I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano, 1. Lo “Spazialismo”, all’Auditorium della Conciliazione

di Romano Maria Levante

Tornano  gli “irripetibili anni 60”  insieme al decennio successivo  nella mostra “I favolosi anni ’60   e ’70 a Milano”, all’Auditorium della Conciliazione a Roma, dal  27 settembre al 20 novembre 2022 , promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele,  realizzata da “Poema” in collaborazione con “Auditorium della Conciliazione”, curata da Lorenzo ed Enrico Lombardi . Sono esposte 36 opere  di 24 artisti in 4 sezioni, conclude un filmato.  Catalogo  di Gangemi Editore”  curato, come la mostra, da Lorenzo ed Enrico Lombardi.

Lucio Fontana, “Studi per Concetto spaziale”, 1949-51

Una mostra con motivazioni e contenuti quasi… autobiografici per l’ideatore e promotore, il presidente Emmanuele F. M. Emanuele che,  nell’introduzione del Catalogo,  ricorda come negli anni ’60 nei suoi continui spostamenti per lavoro tra Roma e Milano frequentava assiduamente gli  ambienti artistici milanesi, in particolare Brera e il “Bar Jamaica”, luogo di ritrovo degli artisti di Milano che incarnava “i valori della modernità. Spinto dal boom economico, il capoluogo lombardo si trovò improvvisamente a  vivere un irrefrenabile fermento culturale, caratterizzato da una forza progettuale senza precedenti e dalla voglia di lasciarsi alle spalle in maniera definitiva gli orrori della guerra”. In tal modo divenne “il fulcro dell’Avanguardia internazionale in cui prendevano forma movimenti e tendenze”, in sintonia con ciò che si muoveva in ambito europeo, con particolare riguardo a Francia, Belgio, Inghilterra. A Roma, invece, dove  Emanuele viveva, “si respirava il clima di leggerezza e bellezza proprio del territorio, e la città era protagonista di una esaltante stagione in cui la cultura di massa incideva non solo nel contesto socio-culturale, ma anche nell’ambito della creatività e della comunicazione contemporanea”. Gli artisti romani, anche per “lo speciale rapporto della Capitale con gli Stati Uniti, alimentato dal boom del cinema che fece di Cinecittà la “Hollywood sul Tevere’”, erano maggiormente in dialogo con la Pop Art americana.

Enrico Castellani, “Senza titolo”, 1967

Da questa esperienza sono nate le due recenti mostre,  questa del 2022 su “I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano” e la mostra del 2021 nella galleria “Monogramma” in via Margutta su quella che fu chiamata la “Scuola di Piazza del Popolo” a Roma, citata dal presidente Emanuele; aggiungiamo  la grande mostra del 2011 a Palazzo Cipolla della Fondazione Roma sugli “Irripetibili anni ‘60”, da lui stesso promossa, come si manifestarono a Milano e Roma, le dedicammo tre articoli, da Fontana a Marconi, dalla monocromia alla Pop Art fino alla “nuova scultura”, partendo anche allora dai ricordi del presidente sulle due realtà artistiche vissute direttamente.

Emanuele fece parte del movimento della “Patafisica” con Virgilio Dagnino e Paride Accetti e divenne grande amico di Ugo Nespolo, l’artista eclettico che si è espresso in vari settori  cui nel 2016 la Fondazione Terzo Pilastro Internazionale da lui presieduta ha dedicato la mostra antologica “That’s Life” a Catania.

