16^ Quadriennale di Roma, 1. Torna dopo 8 anni al Palazzo delle Esposizioni

Dopo i due articoli di presentazione della 17^ Quadriennale di Roma, in programma tra il 29 ottobre e il 17 gennaio 2020, sugli incontri di febbraio al Tempio di Adriano e di luglio 2020 al MiBACT, per far entrare sin da ora nello spirito e nel clima della mostra, ripubblichiamo in sequenza dal 21 al 25 luglio 2020 il servizio in 5 articoli sulla 16^ Quadriennale, svoltasi dal 13 ottobre all’8 gennaio 2017, uscito in www.arteculturaoggi.com il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016.

di Romano Maria Levante 

Il ritorno della Quadriennale di Roma  dopo otto anni, con la 16^ edizione,  è stato presentato  il 6 giugno 2016 nel grande salone del Ministero dei Beni Culturali al Collegio Romano,  con l’intervento del ministro Dario Franceschini, dal suo presidente Franco Bernabè e dal Commissario all’Azienda Speciale Palaexpo Innocenzo Cipolletta  partner dell’iniziativa prodotta in modo paritetico. La mostra, allestita al  Palazzo Esposizioni dal 13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, sarà una che vetrina dell’arte contemporanea con  150 opere di cui 60 nuove e  90 realizzate soprattutto nell’ultimo biennio.

Una presentazione non rituale, quella della 16^ Edizione della Quadriennale di Roma, con  gli 11 giovani curatori i quali, dopo l’esposizione del presidente Bernabè , che ha sottolineato la ricerca della  “creatività” a tutti i livelli, hanno illustrato i criteri seguiti da ciascuno di loro nella scelta degli artisti e le relative motivazioni . I risultati si vedranno nella mostra al Palazzo Esposizioni dell’autunno-inverno 2016  con 99 artisti, numero che non è un  richiamo alla Fontana delle 99 cannelle dell’Aquila, simbolo dell’Abruzzo, ormai sono lontani i tempi della solidarietà post terremoto; prelude alla “centesima opera”,  o meglio al “100° artista”, Sandro Ghia con  la sua BMW Art Car che sarà posta a chiusura del percorso espositivo.

Questo si deve alla novità introdotta nel rapporto con i privati che concorrono alla copertura del budget di 2 milioni di euro, metà del quale finanziato dalla Direzione generale Arte e Architettura contemporanea e Periferie urbane del Mibact, l’altra metà coperta dai due partner promotori e dagli sponsor; lo sponsor principale è l’ENI che partecipa con una installazione permanente al Palazzo Esposizioni e un progetto di comunicazione rivolto ai giovani  sull’arte contemporanea; sponsor la BMW Italia che celebra i propri 50 anni e i 100 anni del BMW Group con l’opera citata.  Tra i partner l’Axa Italia e l’Axa Art, impegnati nella valorizzazione delle nuove generazioni artistiche anche con altre manifestazioni, Illy che partecipa con un Premio e Fondazione Altagramma con il ruolo di Ambasciatore della Quadriennale.

E’  importante che l’intervento dei privati non si limiti alla partecipazione finanziaria ma si traduca in  alleanze legate  a progetti specifici: può essere la nuova frontiera di un rinnovato interesse per l’arte con un effettivo mecenatismo che possa servire di sostegno ai giovani artisti contemporanei.

Che la Quadriennale di Roma ne sia l’apripista è insito nella sua stessa funzione:  presentare una rassegna dell’arte contemporanea,  una vetrina prestigiosa per le nuove generazioni delle opere più recenti. L’assenza per otto anni – è saltata l’edizione del 2012 – accresce il valore dell’edizione attuale anche perché, piuttosto che “recuperare” il tempo perduto, si proietta ancora di più in avanti, con il 40% delle opere scelte del tutto inedite e il 60%  soprattutto degli ultimi due anni.

Inoltre è prevista nello stesso periodo una serie di eventi collaterali sull’arte contemporanea  a Roma,  nei musei, fondazioni e gallerie che vi hanno aderito, finora  25 ma l’adesione resta aperta. Sarà  promossa un’attività didattica nelle scuole per farla  conoscere e apprezzare ai più giovani.

La selezione dei curatori

Si potrebbe dire che l’edizione del 2012, che è stata “saltata”, nella sostanza è stata sostituita dal Padiglione Italia della Biennale di Venezia  del 2011 nel 150°  anniversario dell’Unità d’Italia. Vittorio Sgarbi  lo  organizzò all’insegna di una vis polemica esibita da par suo contro i critici d’arte,  volutamente esclusi dalle selezioni:  le opere realizzate a partire dall’inizio del nuovo millennio furono  selezionate da personaggi che lui stesso scelse tra i non addetti ai lavori ma in posizione eminente nel mondo della  cultura e nella società . Risultato: un gran numero di  opere esposte nel Padiglione Italia a Venezia  e nei padiglioni regionali, per il Lazio a Palazzo Venezia

Bernabè, nella sua ricerca della creatività giovanile anche dei segnalatori-curatori oltre che degli artisti, non è stato da meno di Sgarbi nell’innovazione, perché  non ha seguito il metodo tradizionale di affidare la cura della Quadriennale a una Commissione nominata dal Consiglio di Amministrazione; nè  ha scelto lui i curatori  a cui affidare la selezione delle opere e degli artisti come ha fatto Sgarbi rivolgendosi ai VIP,  ma è ricorso a una speciale procedura che ha richiesto sei mesi di tempo, per garantire la massima aderenza agli obiettivi posti alla 16^ Edizione della Quadriennale, così enunciati:  “Contribuire in maniera significativa a individuare e a valorizzare le espressioni più rilevanti dell’arte italiana dopo il Duemila, dare voce a una pluralità di linguaggi e sprigionare le potenzialità delle nuove generazioni”.

E chi avrebbe potuto  farlo meglio di giovani curatori,  in sintonia con gli artisti delle nuove generazioni?  Dei giovani  coinvolti  nel progetto di “dare una mappatura mutevole delle produzioni artistiche e culturali dell’Italia contemporanea” , variegate e per questo difficili da cogliere.

In linea con il metodo seguito dal ministro Franceschini per la scelta giustamente meritocratica dei Direttori dei maggiori musei, anche se questa volta si è operato  a livello nazionale, è stata aperta una “Call for project”  rivolta  ai  più  qualificati giovani curatori  affermatisi dopo il 2000,  di età tra i 30  e i 40 anni, con l’invito a presentare oltre al curriculum un progetto espositivo curatoriale debitamente motivato.

Tra i 38 progetti ricevuti dai 69 curatori interessati alla chiamata, elaborati appositamente, una giuria interdisciplinare –  con l’artista  Penone, la storica dell’arte Messina e la critica d’arte Vettese, l’architetto Di Battista e lo scrittore Belpoliti – ne ha selezionato 10.  Diversi i percorsi formativi e professionali dei curatori prescelti, ma tutti contrassegnati da posizioni di eccellenza raggiunte pur nella giovane età ed esperienze curatoriali di alto livello.

L’impostazione della 16^ Quadriennale

Le novità non finiscono qui, è solo l’inizio.  Dalla  scelta dei curatori si passa all’individuazione, da parte loro, degli artisti e delle opere espressive dell’arte contemporanea italiana più recente, che abbiamo detto essere mutevole. 

Come svolgere questo difficile compito senza rischiare di cadere nella routine ma cogliendo le motivazioni di fondo alla base delle nuove espressioni artistiche per quanto sfuggenti?

I giovani curatori hanno accettato la  sfida  individuando ciascuno  un filone intorno al quale raccogliere, in un denominatore comune,  le nuove proposte artistiche, cui dedicare una sezione espositiva. Ma c’è anche un denominatore comune alle diverse sezioni, così definito:  “Gli approfondimenti  proposti nelle 10 sezioni della mostra  sono percorsi dalla tensione generata dal  confronto tra le narrazioni istituzionalizzate dell’arte del passato e un presente in via di definizione, che appunto non è possibile qualificare se non come altro “. 

In modo ancora più esplicito: “La differenza emerge quindi come la condizione inevitabile sulla quale questa edizione della Quadriennale si edifica e diventa lo strumento di lettura offerto allo spettatore, invitato quindi a interpretare le sezioni espositive come incarnazione di discorsi artistico-culturali in dialogo con il passato attraverso strategie di rilettura critica, innovazione e superamento”.   Differenza come elemento comune e come spartiacque tra una sezione e l’altra, essendo affidate a curatori diversi che propongono, oltre che tematiche differenti, anche proprie ipotesi interpretative,  scritture artistiche altrettanto dissimili e così i dispositivi allestitivi. “Vive la différence”, viene da esclamare, pensando ovviamente a queste differenze, non a quelle di genere.

Passiamo in  rassegna l’impostazione delle 10 sezioni, basandoci per ora  sulle enunciazioni, perché  soltanto con l’esposizione delle 150  opere nella mostra del prossimo autunno si potrà fare una verifica sul campo della rispondenza tra  intenti enunciati  e  risultati ottenuti. Mentre i curatori parlavano nella presentazione,  scorrevano sullo schermo le immagini di molte  opere, da cui si è potuta cogliere  l’estrema modernità e varietà, dai materiali alle forme espressive:  un antipasto del pranzo espositivo che si preannuncia quanto mai succulento.

I contenuti delle 10 sezioni rispondono  ad altrettante  chiavi di lettura dell’arte contemporanea più recente, in base ad esse sono state inserite le singole opere che dovrebbero darne l’espressione visiva. E’ un intento intrigante e ambizioso che fornisce un ulteriore motivo di interesse per il visitatore della mostra: verificare la rispondenza tra visione astratta e realizzazione concreta, vedere con i propri occhi se il nucleo di opere di ogni sezione è collegato dal filo rosso virtuale enunciato che dà ad esse il valore di una narrazione.

Sono momenti distinti,  eppure collegati,  di una storia comune,  sintetizzata dal titolo scelto per la  16^ Quadriennale,  “Altri tempi, altri miti”. Non si tratta  di unagenerica allusione al mutare dei punti di riferimento con il mutare dei comportamenti individuali e collettivi prodotti dal passare del tempo;  ma dell’indicazione  precisa di voler dar conto della molteplicità di orientamenti artistici del paese,  frazionati come lo è l’Italia raccontata da  Pier Vittorio Tondelli nella raccolta “Un weekend postmoderno. Cronache degli anni Ottanta” , dalla quale è stata tratta l’espressione.

“Vibrazioni nascoste e caratteri manifesti” in entrambi i casi, dunque:  nei viaggi dello scrittore come atteggiamenti e costumi, nelle opere selezionate per la Quadriennale come orientamenti stilistici e contenuti.  I titoli delle varie sezioni introducono i 10 capitoli del grande libro della mostra,”Altri tempi, altri miti”. Non sono capitoli  da seguire in una successione predeterminata, sarà il visitatore a scegliere il proprio percorso nelle 10 sale che fanno corona alla rotonda centrale dove si svolgeranno proiezioni e performance  collaterali a singole esposizioni.   

Le  prime cinque sezioni della mostra

 Si comincia con”I would prefer not to/ Preferirei di no”,  i curatori Simone Ciglia e Luigia Lonardelliprendono la progressiva negazione alla vita attiva del protagonista dell’omonimo racconto di Melville – “il nodo di negazione, resistenza, alienazione” –  come metafora  dello stato attuale dell’arte in Italia:  imprevedibile, non codificata, sorprendente,  come per sottrarsi a un’identità solo immaginata, non reale.

“Il nuovo millennio ha significato un’estensione del dominio della precarietà dal piano sociale a quello esistenziale. Instabilmente fondata sulla debolezza delle ipotesi storiche, la figura dell’artista è apparsa divisa fra professionalizzazione e fughe impossibili, al limite spesso dell’invisibilità. Quest’attitudine alla sottrazione concorre a creare un clima che attraversa le generazioni e si traduce in scelte indirizzate verso livelli esistenziali periferici e appartati”.  

Sono 13 gli artisti scelti per declinare questo tema – tra loro Vitone, Airò e soprattutto il ben noto Gianfranco Baruchello del 1924,  “fuori quota” come età rispetto ai più giovani – in quanto iniziatori di tendenze artistiche in atto: “Gli artisti in mostra rivendicano il diritto ad allontanarsi dal perdurante affastellamento dei fatti e delle cose senza per questo smarrire la consapevolezza del proprio vissuto, personale e collettivo”.  Il loro sottrarsi al presente non è nichilismo, “preferiscono di no, un no che non è più contestatario, resistente, ma una didascalica negazione della possibilità di scegliere”. Vedremo come la esprimono nel linguaggio dell’arte.

Con “Ehi, voi!” il curatore Michele D’Aurizio presenta il tema della sezione utilizzando il richiamo diretto e  amichevole  rivolto agli interlocutori. In astratto viene  riferito anche al richiamo con cui sono stati invitati gli artisti alla Quadriennale o con il quale gli stessi artisti interpellano curatori, organizzatori e spettatori; in concreto riguarda le  persone che fanno parte della  cerchia dei 22  artisti prescelti – tra i quali il “fuori quota” è  Corrado Levi  del 1936 –  siano essi loro amici o vicini,  partner o colleghi.  Vengono  presentano i loro ritratti insieme ad autoritratti nelle forme più diverse, dalla pittura e scultura a video e performance, fino a diari e archivi.  

Torna in mente la mostra “Interni d’artista”  in cui si è entrati nella loro intimità ricostruendone studi e atelier come se vi lavorassero ancora,  qui  è lo stesso artista a fornire “opere ampiamente intese come rappresentazione del sé”, mettendo a nudo la propria umanità. “In questo  senso il ritratto è un genere che intrinsecamente afferma una continuità tra la vita e l’opera dell’artista laddove propone una riflessione del sé attraverso l’atto del fare arte”.   Un genere, la ritrattistica, solo apparentemente verista,  essendo  la rappresentazione  di per sé innaturale  come “atto d’intimità” che può rendere quanto di ermetico e inafferrabile c’è nell’arte contemporanea. 

Le immagini ritratte “invitano lo spettatore a condividere con l’artista le narrazioni del processo del fare arte, del vivere facendo arte, del sopravvivere facendo arte”.  Siamo ansiosi di provare questa condivisione.

Con “La democrazia in America”, il curatore Luigi Fassi si affida alla celebre opera di Tocqueville “per riflettere su alcuni aspetti problematici della storia dell’Italia contemporanea, dal suo incerto sviluppo come repubblica democratica del dopoguerra, al suo rapporto fatto di accelerazioni e rallentamenti con la storia dell’Europa unita, sino alle instabilità e alle complesse trasformazioni geopolitiche in corso nel presente”.

La scelta di quest’opera come esplicativa dei contenuti della sezione è significativa, a parte la sua notorietà in Italia e i legami dell’autore con il nostro paese,  perché è una sorta di diario di viaggio alla scoperta  di  uno stato con le istituzioni pubbliche e la vita sociale permeate dall’uguaglianza dei diritti e dalla parità delle condizioni di partenza  che sono la base della democrazia, mentre per l’Europa di allora erano un dilemma.

I  5 artisti  espositori  si ispirano ad alcuni temi fondamentali del pensiero politico dell’autore, dalla relazione  tra libertà e uguaglianza al ruolo dei partiti politici, dal rapporto tra ricchezza individuale e uguaglianza alla libertà di stampa, la cui attualità è evidente. “Obiettivo finale è leggere le riflessioni di  La democrazia in America da una prospettiva contemporanea italiana per suscitare con gli artisti partecipanti idee, ipotesi e interpretazioni inedite rivolte al presente del paese e alla sua storia recente”.  Saremo lieti di verificarlo, come tutti i visitatori.

Da “La democrazia in America” si passa all’“Orestiade italiana” . Il curatore Simone Frangi approfondisce  la visione del contesto nazionale presentando opere che hanno una visione critica o comunque analitica dell’intero versante culturale e sociale, economico e politico. L’impostazione è definita “una ‘riscrittura’  analogica e corale dei nuclei forti di  ‘Appunti per un’Orestiade Africana’”, di Pierpaolo Pasolini, partendo dal mito di Oreste  “inteso come una ‘lunga preparazione alla catarsi’,  usando il linguaggio dell’arte, come lo scrittore-regista  aveva fatto con il linguaggio cinematografico, per svolgere “diverse linee di ricerca sulla ‘domesticità nazionale’ italiana e sulle dinamiche con cui essa si riversa in una prospettiva transnazionale e globale”.

La pratica artistica si confronta con la ricerca culturale:  i 14 artisti prescelti – i meno giovani,  Armin Linke e Giovanni Morbin sono del 1956 – approfondiscono una serie di temi geopolitici così presentati: “Legame ambivalente tra approccio documentario e orientalismo culturale in prassi antropologiche ed etnologiche; nomadismo e migrazioni identitarie; questioni coloniali italiane con un focus sull’impatto della colonizzazione e dell’apertura della ‘postcolonia’ sull’immaginario politico; studio dei conflitti latenti e della stasi europea; micro fascismi e normalizzazioni sociali; dinamiche turbo capitaliste e accelerazioni; resistenza politica e simbolica”. Dopo questo elenco  che lascia senza fiato, attendiamo gli artisti al banco di prova anche sui temi più criptici e cerebrali.

“A occhi chiusi, gli occhi sono straordinariamente aperti”,  con questa espressione in apparenza paradossale di Marisa Merz  il curatore Luca Lo Pinto  intitola la propria sezione, in cui presenta opere di  7 artisti, tra cui cita quella di Emilio Villa, del 1914, scomparso nel 2003,  un frammento di vetro dipinto con sopra un’iscrizione in greco le cui parole sono quasi illeggibili, ma che resta valido come immagine: “Il frammento di Villa è una traccia, un segno complesso da interpretare, incluso in una Storia nella quale risulta difficile capire dove collocarsi”. Gli altri 6 artisti presentano ciascuno “un modo personale di guardare al mondo insieme singolare e universale”, di raccontare una storia  “performata attraverso immagini, suoni, oggetti, sculture che parlano un lingua labirintica, allegorica, metaforica dentro al nostro presente”.  Proseguiamo nella citazione: “Tempo, memoria, identità in continua metamorfosi  e messe in discussione nella relazione del singolo con la collettività. Opere come schegge di una icona immaginaria, effimera, che simbommbile, fugace ritratto delle attitudini di una certa arte italiana attuale”.

Il curatore spiega che “la mostra e le opere che la costituiscono non è da considerarsi come strumento per l’illustrazione di un teorema quanto una materia da esplorare in un continuo processo di associazioni e dissociazioni”. E fornisce alcuni esempi indicativi, anche se vanno decrittati: “Protagoniste sono opere dove le parole possano tramutarsi in immagini e viceversa, in cui gli oggetti possano parlare. Forme instabili che si tramutano in altre come didascalie di un racconto che si disvela agli occhi e alla mente degli spettatori lasciando a loro la possibilità di delinearne una trama. Lingue vive che possano dialogare con l’esperienza evocata dal luogo in cui si trovano a parlare”. E più in generale: “L’esposizione è concepita come un dispositivo di visione in cui tutte le opere chiuse come ricci possano vedere lentamente la luce e guardare gli occhi di chi le osserva. Le opere in mostra manifestano tutti i segni di un’esperienza vissuta”.

Come nascondere , dopo queste parole, la nostra ansia di vedere in pratica  il verificarsi di questi miracoli?

Le cinque sezioni finali della mostra

 “De rerum rurale”  del curatore Maurizio Lucchetti fa tornare con i piedi per terra in senso stretto, perché di terra si tratta, in uno scenario post-rurale  che ha visto svanire i confini tra urbano e agricolo per l’uso dissennato del territorio, con  l’insorgere di nuovi localismi nella crisi degli ideali nazionali e sovranazionali.

“Il concetto di ruralità è inteso come un grado zero dello spazio antropizzato, un luogo nel quale la creazione di leggi e la loro applicazione si trovano in un costante stato di negoziazione e flessibilità, una dimensione ideale nella quale nuove comunità possono costituirsi e illustrare nuove interpretazioni di quello che consideriamo bene comune”.

Come viene espresso tutto questo  dai 14  artisti espositori, tra i quali la meno giovane è Anna Scalfi Eghenter del 1965?  Alcuni evocano il mondo agricolo, altri denunciano lo sfruttamento  delle risorse e delle persone che coltivano oggi le nostre campagne, ma con una radicale differenza rispetto al passato celebrato da tanti nostri artisti dell”800 e ‘900 con visioni idilliache o appesantite dalla fatica del lavoro, ricordiamo i dipinti suggestivi di artisti abruzzesi dei quali ricordiamo la mostra “Gente d’Abruzzo” , oltre a Segantini, Sironi, e tanti altri.  Oggi “il rurale si presta a immaginare nuovi scenari a basso grado di antropizzazione, dove regole e codici esistenti possono venire riscritti collettivamente e dare il via a nuovi modi dell’abitare. E ancora, il rurale si presta come catalizzatore di narrazioni minori che provengono da comunità temporanee, immaginate, nomadi, oppresse o resistenti che popolano il territorio italiano contemporaneo”.

Non visioni naturalistiche, ma calate nel mondo civile e sociale, vedremo come l’arte saprà esprimerle.

Con “Lo stato delle cose”  la curatrice Marta Papini compie due operazioni che non troviamo in nessun’altra sezione: non definisce il tema intorno al quale raccogliere le interpretazioni degli artisti; trasforma la mostra collettiva in 7 mostre personali, quanti  sono i giovani artisti selezionati.

La prima operazione deriva dall’impossibilità di ricondurre  a una lettura univoca  espressioni molto diverse, dalla quale deriva l’opportunità di porle  confronto tra loro e con il pubblico in modo innovativo. Cioè – è questa la seconda operazione – non esponendole contemporaneamente, ma singolarmente, a staffetta:  sono 7 artisti per 7 mostre  in successione. Nel proprio spazio e nel proprio tempo espositivo l’artista,  oltre a mostrare la sua opera, può promuovere direttamente iniziative di contorno, conferenze e proiezioni, laboratori e  “studio visit” che faranno approfondire la sua conoscenza insieme ai contenuti e alle modalità del suo lavoro.

Per questo la sezione non  è “una mostra collettiva, dove le immagini e i significati delle opere si sovrappongono e si intrecciano grazie alla tessitura di una regia curatoriale. E’piuttosto un  esercizio di attenzione: il pubblico, in un rapporto uno  a uno con l’opera, ha la possibilità di soffermarsi sulla ricerca di ciascun artista sia nella mostra sia attraverso un public programme, pensato come parte integrante del progetto che ne approfondisca la complessità”.

In questo caso nessun rebus interpretativo aperto, tuttavia gli elementi di curiosità e interesse non mancano.

Neppure per la sezione “La seconda volta”  viene definito il tema unificante, ma questa volta la curatrice Cristiana Perrella sottolinea nei 5 artisti “una comune attenzione per l’uso di materiali densi di storie già vissute, di cui danno nuova lettura, riattivandoli in insospettabili combinazioni”.

Abbiamo visto utilizzare  materiali di risulta dall’artista libico Wak Wak,  i residuati della guerra nel suo paese, e da Alessio Deli, i rifiuti metallici da discariche, fino ai legni di Louise Nevelson,  nelle loro sculture. Per i 5 artisti della sezione  “la loro è un’arte di resti e frammenti, composita, residuale, ibrida; un’arte di montaggio, di trasformazione, di rinascita, forse anche un’arte della crisi”, perché “riuso e assemblaggio, dalla loro comparsa come tecniche artistiche all’inizio del Novecento, hanno sempre intrattenuto una profonda relazione con l’idea di trauma”.

Forse può venirne anche un’assimilazione di significati oltre che di materiali, considerando che nella visione contemporanea “si guarda molto al passato e l’euforia del consumo, del nuovo, è un sentimento che appare appannato, inappropriato”.

Gli artisti lo mettono in pratica con tecniche artigianali e di bricolage di basso profilo utilizzando vecchi mobili  e oggetti,  reperiti nei mercatini e altrove,.dando loro forme e contenuti sorprendenti.

Di qui la curiosità e l’interesse di vedere la realizzazione pratica.

Con “Cyphoria”,  del  curatore Domenico Quaranta, si torna all’approfondimento di tematiche socio-economiche, in particolare quelle poste dai profondi mutamenti provocati dal progresso tecnologico che preferisce chiamare “evoluzione e non rivoluzione”  in quanto continuo,  pervasivo e non esaurito in un preciso momento:  “La politica, l’economia, il lavoro, le forme della comunicazione  e della socialità, ma anche l’intimità e il sogno sono stati stravolti dall’impatto dei media digitali, e questioni come la privacy, la sorveglianza, la capitalizzazione della vita sociale definiscono una parte importante di ciò che chiamiamo presente”.

Tutto questo si riflette nelle opere dei 12 artisti selezionati, che hanno iniziato a operare all’interno di questa evoluzione,  ed unisce i termini “cyber” e “dysphoria” per evocare,  secondo la definizione di  Basar, Coupland e Obrist, “lo stato di chi crede che Internet sia un mondo reale; ma è adottata qui per descrivere lo sforzo, e il disagio di vivere una condizione che l’uomo ha prodotto, ma che non è stato istruito ad abitare; di decodificarne e rivelarne i linguaggi e l’influenza sulle forme del lavoro, e della comunicazione, della socialità e della politica, di adottarne e di plasmarne le estetiche e gli immaginari”.

In  questa prospettiva vedremo opere che ne esplorano la dimensione pubblica, come la censura e la crisi della proprietà intellettuale, i misteri e l’ubiquità delle produzioni  culturali della rete;  e quella  privata, con conseguenze intime e personali spesso traumatiche. I motivi di interesse sono vivissimi.

 Dalla rete cibernetica mediatica torniamo di nuovo sulla terra, dopo la crisi contadina di “De ruralia” la crisi cittadina di “Periferiche“, l’ultima sezione curata da Denis Viva: in passato  la “ricchezza di centri, di tante false periferie”  rappresentava  “postazioni di una pluralità e di un conflitto che rifiutava di esaurirsi  in un unico modello dominante”, le periferie che ricordiamo nei suggestivi dipinti di Mario Sironi,  esprimevano il “policentrismo consapevole”  di Castelnuovo e Ginzburg, mentre  negli ultimi decenni sono diventate  piuttosto luoghi di “ritardo culturale”.

La domanda alla quale  hanno risposto  con le loro opere gli 8 artisti prescelti  è  la seguente “l’Italia conserva ancora questo policentrismo? Trova  nelle sue ‘periferie’ una voce altrettanto capace di offrire alternative all’omologazione globale?”. Tre di loro, Paolo Icaro, Paolo Gioli  e Carlo Guaita, nati tra il 1936 e il 1965, hanno conosciuto  fasi più lunghe rispetto ai cinque più giovani, della storia delle periferie, tutti insieme hanno potuto fornire “uno spazio  policentrico, diverso dal mainstream globale dell’informazione e della produzione”, un quadro articolato e dinamico della problematica esistenziale e culturale insieme, una diversa concezione del tempo e dello spazio.

Non si tratta solo della periferia cittadina, “la ‘periferica’ è qui una metafora che indica un dispositivo libero di agganciarsi e di sganciarsi, di connettersi e di ripararsi, dal flusso inarrestabile dei centri globali”. Non sono in alternativa al centro, al quale devono essere collegate, ne sono consapevoli gli artisti la cui opera “trae linfa da territori eterogenei e diversi, spesso marginali”. Del resto,  nelle ultime elezioni amministrative per i sindaci delle grandi città le periferie sono state il tema più dibattuto per l’esigenza igiugno 2014, rrinunciabile di dare ad esse nuovo slancio superando il degrado.

Il quadro che abbiamo fornito dei contenuti delle 10 sezioni della 16^  Quadriennale, attraverso le enunciazioni dei curatori, con ampie citazioni testuali,  indica la complessità e profondità del lavoro svolto  dalla giuria selezionatrice dei curatori e del lavoro dei curatori che hanno selezionato gli artisti. Viene così fornita “una visione della ricchezza espressiva dell’arte italiana degli ultimi quindici anni, offrendo anche un punto di vista significativo sui riferimenti culturali e sul processo di formazione degli artisti e dei curatori italiani delle ultime generazioni”.  E’ il grande risultato del ritorno della  Quadriennale di Roma nel suo ruolo istituzionale e nella sua impostazione estremamente innovativa  aperta ai giovani.

