L’altro sguardo, la fotografia al femminile, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante 

La mostra  “L’altro sguardo. Fotografie italiane 1965-2018″ presentaal Palazzo Esposizioni di Roma dall’8 giugno al 2 settembre 2018circa200 immagini con la particolarità di essere state realizzate da fotografe che hanno rotto l’iniziale monopolio maschile del settore per un giornalismo fotografico che va dalla documentazione all’inchiesta fino all’introspezione; l’altra particolarità è che le fotografie fanno parte della collezione di Donata Pizzi, fotografa anch’essa con una lunga esperienza giornalistica in campo fotografico.  Le fotografie sono raggruppate in 4 sezioni: tematiche:“Dentro le storie” e  “Cosa ne pensi del femminsmo?”, “Identità e Relazione” e “Vedere oltre” . La mostra  e il catalogo bilingue italiano-inglese di “Silvana Editoriale” sono a cura di Raffaella Perna.

Sono  diversi i motivi di interesse per una mostra inconsueta, non perché sia fotografica – la fotografia è e entrata da tempo nel novero delle arti – ma perché è declinata al femminile e imperniata su una cocome si vede nelel 4 sezioni, llezione che Donata Pizzi ha raccolto con cura a partire dagli  anni ’60.  

La Pizzi è una valida professionista, fotografa anch’essa, autrice di libri fotografici che ha lavorato anche all’estero in primarie agenzie fotografiche, e questo è una garanzia per la qualità delle sue scelte sotto il profilo tecnico. Ma  qual è il criterio seguito nella selezione, e  soprattutto la molla che l’ha spinta a iniziare la raccolta? 

E’ lei stessa a spiegarlo in un’intervista alla curatrice  Raffaella Perna dopo aver detto di essersi accorta del fatto che la fotografia italiana era rimasta isolata rispetto all’evoluzione del mercato europeo sulla scia di quello americano sebbene alcuni nostri fotografi fossero affermati sul piano internazionale: “Ho pensato quindi di dimostrare attraverso la mia collezione  che una fotografia italiana esiste, e che è doveroso prenderne atto e promuoverne le specificità e il valore “.  

Ma non si è fermata a questo: “Ho pensato inoltre di limitare l’ambito della collezione alle fotografe perché sono state le più penalizzate dai ritardi  del sistema, nonostante abbiano saputo individuare linee di ricerca nuove e inattese, a cui mi sento affine e che condivido”. Sulla eventuale differenza tra lo “sguardo” della fotografa femminile  e quello maschile, dopo aver citato l’espressione di Lucy Lippard, “l’arte non ha sesso, ma l’artista sì”, afferma: “Nelle opere che ho acquisito ritrovo, pur con declinazioni diverse, un inedito desiderio di sfidare le convenzioni sociali, visive e linguistiche e uno sguardo coinvolto e partecipe, capace di comprendere a fondo storie e passioni umane”.  

Originale anche il criterio adottato, non si è limitata a raccogliere le opere fotografiche, ma è entrata in contatto con le fotografe per seguirne l’attività, e la stessa selezione delle opere nell’ambito della loro produzione da inserire nella collezione è stata fatta con la loro collaborazione  per individuare quelle più significative. E’ stata formata  così “una rete all’interno della quale  si è delineato un percorso cronologico” della durata di 50 anni, nei quali sono stati documentati i grandi cambiamenti nella società. Il tema dell’identità, comunque, si ritrova sia nelle opere degli anni ’60 sia in quelle più recenti, è una costante.