Agostino Bonalumi, “Bianco”, 1976

La  peculiarità dei “favolosi” anni ’60 e ’70 e degli “irripetibili” anni ‘60

Ma qual è stata la straordinaria peculiarità di questa stagione di anni “favolosi” e “irripetibili”?  Possiamo definirla una ventata di modernità che ha investito l’intera società nel dopoguerra – a partire dalla metà degli anni ’50  considerati gli antesignani  degli sviluppi  successivi – e non solo le arti visive ma anche la musica e la moda, il design e l’architettura. Un  po’ come  era stato – ci viene spontaneo  l’ accostamento – il futurismo qualche decennio prima, ma questa volta la spinta è venuta non dal desiderio di rimuovere le staticità del passato dinanzi al nuovo mito della velocità, bensì dai forti  impulsi suscitati dal boom economico e dai nuovi grandi spazi metropolitani dopo le tragedie e le ristrettezze della guerra, con un consumismo divenuto realtà diffusa.  La società che tendeva a divenire “opulenta” esercitava forti sollecitazioni attraverso le comunicazioni di massa sempre più invadenti,  anche per la pubblicità e l’avvento della televisione, per non parlare del cinema e dello sport con la creazione di nuovi miti. Altra marcata differenza con il futurismo, fenomeno tipicamente italiano, a parte le forme di espressione artistica non raffrontabili è stata la portata internazionale di questa “rivoluzione visiva e culturale, potente e rinfrescante, un vento colorato di immagini e di idee” –  come scrive Lorenzo Canova – dalla metà degli anni ’50, partendo da  Londra, si è diffusa nelle altre capitali europee e  segnatamente  negli USA, assumendo  conformazioni riassunte  in modo esemplificativo e forse semplicistico  nella Pop Art, mentre  varie e variegate sono state le tendenze alle quali possono ascriversi gli artisti di quella feconda stagione.  

Paolo Scheggi, “Zone riflesse”, 1965

Ma rispetto alla  Pop Art degli altri paesi –  legata essenzialmente  nelle ricerche e nelle conseguenti forme espressive al boom economico e al consumismo di massa con gli altri fattori di prorompente modernità –  per l’Italia, sottolinea  sempre Canova,  “uno degli aspetti più innovativi e condivisi di queste ricerche è pertanto la voluta contaminazione tra elementi banali e citazioni colte, in una fusione dove sono presenti prelievi da rotocalchi, inserimenti di immagini kitsch, assemblaggi di cos e scene di vita quotidiane”.  Più precisamente, vengono rilevate “molte analogie e interazioni tra gli artisti italiani che hanno condiviso la volontà di non lavorare soltanto sugli spunti della nuova società dei consumi, ma di fonderli in una visione ibrida in cui le sollecitazioni provenienti dalle culture di massa si mescolano alle citazioni dall’arte dei secoli passati e dalla grande stagione dell’arte  della prima metà del Novecento”. Si è avuta dunque una “raffinata e colta fusione”  tra gli elementi provenienti dai mass media e quelli  derivati dalla “grande storia dell’arte, riletta e interpretata senza nostalgie  come un grande stimolo alla creazione di una nuova idea dell’arte italiana”. 

Viene inoltre rilevato che questa “nuova figurazione”  ha  trovato  “un basilare codice di origine nel Futurismo e nella Metafisica, due fondamentali punti di riferimento per l’utilizzo consapevole del rapporto coi mass media, per le indagini sui nuovi materiali extrapittorici, per la grande storia dell’arte usata come fonte di ispirazione e di citazione”.  Il  riferimento diretto a due forme d’arte italianissime  evidenzia ancora di più come questa nuova espressione artistica così innovativa si inserisca nel contesto internazionale della Pop Art con una specificità tutta italiana.

Getulio Alviani, “Quattro cerchi virtuali”, 1967

Nella mostra sono  materializzate  in 4 sezioni le forme d’arte innovative in cui si esprimono gli artisti italiani  nel mondo milanese tra gli anni ’60 e ’70:  dallo “Spazialismo” al “Nuclearismo”, è un nuovo mondo che si apre. I titoli delle sezioni sono eloquenti: “Arte materia e spazio verso lo zero”, con 10 opere, “Nouveau réalisme tra Italia e Francia” con 5 opere, “Nuclearismo e Astrazioni”  con 5 opere, “Nei mondi della nuova comunicazione” con 15 opere”. Una selezione di 24 artisti con 36 opere estremamente concentrata e anche per questo intensa e mirata.

