Il bombardamento di Montecassino, 15 febbraio 1944. Dal paradiso all’inferno e ritorno

Dal mensile “Realtà del Mezzogiorno” del febbraio 1984

di Romano Maria Levante

Ottanta anni fa, il 15 febbraio 1944, il terrificante bombardamento u Montecassino con la distruzione dell’abbazia benedettina che svettava sulla piana di Cassino dove i tedeschi arroccati sulla linea Gustav avevano bloccato l’avanzata delle truppe alleate dopo gli sbarchi avvenuti più a sud. Nel quarantennale del terribile evento, nel febbraio 1984, ricostruimmo, oltre al bombardamento, il provvidenziale salvataggio dei tesori dell’abbazia che furono portati in salvo circa tre mesi prima ad opera dei tedeschi e per loro iniziativa, con il fattivo contributo dei frati benedettini impegnati anche nell’impedire che fossero trafugati per la Germania e non portati inVaticano e negli altri luoghi al sicuro, si è trattato di circa mille casse con opere d’arte e valori inestimabili, preziosi documenti di archivio e una biblioteca storica, il tutto evacuato dall’abbazia con una teoria di camion, ciascuno “presidiato” da due frati. La nostra rievocazione avvenne dopo una visita all’abbazia all’inizio del 1984 con la guida illuminata di mons. Martino Matronola, fino a poco tempo prima abate, che nel periodo in questione era segretario dell’abate Diamare ed ebbe un ruolo primario nella vicenda dato che parlava tedesco, era sempre vicino all’abate ottantenne con l’incarico di coordinare e vigilare. E’ una storia in cui i cattivi sembrano dventati “buoni”, per il salvataggio dei tesori di arte, cultura e storia, e i buoni “cattivi”, per il dissennatobombardamento distruttivo. La conclusione è quella che ci consegnè mons. Matronola al termine dell’incontro: l’inferno va dimenticato, Montecassino è tornato ad essere un paradiso. Dopo quarant’anni ripubblichiamo oggi, 15 febbraio 2024, nell’ottantesimo anniversario l’articolo che pubblicammo allora, nel febbraio 1984, sul mensile “Realtà del Messogiorno”, senza alcuna modifica per mantenerne tutta l’immediatezza, aggiungendo soltanto le immagini non contenute nella pubblicazione a stampa di allora. E lo dedichiamo, con comprensibile emozione, a mons. Matronola che si regalò la sua testimoniana preziosa.

A quarant’anni di distanza una rievocazione del dramma del 15 febbraio 1944. “15 febbraio 1944, bombardamento di Montecassino, ore 9,20 – 9,35 – 9,50 – 10,50 – 11,10 – 13,10 – 13,20 (a formazioni di 36) fortezze volanti 142 e bombardieri medi 112”. Non è tratto dagli annali di guerra ma dagli appunti di un teste oculare – l’allora studente Carotenuto -che assistette al dramma dalla collina di San Michele.

E non è finita: nel trigesimo del bombardamento di Montecassino, il 15 marzo, bombardamento di Cassino: “Un ufficiale inglese, amico, mi conferma – annota sempre Carotenuto – che hanno partecipato al bombardamento 1500 aerei sganciando oltre 2500 tonnellate di esplosivo. Subito dopo la fine del bombardamento inizia un terrificante fuoco d’artiglieria che investe la città, la montagna di Montecassino e le zone circostanti”. In quei tragici momenti l’abbazia appare un vulcano in eruzione; nelle immagini successive uno scheletro umano proteso verso il cielo.

E’ stata un’altra distruzione, questa volta totale, dopo quella dei Longobardi nel 577 (allora vi era l’oratorio di San Giovanni Battista), dei Saraceni nell’883 (l’oratorio era stato trasformato dall’abate Ginulfo in una chiesa a tre navate) e dopo quella del terremoto del 1349 (che colpì la basilica costruita con un diverso orientamento e una maggiore estensione dall’abate Desiderio poco dopo l’anno 1000), a cui seguì la ricostruzione sei-settecentesca che tutti conoscono.

Da sempre il cenobio benedettino cassinese ha svolto un ruolo culturale oltre che religioso di grande importanza attraverso la Biblioteca, il Collegio e una intensa attività: un paradiso di fede e di cultura, di arte e di tradizione posto sulla cima della montagna che svetta nella piana cassinese.

Su questo paradiso quaranta anni fa si è scatenato l’inferno (“Inferno a Cassino” ha intitolato il suo libro rievocativo un ufficiale americano tornato a visitare i luoghi della guerra). E’ una storia incredibile ma vera, dove i ruoli si sono rovesciati: i “buoni” sono diventati “cattivi” ed i “cattivi” “buoni”; mentre sono rimasti inermi, lassù nell’abbazia, i frati benedettini sui quali si sarebbe dovuta distendere la mano protettiva della Chiesa, dello Stato, del mondo; ma sono stati lasciati soli.

