I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano, 2. Dal “Nuclearismo” a “I mondi della nuova comunicazione”, all’Auditorium della Conciliazione

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra  “I favolosi anni ’60  e ’70 a Milano”, all’Auditorium della Conciliazione a Roma, dal  27 settembre al 20 novembre 2022 , promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele,  realizzata  da “Poema” in collaborazione con “Auditorium della Conciliazione”,  curata da Lorenzo ed Enrico Lombardi come il Catalogo di Gangemi Editore”. Dopo aver descritto in precedenza  la sezione lo “Spazialismo”, passiamo in rassegna le restanti sezioni: “Nuclearismo e Astrazioni”, “Nouveau réalisme tra Italia e Francia”, “Nei mondi della nuova comunicazione”. Esposte 36 opere di 24 artisti più un filmato.

Arman, “Senza titolo”, 2002

Al  Manifesto Tecnico degli “Spazialisti” del 1951 – il movimento di cui abbiamo parlato in precedenza a proposito della prima sezione della mostra – seguì il Manifesto Tecnico della “Pittura Nucleare” con un’impostazione molto diversa anche rispetto alla recentissima corrente che dava allo spazio un contenuto del tutto innovativo. Con inizio negli anni ’50, in pieno dopoguerra, i due decenni successivi videro gli artisti collocati in schieramenti definiti ma non esclusivi, per cui ne ritroviamo molti aderire a diversi manifesti, come quelli dello Spazialismo e della Pittura Nucleare.

Si incontravano nel Bar Jamaica, divenuto il loro ritrovo, anche con letterati e artisti stranieri, mentre Milano era divenuta una città d’arte di richiamo internazionale. L’evoluzione era talmente rapida sotto la spinta di una forte inquietudine creativa che veniva superato addirittura anche l’informale per una smaterializzazione dell’arte con delle sculture “immateriali”.  Ma il consumismo di massa – che rappresentava una vera e propria rivoluzione nei costumi e nella vita della società – riportava alla realtà come si presentava nella standardizzazione crescente; l’arte si poneva in direzione  critica nei confronti di questa tendenza inarrestabile, come nei confronti della commercializzazione sempre più spinta. Finché la forza del mercato ebbe la prevalenza anche in campo artistico, e allora –  dopo il successo della Pop Art americana alla Biennale di Venezia del 1964 – al centro della scena subentrò New York rispetto a Milano e  Roma, oltre che Parigi, in termini prettamente economici, perché a Milano si continuò a sperimentare attivamente.

Le tre sezioni della mostra che commenteremo – dopo la prima sullo Spazialismo di cui abbiamo già dato conto –  danno testimonianza della spinta innovativa che proseguì nei “favolosi anni 60 e ‘70” a Milano: “Nuclearismo e Astrazioni”, “Nouveau  réalisme tra Italia e Francia”,  “Nei mondi della nuova comunicazione”.  

Piero Manzoni, “Merda d’artista”, 1961

“Nuclearismo e Astrazioni”

Le 5 opere di 4 artisti esposte in questa sezione evocano un movimento che, come lo Spazialismo, vuole innovare profondamente nei canoni fino ad allora seguiti rivedendo anche gli archetipi della pittura e dell’arte. I Nuclearisti addirittura non si limitano a intervenire sulla tela come gli Spazialisti con i quali condividono la lotta contro l’accademismo: nel  loro Manifesto si legge che “vogliono reinventare la pittura disintegrandone le forme tradizionali”. Ed ecco come: “Nuove forme dell’uomo possono essere trovate nell’universo dell’atomo e nelle sue cariche elettriche”. Ecco perché: “Non siamo in possesso della verità che può essere trovata solo nell’atomo. Siamo coloro che documentano la ricerca di questa verità”.

In sostanza, si postula l’uscita dalla fisicità pittorica della tela – in modo diverso da Fontana ma con analoga motivazione – come dalla fisicità scultorea della materia per cercare altre prospettive dell’arte rivedendo i rapporti tra luce ed energia, materia e movimento.  E questo nel progredire dell’attività del movimento con un’azione antistilistica che respingeva ogni imitazione oggettiva e ogni necessità di rappresentare la realtà.