“Arte materia e spazio verso lo zero”

La  1^ sezione “Arte materia e spazio verso lo zero”  espone 10 opere di 8 artisti. Nel commentarle,  salvo diverse citazioni come la prima espressamente indicate, faremo riferimento all’analitica introduzione della mostra nel  Catalogo di Guglielmo Gigliotti, con 8 “medaglioni critici” e il titolo “Il cielo sopra Milano: spazio, spazialisti e altri sognatori”.

La galleria espositiva si apre con Lucio Fontana,  come caposcuola di una “visione costruttiva più ‘fredda’, un rigore organizzato della struttura del segno e dell’impostazione progettuale dell’opera, in una sublimazione del gesto e della materia”,  che ha caratterizzato l’arte milanese a differenza di quella romana, con caposcuola Burri; accomunate entrambe le tendenze dal “ritorno felice  a una diversa arte iconica, un’immagine vista in modo innovativo, superando gli schemi dell’informale e del postcubismo e andando oltre quella strisciante iconoclastia che serpeggiava nelle teorizzazioni dei primi anni  del secondo dopoguerra, trovando soluzioni alternative anche alla dialettica astrazione-figurazione”. Questa analisi di Lorenzo Canova mostra come dietro le semplificazioni espressive della nuova arte ci sia una evoluzione molto profonda, addirittura radicale.  

Rodolfo Aricò, “178A”, 1967

Fontana, rientrato in Italia nel 1947,  aveva fondato il movimento artistico chiamato “Spazialismo” del quale nel 1951 fu pubblicato il Manifesto Tecnico, e non solo “funse da trait d’union tra la prima  e la seconda Avanguardia, ovvero  tra Futurismo e l’Arte Povera, ma influenzò ad esempio  anche la nascita nel 1951 dell’Arte Nucleare”: lo ricorda Alberto Dambruoso sottolineando  che “anche a Milano sono gli anni  Cinquanta a determinare poi lo sviluppo delle ricerche artistiche  degli anni Sessanta e Settanta”.

Mentre Guglielmo Gigliotti  sottolinea che “l’importanza storica di Lucio Fontana, al di là dell’altissima qualità delle sue opere, sta nel fatto che egli non fu solo mosso  da slanci volti a rivoluzionare i linguaggi dell’arte, quanto le stesse radicate convinzioni che ne stanno alla base”.  E questo perché  nell’immediato dopoguerra  “intuì le infinite potenzialità estetiche ed esistenziali di uno spazio della creatività inteso come totalità. Quindi, non è uno spazio concepito come risultante in negativo da un volume, ma come dimensione plastica, tensione, presenza ed esperienza. Uno spazio astratto ma vivent come immateriale concrezione ambientale”. Tutto ciò si traduce a partire dal 1949 nei “Concetti spaziali”, le tele bucate da fori isolati sparsi o “diradati in ritmiche orditure lineari” sulla superficie che viene in un certo senso negata per riaffermare un concetto esprimibile soltanto con i fori ancorati alla “fisicità residua della tela”.  “Il buco-Dio, il buco-nulla si concretizza allusivamente nel gesto elementare, e di forza primordiale, d’un punteruolo che fa breccia nel lino”. Con questo effetto: “Il quadro si sbriciola per proiezione intellettuale in quell’idea di assoluto spaziale, di cui paradossalmente si fa custode e garante”.  Alla fine degli anni ’50   si passa dal foro al taglio: “Su fondi rigorosamente monocromi, le fessure incise nella tela a colpi di perentorie rasoiate, trasmutano infatti il vitalismo dei buchi nelle sacralità solenne di un gesto cosmogonico, un gesto assoluto gravido di quella contemplatività che indusse Fontana a intitolare “Attese” questo particolare filone dei “Concetti spaziali”.  

Vincenzo Agnetti, “Assioma Lavoro – Agnetti dimenticato a Memoria”, 1972

Abbiamo voluto riportare testualmente l’interpretazione di Gigliotti data l’importanza della rivoluzione avviata da Fontana rispetto allo spazio che diventa protagonista anche per i suoi seguaci. Sono esposte 2 sue opere, disegni in inchiostro su carta, “Studi per Concetto spaziale” 1949-51, con le macchie dei buchi disseminate sulla superficie della tela, e “Ambiente spaziale per le X Triennale di Milano” 1949, una sorta di scalinata che sale, verso uno spazio in dissolvenza. 