Il ritardo delle donne nell’accedere a questo settore professionale, come a tanti altri, è cessato con l’apertura sempre più ampia, come una diga che è crollata e ha consentito di esprimere i talenti prima repressi delle fotografe, subito attirate dalle grandi questioni sociali e politiche, in certi periodi dei veri drammi nazionali,  sulle quali si è riversata la loro sensibilità, “l’altro sguardo”. D’altra parte nella prima parte del ‘900.quando le donne non erano ancora emancipate, i fotografi  maschi snobbavano le istantanee che miravano soltanto a coglievano l’evento,  dato che avevano pretese artistiche, cercando di imitare i pittori, di qui il cosiddetto “pittorialismo” fotografico. uindi lasciavano uno spazio che fu colto con lungimiranza anticipando tendenze attuali, FCederica Muzzarelli, a proposito della “donna e la fotografia”  sottolinea che “questo atteggiamento anticipatorio  e rivelativo della  concettualità fotografica poteva concentrarsi e trovare definizione attorno ai due nuclei tematici del corpo e dell’azione” come avviene anche oggi.  

La collezione presenta tutte le principali protagoniste di questa rivoluzione femminile in campo fotografico esplosa mentre al fotoreporter   veniva data la qualifica di giornalista e l’attenzione verso la realtà viva del paese cresceva dinanzi alle lotte politiche e sociali, il terrorismo  e la strategia della tensione, le radicali trasformazioni nel tessuto economico e sociale del paese con l’emigrazione interna e l’urbanesimo, la condizione degli emarginati di ogni categoria.

Nella mostra ritroviamo l’espressione visiva di tutto questo con la galleria di opere di circa 60 artiste con 200 scatti,  ognuna presenta diverse immagini, un piccolo “reportage”. Per incociare “l’altro sguardo” delle fotografe espositrici passiamo ora in rassegna le 4 sezioni tematiche, nelle quali dalla testimonianza e dalla denuncia di “Dentro le storie” si passa alla  “provocazione” insita in “Cosa ne pensi tu dei femminismo”, poi all’orgogliosa riaffermazione di “Identità e Relazione” fino all’evoluzione artistica verso l’astrattismo di “Vediamo oltre”. 

Dentro le storie

Scorriamo la 1^ sezione cominciando con Lisetta Carmi, per sottolineare la ricerca dell’emarginazione e della violenza da denunciare, dalle favelas venezuelane ai sotterranei parigini. Dal 1965 si interessa degli emarginati dalla famiglia e dalla società, a partire dai travestiti,  e non si limita a fotografarli nei suoi toccanti reportage  ma li va a trovare con lo psicanalista Elvio Facchinelli intrattenendo con loro un rapporto molto umano. Sono esposte 6 immagini riprese tra il 1966 e il 1970, pubblicate con le altre scattate in quel periodo, nel volume “I travestiti”, in bianco-nero e a colori  con figure femminili riprese in una intimità che sottolinea la prodonda solitudine.

Tutt’altro per le foto di Elisabetta Catalano, Maria Mulas e  Chiara Samugheo che invece documentano incontri con persone celebri, da Talitha Getty con Giosetta Fioroni, a Peggy Guggenheim e Valentina Cortese.

Anche Carla Cerati  presenta scene di società gaudente, con  Umberto Eco e Inge Feltrinelli all’inaugurazione di M.A.R.C.O. e Willy Rizzo con Nucci Valsecchi all’inaugurazione del loro negozio, tutti ridono beati. ma in parallelo la stessa fotografa mostra l’altra faccia della luna, quella nascosta, con 3 immagini scattate nell’ospedale psichiatrico di Gorizia,le espressioni stravolte e sofferenti dei malati  stringono il cuore.

Gli “stati psicopatologici” sono l’oggetto del “reportage” di Lori Aammartino, 8 immagini con le espressioni più diverse del volto accompagnate dalle mani  in tante posiziobi,  geniale!

Si va sul politico con Elisa Magri,  da “Nigger” a “Kennedy”, da Cuba” al “Vietnam”; e ancora di  più con Augusta Conchiglia, con 8 immagini sulla guerriglia in Angola, che vanno dagli aspetti militari con le giovani reclute armate e le perlustrazioni  a quelli civili come la campagna di alfabetizzazione e la distribuzione di medicine.