Su queste drammatiche contraddizioni si può fare chiarezza perché è tutto scritto nel “diario di guerra” tenuto con preveggenza in quei giorni prima da don Eusebio Grossetti, poi da don Martino Matronola, allora segretario dell’ottantenne abate Diamare; diario pubblicato dai monaci cassinesi nel 1980, quando Monsignor Matronola, divenuto abate, celebrava le nozze d’oro con il sacerdozio.

Il prezioso quaderno fu ritrovato tra le macerie dell’abbazia quasi integro: un evento fortunato dopo il vero miracolo del ritrovamento della tomba e della cella di San Benedetto intatte sotto le macerie e l’altro miracolo della salvezza dei monaci usciti illesi dall’abbazia, divenuta il cratere di un vulcano.

Scorriamo il “diario di guerra” tenuto durante l’intera vicenda per cinque interminabili mesi e soffermiamoci sulla cruciale decisione dei monaci: l’accettazione dell’offerta tedesca di procedere allo sgombero del patrimonio di cultura e di arte per metterlo in salvo.

Il salvataggio del patrimonio di cultura e di arte

L’offerta fu tempestiva quanto pressante, ma la richiesta era troppo insistente per sembrare disinteressata, e poi proveniva dalla divisione Goering che non aveva certo la fama di mirare alla preservazione dei patrimoni artistici nelle zone occupate, ma li asportava di forza per scopi evidenti.

I monaci dovevano decidere e decisero per il meglio, rinunciando al facile disimpegno: decisero per lo Stato italiano, del quale custodivano il prezioso Archivio, la Biblioteca e tante opere d’arte; per Napoli, che aveva affidato all’abbazia il tesoro di San Gennaro; decisero per tutti.

E aver collaborato sin dall’inizio consentì a loro di controllare e quasi “gestire” l’intera operazione. Inermi, isolati, e in qualche misura abbandonati da tutti, riuscirono perfino a “imporre” due monaci di scorta ad ogni autocarro che trasportava le preziose casse, tessendo una rete sottile fatta di riconoscimenti e fiducia e insieme di sospetti e sfiducia.

Tutto fu registrato e classificato con cura e puntiglio. La lista del materiale trasmessa da don Matronola a don Leccisotti – inviato nella Capitale per ricevere il materiale e contattare il Vaticano – è un capolavoro di precisione, anzi di pignoleria, rimarchevole date le circostanze.

Le casse della Biblioteca monumentale dello Stato italiano furono 240, casse e capsule dell’Archivio nazionale 154, del Monastero 275 casse della Biblioteca privata, e poi diecine di capsule e codici, corali e pergamene, quadri e reliquie. Infine 187 casse del Museo di Napoli.

Non solo, ma ciò che poteva suscitare maggiori tentazioni e cupidigie fu occultato in vario modo- è il caso del Museo numismatico di Siracusa – dando fondo a tutte le cautele e astuzie che la posta in gioco richiedeva, e non solo nei confronti dei tedeschi: si pensi al gran numero di rifugiati che affollava l’abbazia. Per i nascondigli all’interno – scrive don Matronola – “due o tre monaci diversi furono messi al corrente dell’uno o dell’altro ripostiglio, ma nessuno sapeva ciò che vi era riposto; io solo ne avevo l’elenco completo”.

Interpretazioni sul salvataggio e sui “salvatori” tedeschi

Ma potevano i “cattivi” essere diventati tutto a un tratto “buoni” ed avere – nella tempesta della guerra – quell’interesse autentico per il salvataggio delle opere d’arte e dei tesori della cultura ostentato dal colonnello Schlegel e rivendicato nel suo memoriale “Il mio rischio a Montecassino”?

Certo, l’appartenenza alla divisione Goering non favorisce questa interpretazione; lascia forti perplessità anche il fatto che tutto quanto apparteneva allo Stato italiano – precisamente l’Archivio e la Biblioteca – non fu portato a Roma ma a Spoleto nonostante le rimostranze del monaci, ed era destinato ad andare sempre più a nord, mentre il fronte si spostava, totalmente in mano ai tedeschi. Non solo, ma a Spoleto giunsero in missione speciale esperti d’arte inviati da Berlino, forse da Goering in persona, per scegliere le opere più pregiate ai fini che è facile immaginare.