Nel “Manifesto contro lo stile” del 1959 con cui, in una certa misura, culmina e si esaurisce il Nuclearismo,  Baj e D’Angelo scrivono:  “L’ultimo anello della catena sta per essere oggi distrutto. Noi nucleari denunciamo oggi l’ultima delle convenzioni – lo stile… Noi affermiamo l’irripetibilità dell’opera d’arte, e che l’essenza della stessa si ponga come ‘presenza modificante’ in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze”. In definitiva,  con l’antistile venivano abbattuti i luoghi comuni per la completa liberazione dell’arte, andando ben oltre quanto  avevano fatto per liberare la pittura l’impressionismo rispetto ai soggetti convenzionali, il cubismo e il futurismo rispetto all’imitazione oggettiva, l’astrattismo rispetto alla rappresentazione: ci si liberava anche dello stile.

Mimmo Rotella, “Tupamaros”, 1988

Numerosi gli artisti che fecero parte di questo movimento, alcuni di loro, Baj in primis, li ritroviamo in altri movimenti e altre sezioni della mostra, a conferma del clima fortemente innovativo dell’area milanese. Anche in questo caso si inizia dagli anni ’50, che sono stati gli apripista dei due decenni successivi, come si è già detto, proprio per gli stimoli del dopoguerra.

La  prima opera che vediamo esposta è del 1951, “Spirali” di Roberto Crippa, molto significativa perché il groviglio di fili neri sembra evocare gli elettroni che ruotano intorno al nucleo dell’atomo, potrebbe essere considerata la sigla visiva dei Nuclearisti. L’artista nel 1950 fu uno dei firmatari del terzo  Manifesto dello Spazialismo con  Lucio Fontana di cui era amico, ma dal 1955 si dedicò ad opere polimateriche, prima con dipinti, poi utilizzando materiali come ferro, bronzo, acciaio, dal 1960 amianto e sughero. .

Degli anni ’70, anzi del 1970, troviamo 2 “Senza titolo”, una di Sergio D’Angelo e l’altra di Gianni Dova. Hanno in comune anche la modalità rappresentativa, delle forme ben delineata, la prima sembra un coniglio dietro a  una distesa di panni, la seconda ha delle forme tonde e lineari molto nette, blu e bianche. Di D’Angelo è esposta anche un’opera degli anni ’90, “Suono di arpa”, con delle forme indubbiamente evocative. L’artista faceva parte del gruppo che dalla metà degli anni ’50 frequentava Albissola per gli Incontri internazionali di ceramica e le altre occasioni legate anche alla scultura per l’importanza assunta dalla città ligure nella ceramica.

Così in “Figure”, del 1978, di Emilio Scannavino, su fondo rosso due strisce bianche con infilato un groviglio di fili o simili. Il nodo stilizzato, in diverse forme e colorazioni fino al rosso sangue, viene considerato  un suo segno caratteristico.

Daniel Spoerri, “Tableau plegé”, 1972, part.

“Nouveau réalisme tra Italia e Francia”

Entrano sulla scena  nuove avanguardie, il clima artistico muta negli USA con il New Dadaism e in Francia  il “Nouveau Realisme”, che tenne a Milano la prima mostra nel 1960 nella Galleria Apollinaire. Risposero all’invito di Pierre Restany, a capo del gruppo,  Arman e Hains, Deufrene e Villeglé, Tinguely e Klein che già aveva esposto nella stessa galleria tre anni prima  dove aveva conosciuto Piero Manzoni; in seguito entrarono nel gruppo altri artisti quali Raysse e Cesar, Christo e Nike de Saint Phalle, Spoerri e Rotella, fino a Deschamps,

Nella diversità delle forme espressive questi artisti avevano in comune, come si legge nel Manifesto scritto da Restany, il “riciclaggio poetico del reale urbano, industriale, pubblicitario”. E con il forte sviluppo economico e  lo sviluppo il consumismo di massa stimolato dalla pubblicità gli stimoli non mancavano. In pratica venivano realizzati degli assemblaggi di materiali spesso di risulta che si traducevano in sculture d’avanguardia a testimonianza della realtà in evoluzione.

Di Arman vediamo esposta un’opera espressiva di quel periodo anche se molto successiva, “Senza titolo” 2002,  una “accumulazione di  tubetti e sassofono tagliato, montato su tela, riportato su tavola”, si legge nella didascalia, i tubetti bianchi e aperti sopra, il sassofono diviso a metà sotto al centro, tutto realistico. In altre opere utilizza frammenti o pezzi interi di oggetti di uso comune, quali chiavi , forchette e coltelli. Anche Cesar, le cui opere non sono presenti in mostra, utilizzava pezzi di oggetti, addirittura di carcasse di automobili compresse fino a comporre delle sculture.