Si torna all’emarginazione con Paola Agosti, ma di tutt’altra natura, è quella delle aree economicamente depresse, siamo nelle Langhe, dal  1977 al 1990 ,scene  di squallore di una famiglia, fanno parte della serie “Immagini del ‘mondo dei vinti'”, libro fotografico pubblicato nel 1977 dopo che nel 1977 Nuto Revelli pubblicò “Il mondo dei vinti”,con racconti sulla povertà delle campagne del Nord, un mondo in via di sparizione che la Agosti, colpita da quelle storie, volle subito esplorare; fino a seguire 20 anni dopo le famiglie piemontesi emigrate in Argentina e darne conto nella serie “El Paraiso: entrada provvisoria”,pure alcune di queste immagini sono in mostra.

Dall’emarginazione alla violenza politica  riflessa nelle fotografie di  Giovanna Borghese sulle ragazze di Prima linea dietro le sbarre e su  Sindona che prende un caffè, non quello che lo uccise in carcere ma il riferimento è evidente, sul primo terrorista pentito Patrizio Peci in tribunale e la banda Cutolo ammanettata,  gli anni di piombo e la delinquenza camorristica in evidenza.  Violenza questa volta ripresa direttamente e non solo riflessa negli scatti di Letizia Battaglia: rivediamo  la tremenda scena dell’omicidio di Piersanti Mattarella con il fratello Sergio, l’attuale Presidente della Repubblica che lo prende in braccio portandolo fuori dall’auto dove è stato colpito a morte, e il triplice omicidio a Palermo, questa volta in un interno con tre corpi riversi o a terra, mentre un manifesto gioioso alla parete crea un contrasto drammatico. “La bambina e il buio” è un’immagine simbolica che accompagna  queste scene, il buio della ragione con i mostri generati e l’innocenza.

Nei primi anni ’90  troviamo le immagini sorridenti  della serie Piedras Negras di Lina Pallotta,mentre nella seconda metà del decennio  Isabella Balena nella serie “Questa guerra non è mia” presenta i muri colpiti dai proiettile a Mostar, poi salta al 2011 e 2013 con i profughi di Lampedusa e non solo.  ad altri profughi.  Mentre Francesca Volpi documenta nel 2016 la guerra in Ucraina con due immagini forti, un morto coperto da un telo e una famiglia nel rifugio antiaereo-

Ritratti in posa veri e propri con Elena Givone, Michela Palermo e Serena Ghizzoni,dal 2007 al 2016,  a colori e molto curati, c’è anche un fiore, quasi un ritorno al pittorialismo. Sbrigative, invece, le foto di Allegra martin, una quotidianità  “Senza titolo”.

Cosa pensare del femminismo

Intrigante a partire dal titolo la 2^ sezione, nella quale si dà esprime – osserva  la curatrice Raffaella Perna –  “l’uso militante e politico della fotografia, concepita come strumento per raccontare la realtà attraverso l’assunzione di uno sguardo sessuato  che esplora le differenze di genere”. E come fanno questo?  “Per queste autrici la fotografia è un mezzo per costruire  relazioni, scambi e nuove strategie di espressione del femminile” , ed è usato oltre che per smontare gli stereotipi di genere, “sia per esplorare i nessi tra corpo e identità femminile, sia per rivendicare le istanze del vissuto a partire dalla consapevolezza che ‘il personale è politico’”, uno degli slogan del ’68.

Guardiamo come questo si traduce nelle fotografie esposte, cominciando da quella che ha dato il titolo alla sezione, “Cosa ne pensi del movimento femminista”, la foto del 1974  di Paola Mattioli che ritrae una scatola di cipria con l’immagine di un raduno femminista e in fondo uno specchietto nel quale, secondo l’autrice, il padre, cui era destinata, avrebbe vista riflesso il proprio volto e quello delle femministe del raduno  “ricambiandone lo sguardo”, in modo da essere portato a meditare sulla propria posizione verso il femminismo.

