffinato dallo stesso Joseph Nye, l’ideatore del “Soft Power” ,  basato su 75 parametri di 6 categorie,  “Government”  sulle libertà democratiche e la stabilità delle istituzioni ed “Education” sull’università e gli studenti stranieri,  “Enterprise”  sul sistema economico e l’innovazione e  “Culture”  su industrie culturali, turisti esteri e risultati sportivi,  “Engagement”  sulla proiezione internazionale e “Digital” sulle connessioni di Internet anche nella pubblica amministrazione.

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Le misure del “Soft Power”  hanno portato a tre classifiche che vedono tutte nei primi 4 posti  USA, Germania e Regno Unito, con la Francia tra il !° e il 5°, l’Italia all’11° posto, inferiore alla posizione che occupa nelle classifiche sul PIL, in cui occupa il 6° posto, regressione sorprendente se si considera che nel nostro paese si stima risieda  il 70%  del patrimonio artistico mondiale e sul piano culturale l’Italia sia tra i primi paesi, fattori questi basilari per il “Soft Power” ma non sufficienti perché, come si è detto, è cruciale la comunicazione. Del resto,  una “retrocessione” di questo tipo, per lo stesso motivo,  si nota anche nel turismo dove siamo indietro a paesi molto meno attrattivi del nostro rispetto ai pregi ambientali, storico-artistici e culturali. Anche qui è un problema di impegno attivo nella promozione dell’immagine, con i relativi investimenti,  nella competizione nulla avviene  automaticamente, occorre conquistarlo.

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Troviamo  molto in basso la posizione della Cina,  che la classifica di Nye pone al 28° posto e le altre due  tra il 17° e il 20°;  e della Russia,  al 26°-27° posto nelle varie classifiche.

Per la Cina,  a prima vista la posizione sorprende, perché è  il paese il cui Presidente , Hu Jintao,  ha introdotto ufficialmente il “Soft Power”  nel dibattito politico nel 2011, insieme allo “sviluppo culturale”, e in precedenza lo aveva posto al centro del dibattito pubblico da anni; ed è il paese che nel 2004 lanciò un vasto piano di diffusione all’estero di “Istituti Confucio”, tipo British Council”, ne son  stati creati 500 che diventeranno 1000 entro il 2020. La spiegazione si trova nell’immagine oppressiva  della Cina di Mao, da rimuovere dopo che all’assolutismo politico del governo comunista autoritario è stato associato il capitalismo di mercato e l’apertura all’estero con presenze massicce nei vari continenti, perfino con l’acquisizione di celebri squadre di calcio. Alla salvaguardia dei diritti individuali contrappone la tutela della dimensione collettiva, non contrastando le autorità dei paesi di penetrazione, come quelli africani,  anche se oppressive, quindi senza le ingerenze politiche che invece compiono i paesi occidentali per salvaguardare i diritti umani ed esportare la democrazia.

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Sorprende anche la posizione ugualmente arretrata della Russia che ha sempre investito nel “Soft Power”,  cercando di far leva sull’essere stata decisiva nella sconfitta del nazismo e sull’essere il “paradiso” dei lavoratori, ma dovendo scontare l’oppressione non solo all’interno ma anche sui paesi del blocco sovietico, dal muro di Berlino  ai carri armati su Budapest e Praga per spegnere le “primavere” di libertà.  Dal 2012 con Putin,  dalla poco convincente difesa  del modello russo, si è passati al tentativo di demolire il modello americano anche con “fake news”, il tutto veicolato da una comunicazione sempre più capillare  e  invasiva che si avvale di una serie di media , compresi i  “social network” più avanzati. Questo rovesciamento fa pensare a una sorta di “Soft Power” negativo che si affianca al “Soft Power” positivo dell’autocelebrazione.

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Il “Soft Power” dell’Europa in generale e dei suoi paesi in cima alla classifica

La posizione dell’Europa nel “Soft Power” mostra anch’essa aspetti paradossali al punto di essere definita “vaso di coccio” tra Stati Uniti e Russia nonostante le  sue forti radici culturali che dovrebbero renderla leader in questo campo. Ma forse la consapevolezza delle  identità che racchiude al suo interno, tanto forti quanto potenzialmente antagoniste,  l’ha portata a rinunciare a un’unità di valori fondata sui sogni e le passioni, per ridursi alla dimensione tecnica  e burocratica, a cui Da Empoli dedica queste eloquenti parole:  “Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: una macchina poderosa ma senz’anima che s’inceppa ad ogni imprevisto ; laddove a colpire non è tanto – o non solo – l’ignavia dei governanti quanto l’indifferenza dei popoli”.   