Enrico Baj, “Personaggio”, 1980

Ed è altrettanto realistico David Spoerri, nel “Tableau Pegé” 1972, con una ventina di “oggetti diversi su pannello”, piatti e tazzine, posate e una bambola, perfino un portacenere con sigarette consumate, tutto molto figurativo. Suoi i “quadri-trappola”, con oggetti incollati su tavole.

Ma con Piero Manzoni  si va ben oltre, il suo “Merda d’artista” 1961, vuol essere la contestazione al sistema intorno alle opere d’arte, che non vengono considerate per il valore ma soltanto per la provenienza dall’autore che le ha create, e diventano d’arte solo per questo motivo. Inscatolò le proprie feci in 90 barattoli di 30 grammi, 6,5×4,5 cm, indicando la data del maggio 1961 in cui era stata “conservata al naturale, prodotta e inscatolata”,  e i suoi barattoli diventarono opera d’arte venduti allora  a peso d’oro dei 30 gr di contenuto, e lo sono tuttora, basti pensare che il barattolo n. 69  è stato venduto il 6 dicembre 2016 all’asta della galleria milanese “Il Ponte” per 275.000 euro, superando i 247.000  euro  della vendita del 16 ottobre dell’anno precedente all’asta londinese di Christie’s.  Anche Marcel Deshamps ebbe una esperienza analoga, i suoi “Ready made” – oggetti in vendita semplicemente tolti dalla loro funzione abituale – esposti come opere d’arte divennero tali per la loro provenienza da lui artista. Di Piero Manzoni vanno ricordate soprattutto le sculture immateriali, fatte solo di aria e di linee verso l’infinito in degli astucci, come ricorda Alberto Dambruoso. Sono opere in cui ha superato l’informale,  che era diventato pura accademia riducendosi a una superficie su cui venivano apportati segni alla rinfusa, materie di vario tipo, concrezioni di colore,  e il tutto diventava opera d’arte solo per la firma dell’artista; come ha provato con la sua provocazione. Scomparve prematuramente nel 1983 a soli 30 anni.

Con Mimmo Rotella incontriamo un altro caposcuola, che partecipa anche al gruppo romano della Scuola di Piazza del Popolo,  di lui sono esposti 2 “decollage” di piccolo formato, “Senza titolo”, circa 1955, su faesite, pezzi di colore giallo in varie tonalità fino all’arancione,  e “Tupamaros” 1988, su tela, con i contorni in nero di un revolver su fondo bianco e parti incollate rosso e arancio, in evidenza grandi lettere con il nome del gruppo rivoluzionario. Rotella è rinomato soprattutto per i pezzi di manifesti, cartelloni stradali e locandine di film strappati e incollati su tela o tavola.

Valerio Adami, “Studio per professione pittore”, 1974

“Nei mondi della nuova comunicazione”

La 4^ sezione della mostra  fa entrare ulteriormente in quella straordinaria temperie artistica che sono stati gli anni ’60 e ’70 a Milano, alimentata dalle suggestioni provenienti da una comunicazione quanto mai invasiva, espressione degli straordinari  mutamenti in atto nella società che da agricola diventava industriale e dei servizi, con il consumismo crescente e gli stimoli conseguenti sempre più penetranti della pubblicità, non escluso lo “star system” e simili. Abbiamo già sottolineato come rispetto alle avanguardie degli altri paesi – Pop Art americana in testa – nelle forme d’arte innovative sempre più diffuse che nascono nell’ambiente milanese non sono mancati i legami con il ricco entroterra culturale e artistico del nostro paese.

Dopo gli “Spazialisti”, i “Nuclearisti”,e i “Nuovi realisti”, ecco gli artisti che maggiormente riflettono gli stimoli della “Nuova comunicazione”, con espressioni molto diverse tra loro, nella  comune la volontà di innovare ma senza rinunciare a quanto di positivo in questa direzione era stato portato dalle  forme d’arte italianissime che sono state il Futurismo e la Metafisica.