Da questa elucubrazione alquanto criptica  alle plateali rivendicazioni tra il 1970 e il 1973, di Agnese di Donato che in “Donne non si nasce, si diventa” presenta l’immagine in primo piano della giovane donna realizzata e sicura di sé che avanza gridando con il pugno alzato mentre dietro lei nella foto da bambina timorosa; e in “Chi era costui?” mostra l’uomo-oggetto  con il corpo nudo o con la pelliccia dato in pasto alla pubblicità come avviene  purtroppo sistematicamente per il corpo delle donne. Mentre il “New feminism” di Marinella Senatore, del 2016, mostra una “majorette” su un panno giallo-rosso, con altre piccole figure e un bambino, l’effetto cromatico è assicurato.

Liliana Bianchesi documenta le manifestazioni femministe ma al contempo nella serie  “Le casalinghe” riprende  il lavoro domestico con immagini di tutt’altro segno. Anche Nicole Gravier  , nella serie “Miti e cicli, fotoromanzi” entra in modo allusivo nella quotidianità della donna.

Dalle immagini tradizionali sull’amore di Tomaso Binga a quelle da decifrare di Lucia Marcucci, un grande disco telefonico tra le mani con un bel sorriso da un lato, un disco  con la celebre istantanea di Kennedy e a lato Jacqueline nell’abito rosa sull’auto dell’attentato e la scritta a mano “felici e contenti” preceduta da “vissero” cancellato con un tratto di penna. Terribile !!

Meno angosciosa, il che è tutto dire, la serie “Le streghe” di Libera Mmazzoleni con “Il bacio” e “Il volo” in cui la figura femminile fotografata è tra figure disegnate come nelle xilografie.

Lineare  “L’invenzione del femminile” di Marcella Capagnano, con  tre espressioni di “regalità Line”, e “Fiore rosso” di Verita Monselles, c’è il fiore con  un bel corpo nudo e un drappo rosso.

Abbiamo iniziato a commentare la sezione citando Paola Mattioli  e concludiamo con la stessa autrice, come fondatrice del gruppo “Ci vediamo mercoledì”, una sorta di collettivo fotografico le cui componenti operavano sia individualmente che in coppia, e comunque si avvalevano di esperienze comuni,  incontrandosi nel giorno fissato per  confrontare i rispettivi lavori e discuterne. Ne venne il volume “Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo” dal quale sono tartte le immagini esposte, della Mattioli, Diane Bond, Silvia Truppi, e Bundi Alberti. Adriana Monti e Mecedes Cuman, Ci sono strisce quasi da pellicola cinematografica,  con figure efemminili e ombre, visi e figure.

Identità e relazione

La 3^ sezione è alquanto “concettuale”, per così dire, perché imperniata sui temi legati allidentità e al corpo in un’attenzione alla “storia familiare, il quotidiano, l’affettività e la memoria individuale, concepita, quest’ultima, come momento cruciale per entrare in relazione con l’altro ne con la storia collettiva”, sono parole della curatrice Perna.  Non ci si preoccupa della resa estetica dell’immagine, quanto della resa emotiva ed evocatrice.  

Il diapason lo tocca Moira Ricci  che nella serie  “20.12.53. 10.08.04” e simili, inserisce la propria immagine in vecchie foto di famiglia con la madre, quasi a voler rendere attuale il  passato, si inserisce anche tra i genitori in viaggio di nozze, commovente come guarda la madre mentre stira.

Sono interni moderni riferiti anch’essi al passato nelle immagini di Alessandra Spranzi, mentre Daniela Esposito esprime il sentimento filiale con una collana  i cui capi sono stretti   tra i denti suoi e della madre, Bruna Ginammi in “Ritratto di mia madre” si ritrae quasi distesa sulle sue ginocchia, e Anna di Prospero un autoritratto con la madre che scherza con lei  chiudendole gli occhi no.  Giada Ripa, invece,   presenta due figure tatuate, un nativo e un bel nudo di giovane donna.  