Questo crea il paradosso della sua posizione di inferiorità   verso gli Stati Uniti, il primo paese esportatore e il quinto importatore di prodotti culturali, laddove  l’Europa è il primo importatore mondiale, soprattutto dagli Usa, e soltanto il secondo esportatore.. Con la crisi economica si sono avuti “tagli e riforme”, i primi nelle risorse dedicate, i secondi nell’organizzazione di strutture nei singoli paesi creati in epoche ben diverse, con altre esigenze.   La dimensione è nazionale, ai vari paesi ci si deve dunque riferire.

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E allora di particolare interesse ci sembra la “Soft Power” di Germania, Francia e Regno Unito, Brexit a parte,  perché, come si è rilevato in precedenza, sono ai primissimi posti  nelle relative classifiche.

La Francia è il paese che ha puntato maggiormente sul “Soft Power” per mantenere l’immagine nel mondo che nel XVIII secolo aveva fatto del francese la lingua internazionale almeno della diplomazia e della  aristocrazia. E lo ha fatto  con reti di promozione culturale all’estero che richiedono notevoli investimenti,  è il paese la cui spesa pro-capite  in questo campo è la più alta al mondo:  citiamo solo 150 “Instituts Francais” e 1000 sedi dell’Alliance Francaise, 400 scuole e licei per l’estero, emittenti radiofoniche e televisive che trasmettono in molte lingue, con forme di coordinamento pubblico di recente aggiornate.

Anche il Regno Unito ha una  rete capillare di presenza all’estero con il “British Council”, presente in 150 paesi e 230 città del mondo, per dispensare, oltre all’insegnamento della lingua – che avviene anche attraverso a la miriade di scuole sorte spontaneamente nel mondo per far apprendere la   lingua divenuta internazionale – anche un’immagine di creatività nelle arti, in letteratura e nel design, e la promozione degli studi in patria. A ciò si aggiunge il World Service della BBC con 200 milioni di ascoltatori in 28 lingue, fino al 2014 finanziato dal Foreign Office,  poi inserito nel canone della BBC.

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Il terzo paese ai primi posti nelle classifiche sul “Soft Power”, la Germania, ha dovuto scontare il passato asservimento della politica culturale alle esigenze del  regime nazista, per cui la Repubblica Federale ha privato giustamente la promozione culturale  di ogni connotato politico.  Tra le strutture a ciò dedicate, spicca il “Goethe Institut”,  assimilabile al “British Council” per struttura e funzioni, insegna la lingua e promuove la cultura tedesca  in 75 paesi e 130 città del mondo;  ci sono anche 142 scuole tedesche in 72 paesi nei vari continenti, oltre alla rete radiofonica “Deutsche Welle”, che trasmette in 30 lingue in  60 paesi e un  servizio televisivo ” All News” in tedesco e inglese, spagnolo e arabo.

Tra gli altri paesi  la Spagna si segnala per essere all’11-12° ° posto delle classifiche, vicina all’Italia,  la sua rete di presenza all’estero è abbastanza recente, l'”Istituto Cervantes”  con 54 sedi in 20 paesi è stato creato nel 1991, la sua peculiarità è di promuovere la cultura ispanica, con mezzo miliardo di persone di madre lingua in 22 paesi,  e non solo quella spagnola in senso stretto. Per la comunicazione  abbiamo il canale satellitare della televisione pubblica  con più di 15 milioni di abbonati nell’America Latina e Radio Exterior, rivolta alle ex colonie africane e al Mediterraneo in genere, in francese  e inglese, arabo ed ebraico, portoghese e russo.  Per il resto soltanto la Svizzera e i Paesi Scandinavi  hanno reti di istituti culturali all’estero, anche se molto più ridotte di quelle citate, e promuovono iniziative culturali significative.

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Siamo giunti così a quello che il rapporto definisce “il sistema italiano di ‘Soft Power'”. Ha radici antiche che purtroppo si sono logorate nel tempo per l’illusione di poter vivere di rendita sul patrimonio artistico e culturale accumulato. Nel “Grand Siecl”, 1550-150, si affermò il “modello Itallia”, non più come fenomeno di élite ma di massa, come ha scritto ammirato lo storico Francese Braudel parlando di “splendore dopo lo splendore”  perché il predominio culturale seguì quello finanziario.