Su questo aspetto della vicenda seguiamo il memoriale del capitano Becker, l’altro organizzatore – con il colonnello Schlegel – del salvataggio, che sembra animato da propositi più genuini; e “marca” strettamente Schlegel e con lui i superiori della divisione Goering – da Bobrowski a Jacobi fino al generale Conrad – per impedire quello che sospetta stiano tramando.

Becker scrive della propria ferma opposizione a che fossero manomesse o, peggio, depredate le opere che i monaci avevano affidato ai tedeschi e dei sistemi a cui ricorse per scongiurare che fossero trattenute come pegno a garanzia del compenso per l’opera di salvataggio.

E tutto quello che seguì, le interviste, i documentari filmati, lo sfruttamento propagandistico per rovesciare l’immagine di “cattivi” sugli anglo-americani ed attribuirsi quella di “buoni” difensori della cultura e dell’arte fu anche, scrive Becker, un usbergo per sventare il temuto colpo di mano tedesco. Il ritorno da Spoleto a Roma dell’Archivio e della Biblioteca di proprietà dello Stato italiano e la regolare consegna di tutto quanto evacuato da Montecassino sarebbero stati il risultato positivo anche di questa amplificazione dell’operazione-salvataggio, posta in tal modo sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

Ne dà conferma il diario di don Leccisotti, puntuale nel descrivere il labirinto dei palazzi vaticani e dei ministeri italiani, da lui percorso con pervicacia fino a riuscire collocare il carico di opere da salvare, prezioso quanto ingombrante sotto tanti profili: “Lo Schlegel successivamente attribuì a sé tutta l’iniziativa di questo sgombero e quindi del salvataggio dell’Archivio e della Biblioteca. Pare invece più verosimile quanto sostiene il capitano Becker”. Se ne deve dedurre che tutti i “cattivi” non diventarono “buoni”, ma dovettero fare di necessità virtù.

Il drammatico epilogo

Ultimato il 2 novembre del 1943 lo sgombero delle opere di cultura e d’arte asportabili e l’evacuazione della maggior parte dei monaci e delle suore, nell’abbazia rimase una pattuglia di dodici religiosi, i cui nomi vanno ricordati: l’abate Diamare e fra Pelagalli ottantenni; don Matronola, don Graziosi e don Tardone quarantenni; don Grossetti e don Saccomanno trentatreenni; fra Zaccaria e fra Ciaraldi trentenni; fra Colella ventiquattrenne; don Falconio del clero secolare e Cianci, oblato.

Difesero Montecassino da qualsiasi intrusione militare ottenendo una zona di salvaguardia di trecento metri all’interno della quale non vi fu mai postazione tedesca; evitarono che fosse posta una unità di avvistamento nel punto più alto dell’abbazia, che ben si prestava e quindi faceva gola all’occupante. La rete di fiducia-sfiducia intessuta con le autorità tedesche a diversi livelli funzionò pure sotto questo aspetto, anche se tutto fu inutile visto l’epilogo della vicenda.

Si sta per consumare il dramma. Il 13 febbraio muore don Eusebio Grossetti per una malattia contratta nelle terribili condizioni in cui era ridotta la vita della comunità, tragico prologo della tempesta che si addensa. I tempi sono scanditi dai bollettini militari. La quinta armata americana lancia dei volantini con l’ultimatum e don Matronola annota nel suo diario: “Il nostro cuore è pieno di sgomento nel leggere tale volantino lanciato dai… Liberatori. Anch’essi hanno gettato giù la maschera”.

L’indomani è il giorno dell’Apocalisse. Lo riviviamo nelle sue parole: “E’ un inferno. Il più crudele generale non si sarebbe accanito con tanto furore contro la più formidabile fortezza, quanto si sono accaniti in questi giorni gli anglo-americani contro un luogo così santo… moriremo avvinghiati all’altare”.

L’immane scempio è ormai compiuto e l’abbazia di Montecassino è un cumulo di macerie dal quale riemergono i sopravvissuti: proprio la pattuglia dei nove monaci rimasti e dei due secolari, con un piccolo gruppo di rifugiati. Sotto l’imperversare dell’artiglieria avanza lentamente una processione spettrale con in testa il grande Crocefisso di legno della Stanza dei vescovi; i soldati “a vedere questo strano corteo preceduto dalla Croce di Cristo sulla linea del fuoco – sono sempre le parole di don Matronola – rimangono stupiti e forse commossi”.

Sono immagini, quelle del bombardamento e queste dell’esodo dalle rovine, che riportano al Cristianesimo delle origini, alle invasioni barbariche con le loro profanazioni e i loro martiri, ma anche con le grandi vittorie della fede. Montecassino è un capitolo luminoso in questa lunga storia.