Dopo le 2 opere di Fontana che dall’inizio degli anni ’50  ha precorso ”i favolosi anni ’60 e‘70” a Milano, 3 opere di altrettanti artisti negli anni ’60. Poi 5 opere degli anni ’70 di altri 3 artisti.

Enrico Castellani fu un seguace di Fontana nello Spazialismo, fondò la galleria Azimuth e la rivista omonima  con Enrico Bonalumi  e Piero Manzoni, e due anni dopo la morte di Fontana nel 1970 si trasferì in un antico borgo, Celleno presso Viterbo,  vivendo  in solitudine e dando corpo a quanto affermava che non doveva avere nulla  intorno a sé perché “lo spazio di riferimento della mia arte è lo spazio mentale”. Intitolava i suoi quadri “Superfici” perché “nella superficie” e non “sulla superficie”  si diffondono ”a modulazioni di sequenze regolari e fluide, sequenze di punti in aggetto e punti in cavità… Il quadro si gonfia e si svuota come un polmone… Introflessioni estroflessioni , come due polarità della vita e della visualità”. La pittura si smaterializza, è fatta di superfici monocrome di diversi colori e tonalità,  dal bianco al blu, con gli aggetti e le cavità ottenuti operando sul telaio dove viene inchiodata la tela alla tensione voluta.  “Per tutta la vita, come un monaco, Castellani è stato devoto alla causa del quadro-oggetto, nato da una costola delle effrazioni del piano operate dal capostipite Fontana”.  In  “Senza Titolo” 1967, su una superficie giallo arancio spiccano i punti di aggetto e di cavità. 

Michele Zaza, “Senza titolo”, 1972

Di Paolo Scheggi è esposta “Zone riflesse” 1965, tre forme ovali in arancione, sono le “Intersuperfici” sovrapposte monocrome:  artista  precoce venuto meno prematuramente a 30 anni, stimato da Fontana che ne introdusse il Catalogo alla mostra del 1962 a Bologna, nella sua breve vita seguirono personali a Milano, Roma, Venezia e recensioni dei maggiori critici d’arte.  Le tre tele sovrapposte in strati esprimono la penetrazione della mente nello spazio creato dalla fantasia. Ma non solo: “Le parole, per Scheggi, erano importanti come la pittura”, dal 1970 realizza “opere, d’istanza concettuale , in cui la componente verbale assumeva  la centralità che prima avevano le aperture nell’insondabile”,e questo lo accosta a Vincenzo Agnetti, come vedremo.

Il terzo artista di cui sono esposte in questa prima sezione opere degli anni ’60 è Getullio Alviani con “Quattro cerchi virtuali” 1967, su alluminio.  Si definiva “ideatore plastico”  nell’arte ottico-cinetica, i suoi semicerchi hanno l’effetto ottico di cerchi completi e con questa alterazione della realtà esprimono il carattere illusorio delle certezze, dato che “non vediamo gli oggetti ma la luce da essi riflessa. Dunque noi vediamo le ‘cose’ come se fossero specchi”. Sempre con l’alluminio l’artista ha realizzato, scavandolo con la fresa elettrica,  “Superfici a testata vibratile”, che appaiono diverse  cambiando la posizione dell’osservatore, che diventa attivo e non più passivo. “La loro essenza luminosa è mobile, muta continuamente, aderendo per costituzione al grande flusso della realtà impermanente, al panta rei  dell’universo”.