Il Rapporto, nel citarlo, dà questa spiegazione:”L’egemonia culturale italiana non si sviluppa solo perché il nostro paese continua a sfornare geni e capolavori. Ma anche – e forse soprattutto – perché in quel periodo il Bel Paese inventa l’industria culturale”. Vengono creati a Roma i Musei Vaticani, a Firenze la prima Accademia di Belle Arti, a Venezia il primo Teatro dell’opera per il pubblico, l’Italia diventa un polo di attrazione per gli stranieri. . “E’ questo il punto decisivo. La capacità di far leva sul patrimonio per reinventare il proprio ruolo nel mondo. Non da custodi. Da innovatori. Da imprenditori. E perché no, da maestri”.  Seguendo l’insegnamento di Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero”.

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Ma non basta l’inventiva e la carica innovativa: “Perché si trasformi in Soft Power è necessario un ingrediente ulteriore, le istituzioni”. E proprio le istituzioni furono protagoniste nel “Grand Siecl”, a loro si deve la creazione di sedi dedicate all’arte e alla cultura,  a loro la capacità di attrarre i visitatori da ogni patte proiettando all’esterno un’immagine in cui la cultura e l’arte si univano ai pregi storici e ambientali, di qui il “Grand tour”  in Italia, che era il fiore all’occhiello dell’élite europea.

Com’è diventato il “sistema Italia” dopo i fasti del “Grand Siecl”  lo vedremo prossimamente, insieme ai possibili rimedi che vengono indicati per valorizzare le nostre potenzialità inespresse e “reinventare”, quindi, il “Soft Power” oggi decaduto..   

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Info 

Giuliano da Empoli, “Soft Power dell’Italia”,  ricerca di Civita, Marsilio Editore, maggio 2017. pp. 112, formato 19 x 29; dal  libro sono state tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà  pubblicato in questo sito il 15 febbraio p. v. Cfr. anche, in questo sito, i 2 articoli sul III Rapporto di Civita  “L’arte di produrre Arte – Competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo” a cura di Pietro Antonio Valentino, che usciranno il 14 e 18 febbraio p. v.

Foto

La prima immagine è la fotografia scattata da Romano Maria Levante alla Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano durante l’incontro, con Matteo Renzi e Luigi Abete al centro, Giuliano da Empoli all’estrema destra. Mentre le altre immagini rappresentano alternativamente copertine di libri e avvisi vari sul “soft power” nel mondo: sono tratte da vari siti web, che si ringraziano per l’opportunità offerta. Precisiamo che sono state inserite  ritenendole di pubblico dominio, ma qualora fossero soggette a copyright e comunque i titolari dei siti ne chiedessero la rimozione,  saranno immediatamente eliminate trattandosi di mere illustrazioni senza valore di un resoconto che non ha finalità nè risvolti di ordine economico, comemrciale e pubblicitario.

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All’Aula  Ottagona del Museo Nazionale Romano nelle Terme di  Diocleziano a Roma, il 23 novembre 2017 è stato presentato il rapporto “Il Soft Power dell’Italia”,  di Giuliano da Empoli, promosso dall’Associazione Civita presieduta da Gianni Letta, presente alla manifestazione, con il contributo della BNL, in un dibattito,  moderato dal Vice Presidente  vicario dell’associazione Nicola Maccanico, cui hanno partecipato, oltre all’autore,  Luigi Abete, CEO dell’Italian Entertainmen Network, Nicola Trussardi presidente della Fondazione omonima, e Matteo Renzi, segretario del Partito Democratico.  Abbiamo notato la direttrice del Museo, prima del dibattito,  illustrare la straordinaria visione sotterranea delle antiche rovine sotto il vetro di parte del pavimento illuminato per l’occasione,  una dimostrazione pratica del  “Soft Power”.   Il dibattito è stato interessante, ma per la novità del tema ci riferiremo soltanto al contenuto del rapporto. 