Emilio Tadini, “Archeologia”, 1973

La rassegna espositiva di questi artisti – per i quali le citazioni che faremo si riferiscono a Lorenzo Canova  –  si apre con Enrico Baj, celebre per i suoi generali messi alla berlina nella loro goffa bulimia del potere: questo artista, presente in vari gruppi di avanguardia, oltre ai potenti generali ritrae con pari ironia principesse di regni spariti. Non solo ma –  come scrive il critico ora citato – “i generali di Baj possono allora trasformarsi così negli ultracorpi che insidiano pin-up da rivista illustrata o che minacciano Adamo ed Eva come angeli della collera divina riletti in modo grottesco e provocatorio”. L’artista utilizza immagini commerciali e da film fantascientifici creando un immaginario dissacrante rispetto alla tradizione. Sono esposti “Animale” 1062, un collage su cartone con un grande occhio in una specie di fiocco in primo piano su uno sfondo con le sagome disegnate di meccanismi; e “Personaggio”, 1980 un grande volto rosa con venature bianche, in cui gli occhi sono oggetti circolari, la bocca un oggetto rettangolare e il naso della passamaneria, l’effetto dell’insieme è di una ironia peraltro leggera.

Valerio Adami, dopo una prima fase di natura espressionista e poi addirittura astratta, si impegna nel recuperare la figurazione ma non riferendosi alla tradizione bensì al fumetto e agli altri portati della Pop Art americana. Le sue opere sono di un cromatismo netto  brillante senza chiaroscuri di alcun tipo, i suoi personaggi evocano appunto quelli dei fumetti ma con una assoluta purezza di linee, anche per essere stato allievo di Achille Funi all’Accademia  di Brera a Milano.  L’opera esposta, “Studio per professione pittore” 1974, ha la stessa precisione cromatica delle altre sue opere ma appare enigmatica, senza le predilette figurazioni umane.

Lucio Del Pezzo, “L’oro era oro”, 1966

Ben diversa l’opera esposta di Sergio Sarri, “Baroness Steel n. 2” del 1973, sebbene l’ultimo riquadro nella parte inferiore sia proprio un fumetto con due giovani donne, una lega l’altra tenendole le braccia da dietro; il resto del collage su tavola è costituito da due immagini uguali ma di dimensioni diverse di “punching ball” che coprono a metà la figura di un pugile, al centro due corde arancione tese su un supporto metallico, terminano con due ganci lasciati liberi. In un unico schema compositivo la “contaminazione tra fumetto BDSM e classicità, tra la freddezza degli oggetti e la loro capacità allusiva”, quella del punching ball è una “sessualità allusa  e feticistica”.  

Di 5 artisti sono esposte più opere, li passeremo in rassegna avviandoci  alla conclusione.

Anchenelle opere di Emilio Tadini  ci sono “spazi nitidi e irreali, percorsi dalle apparizioni di manichini, oggetti, parole e supereroi”, ma il suo “stile rigoroso e impeccabile si arricchisce di un senso più profondo, ritrovando nelle suggestioni metafisiche la presenza enigmatica degli oggetti quotidiani e dei corpi senza volto”; e riferimenti filosofici, artistici e letterari mossi dalla sua attività di critico d’arte  e scrittore parallela a quella di artista. I 2 acrilici su tela, “Archeologia” 1973, e Natura morta” 1986, mostrano il primo 3 oggetti sospesi a fianco di una figura senza volto, il secondo forme bianche come panni stesi su una corda e una etichetta.

Ugo Nespolo, “Sun Flower”, 1995

Lucio del Pezzo esprime appieno la fusione tra elementi Pop e una visione con riferimenti classici, rinascimentali e metafisici, in assemblaggi tridimensionali dove sono unite figure ed elementi geometrici: “Del Pezzo, in modo pioneristico e tattile, ha reso infatti tridimensionali molti elementi tratti dalle opere di de Chirico, come asticelle colorate, palle, triangoli, volute, ma anche certi segni ermetici contenuti nelle sue opere della Metafisica a Parigi e a Ferrara, estraendoli e rimodulandoli all’interno del suo codice formale  dove incasella con perfezione numerica bersagli, piramidi e obelischi”. Lo vediamo nelle 3 opere esposte: la scultura “Navi russe” 1968, una colonna con 7 piani che recano oggetti tra cui un’ancora e una piramide, “L’oro era oro” 1968,  una piramide in primo paino a sinistra. e altre in lontananza a destra, in mezzo due misteriose forme bianche con fregi e altro, “Il ritorno di Giseh” 1983, la piramide in alto, un obelisco e un zig zag in basso.