Roberto Crippa, “Spirali”, 1951

E siamo ai 4 artisti con opere degli anni ’70. Di Vincenzo Agnetti sono esposte 2 opere dei primi due anni del decennio, “Continua” 1971, e  “Assioma lavoro – Agnetti dimenticato a memoria” 1972, la prima una fotografia di giornale con la scritta: “Vincenzo Agnetti, Copia dal vero.  Opera prima”; la seconda un quadrato di bachelite nera con inciso in basso in bianco il titolo. Si vede da queste scritte che per lui  – in assonanza con Paolo Scheggi – la parola aveva molta importanza, ma non per l’attività letteraria o di critica d’arte ma  perché “non era solo un mezzo, ma un’immagine”.  Eloquente la sua affermazione: “Una figura non è solo una figura, come una parola non è solo una parola”. Ma non ci sono solo poche parole semplici quali quelle delle due opere esposte, nei suoi “Feltri”, pannelli incisi a fuoco, e nelle tavole di bachelite ci sono testi  ampi ed evocativi di suggestioni letterarie o mitiche aperte al paradosso “dove la realtà ricompone la sua apparenza molteplice nella fusione degli opposti, nell’affastellamento dei contrari”, attraverso l’arte; in un suo “Feltro” del 1971 si legge “Quando mi vidi non c’ero”,  Gigliotti commenta: “Non è un’opera eccezionale solo per il contenuto d’afflato mistico,  ma perché le parole sono pittura in sé”.

Ampi testi anche nell’opera esposta degli stessi anni di Michele Zaza,Senza titolo” 1972, una fotografia di un terreno sabbioso accidentato con scritta in rilievo “Scegliendo me”, e sotto tre riquadri  di scritte molto fitte alternati a tre quadrati bianchi, nel primo la parola Zeus, negli altri due sembra di leggere Cpono e Ctono. I testi esortano l’uomo a  sperare per non immiserirsi, fino a citare “l’ultimo uomo, la sua razza è indistruttibile…l’ultimo uomo vive più a lungo  – noi abbiamo inventato la felicità – dicono gli ultimi uomini, e ammiccano”. Sono tratti da “Così parlò Zarathustra” di Nietsche,  precedono la sua nota espressione “Si deve avere del caos dentro di sé per generare una stella che danza” . E’ stato definito “pensatore di immagini”, venuto a studiare a Brera da Molfetta, la sua arte (“prima performativa, poi  essenzialmente fotografica e installativa)  è un grande rito arcaico-contemporaneo di regressione all’origine, sua e dell’universo”. Di qui fotografie  di ambienti poveri, dei genitori simbolo dei due sessi, intorno “a questa antropologia metafisica, a questo sacrale disvelamento di una memoria inconscia e fuori dal tempo”.

Sergio Dangelo, “Senza titolo”, 1970

Con Agostino Bonalumi ritroviamo il “principio del rigonfiamento della tela”  anche operando sul  telaio ligneo, caratteristico di Enrico Castellani, di cui fu amico  dopo averlo conosciuto nello studio di Enrico Baj con  Piero Manzoni  dando vita a un sodalizio che si tradusse nella fondazione della galleria e nella rivista Azimuth, come abbiano detto, e in esposizioni comuni per due anni. Fu molto apprezzato da Fontana che interveniva in modo opposto, con cavità e non con aggetti in rilievo come Bonalumi e Castellani, ma operavano tutti nello spazio della tela, l’uno “al di là”, gli altri due “al di qua”,  mossi  dalla stessa visione dello spazio. “Bonalumi aveva una maggiore propensione all’invasione nello spazio, guidato da una accentuata sensibilità plastica all’altorilievo, con estroflessioni articolate, in alcuni suoi periodi, in serpentine, affossamenti, e inattese circonvoluzioni, di sapore nettamente scultoreo”. Ma  non mancano opere in cui prevale il senso geometrico alternate a quelle delle ”fasi di dinamismo plastico e biomorfico”. In mostra è esposta “Bianco”, 1976,  una tela “estroflessa” a fasce che sfumano su due tonalità di grigio.