Info

La mostra della 16^ Quadriennale si svolgerà al Palazzo Esposizioni, via Nazionale, Roma.  Per gli eventi e le mostre sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli, in questo sito su: “Padiglione Italia”, 8, 9  ottobre 2013, “Interni d’artista”, 12 maggio 2014, Pier Paolo Pasolini, 27 ottobre 2015, 27 maggio, 15 giugno 2014, 11, 16 novembre 2012, Wak Wak 27 gennaio 2013, Alessio Deli, 26 aprile  2013, Louise Nevelson, 25 maggio 2013, Mario Sironi, 1°, 14, 29 dicembre 2014, 7 gennaio e 2 novembre 2015; in cultura.inabruzzo.it su “Gente d’Abruzzo”, 10 e 12 gennaio 2010, tale sito non è più raggiungibile, i 400 articoli ivi pubblicati dal 2009 saranno trasferiti in un apposito sito.

Foto
Le immagini sono state fornite dalla “Quadriennale”, che si ringrazia: in apertura, la foto di gruppo al termine della presentazione, con gli 11 curatori delle 10 sezioni e, al centro, il ministro dei Beni e Attività Culturali e del Turismo  Dario Franceschini con alla destra il presidente della Quadriennale Franco Berrnabè e alla sinistra il commissario straordinario dell’Azienda Palaexpo, Innocenzo Cipolletta; in apertura, Alek O.,  “Tina”, 2015, e Chiara Fumai, “Ritratto”, 2016;  poi, Michelangelo Corsano, “La rivoluzione del filo di paglia”, e Adelita Husni Bey, “White Paper. The Law”; in chiusura, la mappa cittadina delle manifestazioni “esterne”  in programma nella quadriennale romana.   

17^ Quadriennale di Roma, l’edizione 2020 presentata al MiBACT

di Romano Maria Levante

E’ stata presentata nella mattina del 15 luglio 2020 la 17^ edizione della grande rassegna di arte contemporanea della Fondazione “La Quadriennale di Roma” che ai aprirà il 29 ottobre 2020 per chiudere il 17 gennaio 2021 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, e sarà intitolata “FUORI”, dopo “Altri tempi, altri miti” della 16^ edizione. Ne hanno parlato il presidente della Fondazione Umberto Croppi e il presidente onorario Franco Bernabè, il direttore generale Creatività contemporanea del Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo Margherita Guccione, partner istituzionale che ha introdotto la conferenza stampa, e il presidente dell’Azienda speciale Palaexpo di cui fa parte il Palazzo delle Esposizioni Cesare Pietroiusti cui va l’organizzazione con la Fondazione, i curatori Sarah Cosulich, direttore artistico della Fondazione, e Stefano Collicelli Cagol co-curatore; inoltre Fabio De Chirico, della direzione MiBACT e Ilaria Gianni, curatrice della mostra “Premio Accade MiBAC”.

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Il logo della mostra della 17^ Quadriennale, “FUORI”

Questo nuovo incontro segue la manifestazione del febbraio 2020 nel clima molto diverso imposto dall’emergenza coronavirus: l’ambiente raccolto della Sala Spadolini del MiBACT con i  giornalisti opportunamente distanziati, rispetto alla grande sala affollata anche nei posti in piedi  del Tempio di Traiano quando furono  presentati i propositi di rilancio della Quadriennale nel solco della sua storia, evocata anche con immagini; questa volta è stata presentata la mostra nella brevità e sobrietà del momento, assente ancora una volta il ministro Franceschini sebbene si giocasse “in casa”, può sembrare una presa di distanza. L’emergenza del coronavirus è stato un duro ostacolo, tanto che non si prevedono nel prossimo anno altre mostre di arte contemporanea di livello internazionale come questa. I protagonisti, in primis Croppi e Bernabè, hanno sottolineato l’importanza di aver portato a termine l’impegno nonostante le difficoltà incontrate, il merito va anche al fatto di averne anticipato di tre anni la preparazione da parte della presidenza Bernabè, cui è andato il riconoscimento del nuovo presidente Croppi, che ha considerato il risultato “non una sfida vinta ma un mandato assolto”.

La presentazione, parla il presidente Umberto Croppi

FUORI, il titolo provocatorio

Non si tratta di ordinaria amministrazione, né di qualcosa di scontato e routinario, tutt’altro, al di là dell’enunciazione riduttiva balza fuori la sfida sin dal titolo della mostra: “FUORI”. Già nell’evocare dopo mezzo secolo il nome della prima associazione per i diritti degli omosessuali, nata a Torino nel 1971 – con il punto esclamativo dopo la parola – per iniziativa del combattivo Angelo Pezzana, la sfida è palese, questa volta l’allusione è sopratutto al femminismo, ma si va oltre: “Fuori” è usato come invito a uscire dagli schemi con lo “sguardo obliquo”  nel senso di “eccentrico”  e nuovo, entrando in “relazione con l’altro da sé”.

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La presentazione, parla il presidente onorario Franco Bernabè

La sfida di FUORI è alla liberazione da qualunque vincolo o costrizione, sia pure categoria mentale, che ha imbrigliato l’arte e gli stessi individui;  all’uscita “dal recinto autoreferenziale “ in cui è confinata spesso l’arte contemporanea con  le sue istituzioni, e nel contempo all’apertura verso nuovi ambiti di produzione culturale e di fruizione del pubblico. Sul piano artistico, la sfida di FUORI è al superamento dei confini tra le arti visive e altre discipline – come  il cinema e il teatro, la musica, la moda e il design – in modo da avere una visione interdisciplinare senza steccati. FUORI, con tale impostazione, fa immergere in un mondo spettacolare di ossessioni e  di visioni cosmiche, di desideri indefiniti e pulsioni erotiche in una esplorazione dell’indicibile e dell’incommensurabile, delle tensioni tra arte e potere; e, in omaggio all’origine, insieme agli approcci femminili, oltre che femministi, presenta ricerche nell’ambito “queer” e degli immaginari “gender fluid” nella storia dell’arte contemporanea.

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L’anteprima di Cinzia Ruggeri, “Stivali, Italia”, 1986

Nel momento contingente, FUORI può essere visto anche come un grido liberatorio dalle limitazioni fisiche  e dalle restrizioni psicologiche e mentali dovute ai divieti e alle ansie dell’emergenza coronavirus.  Ma, oltre queste interpretazioni razionali, viene declinato come “FUORI di testa, FUORI moda, FUORI tempo, FUORI scala, FUORI gioco, FUORI luogo,  FUORI tutto”. Un happening senza elementi comuni verso direttrici condivise? Se fosse così sarebbe l’antitesi della 16^ edizione, nella quale le opere presentate erano organizzate in 10 sezioni tematiche con i rispettivi temi ben evidenziati e declinati; ma anche in questa edizione c’è l’impronta di Franco Bernabè nei primi tre anni di preparazione oltre che nella scelta di Sarah Cosulich, curatrice e direttore artistico della Fondazione, quindi sarebbe tutta da analizzare una mutazione così radicale. Le anticipazioni fornite danno già qualche indicazione.

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L’anteprima di Isabella Costabile, “Santa Maremma”, 2013

Selezione degli artisti, storytelling e allestimento

Più che sui temi, in base ai quali nella passata edizione furono selezionati gli artisti,  sembra ci si sia concentrati sul loro orientamento, presentati attraverso sale monografiche e nuovi lavori, mettendo insieme artisti giovani, “mid-career” e pionieri finora trascurati, in modo da dare un immagine e quindi una lettura diversa, anzi alternativa, del percorso compiuto dall’arte italiana dagli anni Sessanta.  Abbiamo detto orientamento nel senso della visione interdisciplinare cui si è accennato, dato che molti degli artisti selezionati si sono confrontati con le tante altre discipline che fanno parte della vita.  Un nuovo metodo, dunque, messo in campo dagli stessi protagonisti del metodo precedente e applicato in tre anni  di lavoro, dal 2018, tra  ricerche e incontri, analisi di “portfolio d’artista” e “studio-visit”  avvalendosi del cospicuo materiale di archivio della Fondazione sulla storia artistica propria e del paese. E soprattutto con i progetti messi in campo dalla presidenza Bernabè, che abbiamo descritto dando conto della precedente presentazione:  i workshop itineranti di “Q-Rated” per giovani artisti e curatori e il fondo “Q-International” per sostenere la presenza degli artisti italiani nelle manifestazioni organizzate all’estero, che hanno contribuito a dare una mappa dello stato dell’arte nel Paese.

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16^ edizione, Anna Franceschini, con
“Before they break,before they die Movement I”, 2013

Abbiamo accennato alla storia  artistica della Fondazione, rievocata nel precedente incontro, ebbene c’è anche un “progetto di storytelling”  affidato allo specialista Luca Scarlini il quale, in un anno di ricerche nell’Archivio della Fondazione – che viene così valorizzato, come tutti gli archivi storici –  ne ha tratto il materiale per far rivivere momenti ed episodi, anche di gossip,  della storia della Quadriennale intrecciandoli con le opere esposte nella mostra  della 17^ edizione e gli artisti che ne saranno protagonisti. Si tratterà di appuntamenti  che serviranno a  coinvolgere la storia artistica passata con la contemporaneità in modo inusuale e innovativo.

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16^ edizione, Alessandro Agudio, con “Lulaclub”, 2011

Altrettanto inusuale  e innovativo il percorso espositivo preannunciato, di concezione del tutto nuova, “mirato a disorientare la percezione tradizionale”,  nell’allestimento  affidato ad Alessandro Bava, architetto e insieme artista, il tutto  in una dotazione di spazi raddoppiata rispetto al passato, oltre 4.000 metri quadri nel Palazzo Esposizioni interamente dedicato alla Quadriennale.  Tale percorso viene spiegato così: “La  successione delle sale offre una vera e propria lettura critica del palazzo in dialogo con la sua storia e con i valori del ‘saper porgere’ della museografia italiana del Ventesimo secolo”.

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16^ ediizone, Diego Marcon, con “Untitled (Head Falling 01)”, 2015

Iniziative collaterali e sostenitori

Sono previsti anche dei “Progetti speciali”, il principale dei quali, collaterale all’esposizione principale, sarà la mostra “Domani Qui Oggi” a cura di  Ilaria Gianni e dedicata al Premio Accade Mibact, promosso dalla Direzione generale Creatività contemporanea del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo in collaborazione con la Quadriennale di Roma. “Domani Qui Oggi – ha detto la curatrice – porta in scena una nuova generazione di artisti-pensatori che, con lo sguardo rivolto verso il quotidiano, osservano la storia, decodificano il mito, scavano nell’intimità del presente e mettono in discussione la coscienza individuale e collettiva, traducendo e configurando un racconto che porta oltre il visibile. Innestati su tracce di tempo apparentemente riconoscibile, i lavori ideati dagli artisti appaiano così come tasselli di una partitura composta da apparizioni che deviano dall’ordinario, nel tentativo di inventare un’iconografia del contemporaneo e dar forma ad una nuova estetica del presente”.

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16^ edizione, Davide Stucchi, con “Heat Dispoersion (Mattia and Davide)”, 2016

E’ un premio che si aggiunge alle altre iniziative di sostegno dell’arte contemporanea – come i programmi della Fondazione sopra ricordati – per  promuovere i giovani artisti italiani e valorizzare le Accademie di Belle Arti nella  loro fondamentale opera di  alta formazione artistica. Saranno esposte le opere  dei 10  vincitori di questa edizione, su un selezione di  89 giovani segnalati  da 33 Accademie di Belle Arti italiane. In proposito va ricordato anche il sostegno dato alla Quadriennale dal  Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale per valorizzare  gli artisti italiani con iniziative di promozione basate sulla documentazione, nel quadro delle attività volte a  dare dell’Italia un’immagine sempre più dinamica e innovativa con l”arte contemporanea innestata sul grande patrimonio classico.

Un elemento da sottolineare è la positiva collaborazione pubblico-privato, attiva anche nel biennio preparatorio, con i partner ENI e  Intesa San Paolo, che con lo sponsor Terna  e contributori vari – compreso il Ministero per gli Affari Esteri e l’Istituto per il credito sportivo –  hanno coperto il 45% del budget della mostra, il 55%  è stato coperto dal MiBACT attraverso la Direzione generale Creatività contemporanea. Vogliamo sottolineare la presenza di “donatori” privati , in particolare gli  “Amici della Quadriennale” , mentre l’Associazione Giovani Collezionisti ha istituito il “Premio Giovani Collezionisti Quadriennale” per l’acquisto, tra le opere esposte in mostra, di quella prescelta di un artista emergente, destinata al  MAXXI – Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo.

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16^ edizione Q, sezione “I wuld prefer not to”, Chiara Fumai, “Secreto provato”, 2016

Il catalogo della Treccani

Anche il Catalogo della mostra suscita un interesse che va al di là di quello legato al valore iconografico delle immagini e a quello culturale dei saggi introduttivi.  Edito dall’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani non si limita a descrivere le opere esposte e gli artisti nell’ambito del progetto espositivo della mostra, ma intende delineare anche “nuove prospettive e metodologie di indagine sull’arte italiana contemporanea”.  L’impegno divulgativo ad alto livello della Treccani si rivolge a una vasta gamma di destinatari, artisti e addetti ai lavori, studiosi e studenti d’arte e ai comuni visitatori che potranno trovarvi un fondamentale strumento di conoscenza in un campo come l’arte contemporanea dove le incomprensioni sono evidenti.

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16^ edizione Q, sezione “Ehi, voi” Dario Guccio, “Porta bianca”, 2016 dettaglio

In una recente mostra sull’artista scultore “Anselmo” abbiamo potuto verificarlo ancora una volta, senza gli elementi informativi sulla genesi e le motivazioni dell’opera questa risulterebbe indecifrabile e non sarebbe possibile apprezzarla, soprattutto quando mancano  i caratteri tradizionali legati alla bellezza formale e alla suggestione cromatica.  Sei storici dell’arte indicano  nuove metodologie per leggere l’arte contemporanea italiana attuale rivedendo criticamente quelle finora adottate; non solo, in senso retrospettivo sette esperti forniscono  nuove prospettive nelle quali ripensare l’arte contemporanea italiana a partire dagli anni ’60.  In questo approccio altamente formativo vengono analizzati, questa volta da giovani critici e artisti italiani, i temi dei work shop “Q-Rated” del biennio 2018-2019 che furono affidati ad artisti e curatori stranieri,  si possono confrontare le varie impostazioni in una visione parallela. .

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Segue, Corrado Levi,“Vestiti di arrivati”, 2015

Ma  pur con questi elementi che ne fanno un evento di grande novità e spessore artistico e culturale, diremmo anche civile, al centro della 17^ Quadriennale ci sono i 43 artisti con le loro opere. Cercheremo di presentarli, sia pure sommariamente, saranno esposte oltre 300 opere, un congruo numero per ciascuno di loro per far conoscere meglio il rispettivo talento.

Dei 43 artisti espositori, 29 si presentano per la prima volta alla  Quadriennale, 10 erano già  nelle precedenti edizioni, una quindicina  sono under-35, altrettanti over 55; 10 hanno partecipato ai workshop “Q-Rated” organizzati dalla Quadriennale. 23 di loro vivono in Italia, 15 all’estero e 36 sono singoli, di cui 19 donne e 17 uomini, 7  sono coppie o collettivi. 18 le produzioni nuove.

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Segue, Momentum, “Intensity” , 2016

Gli  artisti under-35

Gli under-35 provengono in gran parte  dalla partecipazione ai workshop “Q-Rated”, a Roma, Milano, Napoli e Nuoro, a riprova dell’efficacia pratica di tale programma formativo.  Sono il  milanese Benni Bosetto, esperienze all’estero ad Amsterdam e in India, e il torinese Guglielmo Castelli, nel 2018 nella lista di “Forbes 30under30”, ha studiato anche scenografia teatrale; il veronese Tommaso De Luca, opera a Berlino, finalista nel 2012 del Premio Furla, nel 2020 del MAXXI Bulgari Prize, residenza in “6artista della Fondazione Pastificio Cerere” a Roma nel 2009,  e Caterina De Nicola, di Ortona,  opera a Zurigo,  formazione artistica a Milano e Losanna, nel 2018-19 residenza “Castro Project”; il bergamasco Diego Gualandris, opera a Roma, anch’egli residenza “Castro project”, e Lorenza Longhi di Lecco, opera a Zurigo, formazione artistica a Brera e Losanna, cofondatrice come Giulia Crispiani dello spazio-progetto  “Amada”,  ha vinto nel 2020 il Shizuko Yoshikawa Advanced Award for Young  Women Artists;  Diego Marcon, di Busto Arsizio, opera a Milano, formazione artistica a Venezia nelle arti visive, ha vinto nel 2018 il  MAXXI Bulgari Prize e nel 2019 l’”Italian Council”; e Raffaela Naldi Rossano, di Napoli, dove opera, formazione filosofica, master di Fotografia  a Londra, fondatrice nel 2017 di una residenza per artisti, curatori e ricercatori;  Valerio Nicolai, di Gorizia, opera a Milano, formazione artistica a Venezia, nel 2017 residenza  “Fondazione smART-Polo per l’Arte” a Roma, e Davide Stucchi, di Vimercate, opera a Milano, formazione a Brera e Antwerp, cofondatore degli spazi-progetto “Gasconade” nel 2011 e “Full Full” nel 2015, come Tommaso De Luca finalista nel 2012 del Premio Furla, e residenza in “6artista della Fondazione Pastificio Cerere” nel 2013-14.

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!6 edizione Q, sezione “Orestiade italiana”, Giulio Squillacciotti e Camilla Insom Arcipelago, “Spiirits, Sounds and Zar Rituals in the Persian Gulf”, 2016

Sono under-35 ma non provengono dai workshop “Q-Rated”, Isabella Costabile, nata a New York, opera tra Grosseto e Zurigo dove ha svolto studi artistici oltre che a Brera, e Giulia Crispiani, di Ancona, opera a Roma, formazione artistica ad Amsterdam e Arhem, lavora per il teatro, cofondatrice come Lorenza Longhi dello spazio-progetto “Amada”; Petrit Alilaj, del Kossovo, opera tra Bozzolo (MN), Berlino e Pristina, Biennale di Venezia nel 2013 e di Berlino 2010, ha avuto nel 2017 il Merz Prize, è in coppia con  Alvaro Urbano, nato a Madrid, architetto, opera a Berlino.

E’ una carrellata di giovani artisti che hanno in comune esperienze internazionali sia nella formazione sia nell’attività artistica, la maggior parte di loro presenti nei workshop e nelle residenze, alcuni vincitori di premi e fondatori di spazi-progetto, moderni cenacoli dell’arte.

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Segue, Curandi Katz on Masako Matsushita, “Resist Everywhere, Masako”, 2015

Gli artisti over 55

Nello spirito di “largo ai giovani” abbiamo aperto con loro la carrellata generazionale degli artisti espositori nella 17^ Quadriennale. Ma c’è anche un numero altrettanto nutrito di artisti delle generazioni precedenti, che rendono in modo significativo l’evoluzione nel tempo dell’arte contemporanea, interprete dei profondi mutamenti intervenuti nella società; ecco, in particolare, gli over 55, con un netto salto generazionale rispetto agli under 35.

Cominciamo dai  pionieri “veterani”, nati prima del 1950: hanno vissuto, pur se da piccoli, gli anni della seconda guerra mondiale e poi i primi anni della ricostruzione, un periodo epocale. 

Decana della mostra è Lisetta Carmi, nata a Genova nel 1924, vive a Cisternino, in Puglia, dove ha fondato il luogo di meditazione “Ashram Bhole Raba”, rifugiata in Svizzera dopo le leggi razziali fino al 1960 si è dedicata alla musica. Seguono, per età,  Lydia Silvestri, Sondrio, 1920-2018, formatasi  con Marino Marini a Brera dove ha insegnato, e lo ha fatto anche in Inghilterra, New York, Hong Kong, committenze internazionali per le sue sculture, presenti anche alle Biennali di Venezia del 1986 e 1956, anno nel quale ha partecipato anche alla 7^ Quadriennale; e Sylvano Bussotti, nato a Firenze nel 1931, vive a Milano, artista visivo e anche  attore teatrale, scenografo e regista, poeta e romanziere, è stato direttore artistico  della Fenice e della Sezione Musica della Biennale di Venezia. Poi, Irma  Blank, nata a Celle in Germania, opera a Milano, invitata nel 2017 alla Biennale di Venezia, ora una sua mostra itinerante in 8 musei europei; e Simone Forti, nata a Firenze nel 1935, opera a Los Angeles, si trasferì negli Usa per le leggi razziali,  ha creato un ponte tra l’arte italiana e le avanguardie americane, con artisti di oltre oceano, le sue opere nei musei di arte contemporanea, è presente alla Biennale di Venezia nel  2003.

16^ edizione Q, sezione “De rerum rurale”,
Nico Angiuli, “Tre titoli“, 2015

Quindi, Nanda  Vigo, Milano, 1936-2020, architetto  designer, rapporti con Lucio Fontana e Piero Marconi, Enrico Castellani e Giò Ponti, nel  movimento internazionale ZERO, premiato per design e architettura, presente alla Biennale di Venezia del  1982, e alla 10^ Quadriennale del 1973; e Cloti Ricciardi , nata nel 1939 a Roma dove opera, animatrice negli anni ’70 del circolo Pompeo Magno centro del femminismo romano, cofondatrice di una rivista  politica su cui scrive saggi di carattere  storico-filosofico, mostre dagli anni ’80 e nel 1993 in una sala personale alla Biennale di Venezia. Inoltre, Cinzia Ruggeri, Milano, 1942-2019, stilista  e designer, attività interdisciplinare fra moda,  design, e arte anche Pop Art negli anni ‘70 , ha collaborato con  Studio Alchimia, Occhio Magico  e Gruppo Memphis negli anni ’80,  mostre a Milano e Torino, Londra, Parigi e Zurigo; e  il duo Yervant  Gianikian, architetto di origini armene,   con Angela Ricci Lucchi, entrambi nati nel 1942, il primo a Merano, la seconda a  Lugo di Romagna ha studiato pittura con Kokoschka,  hanno operato insieme a Milano – fino alla scomparsa della Ricci Lucchi nel 2018 – impegnandosi dagli anni ’70 nel cinema sperimentale, sono alla Biennale di Venezia nel 2001 e alla  “Documenta” di Kassel nel 2017, mostre recenti a Milano, Parigi, Rovereto; poi, Salvo, di Leoforte, Enna, 1947-2015, ha operato a Torino dove ha avuto lo studio con Alighiero Boetti, è stato un esponente storico dell’arte concettuale italiana, tra le mostre quelle a Bologna e Torino, Rotterdam  e Lugano, ha partecipato alla  13^ Quadriennale del 1999 e alla 14^ del 2005.

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Segue, Luigi Coppola , “Dopo un’epoca di riposo (Castiglione d’Otranto)” , 2016

Entrando negli   anni ’50 e ’60, troviamo Maurizio Vetrunio, nato nel 1954 a Sant’Antonio di Susa dove opera, ha studiato filosofia a Torino ed è vissuto anche  a Londra e a Bali dove continua ad operare, negli anni ’80 entrò nel gruppo “Enfatisti” a Bologna dove fondò la galleria Neon, ha collaborato con Charles Ray nel 2013, ha partecipato alla 12^ Quadriennale del 1996; e Bruna Esposito, nata nel 1960 a Roma dove opera, interdisciplinare, lavora in performance ed happening teatrali con musicisti e danzatori dal 1980 a 1986 a New York, nel 1987 a Berlino; ha  partecipato alla “Documenta” di Kassel nel 1995,  alla Biennale di Venezia nel 1999 con il Leone d’oro, e nel 2005, inoltre alla 12^ Quadriennale del 1996 e alla 15^ del 2008. Nati negli anni ’60,   Cuoghi Corsello, duo formato da  Monica Cuoghi, nata a Mantova nel 1965, e Claudio Corsello, nato nel 1964 a Bologna dove entrambi hanno studiato e si sono impegnati nei luoghi di emarginazione, tra gli anni ’80 e ’90 tra i “writers” bolognesi, mostre a Bologna e Torino, Roma e Palermo, hanno partecipato alla 12^ Quadriennale del 1996

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Segue, Marinella Senatore, “Speak Easy College # 93”, 2013

E Monica Bonvicini, nata a Venezia nel 1965, opera a Berlino, presente quattro volte alla  Biennale di Venezia, nel 1999 con il Leone d’oro, nel 2005, 2011, 2015, Premio Oskar Kokoshka nel 2020, seconda italiana a vincerlo. Ci piace chiudere  questa galleria con Norma Jeane, opera a Milano, si definisce “nata a Los Angeles il 5 agosto 1962, nello stesso  giorno in cui è morta Marilyn Monroe, e per di più nella stessa villa”; ha partecipato nel 2007 alla Biennale di Lione e nel 2011 alla Biennale di Venezia, nel 2000 ha vinto il premio  “Italian Studio Program” al PS1 MoMA di New York. E’ di spessore internazionale, non vuole essere identificata, si cela dietro il nome della diva che, com’è noto, si chiamava Norma Jeane, e questo tocco di mistero è il sigillo più appropriato a una generazione di pionieri benemeriti.

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Marinella Senatore, “Modica Street Musical. Il presente, il passato e il possibile”, 2016

La generazione di mezzo, fine anni ‘60-1985

 Della generazione di mezzo tra gli under-35 e gli over 55, gli espositori nati nel quarto di secolo interposto, indichiamo soltanto i nomi, mentre abbiamo voluto dare qualche notizia per le due generazioni estreme, in omaggio al “largo ai giovani” per i primi e al lungo percorso dei “pionieri” e “veterani”. Ecco le  leve artistiche dell’età intermedia nella 17^ Quadriennale.

Nati negli anni ’70Francesco Gennari e  Angela Ricci Lucchi, Alessandro Pessoli e Michele Rizzo,  Micol Assaël e Chiara Camoni, DAAR – Alessandro Petti – Sandi Hilal e Caterina De Nicola, Anna Franceschini e Giuseppe Gabellone. I nati  nella prima metà degli  anni ’80 sono:  Alessandro Agudio, Michele Rizzo e Romeo Castellucci-Socìetas.

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16^ edizione Q, sezione “Cyphoria” , Alterazioni Video,
“Take Care of the One You Love”, 2016

Tornando agli anni più recenti concludiamo con due gruppi del terzo millennio: Zapruder Filmmakersgroup, costituito a Roncofreddo (FC) nel 2000 dal trio Moretti-Zamagni-Ranocchi, molto attivo nelle arti visive, i loro film presentati a mostre internazionali, come la  Biennale  di Venezia, e in mostre ad Avignone e Bologna,  Berlino e Bruxelles, nel 2016 Premio  MAXXI; e Tomboys Don’t Cry, formatosi nel 2011  a Milano  con un gruppo “queer” di ragazze, opera in campo musicale e delle arti visive con “avventure post identitarie”, ha collaborato a spazi-progetto e manifestazioni varie di arte contemporanea.

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Segue, Paolo Cirio, “Overexposed-James Clapper” , 2015

Il grande spettacolo della Quadrienanle e l’auspicio del “FUORI”

Questo il “cast” del grande spettacolo che si aprirà il 29 ottobre, registi i due curatori cui è andato l’onere e l’onore della selezione degli artisti, dopo una lunga quanto accurata ricognizione sul territorio: Sarah Cosulich, direttore artistico della Fondazione, e  il co-curatore Stefano Collicelli Cagol. Il presidente Umberto Croppi ne è il produttore, e al suo fianco vediamo il presidente onorario Franco Bernabè che vi si è notevolmente impegnato nel biennio preparatorio precedente, e pure nell’ultimo anno ha dato una mano alla realizzazione.

La presentazione ha acuito l’interesse,  per non dire l’ansia, cui si unisce la speranza che la 17^ Quadriennale di Roma segni veramente anche la sospirata fine dell’emergenza coronavirus e  venga scongiurata la seconda ondata.  Il “FUORI” del titolo farebbe uscire così dai timori  per il presente,  proiettandosi liberamente nel futuro, “fuori” da ogni schema e confine, sulle ali di un’arte contemporanea sempre più sorprendente e rivoluzionaria, tutta da capire e apprezzare.

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Segue, Mara Oscar Cassiani, “Eden”, 2015-2016

Info

La presentazione si è svolta nella Sala Spadolini al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo in Via del Collegio Romano 27. Cfr. i nostri precedenti articoli sulla Quadriennale: in questo sito, il 13 marzo 2020; in www.arteculturaoggiu.com per la 16^ edizione, il 16 giugno, 24, 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016, li ripubbichiamo in questo sito in 5 giorni a partire da domani, per far entrare già nello spirito della 17^ edizione “FUORI” con le immagini della 16^ edizione “Altri tempi, altri miti” , dopo il salto di un quadriennio. Per altre citazioni del testo, cfr. i nostri articoli: in questo sito, su “Anselmo” 26 maggio 2020 ; in www.arteculturaoggi.it su “6 artista della Fondazione Passtificio Cerere” 3 gennaio 2013.