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Cos’è il “Soft Power”

“Soft Power”,  un ossimoro tra due termini contrapposti, il potere  non è “soft” morbido, ma “hard”, duro. In questo caso, però,  si parla del “potere di seduzione”  come ebbe a dire il creatore del termine e non solo,  Joseph Nye,  precisando che “il potere non risiede necessariamente nel  partner più forte, ma nella chimica dell’attrazione”. Questo nelle relazioni sentimentali, ma cos’è il “Soft Power” che ci interessa? Giuliano da Empoli lo spiega così: “In modo analogo, il Soft Power di un paese misura la sua capacità di attrazione sugli altri, l’influenza che è in grado di esercitare non attraverso le risorse quantificabili della forza militare o di quella economica, bensì attraverso la sua cultura, i suoi principi, il suo stile”.

La capacità di attrazione segue i percorsi più diversi, e supera ogni ostacolo, com’è avvenuto con la caduta della “cortina di ferro”,  secondo quanto scrive Reinhold Wagnleitner nel suo “The Empire of Fun”: “Per quanto importanti siano stati il potere militare  e la promessa politica nel porre le basi del successo americano nell’Europa della guerra fredda, è stato il fascino economico e culturale a conquistare veramente il cuore e le menti di gran parte dei giovani in favore della democrazia occidentale”. E, in modo ancora più diretto, quasi beffardo: “Ogni volta che è entrato in scena il consumismo reale, il comunismo reale ha dovuto fare un passo indietro”.  Viene ricordata anche la sarcastica domanda di Stalin, “Quante divisioni ha il Papa?” per sottolinearne la colpevole sottovalutazione, sin da allora, del “Soft Power” del Pontefice, che si rivelerà così efficace nel papa polacco da sconfiggere senza armi le divisioni sovietiche.

Viene ricordato come il cupo dittatore della Corea del nord tema più le chiavette USB che diffondono i disincantati serial televisivi americani in antitesi  alla sua propaganda, che il bottone atomico ostentato da Trump: chi sta diffondendo queste chiavette tra la popolazione dalla sua residenza di Seul, Kang Chol-hwan, nemico  numero uno del regime nordcoreano, ha detto: “Quando i nostri contenuti avranno raggiunto il 70, 80 per cento della popolazione il regime nordcoreano non avrà più alcuna possibilità di sopravvivere”.  

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 Le componenti del “Soft Power”

Il  “Soft Power”  di un paese ha tre componenti, nell’impostazione di Nye:  la cultura, i suoi valori e come sono percepiti, le sue politiche a livello internazionale.  Ma attenzione, lui stesso in un approfondimento successivo ha precisato: “Il Soft Power non è una forma di idealismo  o di liberalismo. E’ semplicemente una forma di potere, un modo di ottenere gli scopi desiderati”. Il potere inteso in senso tradizionale ha sempre cercato di coartare per asservirle le espressioni libere e ideali, compresa l’arte, nel caso del “Soft Power” invece l’arte ne è una componente, come parte della cultura e dei valori.

La cultura e i valori di un paese non hanno bisogno di essere spiegati, sono il patrimonio accumulato in secoli di storia, tradizioni  e di arte, ma deve essere comunicato ed oggi vi sono canali impensabili per la loro diffusione a livello mondiale, ma proprio per questo non basta possederli, occorre saperli trasmettere.

Avviene lo stesso nel campo delle politiche internazionali, a differenza del passano non passano più soltanto per i canali ufficiali, bensì coinvolgono altri attori, “dai rappresentanti delle Ong fino a interi settori delle opinioni pubbliche nazionali”, e non ci si rivolge più alle algide rappresentanze diplomatiche, o alle autorità costituite di altri paesi, ma “direttamente alle opinioni pubbliche , con messaggi fatti per coinvolgere e convincere”. Questo allargamento senza confini della comunicazione ha un nome, “public diplomacy”.

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Viene definita la “battaglia della comunicazione e del Soft Power”,  prevalere è “più importante che vincere una guerra”  con le armi perché una tale vittoria è effimera,  come dimostrano le vicende belliche americane dopo l’attacco dell’11 settembre che ha fatto tagliare gli investimenti nel  “Soft Power” a vantaggio degli armamenti, senza risolvere i problemi che le avevano generate, anzi spesso aggravandoli. Mentre le notevoli spese in “Soft Power” negli anni della Guerra fredda hanno segnato la fine dell’Unione Sovietica.

Abbiamo detto che non basta avere il patrimonio di cultura e di valori su cui si basa il “Soft Power”, si deve anche saper comunicare, e questo richiede investimenti. E per investire risorse adeguate occorre porre obiettivi precisi, per il “Soft Power” ne vengono indicati  quattro.