Anche Rodolfo Aricò, l’ultimo artista della sezione Spazialista, viene collegato a Castellani per condividere la pittura-oggetto, pur nelle notevoli differenze rispetto a lui e agli altri artisti finora citati.  “I suoi quadri-oggetto sono infatti piatti, non aggettano come quelli di Bonalumi e Castellani, e non sprofondano in varchi dentro al superficie, come in Fontana e Scheggi, ma si dispiegano in solari sequenze geometriche  a muro, in installazioni a parete”. Viene definito “architetto della pittura”,  e “pittore di architetture cromatiche”  ma anche “filosofo della pittura” non con le parole  ma con la sua espressione artistica, utilizzando gli strumenti della pittura – telaio e materia, colore e superficie – a fini di analisi, tanto che fu inserito tra gli esponenti della Pittura Analitica. Si ispirava anche alla pittura del ‘400 e all’architettura classica “componendo sul muro sequenze di tele monocrome atte a formare archi, timpani e affondi prospettici, nell’accezione di un’architettura dello spirito  vissuta come ultimo mito della modernità”. Sono esposte “178°”,  1977,  collage  su tela dalle tinte sfumate con due piani architettonici, e”Senza titolo” 1989, collage su carta del periodo in cui prevale l’orientamento geometrico multiforme del periodo successivo, in trapezi e in ottagoni come quello di questo quadro in un intenso colore grigio.

Con un’opera che va oltre gli anni ’70 termina la prima sezione della mostra dedicata allo “Spazialismo”, commenteremo prossimamente le sezioni restanti, a partire dal “Nuclearismo e Astrazioni”, altra tendenza importante  tra le espressioni di avanguardia, seguito dal “Nouveau réalisme tra Italia  e Francia”, per concludere con “Nei  mondi della nuova comunicazione”. 

Gianni Dova, “Senza titolo”, anni ’70

Info

Auditorium della Conciliazione, Roma, Piazza Pia, 1. Orario, ore 12-19 dal martedì al sabato, ingresso gratuito. Catalogo “I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano”, a cura di Lorenzo e Enrico Lombardi, Gangemi Editore, settembre 2022, pp. 160, formato 23 x 28. Cfr. i nostri articoli, per la mostra del 2011 “Gli irripetibili anni ’60”, su cultura.inabruzzo.it il 15, 20, 25 luglio 2011; per gli gli artisti citati, in questo sito, su Astrattismo italiano 5, 7 novembre 2012, in cultura.inabruzzo.it su Fontana 23 settembre 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito).

Photo

Sono inserite nel testo le immagini di un’opera per ciascuno dei 24 artisti espositori: in questo primo articolo le immagini per 12 artisti di cui 8 della sezione “Spazialismo”, commentata dopo un’inquadratura generale della mostra, e 4 della sezione “Nuclearismo e Astrazione” commentata all’inizio del secondo articolo, prima delle due sezioni restanti. Le immagini sono state riprese dal Catalogo, per questo ringraziamo Gangemi Editore, tranne la 9^, “Spirali” di Roberto Crippa, tratta dal sito web Farsettiarte, si ringrazia il titolare, pronti ad eliminare l’immagine se non è gradita la pubblicazione, peraltro senza alcuna motivazione economica ma solo illustrativa. Per la sezione “Concettualismo, in apertura, Lucio Fontana, “Studi per Concetto spaziale” 1949-51; seguono, Enrico Castellani, “Senza titolo” 1967 e Agostino Bonalumi, “Bianco” 1976; poi, Paolo Scheggi, “Zone riflesse” 1965 e Getulio Alviani, “Quattro cerchi virtuali” 1967; quindi, Rodolfo Aricò, “178A” 1967 e Vincenzo Agnetti, “Assioma Lavoro – Agnetti dimenticato a Memoria” 1972; inoltre, Michele Zaza, “Senza titolo” 1972. Per la sezione “Nuclearismo e Astrazioni”, commentata nel prossimo articolo, Roberto Crippa, “Spirali” 1951, seguono Sergio Dangelo, “Senza titolo” 1970 e Gianni Dova, “Senza titolo” anni ’70; in chiusura, Emilio Scanavino, “Figure” 1978.

Emilio Scanavino, “Figure” 1978