Photo

‘Le immagini della presentazione sono state riprese dallo streaming (la n. 2 e 3), dalla cartella stampa (apertura, n. 4 e 5, chiusura) e dal Catalogo della 16^ edizione (tutte le altre), si ringrazia la Fondazione Quadriennale di Roma, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Dopo le prime 3 immagini su logo e presentazione nella sala Spadolini, , 6 immagini di opere di artisti presenti alla 17^ edizione, le prime 2 in anteprima, e le altre 4 di artisti presenti anche nella 16^ edizione con l’opera esposta allora; seguono 13 immagini di opere presentate alla 16^ edizione, inserite per entrare ancora di più nell’atmosfera della Quadriennale (tutte diverse da quelle inserite nei 5 articoli del servizio del 2016 sulla 16^ Quadriennale, con riferimento alle rispettive sezioni). In apertura, il logo della mostra “FUORI”; seguono due momenti della presentazione, parlano il presidente Umberto Croppi, e il residente onorario Franco Bernabè; poi, l’anteprima di Cinzia Ruggeri, “Stivali, Italia” 1986 e Isabella Costabile, “Santa Maremma” 2013; quindi, le opere esposte alla 16^ edizione degli artisti presenti anche alla 17^, Anna Franceschini, “Before they break, before they die – Movement 1” 2013 e Alessandro Agudio, “Lulaclub” 2011, Diego Marcon, “Untitled (Head Falling 01)” 2015 e Davide Stucchi, “Heat Dispoersion (Mattia and Davide)” 2016; inoltre, una carrellata di opere della 16^ edizione della Quadriennale, della sezione “I wuld prefer not to”, Chiara Fumai, “Secreto provato” 2016; della sezione “Ehi, voi”, Dario Guccio, “Porta bianca” 2016 dettaglio, Corrado Levi,“Vestiti di arrivati” 2015 e Momentum, “Intensity” 2016; della sezione “Orestiade italiana”, Giulio Squillacciotti e Camilla Insom Arcipelago, “Spiirits, Sounds and Zar Rituals in the Persian Gulf” 2016, e Curandi Katz on Masako Matsushita, “Resist Everywhere, Masako” 2015; della sezione “De rerum rurale”, Nico Angiuli, “Tre titoli” 2015, Luigi Coppola, “Dopo un’epoca di riposo (Castiglione d’Otranto)” 2016, Marinella Senatore, “Speak Easy College # 93” 2013 e “Modica Street Musical. Il presente, il passato e il possibile” 2016; della sezione “Cyphoria” , Alterazioni Video, “Take Care of the One You Love” 2016, Paolo Cirio, “Overexposed-James Clapper” 2015 e Mara Oscar Cassiani, “Eden” 2015-2016 ; in chiusura, il Palazzo delle Esposizioni, sede storica delle mostre della Quadriennale di Roma.

Il Palazzo delle Esposizioni, sede dstorica delle mostre
della Quadriennale di Roma

Istanbul, 3. Alla ricerca di Costantinopoli

Le parole pronunciate da papa Francesco a capo chino, gli occhi bassi e il tono accorato, all’Angelus oggi, nella mattina di domenica 12 luglio 2020, “Il mio pensiero ora va un po’ lontano e va ad Istanbul, penso a Santa Sofia, e sono molto addolorato”, ci hanno fatto tornare con la memoria al nostro viaggio di alcuni anni fa nella città cosmopolita, c’era ancora il laicismo di Ataturk e non si poteva immaginare che l’antica cattedrale cristiana di Costantinopoli, divenuta moschea dopo la conquista ottomana, ma trasformata in museo laico da Ataturk, potesse tornare moschea come sta avvenendo per imposizione di Erdogan, sulla spinta del fondamentalismo islamico. Per riportarci a quei momenti in cui Istanbul era espressione della tolleranza e compresenza religiosa che nella “laicità” di Santa Sofia aveva il simbolo, ripubblichiamo senza alcuna modifica e aggiunta i tre articoli usciti nel sito www.arteculturaoggi.com del 10, 13, 15 marzo 2013. Si descrive la preghiera di papa Benedetto XVI con il Gran Muftì alla “Moschea Blu”; ma soprattutto si va alla ricerca delle tracce dell’antica Costantinopoli, con l’immagine rimasta impressa di “In hoc signo vinces” .

di Romano Maria Levante

Termina la rievocazione della nostra visita a Istanbu, mentre si è appena chiusa la mostra “La Via della Seta”, aperta al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2013 e c’èstato il riconoscimento di “Consumers Choice” alla città come “The Best European Destination 2013. Concludiamo con un tourbillon finale: la “caccia al tesoro” delle ulteriori preesistenze romane tra le attrazioni sacre delle straordinarie moschee e quelle profane dei palazzi del Sultano, come il famoso Topkapi. Fino al culmine della nostra ricerca dell’antica Costantinopoli: lo straordinario pavimento a mosaico divenuto museo nel luogo del rinvenimento, cioè quanto è rimasto del grande palazzo di Costantino.

Basilica di Solimano, l’interno

Alla ricerca di Costantinopoli

Un ricordo di Istanbul: dal balcone del nostro piccolo albergo, il Turkmen Hotel, ci godevamo lo spettacolo delle luci riflesse sul Mar di Marmara; il cielo di un nero profondo trapunto di stelle quanto mai brillanti si stendeva sulle cupole illuminate delle moschee. La millenaria basilica di Santa Sofia era stata prodiga di sensazioni e di emozioni forti, soprattutto per il suo impressionante carico di storia. Nella Moschea Blu avevamo sentito il sapore popolare della fede mussulmana, dell’Islam impersonato da quella distesa di schiene che si sollevavano all’unisono, da quel raccoglimento veramente religioso nel senso più pieno del termine, nell’ora del sollievo per la fine del digiuno al calar della sera.

Comportamenti composti e devoti, si trattava della moschea che fino al diciannovesimo secolo è stata la base di partenza dei pellegrinaggi alla Mecca. Però la grande folla ci aveva distolto dal percepire quanto di più profondo può cogliere chi è alla ricerca delle motivazioni autentiche al di sotto della superficie. Ci tornammo di primo mattino, prima dell’onda dei turisti e degli stessi fedeli.

Entrammo all’ora esatta dell’apertura, la grande moschea era tutta per noi, o quasi. Verso il cielo svettavano i sei minareti, lo stesso numero della Ka’ba alla Mecca che fece gridare al sacrilegio finché il Sultano non dotò il cuore dell’Islam di un settimo minareto. Ci prese un’emozione che penetrava nell’anima, veniva da quei volumi, da quegli spazi, da quei colori. I grandi cerchi si inseguivano nelle cupole, fino a comporre sfere ideali che sembravano ricongiungersi al cielo toccato dai minareti: un cielo tangibile, vicino all’uomo che lo tiene stretto a sé per confondersi in esso; sfere celesti senza delimitazioni geografiche di Oriente e Occidente e senza distinzioni religiose, che portavano il nostro animo in alto come magiche mongolfiere.

Ci sentimmo immersi in un colore ceruleo tenero e delicato, che veniva dalle preziose piastrelle di Iznik, l’antica Nicea, bianche, azzurre e verdi opera di un artigianato artistico sopraffino, e creava un clima di profonda spiritualità. Si avvertiva e si vedeva il colore della spiritualità, la forma della spiritualità, il volume della spiritualità: una spiritualità religiosa, ma di una religione senza nome e senza età, la religione dello spirito al di sopra del tempo e dello spazio, dei popoli e delle civiltà.

E’ la spiritualità dell’Assoluto che in quanto tale non ammette limiti, condizionamenti né esclusive, penetra nel cuore di ciascuno quale ne sia la nazionalità, la fede, la natura; una spiritualità che  prende nell’anima in quel clima magico. Guardare in alto la cascata di cupole e semicupole non era dissimile dall’ammirare le cupole di Michelangelo e del Brunelleschi, con la differenza che nelle grandi cattedrali cristiane la cupola se c’è è una parte della chiesa, pur importantissima; mentre qui la cupola è la stessa chiesa, e non è mai isolata, ce ne sono altre minori. Apre l’animo, come la verticalità delle cattedrali gotiche trasmette una lancinante spiritualità con la spinta in alto degli angoli acuti e delle linee vertiginose; l’opposto delle rotondità delle cupole ma con lo stesso effetto.

Il senso dell’Assoluto, dunque, si raggiunge in modi differenti e anche opposti sullo slancio di motivazioni e ispirazioni interiori che hanno uguale intensità umana. E’ lo slancio che ha portato gli architetti delle cattedrali e moschee, come degli eremi più remoti, a trovare la formula per tradurre queste motivazioni e ispirazioni in spazi e volumi, linee e colori, creando un circuito spirituale in grado di restituirle facendo nascere nei religiosi e nei pellegrini le meditazioni più elevate.

Nella Moschea Blu avevamo sentito l’essenza arcana dell’Empireo dantesco, si erano rivelati a noi i cerchi concentrici, le sublimi architetture del Paradiso; avevamo visto specchiarsi nella nostra anima i colori del cielo divenuti l’incarnazione pura e vibrante dello spirito.

Moschea Blu vista da lontano

Alla grande Moschea di Solimano dove ci siamo recati subito dopo, abbiamo chiesto una conferma delle nostre sensazioni. All’esterno ci ha accolto il “caravanserraglio”, che riuniva il complesso di servizi, si direbbe con il linguaggio odierno, predisposto per i pellegrini venuti da lontano e i poveri; abbondavano punti di ristoro e di cura, cucine, rivendite. Superato il chiostro e il portico sorretto da colonne provenienti dall’antico Ippodromo, senza soffermarci su quei reperti, abbiamo cercato di ritrovare l’itinerario della spiritualità senza appartenenze, la spiritualità dell’Assoluto.

Non c’era la soffusa luce cerulea della Moschea Blu, l’intensità luminosa veniva dai raggi che filtrano dalle 138 finestre in un tripudio di riflessi. Si formavano i cerchi concentrici dell’Empireo, la sfera delle cupole portata in alto dalla magica mongolfiera aveva dimensioni ancora maggiori, la superficie coperta dai tappeti per le preghiere era sconfinata, ci trovavamo nella più grande moschea di Istanbul. Un senso di armonia era trasmesso dai grandi spazi e dalla pace che regnava nel tempio; l’altezza della cupola dal pavimento è il doppio del suo diametro, sembravano materializzarsi le proporzioni dantesche. Il Paradiso si rivelava anche qui negli spazi e nei volumi, nelle recondite armonie della spiritualità senza confini né aggettivi, ispirata dalla contemplazione.

Uscimmo confusi e presi nell’intimo, poi la vista della città dall’alto della collina dove sorge la moschea ci riportò alla realtà intorno a noi. Ma il fascino delle moschee ci prese, eravamo sicuri di non saper più resistere alla tentazione di entrare in quelle che avremmo incontrato, per ritrovare quegli spazi e quei volumi pur di dimensioni minori, sempre all’insegna di un equilibrio arcano. 

Un altro monumento ci ricondusse alla nostra ricerca delle tracce del passato: la Colonna di Costantino del 330, lo stesso anno dell’Ippodromo e dell’obelisco omonimo, rinforzata da un cerchiaggio in acciaio, con una storia complessa fatta di incendi e gravi mutilazioni -in origine era sormontata addirittura da una grande statua dell’imperatore su un capitello corinzio – e di leggende intriganti: alla base, poi ricoperta da una grossa pietra, sarebbero state custodite reliquie preziose, dall’ascia usata da Noè per costruire l’arca, al fiasco dell’olio della Maddalena, fino addirittura ai resti del pane con cui Gesù sfamò le moltitudini. Più che per queste credenze il monumento suscitò il nostro interesse per le origini costantiniane. Vicinissimi, i famosi bagni turchi di Cemberlitas, della fine del sedicesimo secolo, erano vicini ad evocare quelli dell’antica Roma dai quali derivano, con la differenza che manca la vasca d’acqua fredda in cui i romani facevano l’immersione finale.

Resistemmo alla tentazione della sauna calda e dei massaggi al corpo, ci allontanammo anche dai luoghi dello spirito e della memoria per immergerci nelle rinomate attrazioni profane di Istanbul: i sontuosi palazzi e i fantasmagorici mercati traboccanti di merce e di una pittoresca umanità.

Cisterna Basilica, l’interno

L’immersione nelle attrazioni profane

Per prima cosa visitammo il Palazzo Dolmabahce, la più recente delle residenze del Sultano, del 1856, sontuoso e opulento da dimora regale. E’ sul mare, ne ammirammo grandiosità e ricchezze, ma ci lasciò freddi, non vi sentimmo il soffio della storia e neppure il fascino della leggenda.

Ci attirava di più Topkapi, il palazzo del sultano Mehemet del 1460, nel promontorio boscoso del “Serraglio”, con l’Harem e i suoi padiglioni nei quattro grandi cortili che riproducono i caratteristici accampamenti ottomani; e il Gran Bazar, l’immenso suk dove esplode la gioia di vivere, di fare acquisti, di godere. Dallo spirito alla carne, nelle espressioni dalle più contenute alle più sfrenate.

Restammo delusi dalla visita all’Harem, forse perché non ha il contenuto di trasgressione e di conturbante raffinatezza orientale che ci aspettavamo. Innanzitutto va ridimensionato il mito delle mille concubine, pur favoleggiate nella fase di massimo fulgore, nell’ultimo periodo non superavano il numero delle dita di una mano ed erano sottoposte al controllo delle mogli del Sultano, finché nel 1909 l’Harem venne chiuso. Ma soprattutto le immagini piccanti evocate dalla nostra fantasia non si ritrovavano minimamente in quelle stanzette grigie e spoglie, fredde e povere, che convergevano in punti di riunione più aperti ma ugualmente spartani.

Invece i quartieri del Sultano brillavano di sfarzo e opulenza da ogni parte, con i motivi riccamente istoriati nelle vetrate e nei pavimenti, nelle pareti e negli arredi preziosi. I tesori erano pur essi attraenti, il  pugnale favoloso del film “Topkapi” con il furto rocambolesco era uno dei tanti pezzi in esposizione ma ci deluse, del resto non era valorizzato come ci attendevamo data la sua rinomanza.

La nostra tappa successiva fu il Gran Bazar, che a differenza del palazzo Topkapi superava ogni immaginazione. Un dedalo di stradine animate e variopinte con un’infinità di botteghe e bancarelle (dicono 5000)  e i tipici venditori levantini. C’era il Bedesten, il nucleo più antico conservato per memoria all’interno dell’inestricabile intrico del suk, peraltro quanto mai ordinato e preciso. La merce – che non poteva essere più copiosa, assortita e multiforme – era esposta agli occhi del pubblico, in tanti settori per le più svariate aree merceologiche, dalle spezie ai tappeti in una offerta policroma e pittoresca, dai gioielli agli ori risplendenti in vetrine rutilanti di una ricchezza abbagliante, questa sì degna delle “mille e una notte”. Vi ritrovammo, identici, gli anellini d’oro con quattro piccoli rubini, e le scacchiere in legno ripiegate a metà, che avevamo acquistato in quel luogo  quarant’anni prima; ci sembrò che il tempo si fosse fermato, ma era l’unico nesso con i nostri ricordi del passato, si era trattato di una fugace e superficiale gita collettiva vissuta con altro spirito.

Non sembrava credibile un simile addensamento di ogni ben di dio, come lo definiamo pur essendo nella terra di un dio diverso al quale però la spiritualità delle moschee ci ha riconciliato. I moderni centri commerciali delle nostre città non richiamano queste strutture animate e pittoresche, di origini remote, dove non si va solo per comperare ma per  intrattenersi, incontrarsi e conoscersi?

Il Gran Bazar, in fondo, con i suoi percorsi labirintici in cui è facile perdersi, in tutti i sensi e non solo nel senso logistico, è una metafora: evoca il labirinto della modernità tentatrice, opulenta, eccessiva, che può far dimenticare i veri valori da non ricercare al di fuori ma dentro se stessi.

Facemmo questa riflessione per poi riscuoterci, tornare alla realtà, vedere con stupore misto a smarrimento quanto ci eravamo allontanati dalla nostra ricerca, quella delle radici di Istanbul in una Costantinopoli cresciuta nella fantasia all’insegna dei valori scolpiti sin dall’infanzia.

Dovevamo tornare sui nostri passi, ricercare le antiche origini, lasciare le tentazioni che ci avevano sviato nella visita all’Harem di Topkapi e nell’immersione nel paese dei balocchi del Gran Bazar, depurare il nostro spirito anche dalle contaminazioni delle moschee. Cosa c’era di meglio della visita alla Cisterna Basilica? Evoca le catacombe con la sua profondità sotterranea, per di più è immersa nell’acqua purificatrice, un lavacro dell’anima di cui sentivamo il bisogno. E soprattutto ci riportava sulla dritta via, alla ricerca delle tracce dell’antica romanità.

Infatti fu costruita proprio da Costantino per garantire l’approvvigionamento di acqua al Gran Palazzo, residenza sua e degli imperatori bizantini e ingrandita durate l’impero di Giustiniano nel 532; tutto sembra fuorché una cisterna con le sue trecentotrentasei imponenti colonne alte più di otto metri in dodici file, due terzi delle quali visibili, è quasi un tempio, una suggestiva foresta pietrificata sotterranea. Novanta capitelli corinzi e altri di diversi stili si riaccostano all’arte classica, le due grandi teste di Medusa che fanno da capitello rovesciato alle colonne terminali ne sono una testimonianza. Mentre altri due elementi ci colpirono per il loro significato: gli occhi di pavone iscritti nel fusto di alcune colonne, come segno augurale riprodotto in tanti oggetti che ci avevano incuriosito nel Gran Bazar e nelle botteghe con souvenir; e soprattutto la croce di Cristo rintracciata in una colonna seminascosta, con l’orgoglio di avere ritrovato un segno prezioso che non è stato cancellato né profanato trasformandolo in motivo ornamentale, anche se per salvarlo non c’è voluto il provvidenziale strato di intonaco come per i mosaici cristiani di Santa Sofia.

E’ questa la scoperta che ci mise le ali ai piedi per l’ultimo miglio del nostro itinerario fino all’approdo del viaggio  compiuto alla ricerca delle radici della città, e forse anche di noi stessi.

Gran Bazaar, uno scorcio

 L’approdo al Gran Palazzo dell’antica Costantinopoli

L’approdo è stato nientemeno ciò che resta del Gran Palazzo di Costantinopoli. Non potevamo rassegnarci al pensiero che i reperti da noi tanto ricercati si limitassero alla Colonna serpentina e al Bassorilievo romano di piazzale Sultanahmet – dove era iniziato il nostro percorso nell’antichità e nella modernità di Istanbul – alla Colonna di Costantino e a quanto evoca la Cisterna Basilica, oltre a Santa Sofia. Ci districammo nel Bazar che stavamo attraversando,  una miniatura rispetto al Gran Bazar, ma tale da concentrare essenze e profumi, colori e sapori, in una confusione festosa e non invadente come i suk di altri paesi. La nostra meta era all’interno del Bazar, ma per isolarci da esso.

Non ci aspettava il fastoso palazzo imperiale, non ci pensavamo affatto, ma non ne trovammo neppure i ruderi come avevamo sperato. Siamo troppo abituati ai resti della romanità, dal Foro romano alle ville di Tiberio e Nerone, Cicerone e Adriano a Tivoli, che hanno lasciato reperti in grado di evocarne la grandiosità, la pianta, gli ambienti, per non parlare dei resti di Pompei e delle necropoli che ne rendono compiutamente l’antico assetto e gli splendori nascosti.

Lì non c’erano sono resti, tutto era stato cancellato quasi ci fosse passato sopra un rullo compressore più distruttivo del tempo, quello del fondamentalismo millenario. Ci chiediamo ancora oggi come ciò possa essere avvenuto, il Gran Palazzo aveva dimensioni sconfinate, occupava il piazzale sterminato di Sultanahmet, con gli ampliamenti successivi si estendeva dall’Ippodromo fino al porto imperiale sul Mar di Marmara; gli appartamenti reali, i saloni di rappresentanza (con la Sala dell’oro), le chiese (dei Santi Pietro e Paolo e la Nea Ekklesia), i palazzi (il Daphne, il Bucoleon, il Magnaura, l’Hormisdas), le piazze (l’Augusteum col grande porticato), i cortili, le terrazze, i giardini erano oggetto di ammirazione di tutto il mondo di allora. Stando così le cose continuiamo a chiederci come – a parte la grande e intatta Santa Sofia posta fuori della cinta del Gran Palazzo – siano sopravvissuti solo l’Obelisco con il Bassorilievo romano e la Colonna serpentina oltre alla Colonna di Costantino; forse le ridotte dimensioni hanno salvato questi  reperti.

La lingua batte dove il dente duole, siamo tornati sulle tracce del passato con l’ansia della scoperta che avevamo all’inizio, prima di essere presi dalla spiritualità della Istanbul delle moschee e dai richiami profani di Topkapi e del Gran Bazar. E ci siamo posti gli stessi interrogativi, stretti dalla medesima delusione. Ora eravamo alla meta, l’approdo lo avevamo trovato, ed era suggestivo.

Non si trattava di ruderi né reperti di statue e oggetti, era qualcosa di comune e insieme insolito, emozionante perché ci riportava all’epoca che cercavamo di evocare. Era un pavimento quello offerto alla nostra vista, un pavimento romano con la composizione a mosaico in piccole tessere dai colori tenui: il Pavimento del Gran Palazzo di Costantinopoli, la reggia di Costantino il Grande.

Un intero museo, il “Mosaic Museum” è stato realizzato ponendo un tetto su questo pavimento dal valore evocativo incalcolabile dove è stato rinvenuto, in corrispondenza della Sala dell’oro. Risale al quinto secolo ed è di dimensioni consistenti, oltre 200 metri quadrati con 150 figure in mosaico che danno un effetto-rilievo; mentre nulla è rimasto purtroppo dei mosaici d’oro che impreziosivano le centinaia di stanze del Gran Palazzo, tutte dissolte. Percorremmo le passerelle che permettono una vista ravvicinata delle raffigurazioni: scene di lavoro e di caccia, di vita bucolica, serena, agreste da giardino dell’Eden e scene di ragazzi che giocano; motivi mitologici ed elementi naturali con rocce e colline, boschi e alberi singoli, campi e fontane, animali che evocano terre favolose e bestie feroci come tigri, leoni, leopardi, e anche gazzelle. Tutto un mondo riviveva con la sottile suggestione di un traguardo raggiunto, di una ricerca coronata: la nostra ricerca, il nostro traguardo.

L’immagine di Dioniso, i due giovani che con una picca colpiscono la tigre, il leone dalle fauci spalancate, le due fiere che si azzannano, i fregi eleganti che adornano e circondano le scene si animavano: ci sembrava di sentire il rumore di passi cadenzati, lo strisciare di morbidi calzari sul pavimento; nell’aria le grida gioiose dei momenti festosi, le chiacchiere distensive dei momenti di riposo, i secchi ordini dei momenti decisivi; in lontananza il rumore di carri, il nitrire di cavalli.

La croce di “in hoc signo vinces” sembrava risplendere su quel grande pavimento. Lo percorremmo più volte con gli occhi e con l’anima, come se si fosse materializzato perché voluto fortemente dalla nostra ricerca. E’ giusto che gli abbiano dedicato il museo inserito nel Bazar in una fusione di antichità e modernità; e noi facemmo bene a riservargli il momento culminante del nostro viaggio.

Pavimento del Grand Palace al Mosaic Museum, una porzione

L’uscita dai labirinti di Istanbul

I labirinti che avevamo  esplorato rischiando di smarrirci non avevano più misteri, una volta  seguito il filo di Arianna che ci ha guidato fino alla conclusione del viaggio. Un viaggio nella Istanbul di ieri e di oggi alla ricerca di qualcosa di non scontato; un viaggio per conoscere la porta dell’Oriente, che ci ha fatto capire meglio anche noi stessi. E la breve crociera sul Bosforo che abbiamo voluto porre a sigillo di questo suggestivo percorso è stata liberatoria, ci ha fatto uscire a riveder le stelle dopo l’immersione nei misteri di una città millenaria.

Ci trovavamo nel cuore del Corno d’oro, il collegamento tra Oriente e Occidente con l’istmo dove sorge la città, il grande ponte sospeso sul Bosforo; il nostro traghetto sfilava dinanzi al palazzo Dolmabahce già visitato, che visto dal mare rivelava ancora di più la sua imponenza; c’era la Fortezza d’Europa, il complesso di torri eretto dal sultano Mehemet nel 1452 per la conquista di Costantinopoli nella parte più stretta del Bosforo; ammiravamo le ridenti ville sulle rive alle quali si mescolavano antichi tuguri in cortecce di legno scuro restati come memoria storica.

Il sole del tramonto si specchiava nelle acque con riflessi dorati i cui bagliori portati dalle onde accompagnavano i moti dell’anima liberata dai troppi pensieri.

Tornammo in albergo, l’indomani saremmo ripartiti per Roma e non a mani vuote: avevamo compiuto la missione che ci eravamo riproposti nella Istanbul della modernità alla ricerca delle tracce di un’antichità quanto mai prestigiosa e suggestiva, carica di significati e di richiami.

L’ultima immagine che abbiamo portato con noi di questa straordinaria città cosmopolita sospesa tra l’Oriente e l’Occidente, oggi come ieri, è quella dal balcone del nostro albergo dove ci eravamo emozionati sin dalla prima sera contemplando le luci sul Mar di Marmara. Nel momento del commiato non abbiamo guardato lontano sulla destra verso il mare, ma alla nostra sinistra in basso verso le cupole, che spiccavano vicinissime, della Moschea di Sokollu, dov’è la piccola pietra sacra proveniente dalla Mecca; moschea già da noi visitata per ammirare le ceramiche pregiate di Iznik che rivestono l’interno e la rendono unica per l’intensità del loro colore blu;  molto più forte rispetto al  delicato ceruleo della ben più grande Moschea Blu, ma tale da evocare di nuovo il suo splendore.

Un volo di gabbiani s’incastonò nello scenario dinanzi alla nostra vista. “Fuga di mezzanotte”, il film con le agghiaccianti immagini delle violenze nelle carceri turche e non solo, era dimenticato. Le ali della libertà si erano materializzate in un mattino sereno, l’antica Costantinopoli e la moderna Istanbul si specchiavano nel cielo terso dove i gabbiani volavano lontano. 

Presto li avremmo seguiti, il volo Alitalia ci attendeva per riportarci a Roma. Con quanto di prezioso e indimenticabile era stato acquisito dalla nostra mente, con quanto di bello e profondo si era impresso nella nostra anima. “Lascio un po’ del mio cuore a Istanbul”, disse Benedetto XVI  nel ripartire per Roma, e ci piace ricordarlo con commozione alla vigilia dell’elezione del suo successore.  Ebbene, lo confessiamo, “si parva licet comparare magnis”: è successo anche a noi.

Info

[I primi due articoli sono stati ripubblicati in questo sito www.arteculturaoggi.it il 12 e 13 luglio 2020, senza alcuna modifica e aggiunta, salvo questa breve avvertenza]

I primi due articoli sul nostro viaggio a Istanbul sono usciti nel sito [www.arteculturaoggi.com] il  10 e 13  marzo 2013, ciascuno con 6 immagini. Per la mostra “Le Vie della Seta” citata all’inizio, cfr., in questo sito, i nostri tre articoli del 19, 21 e 23 febbraio 2013, ciascuno con 6 immagini. 

Foto

Le prime 3 immagini e la 6^ sono state fornite cortesemente dall’ufficio “Cultura e Informazioni” della Turchia (Roma, piazza della Repubblica 55-56, tel. 06.4871190-1393, turchia@turchia.it, http://www.turchia.it/), che si ringrazia, insieme ai titolari dei diritti; la 4^ e la 5^ sono tratte rispettivamente dai siti http://www.ilpost.it/ e “istanbul.for91days.com”che si ringraziano per l’opportunità offerta. In apertura, l’interno della Basilica di Solimano; seguono la Moschea Blu da lontano e l’interno della Cisterna Basilica, poi un angolo del Gran Bazaar  e una porzione del pavimento del Grand Palace al Mosaic Museum; in chiusura una visione di moschee al tramonto. 