Il primo è la ricerca dell’influenza  all’estero, che ha portato i maggiori paesi, e anche l’Italia, a creare una rete di Istituti di cultura nel mondo. Segue immediatamente la promozione economica, in particolare delle Industrie culturali e creative, anche con finalità che vanno oltre tale settore costituendo un richiamo  per le esportazioni in generale, per gli investimenti dall’estero e il turismo  Gli altri due obiettivi riguardano la promozione della pace e del dialogo interculturale contro i fanatismi, e la tutela delle diversità culturali che restano una ricchezza anche e soprattutto nel mondo globalizzato.

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Le misure e le classifiche del “Soft Power”, Cina e Russia in basso

Quelle fin qui riportate sembrerebbero affermazioni generiche. Tutt’altro, si tratta di una visione molto chiara,  al punto che dal 2010 sono stati costruiti strumenti  in grado di misurare il “Soft Power” dei singoli paesi.  Lo si è fatto inizialmente aggregando alcuni  indicatori,  dal numero dei turisti a quello degli studenti stranieri, dall’export culturale  ai risultati sportivi,  dalla stabilità delle istituzioni alla rete diplomatica.  Di recente è stato messo a punto un metodo  più raffinato dallo stesso Joseph Nye, l’ideatore del “Soft Power” ,  basato su 75 parametri di 6 categorie,  “Government”  sulle libertà democratiche e la stabilità delle istituzioni ed “Education” sull’università e gli studenti stranieri,  “Enterprise”  sul sistema economico e l’innovazione e  “Culture”  su industrie culturali, turisti esteri e risultati sportivi,  “Engagement”  sulla proiezione internazionale e “Digital” sulle connessioni di Internet anche nella pubblica amministrazione.

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Le misure del “Soft Power”  hanno portato a tre classifiche che vedono tutte nei primi 4 posti  USA, Germania e Regno Unito, con la Francia tra il !° e il 5°, l’Italia all’11° posto, inferiore alla posizione che occupa nelle classifiche sul PIL, in cui occupa il 6° posto, regressione sorprendente se si considera che nel nostro paese si stima risieda  il 70%  del patrimonio artistico mondiale e sul piano culturale l’Italia sia tra i primi paesi, fattori questi basilari per il “Soft Power” ma non sufficienti perché, come si è detto, è cruciale la comunicazione. Del resto,  una “retrocessione” di questo tipo, per lo stesso motivo,  si nota anche nel turismo dove siamo indietro a paesi molto meno attrattivi del nostro rispetto ai pregi ambientali, storico-artistici e culturali. Anche qui è un problema di impegno attivo nella promozione dell’immagine, con i relativi investimenti,  nella competizione nulla avviene  automaticamente, occorre conquistarlo.

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Troviamo  molto in basso la posizione della Cina,  che la classifica di Nye pone al 28° posto e le altre due  tra il 17° e il 20°;  e della Russia,  al 26°-27° posto nelle varie classifiche.

Per la Cina,  a prima vista la posizione sorprende, perché è  il paese il cui Presidente , Hu Jintao,  ha introdotto ufficialmente il “Soft Power”  nel dibattito politico nel 2011, insieme allo “sviluppo culturale”, e in precedenza lo aveva posto al centro del dibattito pubblico da anni; ed è il paese che nel 2004 lanciò un vasto piano di diffusione all’estero di “Istituti Confucio”, tipo British Council”, ne son  stati creati 500 che diventeranno 1000 entro il 2020. La spiegazione si trova nell’immagine oppressiva  della Cina di Mao, da rimuovere dopo che all’assolutismo politico del governo comunista autoritario è stato associato il capitalismo di mercato e l’apertura all’estero con presenze massicce nei vari continenti, perfino con l’acquisizione di celebri squadre di calcio. Alla salvaguardia dei diritti individuali contrappone la tutela della dimensione collettiva, non contrastando le autorità dei paesi di penetrazione, come quelli africani,  anche se oppressive, quindi senza le ingerenze politiche che invece compiono i paesi occidentali per salvaguardare i diritti umani ed esportare la democrazia.