Con Bruno Di Bello e Fabrizio Plessi entriamo direttamente nelle comunicazione. Bruno Di Bello  riproduce particolari ingranditi di reportage presi da settimanali quali “L’Espresso” e “Life” nelle sue opere intitolate “Copia dal vero”, mentre non copia il vero ma la sua versione fotografica. Nel suo “Senza titolo” 1962, uno smalto su carta applicata su tela in un colore rosso arancio, vediamo delle file orizzontali di lettere A intervallate a delle O. Gli anni ’70 lo vedono impegnato a scomporre e ricomporre le parole.  L’altro “Senza titolo” 1973 esposto, una tela fotografica mostra 20 riquadri ombreggiati con dei segni di lettere e altro.

Fabrizio Plessi va ancora oltre nel percorso comunicativo, avvalendosi delle nuove tecnologie, soprattutto del video, rendendo dinamiche immagini fotografiche, lo vediamo nell’opera esposta “Disegno/  movimento +a tempo, 1973 . su carta, gambe di ragazza in movimento che ricordano la “Ragazza che corre sul balcone” di Balla. Sul movimento farà ricerche che lo porteranno a realizzare videosculture tridimensionali, anche con ispirazione classica. L’altra sua opera esposta, “Senza titolo” 1963 è  anteriore, la forma ricorda un volto quasi da robot, freddo senza umanità.

Sergio Sarri, “Baroness Steel N. 2“, 1973

L’opposto troviamo in Ugo Nespolo, con 2 opere esposte, un esplosione di vita nei colori brillanti e nelle forme eclatanti, che rimandano al Futurismo di cui è stato conoscitore e in una certa misura continuatore, anche nella visione che spazia dalla pittura alla scultura, dall’installazione al  cinema, dal design alla pubblicità in un concetto di “opera aperta”: “Ha fuso dunque i suoi riferimenti colti all’immaginario pop, le sue visioni contemporanee alla grande tradizione rinascimentale …. Realizzando opere coloratissime dove le immagini compiono un percorso sospeso tra l’immediatezza dei mass media e il filtro della memoria, evocando numeri quasi futuristi  e attraversamenti di musei segnati dai capolavori dell’arte mondiale”.  I numeri futuristi in un trionfo di colori li troviamo in una delle due opere in acrilico su legno esposte, “My numbers” 2017, mentre  nell’altra opera,  “Sun flowers” 1995, al trionfo cromatico si aggiunge l’irraggiamento,

Ma  di Nespolo è anche la sorpresa finale, del 1967, un Filmato sonoro di 16 mm, 25’,  con Lucio Fontana. Enrico Baj, Renato Volpini, gli artisti amici, protagonisti autoironici di una breve storia scherzosa, cui ha dato il titolo “La galante avventura del Cavaliere dal lieto volto”. E’ la degna conclusione di una mostra che meritoriamente ci ha riportati ai “favolosi anni ’60 e ’70 a Milano”.

Bruno Di Bello, “Senza titolo”, 1962

Info

Auditorium della Conciliazione, Roma, Piazza Pia, 1. Orario, ore 12-19 dal martedì al sabato, ingresso gratuito. Catalogo “I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano”, a cura di Lorenzo e Enrico Lombardi, Gangemi Editore, settembre 2022, pp. 160, formato 23 x 28. Il primo articolo è uscito in questo sito il 13 novembre 2022. Cfr. i nostri articoli, per la mostra del 2011 “Gli irripetibili anni ’60”, su cultura.inabruzzo.it il 15, 20, 25 luglio 2011; per gli gli artisti citati, in questo sito, su Adami, 1, 2 gennaio 2021, Astrattismo italiano 5, 7 novembre 2012, in cultura.inabruzzo.it su Baj 23 settembre 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito).

Photo

Sono inserite nel testo le immagini di un’opera per ciascuno dei 24 artisti espositori: in questo secondo articolo le immagini per 12 artisti di cui 4 della sezione “Nouveau réalism”, e 8 della sezione “Nei mondi della nuova comunicazione”; per la sezione “Nuclearismo e Astrazioni” le immagini sno inserite nella seconda parte del primo articolo. Le immagini sono state riprese dal Catalogo, per questo ringraziamo Gangemi Editore, tranne la 3^, “Tupamaros” di Mimmo Rotella, tratta dal sito web InsideArt, si ringrazia il titolare, pronti ad eliminarla se non è gradita la pubblicazione, peraltro senza alcuna motivazione economica ma solo illustrativa. Per la sezione “Nouveu réalisme tra Francia e Italia”, in apertura,

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Fabrizio Plessi, “Disegno / movimento + tempo”, 1969