Moschee al tramonto

Istanbul, 2. Il negoziato con l’UE e la storica visita del Papa

Le parole pronunciate da papa Francesco a capo chino, gli occhi bassi e il tono accorato, all’Angelus oggi, nella mattina di domenica 12 luglio 2020, “Il mio pensiero ora va un po’ lontano e va ad Istanbul, penso a Santa Sofia, e sono molto addolorato”, ci hanno fatto tornare con la memoria al nostro viaggio di alcuni anni fa nella città cosmopolita, c’era ancora il laicismo di Ataturk e non si poteva immaginare che l’antica cattedrale cristiana di Costantinopoli, divenuta moschea dopo la conquista ottomana, ma trasformata in museo laico da Ataturk, potesse tornare moschea come sta avvenendo per imposizione di Erdogan, sulla spinta del fondamentalismo islamico. Per riportarci a quei momenti in cui Istanbul era espressione della tolleranza e compresenza religiosa che nella “laicità” di Santa Sofia aveva il simbolo, ripubblichiamo senza alcuna modifica e aggiunta i tre articoli usciti nel sito www.arteculturaoggi.com del 10, 13, 15 marzo 2013. Si descrive la preghiera di papa Benedetto XVI con il Gran Muftì alla “Moschea Blu”; ma soprattutto si va alla ricerca delle tracce dell’antica Costantinopoli, con l’immagine rimasta impressa di “In hoc signo vinces” .

di Romano Maria Levante

Abbiamo colto l’occasione della mostra “La Via della Seta”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2012, terminata con l’arrivo alla “porta dell’Oriente”, per raccontare il nostro viaggio reale a Istanbul, svolto prima di quello virtuale con la mostra. Dopo aver rivissuto l’arrivo nel mezzo della festa religiosa del Ramadan a piazza Sulthanamet, siamo andati sulle tracce dell’antica Costantinopoli cominciando dagli obelischi fino alla basilica di Santa Sofia con i simboli delle due religioni, assurta a simbolo di tolleranza e compresenza delle fedi e delle culture. Per questo, prima di proseguire il racconto della visita alla ricerca dei reperti della romanità oltre che delle attrazioni cittadine, vogliamo riflettere su questo aspetto cruciale fissando l’attenzione sul negoziato per l’ingresso della Turchia nell’UE e soprattutto sulla visita a Istanbul di Benedetto XVI nel 2006, un ricordo di viva attualità ora che il Pontefice ha lasciato il magistero papale. Come è di viva attualità la meta turistica Istanbul, insignita da “Consumers Choice” come “The Best European Destination 2013”.

La Moschea Blu dall’alto

Riflettendo sui problemi e sulla posizione della Turchia odierna

Iniziamo con il dire che il fondamentalismo non sembra essere l’aspetto prevalente  della Turchia di oggi, nonostante il partito islamico sia al potere dalla fine del 2002, e non manchino tentativi di ripristino di forme finora vietate, come il velo e l’accesso degli studenti delle scuole vocazionali all’università. Ma la Corte costituzionale boccia le leggi contrarie ai principi laici dello Stato.

Resta il laicismo di fondo, retaggio delle lotte religiose combattute nei secoli per un dio dal nome diverso ma sempre nel segno dell’Assoluto, che hanno portato alla svolta epocale di Ataturk, il padre della Turchia moderna, alla fine dell’impero ottomano verso l’inizio degli anni venti. La svolta che fu impressa verso l’assoluta laicità, venne sancita nella Costituzione e nelle leggi ordinarie, con l’esercito a tutela dell’indipendenza del potere statuale da quello religioso e della sua autonomia nella guida del paese. Da allora è stato bandito il velo sul viso, sicché le tradizionaliste si sono dovute limitare alle lunghe vesti e al velo annodato al collo come un foulard che fascia i capelli e incornicia il volto; ma con l’avvento al potere di Erdogan, islamico moderato che ha indebolito il potere dei militari, la First lady usa il velo anche dove non potrebbe indossarlo.  

Le donne che incontravamo in gran numero nelle strade di Istanbul erano di ogni età, soprattutto giovani, a fianco di compagne e amiche in minigonna e abbigliamento ultramoderno. E’ un dettaglio, ma evidenzia la compresenza di antico e moderno nella società turca e ne divide in modo netto anche il territorio. Sono profondamente radicate le differenze tra la parte asiatica tradizionalista – si pensi all’Anatolia e alle zone più arretrate – e la parte europea più aperta alla modernità, tra le città della zona europea e le campagne e montagne, tra le coste e l’interno, differenze presenti in molti stati, che qui acquistano maggiore spessore per la posizione di frontiera.

Fino a quando potranno convivere aspetti così diversi di cultura e costume nell’era della globalizzazione, che tutto appiattisce, è un mistero affascinante che solo il tempo potrà svelare.

I lunghi anni di negoziato per l’atteso e insieme temuto ingresso nell’Unione Europea, con i loro “stop and go”, serviranno forse anche a questo, come alle altre forme di omologazione ben più importanti per il rispetto dei diritti umani; molti passi sono ancora da compiere sulla strada della modernizzazione, la Turchia si muove da tempo in questa direzione pur se segnali altalenanti e il permanere di posizioni ritenute da molti illiberali, intolleranti e fortemente nazionaliste, oltre alla questione di Cipro, hanno rallentato la lentissima marcia di avvicinamento fino ad arrestarla.

Il Rapporto della Commissione dell’UE che fu presentato nel novembre 2003 è significativo perché dopo il primo anno di negoziato fotografò la situazione di partenza. E denunciò la distanza su cinque punti ritenuti irrinunciabili per il proseguimento del cammino verso l’adesione: dalle intromissioni delle forze armate in politica estera e interna, nella questione curda e tra religione e Stato, agli ostacoli nella libertà di espressione e di opinione fino alla mancata tutela delle minoranze con l’uso della tortura sui prigionieri politici; dall’irrisolta questione di Cipro con il mancato riconoscimento turco della parte dell’isola a etnia greca già entrata a pieno diritto nell’UE, la chiusura di porti e aeroporti turchi ai greco-ciprioti e il veto all’ingresso di Cipro negli organismi internazionali, alla corruzione nel settore pubblico e nel sistema giudiziario che non è indipendente. Inoltre si denunciavano le pratiche discriminatorie sulle donne e l’insufficienza dei diritti sindacali, le limitazioni di fatto alla libertà religiosa e il divieto per gli enti ecclesiastici di possedere proprietà.

Panoramica su Topkapi

Sono aspetti rilevanti per i quali il governo turco ha sempre sottolineato di muoversi secondo un percorso di assimilazione che si è impegnato a portare a compimento con segnali significativi già all’inizio dei negoziati, come la nomina di un civile a capo del Consiglio di sicurezza nazionale prima riservato ai militari, la disponibilità a riconoscere Cipro o comunque ad aprirsi di più in condizioni di reciprocità rispetto alla parte turca dell’isola, l’impegno a combattere le deviazioni riscontrate in concreto rispetto al sistema costituzionale e al quadro normativo nel campo dei diritti umani, della tutela delle minoranze e della corruzione pubblica e giudiziaria.

I tempi e i termini stringenti posti dalla Commissione UE hanno compromesso l’andamento del negoziato, ben presto sospeso per una serie di otto punti importanti mentre è continuato sugli altri venti e più punti; sospeso parzialmente non vuol dire interrotto e tanto meno cancellato, ma il duro Rapporto, insieme all’opposizione di grandi paesi come la Francia, Germania e Grecia, oltre al piccolo Cipro, che fa parte del’UE nella sua componente greca, ha rappresentato una doccia fredda per la popolazione che dall’entusiastica scelta dell’adesione è caduta su posizioni di scetticismo diffuso se non di contrarietà. La Commissione è stata considerata come burocratica e liquidatoria, perché a pressioni costruttive ha sostituito le accuse dei perduranti ritardi nel senso dell’esclusione.

E’ evidente come dietro i pur comprensibili e legittimi paletti posti al negoziato possano esserci motivi più profondi che attengono alla “diversità” sul piano religioso e, più in generale, sul modello di civiltà che crea inquietudini e timori inconfessati. Si tratta, infatti, di un grande paese che verrebbe ad eleggere più parlamentari europei di quanti ne ha la maggiore nazione dell’unione, la Germania, e porterebbe i confini dell’Unione Europea sulle frontiere scottanti di Iran, Siria ed Irak.

Questi timori sono agitati non soltanto a livello politico ma anche sul piano pratico: si è sempre pensato che il divario di reddito farebbe riversare sui più ricchi paesi europei quelle masse di immigrati turchi fermatesi finora in Germania. Ma il divario si è ridotto negli ultimi anni di crisi economica della zona euro mentre la Turchia si è sviluppata ad un ritmo notevole, basti pensare che – a parte il rallentamento nel 2012, ma sempre con un incremento del PIL del 3,5% quando noi abbiamo avuto una flessione quasi del 2,5% – il suo sviluppo procede a tassi cinesi, anzi nel 2011 è stato dell’8,5%, superiore a quello della Cina, e negli ultimi anni ha creato 4,5 milioni di nuovi posti di lavoro, su una popolazione di 75 milioni di abitanti. Per questo la spinta all’emigrazione tende ad esaurirsi, mentre il peso internazionale del paese cresce, e non solo sul piano politico e militare, da membro della Nato in posizione strategica: ne fanno fede le candidature, con buone probabilità di successo, all’Expo e alle Olimpiadi del 2020, due grandi eventi che ne consacrerebbero l’ascesa.

Oltre a questi aspetti economici, sul piano politico vanno  sottolineati fattori speculari a quelli prima richiamati: la creazione sulla frontiera più calda, con un alleato così forte militarmente, di un contrappeso all’inquieto mondo arabo e mussulmano che comunque sarebbe sempre lo scomodo vicino  dell’UE; e l’opportunità di dare una scossa vitale all’economia europea, così depressa, con un paese dall’elevatissimo potenziale di crescita, non a caso chiamato “la Cina d’Europa”.

La stessa sfida culturale dell’integrazione tra una grande nazione islamica ma laica e le grandi democrazie europee è quanto mai stimolante. Occorrerebbe, però, una effettiva coesione all’interno dell’UE per raccogliere la sfida e tradurre le minacce in opportunità. D’altra parte, fin dall’inizio del negoziato con la Turchia i risultati negativi dei referendum in Francia ed Olanda bloccarono la Costituzione europea rendendo incerta l’identità e la fisionomia nella costruzione dell’Europa, in bilico tra l’unione politica e la zona di libero scambio, tra forme crescenti di integrazione a tutto campo e mere cooperazioni rafforzate per aree particolari.

Moschea Ortakoy dal mare

 Questo problema è esploso nella crisi in atto e continua a rappresentare una pesante incognita sulle prospettive dell’UE. Soprattutto per la zona euro, direttamente colpita dato che sulla moneta unica senza una politica economica comune e senza una Banca centrale con tutti i poteri necessari a fronteggiare gli attacchi della speculazione finanziaria sui singoli paesi – presi ad uno ad uno come tra Orazi e Curiazi – si scaricano queste e altre insufficienze nella costruzione europea.

Il viaggio in Grecia di Angela Merkel potrebbe preludere ad una ripresa effettiva del negoziato, formalmente in corso ma praticamente bloccato. La cancelliera tedesca si è dichiarata disponibile ad aprire un nuovo capitolo nelle trattative, dicendo che prevede “un lungo cammino di negoziato”. E ha precisato: “Anche se sono scettica sull’esito sono d’accordo nel continuarlo”. A questo fine è stata reiterata la richiesta di rimuovere il blocco degli scali nella parte turca di Cipro verso i greci e i greco-ciprioti, dato che nell’Unione c’è l’obbligo dell’apertura a tutti gli stati membri; da parte della Turchia si è risposto che dipende dai turco-ciprioti e che si adopererà  al riguardo. Il primo ministro Erdogan ha detto: “Le discussioni devono procedere passo dopo passo, non conosco le intenzioni del nuovo presidente turco-cipriota, comunque la Turchia farà il possibile per risolvere il problema dell’apertura degli scali”.

Il grave problema dei diritti umani è stato sollevato di nuovo per i 76 giornalisti turchi incarcerati, tra cui 71 per motivi politici; problema che potrebbe porsi anche per le associazioni religiose. Erdogan ha negato intenti illiberali e persecutori definendo i giornalisti incarcerati appartenenti a sette eversive e terroristiche. Ma intanto due tra i maggiori giornalisti turchi, Can Dundar e Hassan Cemal, sono stati sospesi per due settimane per aver rivelato trattative segrete con i separatisti curdi del Pkk, lo scrittore Rakip Zarakoglu è perennemente sotto processo e minacciato di morte, anche Pamuk è stato minacciato. Mentre i procedimenti contro l’organizzazione Ergenekon, accusata di golpe, e il Kck, accusato di terrorismo separatista, sono stata l’occasione, secondo alcuni il pretesto, per rese dei conti con i militari e per grandi retate tra la gente comune, con 10 mila arresti in tre anni. Non è certo poca cosa per l’accettazione del paesi dell’UE se non si fa subito chiarezza.

La posizione della Germania è condizionata anche dalle elezioni politiche del prossimo settembre, tenendo conto che dal sondaggio pubblicato da un giornale tedesco alla vigilia del viaggio ad Ankara è risultato che il 70% della popolazione resterebbe contraria all’ingresso della Turchia nell’UE; la maggioranza dei contrari motiva la sua avversità con la preoccupazione per il forte sviluppo economico e la potenza militare turca. In effetti la Turchia non è più “il malato d’Europa” né il “malato del Bosforo” come era definito; ma dinanzi a tale cambiamento epocale è paradossale che sia temuta la sua forza oggi nella stessa misura in cui era temuta la sua debolezza ieri.

E’una novità da accogliere con favore, comunque, la disponibilità espressa dalla Merkel intanto per la riapertura del negoziato; e il mutamento in senso favorevole, con Hollande, dell’orientamento francese prima arroccato sulla netta opposizione di Sarkozy. Il mutamento del clima, e non solo, è reso dalla dichiarazione attribuita al commissario tedesco dell’Energia dell’UE: “Fra dieci anni Germania e Francia dovranno pregare in ginocchio la Turchia di entrare nell’Unione Europea”.

Un mosaico del Choro Museum

Benedetto XVI nella Moschea Blu

Il  viaggio del Papa in Turchia alla fine del novembre 2006 fu un evento di portata storica che illuminò, come mai in precedenza, sullo stato di allora e sulle prospettive dei rapporti con questa grande realtà sul piano culturale e politico oltre che su quello essenzialmente religioso. Rievocarlo meno di due settimane dopo che Benedetto XVI ha lasciato il sommo magistero pontificio, nel giorno della fumata bianca al Conclave, lo riteniamo importante per sottolineare in un momento cruciale il coraggio del Papa divenuto emerito: coraggio manifestato ora con la rinuncia per il bene della Chiesa, allora con un’iniziativa di portata simbolica e pratica in una situazione difficile e rischiosa.

Nel 2006 ci fu l’apertura dell’opinione pubblica turca più avveduta, andata ben oltre la cautela del governo che paventava strumentalizzazioni tanto da negare inizialmente l’incontro con il primo ministro Erdogan, per poi ripiegare su una rapida ma significativa accoglienza all’aeroporto, tra l’arrivo del Pontefice e la partenza del premier per il vertice della Nato. Timori derivanti dal clima di ostilità seguito alla “lectio magistralis” papale di Ratisbona, per la citazione dotta ritenuta offensiva da parte del mondo mussulmano, più che dalla contrapposizione tra le due grandi religioni: Paolo VI e Giovanni Paolo II erano andati in Turchia l’uno nel 1967, l’altro nel 1989 e Angelo Roncalli,  futuro Giovanni XXIII, vi risiedette dal 1935 al 1944 come Delegato apostolico.

I due papi precedenti incontrarono le autorità statali, quelle islamiche e il Patriarca ortodosso, massimo esponente della confessione cristiana più diffusa, che è la fede degli Armeni vittime di persecuzioni degenerate in eccidi denunciati come genocidio, peraltro mai ammesso dai turchi. E’ una ferita non ancora rimarginata, come non lo è neppure quella delle violenze e dell’oppressione lamentata dai curdi, minoranza islamica dell’antico Kurdistan, con la lotta del partito irredentista.

Anche Benedetto XVI –  che volle andare nella casa dove abitò Roncalli e volle celebrare nella sua parrocchia di allora una messa solenne – ebbe a Istanbul gli incontri dei due predecessori: dal patriarca ortodosso Bartolomeo I che partecipò alla funzione religiosa conclusiva – Paolo VI aveva aperto la strada con lo storico abbraccio con Atenagora – al Gran Muftì della città, Mustafa Cagrici, con cui pregò nella Moschea Blu. .

Ma le maggiori difficoltà della visita apostolica in un momento di crisi nei rapporti interreligiosi – e con i turchi scottati dagli ostacoli all’ingresso nell’UE fatti risalire anche alle riaffermazioni delle radici cristiane dell’Europa con relativa presunta opposizione dei cattolici – accrebbero l’importanza del successo di una missione coraggiosa. Il papa operò un’inattesa apertura all’ingresso della Turchia nell’UE, addirittura “auspicato”, dando torto alle fazioni estremiste. Del resto le autorità islamiche turche hanno ribadito il carattere “misericordioso” del Corano e della loro fede, come del loro Dio, e le schegge impazzite che incitano alla violenza nascono da interpretazioni arbitrarie.

Così il Papa, rinunciando alle sue stesse posizioni sostenute da cardinale, vide nell’Europa non più la cittadella cristiana arroccata nella propria identità contro l’assedio islamico, ma il terreno propizio per una maggiore apertura, attraverso il dialogo interreligioso e la convivenza civile.

Vogliamo ricordare che superò brillantemente la rischiosa prova del fuoco il cui esito positivo non va sottovalutato neppure oggi, dopo cinque anni con tanti problemi ancora aperti. Nei giorni della visita pontificia, pur vissuti in una comprensibile tensione, oltre ai gesti politici vi furono momenti di elevato valore non solo simbolico: dall’incontro con il Patriarca ortodosso per la convergenza delle fedi cristiane nell’impegno solennemente consacrato da un documento congiunto; alle visite parallele insieme al Gran Muftì della basilica di Santa Sofia e della Moschea Blu.

A Santa Sofia fu rispettato scrupolosamente il carattere laico datole da Ataturk con la trasformazione in museo; nella Moschea Blu il Papa, invitato alla meditazione comune dal Gran Muftì, “sostando qualche minuto in raccoglimento in quel luogo di preghiera” – sono le parole da lui usate nell’udienza generale tornato a Roma – si è “rivolto all’unico Signore del cielo e della terra, Padre misericordioso dell’intera umanità”, dimostrando in modo spettacolare e toccante, per chi pone mente alle travagliate vicende storiche, la possibilità, anzi la necessità, di una pacifica convivenza che si è realizzata in modi nuovi e nel momento più difficile.

Papa Benedetto XVI nella Moschea Blu con il Gran muftì Mustafa Cagrici

 Oltre agli sviluppi del dialogo interreligioso, sono stati promossi quei passi in avanti, sul piano civile, per  migliorare i comportamenti effettivi al di là delle norme astratte che sanciscono la libertà religiosa e l’uguaglianza dei cittadini senza distinzioni di fede. Sono state spesso lamentate forme di controllo sociale e disposizioni amministrative che tendono a discriminare i cristiani e ad emarginarli di fatto. Il loro numero è molto ridotto, sono circa 80 mila ortodossi e 40 mila cattolici concentrati soprattutto a Istanbul, su 75 milioni di abitanti che Erdogan vorrebbe far arrivare a 80 milioni con una politica demografica di incentivo alle nascite e la limitazione agli aborti. Che questo avvenga nella terra di Paolo di Tarso e della storica diocesi di Antiochia, dove i cristiani nell’antichità erano una parte consistente della popolazione, è più eloquente di ogni commento.

La scristianizzazione, dopo la caduta dell’impero ottomano, è avvenuta con l’espulsione dei greci ortodossi e la liquidazione degli Armeni, prima che Ataturk imponesse lo stato laico in una nazione ormai quasi totalmente islamica, fino a vietare l’uso in pubblico di vesti religiose. Una storia di crisi violente, con l’ultimo conato della rivoluzione dei “giovani turchi” prima della normalizzazione laica imposta dai militari, i soli che hanno potuto opporsi con successo ai fondamentalisti: sono precedenti che hanno reso le autorità turche timorose del proselitismo e dell’evangelizzazione dato che la Costituzione non vieta le conversioni dall’Islam al Cristianesimo proibite negli altri stati islamici; per cui i miglioramenti attesi e reclamati dalle autorità dell’UE saranno solo graduali.

La visita del Papa fu preceduta da episodi di grave intolleranza, sul piano individuale (il crudele omicidio del sacerdote cattolico don Andrea Santoro a Trebisonda) e collettivo (l’irruzione di marca  anticristiana in Santa Sofia, pochi giorni prima, di un gruppo di fondamentalisti richiamatisi al “Lupi grigi” ai quali apparteneva anche Alì Agca, l’attentatore di papa Giovanni Paolo II). Mentre fallì la manifestazione di protesta degli estremisti che invece del preannunciato milione di partecipanti raccolse nella grande Istanbul soltanto poche migliaia di adepti. Erano riapparsi lugubri fantasmi, che vanno sempre scacciati considerando che estremisti violenti si trovano dappertutto e che le autorità turche non hanno mancato di isolarli, contrastarli e combatterli con decisione e durezza; ma la migliore risposta la diede l’accoglienza della popolazione che dopo aver disertato le manifestazioni di protesta mostrò verso il Papa attenzione e rispetto senza alcun segno di ostilità, risultato ragguardevole per una popolazione islamica per più del 97% e con i precedenti ben noti di contrapposizione frontale e confronto diretto (si pensi che proprio per questo la Moschea Blu fu costruita vicinissima alla chiesa di Santa Sofia nel Piazzale Sultanahmed).  

Riflettere sui problemi e le prospettive di una situazione così complessa non trova riferimenti immediati e di validità generale in una città cosmopolita dove tutto sembra fugare ogni paura, per il  fascino di una realtà viva e stimolante, e dove le pur evidenti diversità appaiono un valore. Dall’integrazione con un paese islamico moderno può venire un modello di laicità e democraticità per tutto il mondo mussulmano, un esempio da seguire per la stabilizzazione dell’intera regione.

La stessa integrazione europea non fu vista anche come superamento della secolare ostilità tra Francia e Germania e come antidoto sicuro ai rigurgiti bellicisti nel vecchio continente? E si vide giusto. Non sarebbe di importanza incalcolabile la sconfitta delle posizioni estremiste la cui radicalizzazione porta allo scontro di civiltà e di culture religiose, che dà alimento al terrorismo?

Pensiamo a questo parlando di Istanbul, anche se la porta dell’Oriente non è l’intera Turchia, bensì soltanto l’ingresso europeo alla Turchia asiatica: luminoso e suggestivo come un tramonto sul Bosforo, che nelle viscere profonde e oscure di un grande paese così eterogeneo e diverso da noi nasconde quanto può turbare un continente e lo rende molto cauto ad aprirsi all’adesione turca.   

Il racconto della nostra visita a Istanbul non è finito, dopo Santa Sofia ci sono le tante meraviglie della città e soprattutto prosegue la nostra ricerca dell’antica Costantinopoli fino ad approdare dove sono i resti di quello che fu il cuore della capitale imperiale; il palazzo reale di Costantino. Continueremo il racconto prossimamente sul filo della memoria e della persistente suggestione.

Info

[Il primo articolio è stato ripubblicato in questo sito www.arteculturaoggi.it il 10 luglio 2020, il terzo e ultimo articolo sarà ripubblicato il 12 luglio, senza modifiche nè aggiunte, a parte questa breve avvertenza]

Il primo articolo sul nostro viaggio a Istanbul è uscito, in questo sito [www.arteculturaoggi.com], il 10 marzo con 6 immagini, il terzo e ultimo articolo uscirà il  15 marzo 2013 con altre 6 immagini. Per la mostra “La Via della Seta” citata all’inizio, cfr. in questo sito i nostri  tre articoli del 19, 21, 23 febbraio 2013, ciascuno con 6 immagini. Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’ufficio “Cultura e Informazioni” della Turchia (Roma, piazza della Repubblica 55-56, tel. 06.4871190-1393, turchia@turchia.it, http://www.turchia.it/), che si ringrazia, insieme ai titolari dei diritti. In apertura, la Moschea Blu dall’alto; seguono, una panoramica su Topkapi e la Moschea Ortakoy dal mare, poi un mosaico del Choro Museum e papa Benedetto XVI nella Moschea Blu con il muftì Mustafa Cagrici; in chiusura,  la Torre di Leandro al tramonto.

Torre di Leandro al tramonto

 

Istanbul, 1. Viaggio nella “nuova Roma”

Le parole pronunciate da papa Francesco a capo chino, gli occhi bassi e il tono accorato, all’Angelus oggi, nella mattina di domenica 12 luglio 2020, “Il mio pensiero ora va un po’ lontano e va ad Istanbul, penso a Santa Sofia, e sono molto addolorato”, ci hanno fatto tornare con la memoria al nostro viaggio di alcuni anni fa nella città cosmopolita, c’era ancora il laicismo di Ataturk e non si poteva immaginare che l’antica cattedrale cristiana di Costantinopoli, divenuta moschea dopo la conquista ottomana, ma trasformata in museo laico da Ataturk, potesse tornare moschea come sta avvenendo per imposizione di Erdogan, sulla spinta del fondamentalismo islamico. Per riportarci a quei momenti in cui Istanbul era espressione della tolleranza e compresenza religiosa che nella “laicità” di Santa Sofia aveva il simbolo, ripubblichiamo senza alcuna modifica e aggiunta i tre articoli usciti nel sito www.arteculturaoggi.com del 10, 13, 15 marzo 2013. Si descrive la preghiera di papa Benedetto XVI con il Gran Muftì alla “Moschea Blu”; ma soprattutto si va alla ricerca delle tracce dell’antica Costantinopoli, con l’immagine rimasta impressa di “In hoc signo vinces” .

di Romano Maria Levante

La mostra “La Via della Seta”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2013, termina oggi con l’approdo a Istanbul la “porta dell’Oriente”, una città cosmopolita con tanti motivi di interesse legati alla sua storia millenaria e al tradizionale ruolo di cerniera tra Oriente e Occidente. Prima di tornarci virtualmente con la mostra romana c’eravamo stati di persona e fummo presi dal fascino dei suoi simboli storici e artistici e di quelli religiosi, le moschee con le loro cupole e il senso del sacro che eleva lo spirito al di là della fede di appartenenza. Il nostro viaggio è stato alla ricerca delle tracce della romanità, un motivo appassionante; e al di là di questi aspetti ci ha colpito la gente che nel Ramadan si affollava nelle moschee e dopo l’imbrunire si radunava nelle tavolate all’aperto; e i giovani, la loro carica di energia e l’entusiasmo. Ne faremo un ampio racconto prolungando idealmente la mostra dopo la chiusura con l’evocazione della realtà. E’ ancora più attuale parlarne ora che Istanbul ha avuto da “Consumers Choice” il riconoscimento di “The Best European Destination 2013”. 

Una panoramica della zona di Sultanahmet

 E’ sempre emozionante andare sulle tracce di antiche civiltà. Recarsi nel lontano Oriente, nell’Asia sconfinata, fa provare l’ansia di trovarsi di fronte a realtà esotiche, a scoperte sorprendenti, a presenze sconvolgenti, anche se oggi tutto è sotto i riflettori. Andare a Istanbul dà un’emozione diversa, forse ancora più acuta. Perché l’antica Bisanzio, la Costantinopoli dei primi libri di storia evoca una folla di eventi e di sentimenti gemellati alla nostra vita e alla nostra cultura: è stata la capitale dell’Impero romano d’Oriente come Roma lo è stata dell’Impero romano d’Occidente; con la differenza, che incute una sorta di soggezione, di un millennio in più di dominio imperiale, dato che quello di Roma è caduto nel 476 per le invasioni barbariche e gli ultimi imperatori dissoluti, mentre Bisanzio è durata fino al 1576 quando la capitale dell’impero fu conquistata dagli Ottomani. A questo si aggiunge l’ansia della riscoperta, una sorta di “agnitio”: è la Costantinopoli della nostra cultura storica e religiosa che vogliamo ritrovare, alla ricerca delle sue vestigia come un gemello va alla ricerca dell’altro se stesso dal quale è stato separato da sempre.