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Sorprende anche la posizione ugualmente arretrata della Russia che ha sempre investito nel “Soft Power”,  cercando di far leva sull’essere stata decisiva nella sconfitta del nazismo e sull’essere il “paradiso” dei lavoratori, ma dovendo scontare l’oppressione non solo all’interno ma anche sui paesi del blocco sovietico, dal muro di Berlino  ai carri armati su Budapest e Praga per spegnere le “primavere” di libertà.  Dal 2012 con Putin,  dalla poco convincente difesa  del modello russo, si è passati al tentativo di demolire il modello americano anche con “fake news”, il tutto veicolato da una comunicazione sempre più capillare  e  invasiva che si avvale di una serie di media , compresi i  “social network” più avanzati. Questo rovesciamento fa pensare a una sorta di “Soft Power” negativo che si affianca al “Soft Power” positivo dell’autocelebrazione.

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Il “Soft Power” dell’Europa in generale e dei suoi paesi in cima alla classifica

La posizione dell’Europa nel “Soft Power” mostra anch’essa aspetti paradossali al punto di essere definita “vaso di coccio” tra Stati Uniti e Russia nonostante le  sue forti radici culturali che dovrebbero renderla leader in questo campo. Ma forse la consapevolezza delle  identità che racchiude al suo interno, tanto forti quanto potenzialmente antagoniste,  l’ha portata a rinunciare a un’unità di valori fondata sui sogni e le passioni, per ridursi alla dimensione tecnica  e burocratica, a cui Da Empoli dedica queste eloquenti parole:  “Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: una macchina poderosa ma senz’anima che s’inceppa ad ogni imprevisto ; laddove a colpire non è tanto – o non solo – l’ignavia dei governanti quanto l’indifferenza dei popoli”.   

Questo crea il paradosso della sua posizione di inferiorità   verso gli Stati Uniti, il primo paese esportatore e il quinto importatore di prodotti culturali, laddove  l’Europa è il primo importatore mondiale, soprattutto dagli Usa, e soltanto il secondo esportatore.. Con la crisi economica si sono avuti “tagli e riforme”, i primi nelle risorse dedicate, i secondi nell’organizzazione di strutture nei singoli paesi creati in epoche ben diverse, con altre esigenze.   La dimensione è nazionale, ai vari paesi ci si deve dunque riferire.

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E allora di particolare interesse ci sembra la “Soft Power” di Germania, Francia e Regno Unito, Brexit a parte,  perché, come si è rilevato in precedenza, sono ai primissimi posti  nelle relative classifiche.

La Francia è il paese che ha puntato maggiormente sul “Soft Power” per mantenere l’immagine nel mondo che nel XVIII secolo aveva fatto del francese la lingua internazionale almeno della diplomazia e della  aristocrazia. E lo ha fatto  con reti di promozione culturale all’estero che richiedono notevoli investimenti,  è il paese la cui spesa pro-capite  in questo campo è la più alta al mondo:  citiamo solo 150 “Instituts Francais” e 1000 sedi dell’Alliance Francaise, 400 scuole e licei per l’estero, emittenti radiofoniche e televisive che trasmettono in molte lingue, con forme di coordinamento pubblico di recente aggiornate.

Anche il Regno Unito ha una  rete capillare di presenza all’estero con il “British Council”, presente in 150 paesi e 230 città del mondo, per dispensare, oltre all’insegnamento della lingua – che avviene anche attraverso a la miriade di scuole sorte spontaneamente nel mondo per far apprendere la   lingua divenuta internazionale – anche un’immagine di creatività nelle arti, in letteratura e nel design, e la promozione degli studi in patria. A ciò si aggiunge il World Service della BBC con 200 milioni di ascoltatori in 28 lingue, fino al 2014 finanziato dal Foreign Office,  poi inserito nel canone della BBC.

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Il terzo paese ai primi posti nelle classifiche sul “Soft Power”, la Germania, ha dovuto scontare il passato asservimento della politica culturale alle esigenze del  regime nazista, per cui la Repubblica Federale ha privato giustamente la promozione culturale  di ogni connotato politico.  Tra le strutture a ciò dedicate, spicca il “Goethe Institut”,  assimilabile al “British Council” per struttura e funzioni, insegna la lingua e promuove la cultura tedesca  in 75 paesi e 130 città del mondo;  ci sono anche 142 scuole tedesche in 72 paesi nei vari continenti, oltre alla rete radiofonica “Deutsche Welle”, che trasmette in 30 lingue in  60 paesi e un  servizio televisivo ” All News” in tedesco e inglese, spagnolo e arabo.