Volti da Giulia Caira e Malena Mazza  e negli scatti di Polaroid di Irene Ferrara con “Ho preso le distanze”,  sono 33, i volti in primo piano sono metà, le altre foto con figure in campo lungo. ma i volti sono coperti da un rettangolo bianco da Marina Bacigalupo, in realtà mancano perché tagliati dalla figura per essere usati come foto tessera dato che la macchinetta per questo servizio ne faceva 4 e i clienti per risparmiare chiedevano una foto sola di cui veniva preso il volto in un fototessera più economica, l’autrice li ha trovati nel più antico studio fotografico di Gulu  nel nord dell’Uganda. Risultato? Senza il volto l’attenzione è presa maggiormente dai particolari della figura che in “Dittici” di Paola Petri passa quasi inosservata nella sua normalità, cappotto e mani in tasca. . La figura si nota, eccome nelle 3 immagini di Betty Lee, ritraggono una fanciulla discinta e procace.   

Vedere oltre

L’ultima sezione “va oltre” nel senso di superare anche i limiti del mezzo fotografico per aprirsi ai video e ad altre forme espressive, siamo nei tempi recenti in cui non  vi è più il tentativo di accreditarsi come forma d’arte pittorica e, d’altra parte, la pittura come le arti figurative tradizionali sono sconvolte dall’irrompere delle installazioni, a parte l’arte concettuale in merito ai contenuti.

Particolarmente significativa a questo riguardo l0opera “Lucciole” di Paola Di Bello, non si tratta di una fotografia con la fotocamera, la lastra fotografica è impressionata direttamente dalla luce di  25 lucciole prese in campagna e fatte strisciare sulla pellicola in bianco e nero; l’immagine si forma nel contatto con la realtà senza intermediazione e nella realtà ci sono gli esseri di cui Pasolini aveva lamentato la scomparsa e l’autrice vuole forse certificare non solo l’esistenza ma la resistenza.

Altra opera che viene evidenziata è quella di Rà Di Martino, un video realizzato intorno a una foto d’archivio che risale alla Grande Guerra, dei civili che guardano un finto carro armato, di quelli usati come deterrente verso il nemico, il video al finto carro ne fa seguire uno vero che passa per le vie di Bolzano. La mente ci torna al “dummy tank” dei nostalgici leghisti veneti irredentisti della “Serenissima” che per un trattore trasformato in carro armatosi sono fatti anni di carcere, la finzione è stata presa per realtà e hanno subito la pena prevista per i veri movimenti insurrezionali.

Le opere esposte di Marialba Russo e Silvia Camporesi sono immagini  oniriche, come “L’incanto” e sfumate come “L’isola di San Michele”, anche “Pompei” di Cristina Omenetto è una visionemolto particolareDi Sara Rossi a3 immagini di edifici, mentre di Ga Casolaro un interno buio con una finestra che si affaccia su un parcheggio fitto di auto in sosta. E poi 3 volti che si dipanano da un corpo di Monica Carocci, suo anche uno scheletro appeso, di Francesca Catastini “Medusa”, un corpo femminile di profilo visto in controluce con l’animale marino nello stomaco.

Per il resto gli  oggetti  di Claudia Petraroli, Francesca Rivetti , Bruna Esposito e Raffaella Mariniello, e le astrazioni geometriche di Marzia Migliora e Luisa Lambri, Vittoria Gerardi e Grazia Todaro. La mente è tornata alla fotografia astratta, anche più sofisticata, di De Antonis-

La curatrice spiega così  queste visioni così diverse e sorprendenti: “La natura apparentemente oggettiva e ‘fredda’ della fotografia viene usata per rappresentare storie, percezioni e ambienti con un forte tasso di coinvolgimento personale”.  E usata per questo scopo “la fotografia non è autoreferenziale e fine a se stessa, ma è un modo per porsi in diverso rapporto con il mondo, adottando un punto di vista nuovo e uni sguardo altro”. La fotografia astratta è stata considerata perfino maggiormente aderente alla realtà di quella figurativa che fissa artificiosamente l’attimo mentre poi tutto cambia e viene espresso con l’astrazione meno che mai con l’istantanea,  Anche queste riflessioni nascono da una mostra  sui generis ma quanto mai attuale e coinvolgente.