La “nuova Roma” come la immaginiamo

La città fu chiamata “la nuova Roma” per il ruolo preminente svolto come capitale imperiale e la posizione unica a cavallo di due continenti, Europa e Asia, separati dal Bosforo sulle cui rive si estende con la parte europea divisa in due dal Corno d’oro; e se l’ubicazione di Roma dipese dalla sua posizione sul Tevere, quella dell’antica Bisanzio aveva motivazioni e basi ancora più fondate.

Dunque, forte emozione nell’arrivare a Istanbul per riscoprire i segni di una storia e di un potere che dall’Oriente ebbe la capacità di far impallidire quello d’Occidente e di sopravvivere alla grande Roma. Ma andare sulle tracce di una civiltà sepolta vuol dire pure districarsi nella civiltà viva e presente di oggi, in questo caso con un nesso particolare che suscita ulteriore interesse.

La città è l’ingresso di un paese che si è affacciato sull’Unione Europea e preme per farne parte, integrarsi con essa con le sue peculiarità e diversità non solo religiose; mentre l’UE allargata a ventisette paesi, pur non volendo perdere l’occasione unica di aprire la porta dell’Oriente nell’era della globalizzazione che supera barriere e confini, si ritrae per i timori suscitati da una prospettiva di integrazione e cambiamento che rinnova antiche paure; di qui l’estenuante negoziato senza fine.

Non si può certo vedere nell’ingresso della Turchia nell’UE il ricongiungimento di due imperi anche se decaduti, ben altre sono oggi le superpotenze; ma non si può neppure sottovalutare il significato della spinta europeistica che ha portato il paese a chiedere l’adesione da lungo tempo pur se questa attrazione si associa a una diversità nettamente superiore a quella tra gli altri stati membri.

Del resto, sappiamo che si tratta di una megalopoli di quindici milioni di abitanti, divisa in due parti ben distinte, e quella occidentale è una città europea nella conformazione urbana e nell’architettura degli edifici, non vi è traccia di quel tanto di moresco che si associa generalmente alle immagini dei sultani e degli ottomani.

Neppure nel palazzo del Sultano l’impronta orientale è particolarmente vistosa. Poi c’è la parte asiatica che ha connotati diversi. Ma in generale nella vita civile e nelle istituzioni l’impronta europea da Ataturk in poi è molto marcata. Sappiamo anche che l’anima orientale è nella gente vivacissima, nei bazar coloratissimi che fanno pensare al mondo delle “mille e una notte” – anche se non vi sono più harem – con i loro sapori, le loro tentazioni che prendono i sensi e accendono la fantasia; nonché nell’altra straordinaria diversità di questa metropoli, cioè nelle grandi moschee, templi carichi di spiritualità che fanno sentire al cospetto di qualcosa che coinvolge e sovrasta.

Sono aspetti già a prima vista segno di una separatezza da cui traspare l’altra faccia della medaglia, l’immagine che ci inquieta e ci turba anche per retaggi ancestrali; ma non dobbiamo averne paura, forti come siamo di una radicata e sicura identità che va oltre le radici cristiane inglobando anche i valori della ragione, dall’Illuminismo alla Rivoluzione francese alla Riforma, che si aggiungono ai valori della fede in una netta separazione tra Chiesa e Stato; separazione, peraltro, qui voluta e ottenuta da Ataturk in una realtà ben più critica e complessa della nostra.

Ma per restare all’immagine, vivacità e colori, sapori e tentazioni che accendono la fantasia non ci colpiscono, per fare un nome, anche nella nostra Napoli così pittoresca, viva e vitale? E la religiosità che si respira nelle moschee non la ritroviamo nelle nostre cattedrali anche se le divinità cui sono dedicate hanno nomi diversi ma pur sempre evocano l’Assoluto?

Allora torniamo ad immergerci in una realtà il cui passato e presente sono carichi di suggestioni e di significati, cercando di orientarci nel labirinto di una ricerca che segue percorsi inusitati. Non siamo turisti, ma viaggiatori nel tempo della storia e della nostra vita: dove spicca l’immagine  della croce di Costantino con su scritto “in hoc signo vinces”: una sorta di “arrivano i nostri”, il “Settimo cavalleggeri” che ha illuminato l’infanzia ed ora ci si ripropone con la stessa forte carica simbolica. Né la revisione storica della figura di Costantino riesce a cancellare questi sentimenti istintivi.

L’esterno di Santa Irene (Hagia Irini)

 Il labirinto della modernità

Il primo labirinto nel quale ci siamo dovuti districare è stato quello della modernità. Una modernità che balza subito addosso nel grande aeroporto con gli interminabili corridoi per i terminali, dotati di velocissimi tapis roulant; e soprattutto con le immense superfici lucide come degli specchi di una perfezione quasi imbarazzante, sembrava un’immagine virtuale mentre era reale e tangibile. “Mamma li turchi!” viene subito dimenticato, si è accolti dal volto moderno, occidentale, Roma non è lontana. Anzi, sembrava di essere nelle sue periferie sulla strada che dall’aeroporto entra in città, ci è venuta incontro una successione di edifici con i balconi chiusi da serramenti, così diffusi da sembrare di progetto, se l’irregolarità delle chiusure e la loro fattura non ne rivelassero la matrice alterata. Come a Roma, più che a Roma?  Dunque Italian style, almeno nell’arte di arrangiarsi?

Abbiamo raggiunto la parte vecchia di Istanbul, con le casette caratteristiche, i vicoli che s’inerpicano  ripidi e tortuosi, sui quali il pulmino dell’albergo faceva una vera e propria gimkana: a prima vista non sembrerebbe molto dissimile, pur con le sue evidenti peculiarità, dalle zone  più antiche delle città europee nelle parti non toccate dall’arte e dalla storia. Ma quello che fa la differenza sono le imponenti moschee che si intravedono con i minareti svettanti verso il cielo in uno skyline che marca di primo acchito una fisionomia particolare, e non solo religiosa. Un divario che si disvela in tutto il suo spessore al calar della sera appena giunti nel cuore della città.

Siamo arrivati al trentesimo giorno del Ramadan, il passaggio all’ultima parte del periodo di astinenza con .la visita alla moschea e poi l’abbondante consumazione del pasto dopo il tramonto, scattato il termine del digiuno giornaliero. Il momento tanto atteso è segnato da una festa, si sciama nelle moschee senza separazioni e tanto meno divieti, basta togliersi le scarpe per camminare sui tappeti che coprono i pavimenti; si dileguano le ombre salgariane sui temibili misteri di questi templi, per nulla preclusi agli “infedeli”. E si può partecipare al festoso happening che si svolge intorno alla Moschea Blu, nel  Piazzale Sultanahmet dove si affaccia la basilica, ora museo, di Santa Sofia.

E’ stato il nostro primo approccio con la vita della città, avvenuto nel vivo della festa religiosa e civile che ci ha fatto misurare subito il divario con i modelli prevalenti in Europa. Un divario grande e insieme colmabile, che abbiamo scoperto presi dal vortice popolare all’esterno nel piazzale e all’interno nel vasto chiostro e nell’ingresso della grande moschea sospinti, quasi travolti dalla fiumana di gente.

Non era un’adunata di fondamentalisti né di pellegrini carichi di fervore religioso, tipo visita alla Mecca per intenderci, altrimenti sarebbero scattati i divieti per gli “infedeli”. E non era neppure un afflusso di turisti e visitatori indifferenti, il sentimento religioso c’era, intenso quanto composto: lo testimoniava la distesa di schiene prostrate all’aperto come al chiuso al richiamo lamentoso del muezzin o della voce cantilenante che veniva dall’altoparlante, in un rito che impegna il corpo oltre che lo spirito.

Lo sciamare festoso tra i moltissimi stand che fanno corona all’immenso piazzale su cui si affaccia la moschea aveva un carattere autenticamente popolare. C’era di tutto, soprattutto cibo preparato con bracieri, spiedi e grigliati ai bordi della strada, giganteschi coni di kebab ruotanti offerti alle gente che passava, mentre i tavoli e le panche su cui sedersi per consumare i grandi arrosti erano sul retro, invisibili dall’esterno: un rito laico “coram populo” con il pudore di celare alla vista i destinatari di questa profana comunione collettiva.

Oltre al rito del cibo declinato in mille modi, con il fuoco bene in vista quasi fosse purificatore, un vastissimo campionario di arti e mestieri sciorinato nella moltitudine di stand per una folla eccitata e festosa che si lasciava andare terminata l’attesa.

E qui dal labirinto di sollecitazioni emotive è venuta una prima risposta. E’ un popolo giovane, un popolo vivace, un popolo religioso, di una religione a noi lontana, che non si inginocchia ma si prostra, obbedisce ai dettami di un credo severo e da noi temuto come si teme l’ignoto, come si diffida dello sconosciuto; un popolo del quale possono inquietare i tanti abiti lunghi, con una severità invero ingentilita dai colori, e il velo a fasciare i capelli lasciando scoperto il volto di stuoli di ragazze. Sembravano madonne, forse perché anche la nostra iconografia religiosa ha posto un velo sui capelli della madre di Cristo, ma ciò che incantava era la gioia espressa da quegli occhi resi più grandi e profondi nel viso incorniciato dalla stoffa leggera; era come se esibissero il vestito della festa, felici di esserci, di aver superato la boa del Ramadan, di mostrarsi così come si sentivano, nelle vesti e nella disposizione dell’animo. Una semplicità senza ombra di fondamentalismo, o almeno non ce n’era di più che nei nostri pellegrini ai santuari, almeno quelli di un tempo con le cotte bianche alle processioni e i canti strascicati nelle lente cantilene rituali.

Questi giovani sono la punta avanzata di un popolo fiero della propria diversità rispetto ai popoli europei con i quali persiste a volersi integrare nonostante gli venga chiusa la porta in faccia allorché sembra avvicinarsi il momento delle decisioni e il punto di non ritorno; un popolo consapevole del ruolo strategico che può svolgere nel crocevia di civiltà e di religioni, forte della propria laicità nel segno dell’opera rivoluzionaria svolta da Kemal Ataturk in un difficile crinale pur nelle ferme convinzioni religiose ancorate alla fede mussulmana ma senza sconfinamenti temporali; e la festa del 24 ottobre nel nome di Ataturk ne è il contraltare laico, con il rifiuto di ogni fanatismo.

Sono considerazioni che non provengono da analisi politologiche o sociologiche, ma da mere notazioni di cronisti, anzi da semplici impressioni di turisti. Trascinati dal fervore di gioventù che ci circondava, pur se il momento era in qualche modo rituale e non ludico, ne avvertiamo la profonda differenza rispetto alle sembianze della vecchia Europa: anche nel ricordo ci sentiamo intimoriti e nello stesso tempo attratti da questa forza della natura, una gente giovane e determinata così diversa da noi e insieme così desiderosa di unirsi a noi; e siamo stretti tra due spinte contrapposte che rischiano di paralizzarci, ma finiscono per accostarci a un disegno di integrazione che è insieme una scommessa e una sfida da vincere.

Né i gravi episodi verificatisi in diverse circostanze tragiche e dolorose, per lo più singoli e isolati, possono stravolgere questo quadro d’assieme anche se inducono alla cautela verso l’ingresso della Turchia nell’UE da molti ritenuto ancora prematuro. E tra l’altro in questi ultimi tempi non più sollecitato come negli anni scorsi dagli stessi turchi che di certo non possono sentirsi incoraggiati a entrare in un’unione nei morsi della recessione con la moneta che la soffoca.

L’esterno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

Sulle tracce del passato

Il mattino dopo il nostro arrivo ci trovavamo di nuovo nel piazzale Sultanahmet. Venditori ambulanti non mancavano, c’era persino chi offriva un rudimentale servizio con vecchie macchine da scrivere per compilare lettere su richiesta; nell’era del computer portatile ci faceva sorridere, e forse oggi, trascorsi del tempo dal nostro viaggio, non ci sono più, ma esprimeva  i divari  esistenti che non possono essere celati dalla modernità della città. C’è la Turchia arretrata dell’interno, dei villaggi di montagna, delle campagne; e con  inquietudine riflettiamo che è quella la vera Turchia con cui confrontarsi per l’ingresso nell’UE, ben diversa dal cosmopolitismo della porta d’Oriente.

I due Obelischi, con il Bassorilievo di Teodosio alla base di uno di essi, ci hanno riportato all’altro itinerario, quello della memoria, che abbiamo potuto percorrere dopo esserci districati nel labirinto della modernità. Siamo andati alla ricerca dei segni dell’antica Bisanzio e poi Costantinopoli, la culla di una  raffinata e potentissima civiltà, la capitale dell’impero d’Oriente che, lo ripetiamo a noi stessi, è sopravvissuto per un millennio alla caduta dell’impero romano d’Occidente.

Questi primi reperti sono stati per noi una scoperta preziosa, le tracce iniziali da seguire nel lungo cammino di una città crocevia di due continenti e delle loro civiltà millenarie. La Colonna serpentina, insieme all’Obelisco egiziano portato da Teodosio con il Bassorilievo romano del quarto secolo che ne celebrava le gesta, e all’Obelisco di Costantino, detto anche l’Obelisco di ottone dal metallo che per un certo periodo lo rivestiva, ci hanno riportato all’epoca remota in cui la vita ruotava intorno all’Ippodromo di cui restano questi soli componenti con il segno di Roma.

Fu inaugurato nel 330 per le corse di carri ma per oltre un millennio fu sede dei maggiori eventi pubblici, vero fulcro della vita di Costantinopoli; della sua grandiosità resta solo la caratteristica forma a ellisse, tipo Circo Massimo, che ci richiama la corsa delle bighe alla Ben Hur, mentre i quattro grandi cavalli di bronzo che ne erano il simbolo furono portati a Venezia come trofei dai temporanei conquistatori e spiccano sulla Basilica di San Marco. Immagine che ha suscitato  in noi pensieri inquieti , ma non ci hanno colpito gli obelischi, a Roma sono familiari, quanto la Colonna serpentina che si materializza dal terreno con le tre teste di serpente poste alla sua sommità. 

Abbiamo seguito la traccia del Bassorilievo di Teodosio spostandoci di poco nello spazio ma proseguendo il viaggio nel tempo, anzi nel tempio. Perché siamo passati davanti alla antichissima Santa Irene (Hagia Irini), la prima chiesa cristiana prima della grande basilica di Santa Sofia (Hagia Sophia)dal turco la “divina sapienza”. Questa fu costruita nel VI secolo in soli cinque anni e dieci mesi impiegando diecimila persone e utilizzando i marmi pregiati e i materiali più preziosi che l’imperatore Giustiniano poté prelevare spogliando i monumenti pagani nonché gli edifici pubblici e privati in tutta l’Asia minore avvalendosi dell’indiscussa potestà imperiale; i costi furono altissimi e l’economia imperiale ne risentì: per la costruzione del solo pulpito fu speso l’equivalente delle tasse pagate dall’Egitto in cinque anni.

Purtroppo nulla è rimasto dei pavimenti musivi, dell’iconostasi d’argento, dell’altare in oro massiccio tempestato di pietre preziose e degli affreschi, preda delle razzie perpetrate soprattutto dai cristiani iconoclasti della quarta Crociata, però nessuno ha potuto depredare il tempio della sua maestosità solenne che fa sentire nell’intimo una profonda suggestione. C’è una colonna con la proprietà di esaudire i desideri espressi infilando un dito in una cavità e disegnando un cerchio con il palmo della mano; lo abbiamo fatto sia pure distrattamente, ci emozionava piuttosto ricollegare la chiesa all’indimenticabile, per la nostra generazione, “in hoc signo vinces”, da cui venne la decisione di Costantino, il costruttore dell’originaria Santa Sofia, tre secoli prima, di eleggere la già rinomata Bisanzio a capitale dell’Impero d’Oriente con il nome di Costantinopoli.

Un interno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

Santa Sofia, cristiana e musulmana, ora laica

Questa basilica cristiana, la più grande al mondo fino alla costruzione di San Pietro, era una chiesa così importante che nel periodo di maggior fulgore vide la presenza stabile di ben novecento sacerdoti. Venne realizzata su due chiese ancora più antiche, la prima fatta costruire proprio da Costantino e consacrata nel 360 sotto il regno del figlio Costanzo, l’altra edificata sulle sue rovine da Teodosio e terminata nel 415. La basilica fu voluta da Giustiniano dopo i tumulti che distrussero la chiesa preesistente; l’intento era rivaleggiare con il mitico tempio di Salomone, tanto che secondo la leggenda l’imperatore il giorno dell’inaugurazione ebbe a dire: “O Salomone, ti ho superato!”.

Affascina il rosa sfumato dell’esterno, la grande cupola dal diametro di trentadue metri e alta cinquantasei metri, proporzioni che simboleggiano la “Divina Armonia”, con quaranta finestre tutt’intorno concepite per far entrare la luce della divina sapienza, e tante cupole minori insolite in un tempio cristiano; colpisce la grandiosità del tempio con una navata centrale di ottanta metri per settanta e due navate laterali divise da un colonnato di ventiquattro colonne su due piani.

Si raggiunge la galleria superiore salendo la rampa che sembra un sentiero acciottolato a massi come una strada romana, e in fondo lo è anche se ci troviamo agli antipodi dell’Occidente, nel lontano Oriente. L’ampia balconata è rivestita di marmi preziosi,  nella balaustra ornamenti a forma di lance che erano croci così modificate nel periodo ottomano. La vista dall’alto fa risaltare l’imponenza del tempio, che appare del tutto degno della sua storia e dei simboli evocati. E non solo per l’architettura, la forma e i volumi ma anche per i marmi e i mosaici bizantini, una vera ricchezza che i secoli hanno accumulato e anche dissipato con i saccheggi.

Nella galleria posteriore spiccano i mosaici con le figure di Cristo tra la Madonna e Giovanni Battista al centro, non lontano Cristo Pantocratore tra l’imperatrice Zoe e Costantino IX, poi la Madonna col Bambino tra l’imperatore Giovanni II e l’imperatrice Irene; sopra l’arco del portone il mosaico con la Vergine Maria tra Giustiniano e Costantino; c’è anche l’arcangelo Gabriele oltre a Teodosio e a diversi santi, da sant’Ignazio il Giovane a san Giovanni Crisostomo e sant’Ignazio Teodoforo; mosaici dorati anche in parte della cupola.  Aggiungiamo per inciso che una dovizia di mosaici è affreschi è nell’antica chiesa di San Salvatore, oggi Chora Museum, che fu costruita fuori dalle mura originarie di Cistantinopoli. 

Si tratta di immagini familiari nell’iconografia cristiana, ma i mosaici di Santa Sofia sono all’altezza di quelli di Ravenna, e trovarli sopravvissuti nella terra dell’Islam come segno della continuità nei secoli dell’ispirazione cristiana produce emozione. Che sia una presenza miracolosa lo rivela la storia della basilica, con i vandalismi e le rapine sui preziosi simboli cristiani. Nella visita abbiamo saputo che i sacri mosaici rinvenuti in epoca recente si sono salvati perché nascosti dall’intonaco apposto all’atto dell’occupazione ottomana; e che la basilica fu trasformata in moschea dai vincitori nel quindicesimo secolo, se ne vedono segni vistosi all’interno nei sei grandi tondi del diametro di otto metri inneggianti ad Allah, nel pulpito mussulmano e nella loggia del Sultano, e all’esterno nei quattro svettanti minareti che la circondano.

Un altro interno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

La compresenza dei simboli delle due religioni da quando non è più luogo di culto per nessuna di loro, assurge ad emblema del superamento di contrasti assurdi se acuiti dall’intolleranza fondamentalista, non per un utopistico sincretismo ma per una convivenza pacifica sempre più necessaria. Vedere inneggiare ad Allah dov’è l’immagine di Cristo, trovare sotto lo stesso tetto, o meglio sotto la stessa cupola, vestigia delle due fedi fa ribaltare tanti giudizi sull’inconciliabilità di credi così diversi ma rivolti entrambi a un essere superiore, in una visione monoteistica con non pochi elementi in comune, da Abramo alla Madonna, fino a Cristo riconosciuto e rispettato anche dai mussulmani come profeta, quindi nella natura umana che rappresenta il cuore del cattolicesimo.

Non è senza significato che alla fine nessuna delle due religioni succedutesi nella basilica abbia prevalso nella destinazione finale. Fu adibita a museo nel 1935 per ordine di Ataturk, che eliminò la moschea ritenuta per secoli un vero affronto al cristianesimo e vietò ogni forma di preghiera all’interno, con la consacrazione di fatto della compresenza delle fedi in un tempio divenuto laico, espressione della memoria; è stata la vittoria del rispetto e della tolleranza sul fanatismo, sulla cancellazione quasi sempre violenta dell’altro di sé, che resta dopo le barbare distruzioni di segno opposto, dai mussulmani ai Crociati.

Sono stati sconfitti gli iconoclasti cattolici che spogliarono la chiesa senza riuscire a intaccarne il valore storico, artistico e religioso; sono stati sconfitti altresì i fondamentalisti islamici che la trasformarono in moschea violentandone la natura cristiana ma mantenendone la destinazione a luogo di culto con l’imposizione delle aggiunte sopra ricordate.

Mentre il contrappasso ha fatto sì che l’umiliante copertura con l’intonaco dei mosaici cristiani più pregiati li abbia salvati dalla distruzione cui sono stati assoggettati gli altri simboli, dando così un valore salvifico a una profanazione che, ribaltando le intenzioni,  ha consentito l'”happy end” del ritrovamento in tempi nei quali – e questa ne è stata una prova ulteriore – i valori dell’arte riescono spesso a prevalere sull’intolleranza. Almeno se a vincere non è il fondamentalismo nella sua ottusità, come quando in Afghanistan i talebani distrussero le gigantesche statue rupestri di Buddha. Nulla di più lontano da visioni estremiste e intolleranti appare, sul piano dei principi, l’islamismo in Turchia: il gran Muftì di Istanbul ha affermato che il Libro sacro dell’Islam, il Corano, riconosce il Vangelo e la Bibbia come Libri sacri del Cristianesimo e dell’Ebraismo, nel comune riferimento alle grandi figure di Mosè, Abramo, Cristo oltre a Maometto; e ha detto che questi tre Libri sacri lo accompagnano sempre nella sua giornata, come riferimento e guida costante.

Termina il ricordo della la visita a Santa Sofia, ma la rievocazione della visita a Istanbul continua. Ne parleremo prossimamente.

Info

I prossimi due articoli su Istanbul usciranno, in questo sito, il 13 e 15 marzo 2013. Per la mostra “La Via della Seta” citata all’inizio, cfr., in questo sito, i nostri tre articoli del 19, 21, 23 febbraio 2013, ciascuno con 6 immagini. 

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’ufficio “Cultura e Informazioni” della Turchia (Roma, piazza della Repubblica 55-56, tel. 06.4871190-1393, turchia@turchia.it, http://www.turchia.it/), che si ringrazia, insieme ai titolari dei diritti.  In apertura, una panoramica della zona di Sultanahmet; seguono gli esterni di Santa Irene (Hagia Irini) e di Santa Sofia (Hagia Sophia); poi due interni di Santa Sofia; in chiusura una visione panoramica al tramonto. 

Una visione panoramica al tramonto


 

Coronavirus, da Darwin alle mascherine, gli errori dell’OMS

di  Romano Maria Levante

Assistiamo  a radicali divergenze sull’ipotesi che il virus si sia “indebolito”. I “virologi” dicono che è rimasto lo stesso, o al più si trova una variante, i “clinici” che ha diminuito la carica virale, alcuni – tra cui la d.ssa Laurenti e  il prof. Ciccozzi  recentemente in TV – che si “adatta all’ospite” per sopravvivere; Ciccozzi ha detto che lo fa perché gli conviene ma non possiamo aspettarci che scompaia come una precedente Sars, questa cosa non la farà. Tutti come mere ipotesi perché dicono di saperne ancora troppo poco, quindi non si è presuntuosi se si  azzarda una ipotesi diversa senza essere clinici a contatto con i malati “veri” e neppure “topi di laboratorio” a contatto solo con le “provette”, nella ingenerosa definizione di Zangrillo dei virologi cui ha risposto il biologo italiano Bucci da Filadelfia. La nostra ipotesi – ripetiamo, da profani socratici – nasce dal fatto che non ci senbra ragionevole attribuire al virus l’intelligenza mancante allo scorpione della favola che uccide la rana traghettatrice condannando a morte se stesso “perché è nella mia natura” risponde, con la saggezza dei tempi antichi.

Il coronavirus Covid-19

Il virus in ottica darwiniana

Oltre la facile battuta, in termini appropriati l’“adattamento all’ospite” ci fa pensare alla vecchia teoria di Lamarck che spiegava il lungo collo delle giraffe con lo sforzo ripetuto nel tempo di raggiungere le foglie più alte per poter sopravvivere. E sappiamo che fu soppiantata da Darwin con il “survival of the fittest”: nessuna azione volontaria del soggetto per adattarsi all’ambiente può generare la mutazione, sopravvive chi di per sé è il più adatto, mentre gli altri soggetti della stessa specie con caratteristiche sfavorevoli sono eliminati. Di qui le giraffe dal lungo collo, e potrebbe essere così  per i virus meno aggressivi che, a differenza di quello letale, possono sopravvivere ed avere la possibilità di diffondersi continuando a contagiare, perché “nati” più “adatti” all’ospite, non perché vi si “adattano” ritenendolo conveniente per la loro esistenza, non sono mica intelligenti! Nelle teorie dell’evoluzione i processi evolutivi avvengono in tempi biblici, per il virus il nostro accostamento potrebbe essere lecito dato che l’”adattamento all’ospite”   in tempi rapidi viene sostenuto nelle ipotesi di tanti esperti, quindi .

OMS, Il Logo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

Questo potrebbe spiegare gli “asintomatici” e i “pauci sintomatici”: il loro grande numero piuttosto che dalla maggiore resistenza dell’“ospite” potrebbe dipendere dal virus più debole: la diretta esperienza personale di un parente ottantenne, ricoverato in ospedale per una patologia cardiaca e con un ictus dopo il ricovero,  risultato poi positivo ma asintomatico ed ora negativizzato, conforta questa valutazione; una paesana diabetica ultranovantenne malata di coronavirus come figlio, nuora e nipote, lo hanno superato tutti insieme a casa senza che la più anziana, anzi molto anziana, abbia avuto una forma più grave. D’altra parte, anche trentenni e quarantenni sani e atletici vengono colpiti da forme persino letali, e sembra che in Florida stiano morendo soprattutto giovanissimi contagiatisi nelle spiagge, quindi la gravità sembra dipendere dalla forza del virus piuttosto che dalla resistenza dell'”ospite”, a parte alcune gravi patologie.

OMS, La sede

Tutte le specie naturali hanno una grande varietà sul piano dei caratteri e in particolare della “forza” di ogni individuo, le persone  robuste e gracili, e così gli animali, dal cavallo scalpitante e possente al ronzino malfermo,  le piante ubertose e quelle rachitiche, gli alberi maestosi e quelli scheletriti, potrebbe essere così anche per il virus che appartiene pur sempre alle specie naturali.  Perciò quando si trovano varietà ritenute “mutate” potrebbero essere preesistenti che vengono alla luce adesso ma accompagnavano le altre sin dall’inizio, meno evidenti nella fase acuta perchè non si “testavano” gli asintomatici perciò erano sconosciute.

OMS, L’Assemblea generale

Ed ecco la conseguenza: il virus nella varietà aggressiva che “uccide” muore esso stesso con l’”ospite” , come lo scorpione che traghetta la rana sopra citato, a meno che sia riuscito a contagiare altri prima dell’isolamento; ma la trasmissione di per sé è divenuta sempre più limitata venendo”identificato”, quindi confinato, proprio per la gravità dei sintomi che portano al ricovero ospedaliero nel quale se le cure sono efficaci il virus muore e il paziente sopravvive, se non lo sono muore con il paziente; ciò che non avviene per gli “asintomatici” che possono continuare indisturbati a diffondere il contagio perchè inconsapevoli di essere infetti per cui il virus in loro sopravvive e si trasmette. Ma l’infezione si verifica nelle forme più “benigne”, per lo più “asintomatiche”, perché viene trasmesso il virus più debole “ab initio” senza modifiche sopravvenute per l’improbabile “adattamento” , tanto più volontario, cosa impossibile.

OMS, Il Consiglio esecutivo

Pertanto il virus nella varietà più debole sopravvive, anche perché è difficile individuarlo e quindi non viene neppure “confinato”, e tanto meno eliminato dalle cure che non si praticano; mentre il virus più forte e aggressivo scompare proprio perché viene individuato subito data la gravità dei sintomi  che provoca e prontamente “confinato” ed eliminato anche se l'”ospite” si salva e non muore con lui. In Italia sembra che attualmente ci troviamo in questa situazione, il virus più forte e mortale sembra eliminato dalla sua stessa aggressività, mentre il virus più debole resta presente perchè in lui si realizza il “survival of the fittest” darwiniano.