Dall’inferno al paradiso

Monsignor Matronola ci fa da guida nella visita all’abbazia ricostruita. E’ il 1984, quarant’anni dopo il bombardamento; fino al 25 aprile 1983 e’ stato abate, lui che nel 1944 era il segretario quarantenne dell’ottantenne abate Diamare e, forte anche della sua conoscenza del tedesco, aveva gestito e vissuto da protagonista l’intera vicenda.

Abbiamo cercato di strappargli un giudizio sulle responsabilità della distruzione. I ricordi sono vivi, e anche l’angoscia, ma non ha dubbi. Le colpe erano di Hitler che scelse come caposaldo la zona di Cassino, decisione a seguito della quale Montecassino – posto al centro come bastione naturale – non poteva salvarsi; era il “rischio calcolato” di cui aveva parlato il generale Clark, trasformato in tragedia per l’umanità, i suoi valori di fede, d’arte e cultura.

Sulla solitudine dei monaci dinanzi alle gravi decisioni da prendere, la risposta è altrettanto netta: bisognava riportarsi a quei momenti, allorché lo Stato italiano era ridotto allo stremo, mentre il Vaticano doveva dare credito agli affidamenti ricevuti; e proprio la tragedia di Montecassino aprì gli occhi a tanti e impedì che il dramma si ripetesse a danno degli altri sacrari della fede e della cultura.

Non va oltre queste scarne risposte, vede la vicenda “sub specie aeternitatis”. L’ombra angosciosa del passato si ripresenta davanti ai grandi pannelli della distruzione (“noi eravamo lì sotto”, commenta) e alle gigantesche bombe trovate inesplose ed esposte per memoria e per monito. Ma le meraviglie che ci circondano e l’entusiasmo giovanile della nostra illustre guida esorcizzano il ricordo dell’inferno che, lo dice lui esplicitamente, va dimenticato.

Sottolinea con orgoglio che si era cercato di ripristinare tutto com’era, con il concorso di artisti e artigiani insigni di ogni parte del paese; non c’erano state “riparazioni di guerra” palesi od occulte, l’onere era stato sostenuto interamente dallo Stato italiano.

I preziosi intarsi di marmo della basilica, il coro ligneo, i mosaici, tutto era stato ricreato con amorevole cura; al posto dei dipinti di Luca Giordano quelli di Annigoni e di altri artisti moderni, l’unica modernizzazione a cui si era dovuto far ricorso. Mancava solo la patina del tempo per perfezionare questo ulteriore miracolo cassinese. Non ci sono più dubbi, Monsignor Matronola ha ragione, l’inferno va dimenticato. Montecassino è tornato ad essere un paradiso.

Febbraio 1984

Photo

Come si è premesso l’articolo – esclusa ovviamente l’introduzione in corsivo che ne spiega la genesi e l’intento – è la copia identica di quello pubblicato sul mensile di politica e cultura “Realtà del Mezzogiorno” nel numero di febbraio 1984, ad eccezione delle immagini che non erano contemplate dalla rivista. Le abbiamo inserite per documentare anche visivamente la vicenda e le operazioni che portarono al salvataggio dei tesori di Montecassino: in due immagini le figure dei protagonisti, l’abate Diamare e il colonnello tedesco Schlegel (nella seconda immagine immediatamente dietro l’abate si vede il segretario don Martino Matronola che ebbe un ruolo primario), e nelle immagini che seguono le operazioni di imballo e caricamento sui camion delle preziose opere da salvare, fino all’arrivo a Roma, con i conclusione l’attestato di benemerenza per il colonnello tedesco.: queste immagini sono tratte dal sito web “momenti sospesi”, che contiene un ampio reportage dell’evento. L’articolo si apre e si chiude con le immagini dell’abbazia di Montecassino prima del bombardamento, dopo la distruzione e dopo la ricostruzione, dal paradiso all’inferno e ritorno, tratte dal sito “beni culturali on line”. Si ringraziano i titolari di questi siti e dei diritti sulle fotografie riportate per l’opportunità offerta precisando che le immagini sono state inserite a puro scopo illustrativo senza alcuna finalità economico-commerciale, pertanto se la pubblicazione non fosse gradita saranno subito eliminate dietro semplice richiesta.

1 Commento

Rita Martini Abitbol

Sono figlia di un cassinese (si dice così’?)e dalle parole del Dr. Levante ho potuto rivivere l’amore che mio padre sentiva per Montecassino. Complimenti all’autore. Articolo scritto bene, preciso e dettagliato. Un piccolo capolavoro in questa nostra epoca di decadenza intellettuale e culturale.
Grazie Dr. Levante!
Rita Martini Abitbol