Tra gli altri paesi  la Spagna si segnala per essere all’11-12° ° posto delle classifiche, vicina all’Italia,  la sua rete di presenza all’estero è abbastanza recente, l'”Istituto Cervantes”  con 54 sedi in 20 paesi è stato creato nel 1991, la sua peculiarità è di promuovere la cultura ispanica, con mezzo miliardo di persone di madre lingua in 22 paesi,  e non solo quella spagnola in senso stretto. Per la comunicazione  abbiamo il canale satellitare della televisione pubblica  con più di 15 milioni di abbonati nell’America Latina e Radio Exterior, rivolta alle ex colonie africane e al Mediterraneo in genere, in francese  e inglese, arabo ed ebraico, portoghese e russo.  Per il resto soltanto la Svizzera e i Paesi Scandinavi  hanno reti di istituti culturali all’estero, anche se molto più ridotte di quelle citate, e promuovono iniziative culturali significative.

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Siamo giunti così a quello che il rapporto definisce “il sistema italiano di ‘Soft Power'”. Ha radici antiche che purtroppo si sono logorate nel tempo per l’illusione di poter vivere di rendita sul patrimonio artistico e culturale accumulato. Nel “Grand Siecl”, 1550-150, si affermò il “modello Itallia”, non più come fenomeno di élite ma di massa, come ha scritto ammirato lo storico Francese Braudel parlando di “splendore dopo lo splendore”  perché il predominio culturale seguì quello finanziario.

Il Rapporto, nel citarlo, dà questa spiegazione:”L’egemonia culturale italiana non si sviluppa solo perché il nostro paese continua a sfornare geni e capolavori. Ma anche – e forse soprattutto – perché in quel periodo il Bel Paese inventa l’industria culturale”. Vengono creati a Roma i Musei Vaticani, a Firenze la prima Accademia di Belle Arti, a Venezia il primo Teatro dell’opera per il pubblico, l’Italia diventa un polo di attrazione per gli stranieri. . “E’ questo il punto decisivo. La capacità di far leva sul patrimonio per reinventare il proprio ruolo nel mondo. Non da custodi. Da innovatori. Da imprenditori. E perché no, da maestri”.  Seguendo l’insegnamento di Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero”.

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Ma non basta l’inventiva e la carica innovativa: “Perché si trasformi in Soft Power è necessario un ingrediente ulteriore, le istituzioni”. E proprio le istituzioni furono protagoniste nel “Grand Siecl”, a loro si deve la creazione di sedi dedicate all’arte e alla cultura,  a loro la capacità di attrarre i visitatori da ogni patte proiettando all’esterno un’immagine in cui la cultura e l’arte si univano ai pregi storici e ambientali, di qui il “Grand tour”  in Italia, che era il fiore all’occhiello dell’élite europea.

Com’è diventato il “sistema Italia” dopo i fasti del “Grand Siecl”  lo vedremo prossimamente, insieme ai possibili rimedi che vengono indicati per valorizzare le nostre potenzialità inespresse e “reinventare”, quindi, il “Soft Power” oggi decaduto..   

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Info 

Giuliano da Empoli, “Soft Power dell’Italia”,  ricerca di Civita, Marsilio Editore, maggio 2017. pp. 112, formato 19 x 29; dal  libro sono state tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà  pubblicato in questo sito il 15 febbraio p. v. Cfr. anche, in questo sito, i 2 articoli sul III Rapporto di Civita  “L’arte di produrre Arte – Competitività e innovazione nella Cultura e nel Turismo” a cura di Pietro Antonio Valentino, che usciranno il 14 e 18 febbraio p. v.

Foto

La prima immagine è la fotografia scattata da Romano Maria Levante alla Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano durante l’incontro, con Matteo Renzi e Luigi Abete al centro, Giuliano da Empoli all’estrema destra. Mentre le altre immagini rappresentano alternativamente copertine di libri e avvisi vari sul “soft power” nel mondo: sono tratte da vari siti web, che si ringraziano per l’opportunità offerta. Precisiamo che sono state inserite  ritenendole di pubblico dominio, ma qualora fossero soggette a copyright e comunque i titolari dei siti ne chiedessero la rimozione,  saranno immediatamente eliminate trattandosi di mere illustrazioni senza valore di un resoconto che non ha finalità nè risvolti di ordine economico, comemrciale e pubblicitario.

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