Quindi potremmo sentirci al sicuro, rischiando al massimo una “asintomaticità”, quindi meno della normale infleuenza anche benigna che comunque ha sintomi fastidiosi. Anzi si potrebbe azzardare una conclusione paradossale: la permanenza di un virus così debole, anzi la sua diffusione senza sintomi, potrebbe favorire quell'”immunità di gregge” che era temuta perchè in associazione con il virus letale, quindi l’attuale “plateau” a basso livello potrebeb risultare preferibile ai “contagi zero”. Me è un pradosso, perchè il virus letale possiamo reimportarlo dai paesi in cui la pandemia infuria nella forma più pericolosa, come è avvenuto per l’imprenditore vicentino contagiato in Serbia nei giorni scorsi dal virus forte che ha ucciso il primo “ospite” serbo e ha portato in terapia intensiva l’ “ospite” contagiato italiano.  E il numero e l’estensione dei paesi al picco della pandemia – negli USA 70 mila contagi in un giorno rispetto a soli 200 in Italia – è tale, mentre sono tali e tante le vie di comunicazione che viviamo la precaria quanto rischiosa condizione di circondati e assediati. A parte i paradossi, sembra comunque di poter concludere che se la nostra ipotesi basata sulla visione darwiniana ha un qualche fondamento, nel “survival of the fittest”  per fortuna è il virus-killer a soccombere.

OMS, al centro il Direttore generale, alla sua sin. Maria Van Kerkhove

La trasmissione del virus negli ambienti chiusi

Potrebbero essere trascurabili tali incertezze, anzi contrasti radicali tra gli addetti ai lavori – virologi e clinici delle più diverse estrazioni in particolare – in quanto riguardano l’interpretazione di un fatto sotto gli occhi di tutti, senza effetti rilevanti sulle azioni volte a impedire una recrudescenza dell’epidemia. Per questo ci si concentra giustamente sull’individuazione e il pronto contenimento dei focolai,  affidandosi all”azione nel territorio alquanto rafforzata; e in generale si confermano le solite raccomandazioni: distanziamento e mascherina nei luoghi chiusi e lavarsi le mani. Con il “mantra” finale: “non bisogna abbassare la guardia!”.

OMS, il Direttore generale Tedros Adhanon Ghebreyesus

Ma qual è questa “guardia” che  non si deve abbassare?  E’ ben definita dagli organi superiori, nazionali come l’Istituto Superiore di Sanità, e internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità?  Tutt’altro, e si tratta dell’elemento fondamentale, perché riguarda i modi con cui impedire la diffusione del contagio, la “prima linea” nella guerra contro il coronavirus, nella quale  tutti i cittadini devono impegnarsi a  sconfiggere il nemico sottraendosi al contagio, cosa che non è avvenuta nella primissima fase che ha colto impreparati, con le “retrovie”  ospedaliere  diventate “prima linea”  per l’assenza di difese nel territorio e negli ospedali, con i tragici effetti ben noti. Paradossalmente sono divampati incendi più che focolai nei luoghi che dovevano essere più protetti, confinati e presidiati sul piano sanitario, e ai quali invece sono mancate sia le direttive appropriate, sia i presidi di difesa, nonostante da due anni il Ministero della Saalute avesse prodotto una Programma apposito per l’emergenza e questa fosse stata proclamata il 30 gennaio, quindi quasi un mese prima del “paziente uno” di Bergamo, e con i due cinesi contagiati allo Spallanzani.

OMS, il simbolo dell’agenzia dell’ONU

Le prescrizioni  tassative fornite dagli organi istituzionali, nazionale e internazionale, hanno riguardato il “distanziamento sociale” di un metro, sufficiente ad evitare il contagio perché le goccioline con il virus, secondo le loro asserzioni, non superano tale distanza: neppure se emesse con starnuti e tosse, oltre che con la voce e il semplice respiro. A parte il termine “distanziamento sociale”  fuorviante, perché invece si tratta della “distanza di sicurezza” personale e non sociale, è apparso subito evidente – e lo abbiamo scritto nell’articolo del 26 marzo – che se fosse così il contagio non sarebbe dilagato: chi si fa starnutire e tossire a 60 cm (considerando il normale margine che si lascia in questi casi) dopo che la trasmissibilità orale del virus è stata conclamata?  Eppure i contagi sono continuati perché la trasmissione avviene anche  a distanza maggiore, sia all’aperto con le correnti d’aria, sia maggiormente al chiuso, dove ci sembra sia poco responsabile insistere sul metro di distanza come barriera sufficiente ad impedire il contagio, quando ci sono stati casi eclatanti di contagi nei ristoranti anche in tavolini lontani per le correnti d’aria interne, a parte il corista che ha contagiato l’intero coro di 80 elementi e una infinità di altri casi di questo tipo.

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Tamponi, due per il prelievo

E’ stata data una spiegazione da scienziati per lo più fisici non “allineati”, il virus non si trova solo nelle goccioline più pesanti che cadono a terra a breve distanza, ma anche nell’”effetto aerosol”  che si diffonde in specie negli ambienti chiusi. Perciò  al chiuso la distanza prescritta non basta, occorre areazione degli ambienti,  e la mascherina, meglio se una sosta non prolungata in luoghi ristretti, soprattutto se si parla ad alta voce o si canta, condizioni che accrescono l’emissione di particelle potenzialmente infettanti. Le messa domenicale trasmessa in TV mostra il cantante le litanie in pericolosa vicinanza con la prima fila dei fedeli che, seppure con mascherine magari poco protettive, non sembrerebbero difesi dal possibile contagio.

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Tamponi, prelievo in automobile

La spiegazione di un fatto comunque di per sé già evidente la  si trova nella lettera pubblicata su “Clinical Infections Deseases” nell’aprile scorso nella quale  239 scienziati di 32 paesi nel darne la prova scientifica invitavano  l’Organizzazione Mondiale della Sanità “ad essere più disponibile riguardo alla probabilità che le persone possano contagiarsi tramite le goccioline nell’aria”, dato che le  particelle più piccole in grado di viaggiare molto lontano nell’aria possono infettare le persone . Ed è stato provato che lo fanno realmente.

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Tamponi, prelievo in piedi

Tra i firmatari della lettera all’OMS lo scienziato italiano Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino, sul “Corriere della Sera”  ha  chiarito che il contagio avviene anche “per inalazione dell’aerosol emesso da un soggetto infetto (goccioline di diametro inferiore a 10 micron)”. Per cui, mentre  le goccioline con diametro superiore a 10 micron – i “droplet” considerati nelle misure dell’OMS –  cadono  al suolo in pochi secondi e a distanza di meno di un metro, invece “le goccioline più piccole (aerosol) sono soggette ai fenomeni di evaporazione e rimangono in sospensione in aria per tempi molto lunghi: hanno quindi la possibilità di muoversi per tratti molto più lunghi rispetto ai droplet”. Ha aggiunto che “i luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione”, concludendo che in tali ambienti  “la ventilazione gioca un ruolo fondamentale”.

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Tamponi, primo piano del prelievo

All’avvertimento  così autorevole, perentorio e urgente, diremmo drammatico, dei 239 scienziati, ha  risposto così tre mesi dopo, a  stare ai comunicati delle agenzie stampa,  la d.ssa Benedetta Alleganzi, responsabile tecnico dell’OMS per la prevenzione e il controllo delle infezioni:: “Riconosciamo che ci sono prove emergenti in questo campo, come in tutti gli altri campi riguardanti il Covid-19 e quindi crediamo che dobbiamo essere aperti a questa ipotesi e comprendere le sue implicazioni riguardo alle modalità di trasmissione e anche riguardo le precauzioni da prendere”. E ha precisato, si fa per dire: “Ci sono alcune specifiche condizioni  in cui non si può escludere la trasmissione aerea, soprattutto in luoghi molto affollati, chiusi. Ma le evidenze vanno raccolte e studiate”, aggiungendo: “Stiamo  collaborando con molti dei firmatari della lettera”.  Ha messo il “carico da 11”, per usare un termine d’altri tempi, la d.ssa  Maria Van Kerkhove, capo del gruppo tecnico per il coronavirus dell’Oms, affermando: “Gli esperti che hanno firmato la missiva  ci potranno aiutare per esempio nel comprendere l’importanza della ventilazione negli ambienti. Stiamo studiando e tenendo in considerazione ogni possibile via di contagio”.

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Tampoini, immissione nella provetta

“Rimando il suicidio e nomino una commissione di studio” cantava in modo sarcastico Giorgio Gaber, ma i responsabili dell’OMS vanno anche oltre, perché la “commissione di studio” c’è già stata,  forte di ben 239 scienziati di 32 paesi, cosa si vuole di più? Eppure si afferma “stiamo studiando”  con l’aggiunta non veritiera “tenendo in considerazione ogni possibile via di contagio”, come se fosse la linea seguita. Mentre  l’OMS  ha considerato sempre come “l’unica possibile via di contagio” la distanza inferiore ad un metro, all’aperto o al chiuso, senza prendere in considerazione finora “nessun’altra via”.   Una resipiscenza sarebbe anche salutare se ci fosse nella chiarezza, invece il linguaggio che supera il burocratese non fornisce alcuna linea guida affidabile per il presente e per il futuro. Mentre per il passato piange il cuore nel pensare quante  vite umane in tutto il mondo sono state sacrificate a questa cecità dell’OMS dinanzi al pericolo dei luoghi chiusi sebbene, lo ribadiamo ancora, il rischio fosse evidente al lume della ragione, prima ancora delle evidenze scientifiche.  I responsabili dovrebbe essere chiamati a risponderne pubblicamente.

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Tamponi, primo piano dell’operatore

I tamponi

Si potrebbe obiettare che trattandosi  di un virus sconosciuto non si poteva pretendere che fossero note le vie del contagio. Ma in questo caso non si doveva dare la certezza che non è possibile contagiarsi con il distanziamento di un metro neppure negli ambienti chiusi, ma si doveva ammettere l’ignoranza invitando quindi a una prudenza ben maggiore di quella rivelatasi insufficiente e quindi perniciosa. Il “so di non sapere” socratico, pur dichiarato, si è unito a prescrizioni perentorie pur contrarie anche al senso comune.

Ma non finisce qui, le cantonat, per usare un eufemismo, colpevoli e fonte di gravi conseguenze dell’OMS  riguardano anche i tamponi e le mascherine, due elementi fondamentali per arginare il contagio dilagante.

Tamponi, due pronti per l’analisi

Per i tamponi la prescrizione fu che andavano fatti esclusivamente ai malati con più sintomi di Covid (non solo uno), i quali inoltre avessero avuto contatti con provenienti da zone infette. Addirittura un esponente italiano dell’OMS fu messo alle costole del Ministro della salute Speranza, proprio con questo obiettivo, e subito impose la linea fortemente restrittiva, anzi rinunciataria sui tamponi. Mentre poi si è vista, in primis nel Veneto, l’importanza di identificare anche gli “asintomatici” – figurarsi i malati con un solo sintomo e senza contatti pregressi –  per arrestare il diffondersi del contagio “testando”  tutti i loro contatti. Non è stato di poco conto l’effetto di questa imposizione dell’OMS nel dilagare del contagio nell’area più colpita del paese  che non ha potuto individuare gli “untori” inconsapevoli per il diktat dell’organizzazione.

Tamponi, serie di 10 per l’analisi

Le mascherine

Sulle mascherine si è perseverato in un errore ancora più grave – ed è un eufemismo perché ci sembra una grave colpa dissuadere da presidi di difesa dal contagio – sempre da parte dell’OMS, prima che le autorità locali – come nel Veneto per i tamponi – si ribellassero e non si assoggettassero a indicazioni suicide.

Dunque, il messaggio largamente diffuso, quasi una prescrizione , è stato che “le mascherine servono a non trasmettere il virus, quindi devono portarle soltanto gli ammalati positivi”. Non servono a proteggersi, anzi potrebbero risultare addirittura dannose perché “possono creare un falso senso di sicurezza nella popolazione che quindi potrebbe trascurare le altre misure essenziali”, distanza e lavaggio delle mani.

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Mascherine, tipologia “chirurgica”

Così parlò Zaratustra  senza considerare che, anche se fosse vero che non proteggono  chi le indossa ma gli altri, indossandole tutti sarebbero tutti protetti. Anche perché essendo portatori di virus e fonti di contagio anche gli “asintomatici”, si deve impedire a tutti i possibili “positivi” di trasmetterlo inconsapevolmente.   Ma gli “asintomatici”, dagli esponenti italiani dell’OMS, venivano ritenuti incapaci a trasmettere il virus per la debole carica virale, cosa poi smentita dai fatti, essendo “asintomatici” anche nei giorni che precedono l’insorgere dei sintomi nei quali la contagiosità è particolarmente elevata. Non sono sfondoni di poco conto, da questi  è derivato l’allargamento dei contagi, con sofferenze e tanti lutti per la gente incolpevole.

Ma Zaratustra OMS anche qui, come per la trasmissione nell’aria, si è dovuto ricredere. Le agenzie di stampa in questo caso parlano di “ Dietrofront. L’Organizzazione mondiale della sanità potrebbe rivedere le sue raccomandazioni sull’uso delle mascherine alla luce dei risultati di un nuovo studio dell’MIT, secondo cui le goccioline emesse con un colpo di tosse o uno starnuto possono viaggiare nell’aria per distanze ben più ampie di quanto si pensi. Lo riferisce l’Ansa, riprendendo le parole dell’infettivologo David Heymann rilasciate alla Bbc”: noi lo pensavamo, è una resipiscenza che si aggiunge a quella della diffusione per areosol, qui sono le stesse goccioline che “possono viaggiare fino a 8 metri di distanza”.

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Mascherine, la tipologia “chirurgica” sotto gli occhi di una giovane donna

Dopo  Benedetta Alleganzi e Maria Van Kerkhove il “mea culpa” lo recita Heymann, “il presidente di un gruppo di consulenti dell’OMS che valuterà se, per rallentare la diffusione del coronavirus, sia necessario che più persone indossino le mascherine”, cioè  valuterà ciò che è ovvio  ma finora colpevolmente negato e anche contrastato dall’OMS.  Heymann  è  l’infettivologo già direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità nel 2003, quando la  Sars lanciò il primo allarme seguita da altri virus endemici, non divenuti pandemici, che ha affermato: “L’OMS sta riaprendo la discussione esaminando le nuove prove per vedere se debba esserci un cambiamento nel modo in cui consiglia l’uso delle mascherine”. Voleva dire “sconsiglia” perché la disposizione vigente riguardava “tenersi a una distanza minima di almeno un metro da una persona che tossisce o starnutisce.

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Mascherine, la tipologia “chirurgica” sotto gli occhi di una statua

Inoltre, la raccomandazione ulteriore è che la mascherina sia indossata da chi è malato o da chi mostra i sintomi” . Il nuovo studio, viene sottolineato,  indica che le goccioline emesse con un colpo di tosse o uno starnuto possono arrivare rispettivamente fino a 6 e 8 metri di distanza; e si precisa che “ le microparticelle più piccole possono viaggiare nell’aria anche per distanze ben più lunghe”, l’effetto aerosol  segnalato dai 239 scienziati come abbiamo ricordato in precedenza.  Ecco le conclusioni  di Heymann, che premette “se i dati troveranno conferma”: “E’ possibile che indossare una mascherina sia altrettanto efficace o più efficace della distanza” , per cui potrebbe essere la nuova prescrizione dell’OMS, sempre campa cavallo,…… alla Gaber, “rimando il suicidio e nomino una commissione di studio”…

Mascherine, tipologia FFP1

Nelle  mascherine si completa il “tris d’assi”  della saga di errori, tradotti negli orrori del contagio. Il senso comune fa pensare che le mascherine dovrebbero proteggere interamente dal contagio e con tale difesa si potrebbero evitare i “lockdown” perniciosi per l’economia, i singoli e la società, non servirebbe neppure il distanziamento di un metro, ma soltanto lavarsi le mani, cioè quasi nulla, L’ enorme vantaggio per le attività economiche  e per lo svolgimento della vita associata sarebbe enormemente superiore al costo da sostenere per un presidio risolutivo a difesa di tutti: la “prima linea” nella guerra asimmetrica al virus avrebbe uno scudo vincente senza  controindicazioni. Questo dice la logica, ma se queste mascherine non ci sono vuol dire che non sono fattibili: ripensiamo alle maschere antigas  viste nella nostra infanzia alla fine della guerra e  a quelle  adottate da Israele per timore dei gas arabi, ma ovviamente non si può arrivare a questo estremo. Peraltro l’esigenza della protezione assoluta resta la stessa, importante è capire se realizzabile in modi più semplici e praticabili della maschera antigas concepita per le eventuali brevi emergenze belliche.

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Mascherine, 2 della tipologia FFP1

Con tutta la buona volontà, ci sembra un campo in cui la confusione regna ancora sovrana, pur nella sua apparente semplicità.  E ora si può parlare di confusione dopo le drammatiche inammissibili carenze che nella prima fase dell’epidemia hanno privato di queste difese  indispensabili perfino gli operatori ospedalieri e quelli delle residenze per anziani: anche per questo motivo ospedali e RSA sono stati l’epicentro dell’epidemia, vi si sono consumate stragi inenarrabili che fanno ancora piangere. Eppure dopo la Sars e le altre epidemie di alcuni anni fa restate lontane dall’Italia c’era stato il Programma ricordato contro le emergenze sanitarie di questo tipo che non poteva non prevedere la dotazione dei presidi indispensabili, mascherine in primis – tra l’altro di costo bassissimo nei periodi normali – considerando che in caso di pandemia sarebbe stato molto difficile, se non impossibile, il reperimento tempestivo all’estero, come si è verificato trovando l’Italia senza produzione propria, quindi inerme e indifesa.

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Mascheria, altro esemplarte della tipologia FFP1

Dalla tragedia dell’assenza di presidi vitali nella fase più drammatica alla farsa della confusione attuale, come prima c’era da piangere ora c’è da ridere, ma di un riso amaro, si tratta della salute e, soprattutto per gli anziani più fragili ed esposti al contagio, della stessa vita. E qui non c’è la responsabilità soltanto della catena di errori dell’OMS, ma dell’intero repertorio di istituzioni, organismi di ogni tipo per cui si è sciorinato un campionario in cui è difficile orientarsi, mentre sarebbe doveroso essere oltremodo precisi.

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Mascherine, un gruppo della tipologia FFP1

La prima osservazione è che viene autorevolmente affermato che le mascherine chirurgiche potrebbero non essere sufficienti a proteggere dal contagio:  “A differenza delle mascherine chirurgiche, i filtri facciali (FFP2, FFP3, N95) hanno un’efficienza di filtrazione molto elevata, anche per le tipiche dimensioni dell’aerosol”. E allora perché  vengono indicate quelle “chirurgiche” per la protezione della gente comune?  Basta il distanziamento, si risponde dall’altra parte, ma è facile replicare che il distanziamento riguardando due e più soggetti non è garantito dalla volontà di un solo soggetto, che deve potersi tutelare dal contagio con una protezione individuale inattaccabile; e anche l’OMS per quanto detto sopra,  sembra stia rivedendo la sua fiducia nel distanziamento che sembrava inattaccabile, meglio tardi che mai.  

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Mascheria, altro esemplarte della tipologia FFP1

Cerchiamo di capirne di più entrando nello specifico delle mascherine, anzi delle specifiche richieste  sui requisiti prestazionali e i metodi di prova delle mascherine generiche, secondo quanto risulta dalla collaborazione tra UNI (Ente Italiano di Normazione) e il Politecnico di Torino che ha fornito l’unico riferimento utile per valutarne le prestazioni filtranti e la respirabilità. “UNI insieme all’Ateneo torinese hanno messo a punto due nuove prassi di riferimento sulle maschere di comunità ‘Parte 1-Requisiti, classificazione e marcatura’, che fornisce i requisiti prestazionali, inclusi gli elementi utili per una loro classificazione e marcatura e indicazioni relative alla valutazione di conformità’; e ‘Parte 2-Metodi di prova’, con le indicazioni per l’uso di un metodo innovativo per misurarne le prestazioni filtranti mediante due prove distinte, ovvero l’efficienza di rimozione delle particelle e la resistenza all’attraversamento dell’aria”. A questi requisiti dovranno far riferimento tutte le mascherine, monouso o lavabili, anche autoprodotte.

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Mascherine, esemplare tipologia FFP2-3

Le dimensioni del coronavirus sono di 100-150 nanometri di diametro (600 volte più piccoli di un capello) e si trasmettono mediante goccioline delle secrezioni di naso e bocca che vengono emanate durante la normale respirazione, maggiormente quando si parla soprattutto alzando al voce o si canta, e in grandi quantità in caso di tosse e starnuti. In particolare, lo starnuto può spingere queste goccioline ad una distanza fino a 4 metri.  Le piccolissime dimensioni fanno dire che il virus può penetrare nelle trame di ogni materiale, anche se è meglio usare comunque una sciarpa e un foulard che nulla, se non si dispone della mascherina. Ma ci sembra altrettanto vero che il virus non viaggia da solo ma sulle goccioline, che hanno dimensioni maggiori  per cui non è pretendere troppo sperare che mascherine appropriate siano una sicura barriera, a parte l'”effetto aerosol” negli ambienti chisi.

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Mascherine, altro esemplare della tipologia FFP2-3

“L’utilizzo delle mascherine non ci rende invincibili: il distanziamento sociale e l’igiene sono più efficaci” sostiene  Luca Richeldi, membro del Comitato tecnico scientifico per il contenimento del coronavirus e aggiunge:”È certo che i dispositivi servono a operatori sanitari, convalescenti e persone più vulnerabili” ma per gli altri ”non è una corazza che ci protegge da tutto”. Una sorta di “ibis, redibis [,] non” con o senza virgola dopo “redibis”: se possono proteggere gli operatori sanitari e le persone più vulnerabili, perché non sono “una corazza che ci protegge da tutto”?  E’ il “peccato originale” della sottovalutazione iniziale dovuta alla scarsità, anzi inesistenza, che porta a queste affermazioni contraddittorie al loro interno rivelatrici di incertezza e forse di imbarazzo.  

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Mascherine, altro esemplare della tipologia FFP3

Sono ammesse anche le “mascherine filtranti” che però non sono sottoposte a normative specifiche pur richiedendo “una valutazione tecnica di base”,  quindi ci sembrano  inaffidabili, anche se possono risultare attrattive per la fantasia dei disegni su stoffe colorate.

Le mascherine “chirurgiche” sono le più diffuse, anche se poco protettive per chi le indossa e protettive per gli altri – secondo quanto viene affermato – dato che sono adatte per fermare le emissioni dall’interno di chi le usa verso l’esterno, piuttosto che le immissioni contagiose dall’esterno al suo interno; del resto i chirurghi le utilizzano per non trasmettere eventuali batteri all’area operatoria  e non per esserne protetti.  Quindi suscitano notevoli perplessità anche se lo strato intermedio in “meltinbrown”  – materiale prodotto da una sola piccola impresa in Italia, quindi in quantità insufficienti – ha notevoli caratteristiche filtranti.

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Mascherine, tipologia “filtrante” colorata, variopinta

Quelle più protettive sono i cosiddetti DPI, “Dispositivi di protezione individuale”, le FFP a livelli di ptrotezione crescenti  passando dalle  P1 senza filtro, alle P2 e P3 con filtro cambiabile e “valvola di esalazione” per  espellere l’accumulo di emissioni nel lungo tempo nel quale gli operatori sanitari – ai quali sono riservate –  le utilizzano. “  Escluse le ultime due, non si capisce perché non venga raccomandato l’utilizzo esclusivo delle FFP1 invece delle “chirurgiche” e, peggio ancora delle “filtranti”, che in realtà non filtrano nel senso di bloccare ma sono filtranti nel senso  di essere permeabili, sembra un paradosso e vorremmo aver capito male, ma l’informazione data è stata questa.

Si è molto parlato dell’impegno, pur apprezzabile, del Commissario per  l’emergenza Domenico Arcuri nell’attivare la riconversione di molte attività produttive italiane nella produzione di mascherine fino all’autosufficienza nazionale prevista per settembre, un risultato rilevante; altrettanto nell’imporre il prezzo al pubblico di 50 cm di euro per le mascherine “chirurgiche” impedendo le speculazioni ignobili favorite dalla scarsità. Ma non abbiamo visto uguale impegno nel precisarne l’uso né si capisce perché ci si riferisca sempre e solo alle mascherine “chirurgiche” sebbene siano ritenute non protettive per chi le indossa.

Mascherine, tipologia “filtrante” colorata, infantile

Anche nelle modalità d’uso la confusione regna sovrana e non riguarda tanto il modo di indossarle, estremamente semplice  a parte le cautele nel maneggiarle soprattutto nella parte esterna esposta, ma riguarda le possibilità di riutilizzo: si parla di “monuuso” anche per un utilizzo di pochi minuti, non basterebbe lasciarle inattive per giorni secondo le indicazioni, cosa non credibile dato che il virus, anche se presente e lo sarebbe all’esterno,  nel giro di ore o comunque di giorni non sopravviverebbe comunque. Non sarebbe possibile allora una rotazione, tanto più se ce n’è penuria, o gli interessi dei produttori devono prevalere sul buon senso nell’utilizzo da parte dei consumatori, che sono tutti i citatdini?

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Mascherine, tipologia “filtrante” colorata, romantica

Il sigillo finale alle confusioni, approssimazioni e incertezze sul tema lo troviamo nell’avviso-locandina della Regione Lazio-ASL, che abbiamo trovato esposto al pubblico in bella vista davanti al Pronto soccorso di un importante ospedale romano, il Sant’Eugenio.

Recita la seguente avvertenza: “Hai febbre, tosse, raffreddore, mal di gola o difficoltà respiratoria? Indossa la mascherina. Igienizza le mani con la soluzione idroalcolica”. Non crediamo ai nostri occhi: la locandina non avverte di rivolgersi subito al medico di base o al Pronto soccorso per il probabile ricovero essendo chiari sintomi di Covid-19 – la “difficoltà respitratoria” li differenza dai sintomi della normale influenza – ma soltanto ed erroneamente di avere i comportamenti che invece vanno indicati per tutti, e non per coloro che sono presumibilmente infetti e vanno subito individuati e curati. Non si indica neppure l’immediato isolamento, indispensabile in via precauzionare per non diffondere il probabile contagio. Con l’aggravante che in apertura della locandina si legge, in tutte maiuscole: “PROTEGGI TE STESSO, PROTEGGI LA TUA FAMIGLIA, PROTEGGI GLI ALTRI”. Non è questo il modo di proteggere, tra l’altro chi ha difficoltà respiratoria dovrebbe indossare, sì, la mascherina, ma quella dell’ossigeno… In questo modo si espongono tutti quelli che credono al messaggio, a un grave pericolo per la loro salute.

Conclusioni sull’OMS

Termina così il nostro viaggio su alcuni aspetti critici della comunicazione sul coronavirus, particolarmente inquietanti  riguardo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il cui ruolo fondamentale nella pandemia a livello globale è stato mortificato dai clamorosi sfondoni e dietrofront tardivi che ne hanno compromesso l’azione rendendola oltremodo dannosa. Magari fosse stata soltanto carente e ininfluente, è stata proattiva in negativo dando disposizioni sbagliate  trasmesse poi dagli organismi nazionali con effetti disastrosi sull’estensione dei contagi nel mondo! Perché le misure strombazzate, distanziamento di un metro e lavaggio delle mani sono risultate drammaticamente insufficienti soprattutto negli ambienti chiusi e il negazionismo sulle mascherine ha fatto il resto. E mancare in un momento cruciale per la salute e la vita di miliardi di persone è gravissimo, deleterio, imperdonabile

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Macherine, tipologia “filtrante” colorata, con un calciatore

. In questa convinzione, che crediamo diffusa, concludiamo il nostro nuovo viaggio nel coronavirus visto in un prospettiva diversa dal pecedente – questo è iniziato con una nostra visione darwiniana dell’evoluzione dell’epidemia, e terminato con le mascherine – tornando all’Organizzazione Mondiale della Sanità che è stato al centro delle nostre motivate critiche. Il ritiro degli Stati Uniti dall’organizzazione – con decorrenza immediata da questo mese di luglio – è stato meritato, ci viene da dire, a prescindere dagli intenti, e non è soltanto un atto smbolico facendo mancare circa mezzo miliardo di euro l’anno di finanziamenti.

Non dovrà portare, però, a nostro avviso, alla cancellazione di un organismo mondiale indispensabile per coordinare le pandemie che potrebbero ripetersi in futuro, a parte quella attuale che ancora imperversa nel mondo per cui il nostro paese – il secondo dopo la Cina a esserne investito e ormai in acque più tranquille – si sente accerchiato e deve difendersi dal contagio di importazione molto pericoloso con la fitta rete di scambi internazionali, e non basta chiudere i voli diretti dai paesi più colpiti; occorre un monitoraggio attentissimo dei focolai che possono insorgere con un controllo del territorio che è ancora insufficiente, anche per il sostanziale fallimento dell’indagine sierologica e dell’App “Immuni” per mancanza di risposte.

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Mascherine, tipologia “filtrante” colorata, horror

Ma se una istituzione mondiale nel settore cruciale della sanità è indispensabile, non lo è l’’attuale OMS che si è rivelato dannoso e quinadi dovrà essere sottoposto a una radicale revisione. Se il gesto di Trump porterà a questo sarà forse l’unica sua iniziativa  azzeccata  tra i fallimenti dell’azione verso il coronavirus colpevolmente quanto spavaldamente sottovalutato nonostante le raccomandazioni del grande scienziato consulente Fauci, emarginato e poi reintegrato, con l’effetto di far dilagare nel suo paese il virus che ha determinato 2 milioni di contagiati e un carico di morti che al 10 luglio supera i 130 mila: i nostri quasi 35.000 rispetto alla popolazione sono ancora più elevati, ma l’epidemia negli USA è tale che forse saremo superati. Gli elettori americani potrebbero punire Trump nelle elezioni di niovembre, ma per questa scossa all’OMS paradossalmente dovremmo ringraziarlo tutti, anche gli anti trumpiani e antisovranisti.

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Mascherine, un campionario di tipi e colori

Info

Cfr. il nostro precedente articolo sul coronavirus, citato nel testo, uscito in questo sito il 26 marzo scorso, vi si troveranno anche i commenti successivi e le nostre risposte.

Photo

Le immagini sono state tratte dai siti web che vengono indicati dopo l’indicazione delle immagini dei tre gruppi – OMS, Tamponi, Mascherine – nell’ordine in cui sono inserite nl testo, precisando che sono aggiunte a mero titolo illustrativo senza alcun intento nè ritorno economico o pubblicitario, dichiarandoci pronti ad eliminarle se non gradite, su semplice richiesta dei titolari dei siti indicati, che si ringraziano per l’opportunità offerta Le due immagini in apertura e chiusura sono del coronavirus, tratte dai siti web ilsole24ore.it e milanoeventi.it. Di tutte le altre, le prime 7 immagini riguardano l‘OMS, stemma e sede, Assemblea e Consiglio generale, il Segretario generale con alla sin. la de Kerkove e il Segretario generale, il simbolo dell’OMS, sono tratte dai siti: ilpost.it, focus.it, openpolis.it, salutegoverno.itrepubblica.it, lastampa.it, informasalute.it. Le 8 immagini successive riguardano i Tamponi, i bastoncini, il prelievo in piedi o in auto, 2 per tamponi in fiale, dai siti: corriere.it, padovagelocal.it, lagazzettadelmezzogiorno.it, oggitreviso.it, bergamonews.it, incontradonne.it, rainews.it, ilgazzettino.it. Le ultime 17 immagini riguardano le Mascherine nelle diverse tipologie protettive, “chirurgiche”, anche indossata da una donna e una statua, FFP1 singole o in diversi esemplari, FFP2, FFP3, fino a quelle “filtranti” colorate, variopinta, infantile, romantica, in un calciatore, horror, un campionario, dai siti: toscananotizie.it, comuneprato.it, ninjamarketing.it, manutan.it, tuttoggi.it, shopfarmacia.it, fanpage.it, lubiservice.it, sulpanaro.it, agenziagiornalisticaopinione.it, televallo.it, amazon.it, milleunadonna.it, amazon.it, friulisera.it, corrieredellosport.it, ansa.it; la quint’ultima immagine, con la locandina della Regione Lazio pericolosamente fuorviante, è stata ripresa da Romano Maria Levante all’ingresso del Pronto soccorso dell’ospedale SantEugenio di Roma. In chiusura, si ripete, altra immagine sul coronavirus Covid-19 tratta da milanoeventi.it.

Il coronavirus Covid-19, un’altra immagine

Asdrubali, lo spazio istantaneo, e il “Navigator” di Negri al Museo Bilotti

Ripubblichiamo l’articolo uscito senza immagini in www.arteculturaoggi.com il 18 maggio 2018. Il “Navigator” di Negri – una delle due mostre recensite – ha precorso il “navigator” del “Reddito di citttadinanza”. E’ in un’ambientazione e in un contesto artistico, itinerante come quello di 5 Stelle e altrettanto misterioso, ma forse meno evanescente nella sua presenza evocatrice di riferimenti e rimandi per molti versi suggestivi.

Il “Navigator” di Matteo Negri, ai Giardini Umberto I

di Romano Maria Levante

La mostra “Gianni Asdrubali. lo spazio impossibile” espone al Museo Bilotti presso l’Arancera di Villa Borghese a Roma, dal 16 aprile al 10 giugno 2018, le sue caratteristiche composizioni fatte di segni concatenati  molto  particolari in una concezione di spazio sofisticata  e problematica, sono 16 gruppi di “pitture industriali su tela” dai caratteristici intrecci nell’omogeneità cromatica di ogni opera,  all’interno di un’ampia gamma di tonalità pastello; la mostra è a cura di Marco Tonelli, che ha curato anche  il catalogo di Preraro Editore. In contemporanea la mostra “Matteo Negri, Navigator Roma”. a cura di Laura Cherubini, catalogo Silvana Editoriale, sembra  invece all’estremo della semplicità trattandosi dell’esposizione di un poliedro argentato nei diversi angoli di Villa Borghese, ma anch’essa presenta aspetti reconditi. 

Asdrubali,, “Tromboloide,” 1993

Lo “spazio impossibile” di Asdrubali 

E’ una mostra sorprendentemente, in apparenza  monocorde, a parte le varianti cromatiche, dato che le composizioni sono costituite da intrecci segnici con molti elementi di simmetria, e le varianti non sono molte tra una composizione e l’altra. L’impressione di omogeneità è la prima che si ricava. 

Ma basta conoscere la biografia dell’artista per non limitarsi a una  considerazione superficiale. La sua ricerca è iniziata negli anni ’80. e si è mossa intorno alla contrapposizione e fusione degli opposti per conseguire un nuovo ordine, che concili forma e antiforma, ed esprima le contraddizioni della vita che trovano sempre un punto di equilibrio.  

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“Tromboloide”, 1992

L’avvio della  sua costruzione pittorica è il vuoto considerato come fonte di  energia, come tensione vitale perché l’assenza più che la presenza  può  provocare il pensiero, quindi  l’azione e il movimento .  Sentire che l’azione deriva dal vuoto considerato  protagonista  e non negazione  non può che sorprendere  e comunque incuriosire e spinge ad approfondire le basi concettuali dell’arte di Asdrubali.

E per questo cominciamo dalle sue parole: “Non c’è spazio, piuttosto  si tratta del suo annullamento, schiacciamento e annullamento delle dimensioni , delle velocità. Questo schiacciamento delle dimensioni nella frontalità della superficie tende a gettare l’infinito – tutto l’infinito del dietro  – nel davanti e nel fuori dalla superficie”. Ed ecco il suo pensiero sulle visioni dello spazio infinito: “Un’opera d’arte è tale quando il suo limite è illimitato, per cui non c’è bisogno di uscire dal ‘quadro’, ovvero di sconfinare dall’opera verso il fuori, perché il fuori è già nell’opera. Fuori dal limite dell’opera non c’è l’infinito ma solo il quotidiano”.

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“Tetrazoide”, 2000

Una concezione, la sua, che lo porta a cercare l’arte nella natura senza scavare nel profondo, perché le forze naturali operano nella superficie , dove tutto si manifesta: “la necessità, l’istinto, il piacere”. Sicchè “la profondità è nella superficie”.

Siamo ancora alla compresenza degli opposti, agli ossimeri  virtuali, e in questo contesto i canoni  classici della pittura, , spazio e tempo, forma e struttura, colore e bordo del quadro, anche se restano fondamentali, vengono rivisti.

“Lo spazio, il vuoto è nella materia stessa, e la profondità non è al di qua o al di là delle superfici, ma nella superficie stessa”, concezione sfociata  nel suo caratteristico “segno.spazio” tradottosi  in titoli criptici  che sprimono,  secondo il curatore Marco Tonelli, “un’identità indistinguibile e primigenia della sua pittura, come se volesse definire un campo di mattoni fondamentali”.  E lo spazio è legato a un’istantaneità  di ordine filosofico  intesa come attimo presente,  “una superficie compressa, bidimensionale o unidimensionale dove avviene tutto , dove tutto è già avvenuto e dove tutto continuerà ad avvenire” sempre secondo Tonelli.

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“Zoide”, 2001

Il curatore fa riferimenti alla fisica subnucleare e ai campi granulari per gli elementi primari, parlando do “scenario quantistico di Asdrubali”. E lo applica al rapporto tra lo stimolo mentale che determina un gesto e il suo effetto, “che non è decidibile (appunto non programmabile né progettabile), è una sorta di azione di cui consoci il punto di partenza, osservi quello di arrivo, sai il perché, ma non cosa c’è nel mezzo né come si sia arrivati alla superficie organica visibile sulla superficie della tela”.  E’ inconoscibile, o almeno non è possibile direzionarlo, né  a livello della fisica né nell’azione concreta. ma proprio da questo vuoto nasce la potente energia come nella creazione del mondo, che esplode sulla tela nella pittura di Asdrubali.

Una pittura legata al pensiero la sua, dunque, di  tipo gestuale,  che si manifesta in un rapporto temporale tutto da definire tra l’impulso mentale e la realizzazione. “Se la pittura di Asdrubali è istantanea, è spazio-tempo reificato, come si relaziona col fatto che ha bisogno di tempo e di spazio ordinari per manifestarsi?”

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“Stoide”, 2006

Forse la risposta si trova in queste parole dell’artista: “Si tratta di iniziare il tempo, cioè di far partire un evento in stato contraddittorio, dove l’inizio è contemporaneamente la fine.  L’annullamento di queste distanze tra inizio e fine è lo stato contraddittorio di un’impossibilità che permette, attraverso la tensione del vuoto, lo scatenarsi di un’azione nel tentativo di raggiungere quel punto limite di un tutto che non c’è”.

Delineato per sommi capi il complesso retroterra concettuale della sua pittura, vediamo che  i caratteri salienti sono nodi e trame, legacci e strutture che si ripetono, sia pure con varianti significative, a dimostrazione che vuole spezzare la materia, e farlo velocemente nella misura temporale quantistica.

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“Steztastess”, 2011

Addirittura il curatore individua “il pacchetto quantizzato, quella dimensione fondamentale, oggettivamente misurabile per ogni opera o addirittura per ogni serie di opere, quella dimensione costante, quel quanto di energia che dà origine alla struttura complessa”.  E aggiunge che “la pittura di Asdrubali è non solo otticamente tagliata ai margini, ai bordi, ma lo è anche fisicamente, nel senso che nel dipingerla ha dipinto effettivamente anche il vuoto a fianco della tela, dando luogo a figure interrotte che però si ricollegano in ogni senso in un vero e proprio multi verso… Il gesto del pennello non si interrompe sulla tela ma, per completarsi e rendersi visibile sulla superficie, continua oltre”.  

Non dimentichiamo che per l’artista la tela è un “campo di forze che confluiscono in essa  e che non nascono in realtà dal gesto (in esso semmai si traducono), bensì da una struttura mentale e spaziale insieme , da un vuoto che sulla superficie si rende istantaneo , si fa spazio e tempo, senza perdere la sua caratteristica di autonomia e di originari età”. In questo processo  conta l’attrito delle superfici come conta il colore, nell’unidimensionalità e nella sovrapposi zio ne di strati, nella  corrispondenza tra gesto e segno, nella riduzione della forma a geometria,  del colore come sintesi e misura di tempo ed energia.

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“Maciada”, 2014

“Non più il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me, come per l’euclideo Kant – commenta  Tonelli – ma il vuoto intorno a me  e lo spazio dentro di me”  in un’accezione non euclidea ma quantistica  e relativistica che assimilando tempo e spazio in una sola dimensione curva  sembrerebbe sfociare su un a pittura con piani incurvati, mentre quelli di Asdrubali sono schiacciati. 

Il motivo è che non tutto della sua concezione viene portato alle estreme conseguenze, il curatore lo spiega così: “Semplicemente la sua rice4ca pittorica ha dovuto guardare oltre le dimensioni psichiche e fisiche della pittura tradizionale, senza negarne l’esistenza bidimensionale, senza rinunciare alla pratica pittorica in sé, all’uso del colore e del pennello, insomma radicalizzando quegli elementi fondamentali non per negare , azzerare o concettualizzare, ma per  provare a rifondare la pittura nella sua contrattezza fisica, nei suoi collassi istantanei di materia, forza, gesto, energia, segno, immagine”. E cero non è poco!-

La sua non è vera astrazione, Lorenzo Mango lo ha accostato a Pollock vedendo in entrambi una “tessitura strettissima tra fisicità, emozione, gesto, intuizione estetica, genesi della forma”. Flavio Caroli lo ha collegato al movimento “Nyuova geometria” diffusosi a livello internazionale a metà degli anni ’80,  definendo la sua “astrazione eroica”. Filiberto Menna ha parlato di “pittura di affermazione” Bruno Corà vi vede una “spazialità sferica, adimensionale, indescrivibile a parole”.

Cerchiamo di descrivere a parole le opere esposte, spriamo non sia una missione impossibile.

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Zeimekke”, 2015

La sequenza  di opere  di Asdrubali in un trentennio

Molte le caratteristiche comuni delle opere di Asdrubali, in una continuità di contenuti unita ad un’evoluzione stilistica evidente senza interruzioni né brusche innovazioni. La caratteristica più evidente è la dimensione delle opere, sempre notevole, fino quasi a 4 metri, come se invece di pitture, come sono nella sostanza, fossero installazioni di un’altra generazione più avanzata, anzi avveniristica, del resto è collegata alla quantistica nella complessa costruzione gestuale e nei rapporti spazio-tempo. non solo, ma nelle parole di Corà, tutti i dipinti “si dimostrano ‘aperti’ sui quattro lati e interpretano il limite che tuttavia non rappresentano, essendo essi stessi limite esemplare del processo pittorico”.

Partendo dal lontano “Muro magico” del 1979, si passa a “Bestia”, 1986,  con le “Nuove Geometrie” e “Aggancio”, le prime grandi tele di “pittura industriale” con figure in bianco incorniciate su fondo nero, che si rafforza in “Eroica” nel 1988.  Per Mango “questa essenzialità si disarticolava, si frantumava, il segno  si moltiplicava e la superficie, anziché essere il luogo della  un’apparizione momentanea, diventava occasione di una costruzione segmentata ed analitica”.  

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“Sverzeke”,2016

Il colore interviene nel 1990 con “Malumazac”, in particolare il celeste e il rosso, dove “ciò che emerge è la sintesi, la concentrazione attorno ad una unità, ad un segno-gesto  che non si espande sulla superficie ma la anima stagliandosi al suo interno come un’isola di energia”.  

Poi nel 1992 sembra si torni indietro, al bianco e nero, con “Tromboleide”, con la vistosa variante della  trasformazione delle grandi geometrie in un viluppo labirintico di segni, la “figurazione futura” da non confondersi con l’astrazione perché, come scrive sempre Mango, “”il Tromboloide in quanto corpo  della pittura non è né astratto né figurativo. E’ segno assoluto”. Si sviluppa così: “I Tromboloidi montati l’uno sull’altro fino ad invadere la parete creano un ritmo tratto, sincopato, ellittico. Il segno dell’uno si infrange dentro quello dell’altro, la netta essenziale semplicità, il timbro cristallino dell’immagine… assume i toni e il respiro tonante  del grande affresco”.   

Alle geometrie bianco-nere possiamo riferire le parole di Corà:”La tensione è continua, ma il gesto è segmentato, come i segni a pittura acrilica  che tracciano sulla tela i diversi tipi di rete nervosa”. Ed ecco come: “Sulla tela preparata in bianco, Asdrubali  stende un reticolo nero e sul nero un reticolo bianco molto diluito, al punto che gran parte di essa lascia trasparire il nero sottostante”. 

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“Zanorre”, 2017

Siamo al 2000, “Tetrazoide” riporta le grandi geometrie in nero, che nel 2001 si sciolgono in percorsi con lo sporadico intervento del viola, finché nel 2004  con “Azota” l’evoluzione porta l’artista  alla forma espressiva che si consoliderà sempre più mantenendo il nuovo orientamento. Quale? Gli intrecci non di segni astratti ma di elementi materici che ricordano i cesti di vimini, in colorazioni discrete ma precise sul verde e il celeste.

Un ritorno alle geometrie bianche su fondo nero nel 2006 con “Stoide”, mentre con “Zigroma” nel 2008  torna dominante, a parte una insolita colorazione gialla, bianco che resta in “Steztastess” del 2011 ma reintroducendo i segni materici che ricordano il viluppo di vimini.  

Questa linea evolutiva esplode in  “Maciada” nel 2014, con i viluppi in verde e nero. E si rafforza ulteriormente in “Zeimekke” del 2015  nei colori rosso, verde e viola. Nelle superfici colorate – osserva Corà – “in ogni tracciato del colore si distinguono zone di diversa intensità e saturazione cromatica dovute al gesto che al contempo stende e asporta il colore  a causa della tensione e della rapidità”. Con questo effetto: “Le zone di minore intensità cromatica, quelel cioè dove l’acrilico è stato steso e sottratto, si rendono dialettiche con quelle parti ‘vuote’ da segni e da colore che occhieggiano e contribuiscono alla forte l’aspetto  mentale. La sperimentazione sui materiali apapre imprescindibile”lte rontalità dell’intera pittura”.

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Asdrubali, “Zesenne”, 2017

A riprova della continuità espressiva, nell’evoluzione, con “Sverzeke” del 2016 tornano i viluppi in bianco-nero pur se prevalgono quelli cromatici, in verde, celeste e rosso. Ma poi, nel 2017, con “Zanorre” e “Zesenne” l’esplosione dei viluppi cromatici è assoluta e incontrastata, in verde e celeste, viola e rosso, i colori fondamentali del “quark”, per ricollegarci al riferimento quantistico.

In conclusione, torniamo alle basi poste da Asdrubali alla sua arte: “Io costruisco il  vuoto”, e ribadisce “si può dire che la mia pittura è piena di vuoto”. E perché piena? “Il vuoto è solido come il marmo”. Un ossimoro intrigante che riconduce ai misteri insondabili dell’arte e, se si vuole, della scienza, tanto più nei campi avveniristici della quantistica cui l’artista si riferisce espressamente.

Il Navigator esposto in mostra, sulla parete l’immagine con la Fontana del Mosè;

Il “Navigator” di Matteo Negri approda a Villa Borgese

“L’operazione di Matteo Negri è  tutta nell’interrogarsi sul senso della scultura nell’epoca della de materializzazione digitale . La tensione è quella a trattenere reale e virtuale insieme. Nonostante la  grande attenzione alle materie è forte l’aspetto mentale. La sperimentazione sui materiali appare imprescindibile”. Così  presenta la mostra la curatrice Laura Cherubini .con l’invito implicito a non fermarsi alle apparenze, un semplice poliedro dimensioni contenute,il “Navigator”, itinerante per Villa Borghese, ripreso in istantanee che lo inquadrano nell’ambiente, tradotte in cartoline esposte.

E basta scorrere l’itinerario artistico dell’autore per entrare in sintonia con una realtà ben più complessa. Nella sua formazione all’Accademia delle Belle Arti di Brera  ha imparato dal maestro Paolo Gallerani la conoscenza dei materiali più diversi e soprattutto del disegno; ma poi ha mostrato uno spirito ironico e creativo, servendosi anche della meccanica nelle macchine che si battono su un ring, nelle bombe di profondità  e nelle mine colorate in cui fa “slittare” la violenza verso una dimensione ludica, e della caratteristica superficie forata del “lego” per le fusioni in bronzo dei “lego bricks”, fino alle torsioni che portano ai “Nodi”. Ivan Quaroni lo collega sia alla Pop Art e al Minimalismo americano, sia all’Astrattismo europeo.  

Immagine frontale del Navigator con la Fontana del Mosè

Questo un decennio fa, mentre nel 2015 sorprende ancora con la sfera fluorescente che disegna su un tappeto delle lettere casuali e con lavori cui viene dato il titolo in giapponese di “Kamigami”  “Kamigami”‘  nei quali la scultura riflette su superfici a specchio immagini che sono fotografate. Precorre il “Navigator” e consente di decifrarne il significato recondito, che attiene ai rapporti tra scultura (l’oggetto riflesso) e pittura (le immagini fotografate) e tra i diversi punti di vista, tra unicità  (della pittura) e molteplicità (della scultura).

In questo secondo caso l’osservatore non è più in posizione statica ma si muove di propria iniziativa per cogliere le differenze plastiche; addirittura il “Progetto per casa Testori” – ha scritto Daniele Capra –  spinge “il visitatore ad essere nel contempo osservatore e uomo in movimento,cioè spettatore e ballerino”, dato che viene costretto a girare intorno alla casa per guardare dalle finestre all’esterno le opere poste nelle stanze all’interno; per lo più sculture che però si guardano da un punto di vista “unico”, statico,  senza girarci intorno come avviene quando sono accessibili, ma poiché si gira intorno all’edificio c’è pure il dinamismo. Tuttto ciò fa dire a Giuseppe Frangi che sono “sculture pitture” e all’artista che “non si tratta di una mostra di scultura o di pittura ma è una mostra che riflette sul ruolo  dell’opera ‘pubblica”.

Il Navigator con il Tempio di Esculapio

A questo punto nella produzione artistica di Negri irrompe “Navigator”,  due coni sovrapposti uniti alla base, come una trottola, che Albero Fiz definisce “una specie di scultura portatile, un oggetto specchiante e misterioso che si attiva solo in relazione all’ambiente circostante”, e lo fa tra continue interferenze luminose “in un vortice d’immagini che sovrappongono e si ribaltano senza lasciare segni tangibili”.  

La prima comparsa della cultura-trottola fu plateale, la lanciò  in mare dal molo di Boccadasse a Genova, per far combaciare la sua superficie reale con quella riflessa nell’acqua; ma parallelamente la fotografò  sospesa mentre rifletteva “l’attorno urbano e sociale”, sono sue parole. Con “Navigator” si va ancora avanti, il nome viene dal titolo di un film di fantascienza del 1986  con un ‘astronave dalla stessa superficie argentata le immagini del paesaggio terrestre attraversato; nel film l’intelligenza aliena è all’interno e vuole scoprire ciò che c’è all’esterno guidata da un bambino. Lo stesso “Navigator” all’apparenza una trottola infantile, che va alla scoperta dei misteri più intriganti.  

il Navigator al Pincio con un Busto del Brmante

E quale migliore collocazione di Villa Borghese, dove il cardinal Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V. volle non solo una varietà sterminata di piante, essenze e fiori, ma tempietti deliziosi e costruzioni monumentali, statue e bassorilievi, che ne fanno  uno straordinario museo en plein air. In questo ambiente favoloso, dice l’artista, “il luogo incantevole diventa lo scenario che ho immaginato nelle stanze. Che in questo modo diventa lo specchio della condizione incantevole del giardino”.

Vediamo “Navigator” appeso all’interno Museo Bilotti, ma ciò che conta sono le fotografie che lo ritraggono  negli angoli più caratteristici del parco, ciascuno dei quali ha una sua storia che viene declinata con tutte le sue valenze, anche simboliche: ed ecco il doppio prisma argentato riflettere il panorama lontano o le evidenze ambientali e artistiche vicine nella Terrazza del Pincio e nella Fontana del Mosè, nel Viale dei bambini con i busti del Bramante e nei Giardini Umberto I, vicino ai  Templi di Diana e di Esculapio, a Piazza di Siena e all’Arancera con i suoi fregi artistici fino a “entrare” nel Museo Bilotti e collocarsi al centro della sala con esposte immagini del tour esterno.

Il Navigator al Pincio con una statua acefala

Sono ben 61 le Stampe fine art prestige su cartoncino formato cm. 10 x 15,  tipo cartolina, che ne documentano l’escursione romana nel 2018. Non è un mero tour fotografico, è un momento importante del percorso artistico di Matteo Negri che – sono le parole conclusive della curatrice Cherubini – “si situa nella continua dialettica tra scultura e pittura, tra senso del tatto e senso della vista e ci parla del tempo dell’attesa e della necessità d’instaurare una nuova relazione con lo spazio. Un en plein air tra quattro mura stupefatte di spazio…”.

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ll Navigator nell’Arancera del museo Billotti

Info

Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese, Via Fiorello la Guardia 6, Roma. Da martedì a venerdì e festivi ore 13,00-19,00  (ottobre-maggio  ore 10-16),  sabato e domenica  10,00-19,00; lunedì chiuso; si entra fino a mezz’ora dalla chiusura). Info 06.06.08, www.museocarlobilotti.it, www.museiincomune.it.  Mostra Asdrubali, catalogo: Gianni Asdrubali, “Lo spazio impossibile“, a cura di Marco Tonelli, Prearo Editore 2018, pp. 188, formato  23 x 27; Mostra Negri, Matteo Negri, “Navigator Roma”, Silvana Editoriale, aprile 2018, pp.98, formato 15,5 x 20,5, bilingue italiano-inglese. Dai due Cataloghi indicati sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla inaugurazione delle due mostre, tranne le n. 4, 8, da 14 a 17, tratte dai rspettivi Cataloghi, si ringraziano l’organizzazione della Galleria e i due Editori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Dopo l’apertura con il “Navigator” di Matteo Negri, le successive11 immagini sono della mostra di Asdrubali, le 7 che seguono della mostra di Negri. In apertura, il “Navigator” di Matteo Negri ai Giardini Umberto I; seguono, di Asdrubali, “Tromboloide” 1993 e “Tromboloide” 1992; poi, “Tetrazoide” 2000 e “Zoide” 2001; quindi, “Stoide” 2006, e “Steztastess” 2011; inoltre, Maciada” 2014, e “Zeimekke” 2015; ancora, “Sverzeke” 2016, ““Zanorre” e “Zesenne” 2017; segue Negri, anno 2017, a partire da Il Navigator esposto in mostra, sulla parete l’immagine con la Fontana del Mosè; seguono, immagine frontale del Navigator con la Fontana del Mosè, e il Navigator con il Tempio di Esculapio; poi, il Navigator al Pincio con un Busto del Brmante e con una statua acefala; infine, il Navigator nell’Arancera del museo Billotti e, in chiusura, Stampe fine art prestige in cartoncino sulle presenze del Navigator in luoghi romani di pregio.

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Stampe fine art prestige in cartoncino sulle presenze del Navigator
in luoghi romani di pregio

Patterson e Quinn, “un’arte che offusca ma chiarisce”, alla Mucciaccia

Ripubblichiamo l’articolo sulle due mostre di Patterson e Quinn uscito senza immagini in www.arteculturaoggi.com nel giugno 2018.

di Romano Maria Levante

Dal  24 maggio al 14 luglio 2018 alla Galleria Mucciaccia di Roma, la mostra  “Richard Patterson  e Ged Quinn” presenta una serie di opere di due artisti inglesi che hanno dato un’impronta particolare all’arte concettuale non rinunciando a un uso spettacolare del mezzo pittorico per calarsi nei problemi di una società inquieta e confusa per la perdita dei valori e l’assenza di prospettive. La mostra è curata da Catherine Loewe, Catalogo bilingue italiano-inglese di Carlo Cambi Editore.

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Richard Patterson, “Three Times a Lady”, 1999,

I due artisti presentati in parallelo alla Galleria Mucciaccia  di Roma sono inglesi formatisi nel clima degli anni ’80 allorché, nell’era della Tatcher,  il Regno Unito era in preda a un profondo ripensamento sul piano sociale, culturale e politico, con movimenti iconoclasti  in una situazione economica resa precaria dal degrado urbano e dalla disoccupazione crescente. 

L’arte era attirata dal tema cruciale dei valori perduti senza prospettive positive con quello che viene definito il “post-Punk graffiante”,  ma anche, in direzione opposta,  dall’evasione  verso motivi fantastici e mondani, dal cabarettismo al divismo, nel clima reso precario dalla disoccupazione, in un “Nuovo Romanticismo”.

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“Come to Mama” , 2000

Catherine Loewe, la curatrice, nel  descrivere questo scenario,  sottolinea come la divisione  sopra delineata  venne superata dal convergere di una serie di fonti, dalla letteratura alla filosofia, dal cinema alla musica, dalla pubblicità alla moda, mentre l’arte prese le direzioni più diverse dal cubismo all’espressionismo astratto, dal Neo impressionismo alla Pop art, dal Minimalismo al Concettualismo che sembrò segnare il superamento della pittura.

Invece per i due artisti britannici il Concettualismo che pone l’idea al centro dell’opera, al di là della forma espressiva che può anche mancare, viene vissuto con gli strumenti pittorici, anche se contaminati da altri ingredienti,  questo accresce il loro valore perché, pur riconoscendo “la condizione post moderna di frattura, decostruzione, analisi e affanno”, vi partecipano rivendicando “la lotta dell’immagine, il suo  potere simbolico,la sua bellezza a volte fastidiosa”.  Il loro concettualismo, dunque, non rinuncia, dunque, a servirsi del lato estetico e figurativo dell’arte, al contrario se ne avvale per rafforzare, con la spettacolarità che ne deriva, l’idea,il  concetto su cui si basa la loro creazione.

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“The Wedding Party” , 2005

“Un’operazione che può essere considerata senza ombra di dubbio rivoluzionaria”, commenta la Loewe, e ne definisce così i risultati: “Possiamo dire di rimanere con gli occhi incollati  quando ammiriamo una loro opera, affascinati dall’assoluto talento che manifesta, che sia di grandi o ridotte dimensioni, astratta o realistica, non importa quanto sia di lusso la superficie su cui si presenta, di certo s può definire tutt’altro che compiacente”.

 E aggiunge: “L’idea di pittura di Patterson e Quinnè quella della resa di un pensiero visibile, di una lettura testuale, di un itinerario  personale fatto di tornanti e curve, , che sia in grado insomma di percorrere mete mondane o sublimi”. 

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“Country Life”, 2014

Per concludere: “Si tratta di un’arte in cui le relazioni tra cose si scontrano metaforicamente  e letteralmente, un’arte che offusca ma chiarisce nello stesso tempo”.

Con questa presentazione della curatrice, passiamo ai due artisti  considerandoli ovviamente in modo separato, con l’ansia di verificare tali  intriganti premesse, commentando le loro opere che a uns prima visione d’insieme  hanno un impatto cromatico e compositivo veramente spettacolare.

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“Marianne Leflange” , 2012

Richard Patterson, astrazione e figurativo

E’ un artista che utilizza, oltre alla pittura, fotografia  e stampa, i suoi quadri sono anche multistrato realizzati con una serie di tecniche compreso il “ready made”,  in una contaminazione e compresenza che non consentono di classificarne lo stile.

Ma il suo concettualismo che pone l’idea al centro della composizione, pur se si avvale di effimere componenti  prese  dalla pubblicità e dal cinema, dal pop e quant’altro – ha  fondamenta filosofico come provano i suoi scritti.

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“Hester van Tojerstraap”, 2014

La Loewe commenta così: “Le sue opere possono essere viste come maschere o schermi che nascondono  una meditazione melanconica  sulla condizione contemporanea”.

Dalle sue confidenze all’amico  curatore museale Toby Kamps abbiamo appreso  la sua competenza e il suo amore per le auto sportive, in particolare la Jaguar e la sua immersione nella contemporaneità in tutti i suoi aspetti, con i suoi commenti graffianti e disinibiti.

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“Woman at Her Toilet (after Degas)”, 2014

Il 26 agosto 2016 dice: “E’ buffo – quando vivevo a Londra, e specialmente alla scuola d’arte, avevo l’idea romantica che per essere un pittore avrei idealmente avuto bisogno della luce del Sud della Francia e che quello era il motivo per cui gli inglesi  non erano famosi per i dipinto veramente espansivi che denotano il desiderio per la vita. Invece, la luce inglese sembrava descrivere gli interni oscurati dei pub con troppi alcolici, sembrava essere momentaneamente celebrativa, poi malinconica., poi cospirante contro i nemici percepiti negli studi vicini, quindi generalmente offensiva ingaggiando il  massimo narcisismo, inventando soprannomi poco lusinghieri per altri artidti, incredibilmente spiritosa – pur mantenendo i livelli di metaironia di sospensione  dell’incredulità, e poi usando prevalentemente vernice marrone – o senza alcuna vernice, prima di passare a tutte le varianti di colore pantone tutti insieme in una sorta di mary Quant Explosion (che sarebbe stato un buon nome per una band)… Ora capisco che la luce di Londra può essere davvero  la luce dei pittori. Dei  pittori moderni”.

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“Blanco” , 2015

In un  altro momento, il  2 dicembre 2016:  “Avrebbero dovuto mettere un po’ di arte nelle automobili. Basta porre una piccola opera di Rauschenberg sul sedile passeggero o qualcosa del genere. Questo sarebbe stato ancor più spinto. Non  si è ancora arrivati al punto in cui l’arte moderna  consiste nel costruire sculture  dove puoi parcheggiare la tua moto d’epoca. Don Judd c’è quasi arrivato. Fa sculture che hanno le dimensioni giuste  per contenere bici più automobili, ma non è riuscito a fare due più due. Molto vicino. Eppure così lontano”.

“The Cherry Toolshed Door”, 2014

E infine, il 28 febbraio 2017: “Picabia e de Chirico sono sempre stati influenti su di me. Ho scritto la mia tesi sui tardi Gaston e de Chirico nell’86”.

L’attenzione alla pittura è molto viva, e la notizia sull’influenza di De Chirico  conferma quanto emerge dalle sue opere, l’immagine dell’artista che emerge anche dalle altre confidenze è di un personaggio disinibito e immerso nella contemporaneità più dissacrante, ma ancorato a dei valori e parametri artistici ben radicati.

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“A Matter of Life and Death”, 2015

Dalle opere esposte emerge uno straordinario eclettismo, si va dalle opere astratte con cromatismo leggero, fino ai colori violenti, alle composizioni con inserite fotografie, ai volti  che appaiono nitidi in un contorno variegato.

Le due prime opere che vediamo,  “Three Times a Lady” 1999, e  “Come to Mama”  2000, presentano lo stesso soggetto, una figura in piedi di impatto scultoreo, con due vesti cromatiche opposte, il primo con macchie di colri intensi come da pennellate violente, il secondo con un’uniforme rivestimento scuro, la cui superficie lucida, però, crea giochi di luce che rendono la figura viva e dinamica quanto quella colorata.

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“Those suny domes! those caves of ice” , 2015

“The Wedding Party”, 2005,  e “Country Life” 2014,  sono due composizioni astratte , la prima con colore dominante arancio e rosso in pennellate orizzontali, la seconda in tinta più delicata, sul giallo chiaro, anche qui con larghe campiture anche se in varie direzioni.

Altrettanto astratta “Marianne Leflange”, i diversi colori  accostati in modo armonioso non identificano alcun ritratto, come invece avviene per “Hester van Toojerstraap”, 2014, in cui le sembianze  sono abbastanza delineate pur se  l’approssimazione lo rende un grottesco d’aprés di un celebre van Gogh..Il grande olandese non è citato, come invece avviene per un altro grande in “Woman  at Her Toileet (after Degas)” 2014, c’è qualche sagoma che ricorda vagamente l’artista citato, ma non quanto Van Gogh l’altro.

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“Small Arm”, 1996

Accostiamo a questo dipinto, per la delicatezza delle sagome immerse in un cromatismo verde variegato, “Blanco”  2015, di bianco ci sono delle striature che rischiarano una composizione che ricorda un acquario.E’  invece di un verde dominante molto intenso con inseriti motivi rossi e gialli dati con forti pennellate, “The Cherry Toolshed Door”  2014, come gli altri  in un astrattismo fortemente cromatico.

Più cupi appaiono due dipinti del 2015, “A Matter of Life and Death”, dove il richiamo alla morte potrebbe spiegare il nero dominante  e  “Those sunny domes! those caveas of ice”, diversi dai precedenti anche sul piano compositivo, sebbene non si identifichi la raffigurazione; non siamo nell’astrattismo pittorico degli altri citati,  utilizza in modo quasi simile nei due dipinti sfere e strisce quasi fossero dei college gemelli.

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“Christina”, 2009

Ci sono due opere con elementi figurativi,  “Small Arm” 1996, il braccio sinistro con la manica della camicia arrotolata in primo piano, e   “Christina” 2009, addirittura unafotografia molto nitida della ragazza in motocicletta su base di alluminio con sotto una aggiunta pittorica, che ci introduce, per così dire, ai due dipinti nei quali spiccano chiaramente dei volti e non solo.

Il “non solo” riguarda i  grandi seni nudi della ragazza di cui si vede in alto il viso fino agli occhi, con sotto una sorta di autoritratto dell’artista invecchiato, mentre  la bocca della ragazza con la bella dentatura si ritrova due volte  tra grandi macchie celesti, è intitolata “Portrait o fan Artista s an Older man”. 2009.

Sono due visi giovani quelli che spiccano in “Modern Love” , l’opera più recente tra quelle esposte essendo del 2017, in primo piano la figura maschile, viso e busto, sulla sinistra il profilo del viso femminile, tutto molto nitido in ineccepibile figurativo con  uno sfondo anch’esso ineccepibile.

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“Portrait of the Artist as an older man”, 2009

Questi cospicui inserimenti figurativi li troviamo anche in opere non esposte, 3 anch’esse recenti, “The Studio”, una immagine quasi fotografica di un uomo chino che lascia le sue orme sulla neve, forse nella tormenta, e “Dr. Soaper”,  un uomo seduto alla scrivania, tutto figurativo,  quadri alla parete e applique compresi, le mani che stringono un foglio, ma la testa è sostituita da un viluppo cromatico astratto. Mentre in “Back at the Dealership Culture Station  no. 5”  le immagini dell’uomo avanti all’auto rossa e dello scorcio della gamba femminile con la pistola, collegati da alcune linee colorate,  sono figurative, l’opera è del 2005!

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Richard Patterson, “Modern Love”, 2017

Ged Quinn,  pittorialismo fotografico

Anche Quin, come Patterson, utilizza  dei supporti fotografici alla pittura, ma in modo molto diverso, e il suo non è mai astrattismo,  i suoi quadri  hanno una base prevalente figurativa sulla quale sono inseriti altri elementi, anche di tipo astratto ma con  fondali paesaggistici.

David Elliot gli riconosce il  merito di non aver rinunciato alla pittura quando, con la sua formazione negli anni ’80,  poteva essere invogliato a farlo dato che le avanguardie rifiutavano il risveglio pittorico in atto in quel periodo. E precisa: “Lo sviluppo di Quinn dagli anni ’90 fino ad oggi, è stato caratterizzato dal rifiuto delle associazioni, degli stili, o delle  formule semplici del post-modernismo, in uno spostamento in avanti verso una pratica sintetica che ha accresciuto mezzi visuali ormai assodati di sviluppo della coscienza o di creazione della conoscenza”.

Anche se le fotografie e le pellicole, i fotomontaggi e  i media digitali  hanno avuto notevole influenza in lui, non ha dato esclusività a questi apporti, ma si è mosso “verso un attacco più dolce, più aperto, che metta insieme  immagine, illusione, influenza attraverso la pittura”.  Nel suo“Hegel’s Happy End” del 2012 , non esposto in mostra, che segnerebbe il rifiuto  “dell’iterazione visuale dell’idea Hegeliana di tesi-antitesi-sintesitesi”, questa contaminazione di diversi elementi  è espressa mediante un vaso di fiori spettacolare alla Bruegel, con alla base del vaso, sotto all’esplosione floreale, la fotografia di una madre col suo bambino in un giardino, mentre  alato del vaso ci sono un piccolo busto di Hegel inserito in uno strano basamento ligneo a destra e  un altro piccolo basamento con sopra una composizione di piccole sfere a grappolo.

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“Saint Paul”, 2014

Hegel non è il solo personaggio cui fa riferimento Elliott nell’inquadrare la figura  el’opera di Quinn. Cita anche  Kurt Schwitters , l’inventore del “Merz”, le lettere finali di Kommerz, con il quale assemblava in modo casuale i più svariati elementi senza valore, dai biglietti del tram e dalle carte di caramelle ai ritagli di giornale e oggetti buttati via.  I suoi “Mertzbau” , caotici in modo incomprensibile, riflettevano un’intuizione che, secondo Elliott,  era “basata su un ordine  insospettabile, innocente, primordiale”.

Non è un mero riferimento culturale, nell’opera di Quinn anch’essa non esposta in mostra, “What the Lark Said (Death and the Maiden”, inserisce al centro di un paesaggio con alberi, corso d’acque e cielo solcato da nuvole, il “Merzbau” con una serie di riferimenti che vanno fino ad Auschwitz.

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“Peter, Paul, Mary” , 2014

Non possiamo soffermarci  su questo pur fondamentale dipinto, un altro personaggio citato in relazione a Quinn è Aby Warburg, grande teorico e critico dell’arte tedesco, sostenitore della tesi dell'”enpatia”, cioè l’idealizzazione con la bella forma delle paure per una nuova consapevolezza. Quinn ne trasse elementi per “trattenere  lo spazio ‘teatrale’ del punto di prospettiva evanescente sovrapponendolo ad una superficie luccicante fatta di immagini diverse, connesse cripticamente da gesti, sensazioni, movimento spazio ed ethos più che dalle parole”.

Ma c’è anche Heidegger tra i personaggi evocati da  Elliott, e questa volta appare in un dipinto esposto in mostra, di 50 x 60 cm, piccole dimensioni rispetto agli altri, “The Book of Two Ways” 2013, raffigura la testa del pensatore giovane che guarda avanti, inghirlandata  da una pellicola di film, sul viso le lettere “ridi cul”, il busto a metà vestito, nella parte inferiore nudo con nel petto un tatuaggio da carcerato con “aprée moi le deluge” in alfabeto morse e la piccola ‘immagine dell’attrice Linda Lovelace, che diede scandalo nel film hard”deep Throat” con le mani giunte, come lo sono le  mani grandi di Heidegger, incapsulato alla Bacon in una gabbia, o un acquario, a sinistra in alto un calice entro un “pergolato celeste” definito “wagneriano”,

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Every Forsaken Instance, Each Leisurely Disaster”, 2013

“In questo ‘libro delle due direzioni’ – commenta Elliott – Quinn ha innescato Heidegger come punto di ingresso visivo per una meditazione  che tocca la dialettica della realtà e l’apparenza, il comportamento e l’intenzione, la presunzione e l’attenzione, la menzogna e la verità, all’interno di un quadro storico e psicologico  che è consapevole, ma non governato da moralità o religione”. Con questo effetto: “Come richiede il sogegtto, questo quadro  di dilemma esistenziale deve essere lasciato aperto  in modo che gli spettatori possano rimuginare sulle proprie conclusioni”.

Un  dipinto di composizione per molti aspetti simile è “Saint Paul”  2014, il santo rivoluzionario convertito al Cristianesimo raffigurato con il volto macchiato del messicano terrorista rivoluzionario Carlos, nei cui occhiali si riflette il segnale stradale di Tarso, in una composizione con elementi cubisti e due fotografie alla base, che ci introducono a una sua caratteristica essenziale.

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“Ros, Cherry, Iron Rust, Flamingo”

Dello stesso anno 2014  un’opera aderente alla precedente, “Peter, Paul and Mary”,  un altro  Paolo martire della nostra epoca, Pier Paolo Pasolini, il volto ferito in un’immagine di tipo  fotografico in primo piano con gente compunta sullo sfondo, lo scrittore regista progettava di concludere la sua “trilogia della morte” con un film su San Paolo, questa circostanza   insieme al binomio santità-passione che accompagna il regista, poeta e scrittore  trasgressivo, colpì  Quinn.

Così Elliott commenta i tre dipinti ora citati: “”Presa insieme, la trinità di Quinn su Heidegger, San Paolo/Carlos e San Pietro-Paolo/Pier Paolo Pasolini-è una meditazione critica su idee di santità e martirio e traduzione estetica di ideologia, filosofia e religione  che tiene conto della morte post-romantica  dell’idealismo e delle vicissitudini contemporanee della complessità morale.

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“Events Arrive on Doves’ Feet”, 2014

Dai ritratti simbolici si passa ai paesaggi altrettanto simbolici, per lo più oscurati, in stile figurativo, dove fanno irruzione elementi astratti quali nature morte e fotografie da album di famiglia.

Ne sono esposti 5 tutti di grandi dimensioni,. sui 3 metri per 2, molto spettacolari. dal 2013 al 2017. “Every Fosaken Instance . Each Leisure ly Disaster” 2013, evoca il disastro in una scena quasi  bucolica, la figura adagiata nel bosco quasi riposasse, appoggiata a una sorta di lapide.

Ancora più aperta la scena di “Rose, Cherry, Iron Rust, Flamingo” 2014,  un paesaggio sereno con alberi, prati e colline in lontananza, poche immagini fotografiche e molto piccole sparse nel verde.

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“Bela Forgets the Scissors”, 2016“Plane, Plank, Nameless Bridge” 2017; infine, “Geography Correct” e, in chiusura,“Model for Contempt”, 2017.

Dello stesso 2014  “Events Arrive on Doves’ Feet”, visione paesaggistica ravvicinata rispetto alla precedente, con due fotografie e, al centro, il “Merzbau” di cui abbiamo parlato all’inizio.

In “Belas Forgets the Scissors” 2016, invece, le fotografie dominano la scena paesaggistica ancora più aperta delle precedenti,ne abbiamo contato quasi 50, di tutti i tipi, alcuni ritratti e molto altro.

L’ultimo di questa serie e più recente, del 2017, “Plane, Plank, Nameless Bridge” ha una visione paesaggistica assimilabile alla  precedente, con 15 fotografie di varia dimensione tra cui una carta geografica e altri elementi sulla destra che sconfinano nell’astrazione.

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“Plane, Plank, Nameless Bridge” , 2017

Dai paesaggi aperti e aprichi alle cupe costruzioni carcerarie, edifici-bunker che sembrano casematte, simbolo angoscioso della privazione della libertà, sono del 2017, come se la ricerca fin qui condotta negli spazi aperti avesse portato a questo approdo: si tratta di “Geography Correct”  e “Model for Contempt”, i titoli sono eloquenti  Ma non si deve pensare alla perdita di speranza, al riguardo è significativa questa considerazione di Elliott: “Sebbene il potere, e il suo potenziale abuso, sia una preoccupazione evidente nei dipinti di Quinn, non vi è ideologia , sistema o intento didattico prevalente. L’intuizione, come sempre, mantiene il sopravvento”.

C’è  un’osservazione più generale, sempre Elliott, nel riportare il giudizio dei critici che vedono nell’opera di Quinn “sintomi ‘maniacali’ della Melanconia – una risposta storicamente depressiva e nevrastenica ad azioni., emozioni ed idee che non possono essere tollerate”, commenta così: “Ma mentre Quinn cita spesso la malinconia nel suo lavoro, la smaschera  anche con una cocciuta ironia che distoglie l’attenzione dai dettagli, dagli eventi o dalle narrazioni verso una considerazione del perché tutti i diversi  elementi sono stati messi insieme in questo modo”. 

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“Geography Correct”, 2017

Info

Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella di Borghese 89, Roma. Da lunedì  al sabato, ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.69923801, www.galleriamucciaccia.com. Catalogo  “Richard Patterson/ Ged Quinn,”, a cura di Catherine Loewe, Carlo Cambi Editore, maggio 2018, pp. 107 Patterson, 101 Quinn, due parti speculari rovesciate, bilingue italiano-inglese, formato 25 x 29; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per quella di Pasolini, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com 27 ottobre 2015, 4 luglio, 15 giugno, 27 maggio 2014, 11, 16 novembre 2012; inoltre nel sito fotografia.guidaconsumatore.com maggio 2011 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Mucciaccia all’inaugurazione delle due mostre, ad eccezione delle n. , tratte dal catalogo, si ringrazia la Galleria e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono riprodotte tutte le opere esposte, nell’ordine in cui vengono citate nel testo. Le prime 15 opere di Patterson, le successive 10 di Quinn. In apertura, Richard Patterson, “Three Times a Lady” 1999; seguono, dello stesso autore, “Come to Mama” 2000, e “The Wedding Party” 2005; poi, “Country Life” 2014, e “Marianne Leflange” 2012; quindi, “Hester van Tojerstraap” 2014, e “Woman at Her Toilet (after Degas)” 2014; inoltre, “Blanco” 2015, e “The Cherry Toolshed Door” 2014; ancora, “A Matter of Life and Death” e “Those suny domes! those caves of ice” , 205; continua, “Small Arm” 1996, e “Christina” 2009; infine, per Patterson, “Portrait of the Artist as an older man” 2009, e “Modern Love” 2017. Inizia Ged Quinn, “The Book of Two Ways” 2013, seguono, dello stesso autore, “Saint Paul” e “Peter, Paul, Mary” 2014, e Every Forsaken Instance, Each Leisurely Disaster” 2013; poi, “Ros, Cherry, Iron Rust, Flamingo” e “Events Arrive on Doves’ Feet”, 2014; quindi, “Bela Forgets the Scissors” 2016, e “Plane, Plank, Nameless Bridge” 2017; infine, “Geography Correct” e, in chiusura,“Model for Contempt”, 2017.

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Ged Quinn, “Model for Contempt”, 2017

Identità e Bandiere, alla Galleria Mucciaccia

di Romano Maria Levante

Ripubblichiamo la recensione uscita senza immagini in www.arteculturaoggi.com il 1° aprile 2018, in questo 4 luglio, “Independence day” identitario per gli Stati Uniti d’America, si riferiscono all’identità in varie forme le due mostre recensite.

La mostra “Eyedentity” di Stefane Graff,  artista franco-inglese che vive a Londra,espone alla Galleria Mucciaccia di Roma, dal 23 marzo al 5 maggio 2018 con la direzione artistica di Massimiliano Mucciaccia,  un’ampia serie di opere, alcune molto spettacolari,  che evocano il tema dell’identità con i suoi risvolti psicologici e umani. Nello stesso periodo la mostra “Flags” di  Daniel Jousseff espone una serie di dipinti raffiguranti bandiere. Le due mostre contemporanee  confermano la vitalità  della galleria e la presenza qualificata  nel panorama espositivo dell’arte contemporanea.

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Stephane Graff, della serie “Mind on Fire”, 2007-2017

“Eydentity”,  di Stefane Graff

Come indica il titolo, è  una mostra all’insegna dell’identità, vista soprattutto  sotto l’aspetto della dissimulazione. E questa si impernia sull’oscuramento degli occhi con un rettangolo nero, perché la loro distanza, a parte l’espressione, è essenziale per il riconoscimento.

“Per Graff – commenta James Putnam nell’introdurre la mostra offre una specie di velo di protezione per i suoi soggetti, mentre nello stesso tempo evoca un’aura di mistero, che innesta curiosità nello spettatore”.

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Della serie Glitch Paintings”, # 1, 2016

Suo ispiratore è  Freud secondo cui – si legge in “Il Perturbante” del 1919 – “ciò che è dissimulato non solo è nascosto gli altri, ma anche a sé stessi”,  riferendosi espressamente “all’idea di essere privati dei propri occhi”; di qui la “scatola nera” che li copre.  L’ombra  rimanda a Jung, per il quale  “l’accettazione del lato oscuro della personalità è essenziale per raggiungere la conoscenza di sé”.  

In una intervista a Costantino d’Orazio, l’artista ha detto che “il riquadro nero è come una porta aperta. Vediamo ciò che vogliamo vedere. vediamo i nostri pensieri, i nostri sogni e le nostre fantasie riflessi attraverso questa porta”.

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Della serie Glitch Paintings”, # 2, 2016

Una ricerca dalle solide basi filosofiche, dunque, di un artista che, oltretutto, non si è limitato all’identità umana,  interessato anche a quella delle opere d’arte  dipingendo dei dittici rivelatori.

I suoi dipinti soprattutto su  tela, ma anche su alluminio e tavola di legno, hanno una base fotografica. la fotografia per lui è uno strumento fondamentale. che ha usato in modo particolarmente penetrante nella serie di foto segnaletiche, come vedremo.  

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Della serie Glitch Paintings”, # 3, 2016

L’artista presenta se stesso con  una originale iniziativa del 2007 per seguire la crescita di un bambino dall’età infantile all’età adulta, sollecitato da scritti esistenziali. Non essendo realistico scattare una foto a un soggetto esterno ogni due settimane per trent’anni, ha semplificato scattando a se stesso una fotografia al giorno per un anno, ottenendo 364 immagini in bianco e nero con lo stesso abito; la 350^ foto à della sola giacca appesa. Ha guardato la sequenza fotografica nel 2017, dopo 10 anni e ha vivacizzato le immagini forzatamente statiche con il getto di sostanze chimiche che hanno dato una colorazione dal blu al rosso, dal giallo al bianco a seconda del tempi di permanenza sulla carta, fino all’effetto di una fiamma.

Ne è nata la serie  “Mind on Fire”, datata appunto 2007-2017. Il fuoco sembra invadere il volto serio e composto dell’artista, nelle 39 foto presentate, che richiamano quelle formato tessera, in giacca e cravatta scure, fiammate che si propagano in modo casuale. Veramente geniale la trasformazione, anzi trasfigurazione, di immagini normali, per non dire banali, in qualcosa di fortemente dinamico.

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dellsa serie Glitch Paintings”, “Decapitated Dressed”

Lo stravolgimento del volto, fino deformarne l’espressione e a renderlo irriconoscibile avviene anche dissestano i volti con una sorta di effetto movimento, in un cubismo picassiano di tipo fotografico, lo si vede nella serie “Glitch Paintings”, del 2016.  L’idea nacque dalle distorsioni che una tempesta elettrica produsse sulle immagini del suo televisore,poi da lui fotografate e reiterate spostando a mano l’antenna. ne abbiamo esempi in“The Yellow Line” e “Man in a Grey Suit”, “Rear Window” e “Bar Gazer”, “Arab Spring” e “Prime Time”; in altri casi i volti sono nascosti  da una sovrapposizione scura che li copre interamente, come  per le due figure femminili di  “Decapitated Dressed” o ne taglia la metà superiore, come in “Forget me Knot” e “The Philosopher’s Beard”.

Neppure il Papa si sottrae a questa operazione, come vediamo in “Pixelate Pope”, è la parte inferiore del viso di profilo ad essere decomposta mentre sulla destra sui accalcano immagini nere anch’esse rese indefinite; parte inferiore del volto nascosta anche  in “Syriana”, opèra di grandi dimensioni, 1,20 per 2 metri, in cui l’intera composizione sembra venire decomposta per piani orizzontali.  

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Della serie Glitch Paintings”, “Pixelate Pope”

Finora immagini singole, in un’opera dell’anno successivo, il 2017,  “The Jury”, 2017, sono i volti di una diecina di figure componenti la giuria a dissolversi, dello stesso anno “The Virdict” in cui, però. dei 6 giudici ritratti soltanto la metà hanno il volto moderatamente sformato  per tale effetto discorsivo.

Queste serie più recenti  sono un’evoluzione della tendenza ad occultare l’identità in vari modi, che, nella prima fase dell’itinerario artistico si era espressa nei cosiddetti “Black Box Paintings“, una vasta serie di immagini fotografiche, le più antiche risalgono al 1996, le più recenti al 2017,  con gli occhi dei soggetti ripresi coperti da un rettangolo nero. Questo procedimento lo avevamo visto diversi anni fa in una mostra al Festival romano della Fotografia, nella serie intitolata “Vietato”. “La scatola nera, afferma James Putnam, “è come un vuoto che non solo rappresenta la perdita della vista, ma è anche un simbolo di crisi d’identità, che è un fenomeno crescente nella società contemporanea”.

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Della serie “Black Box Paintings

Abbiamo immagini di figure singole:  tra gli uomini, “The interview”, 2004-17, che oltre alla figura “schermata”, in primo piano,  reca sulla parete una diecina di ritratti tutti con gli occhi coperti,  “Victorian Painter” e “Fernando de Valdes” del 2006, “De Stael” e “Action Jackson I” del 2007;  tra le donne  “Woman with a Rubber Tyre”, 1997,  “Baillemens Histériques” 2009. e “Dreamer”, 2013-14; tra ragazzi, “Boy in a Black Suit”, 1995, tra i bimbi, “Original Sin I e II”, 2014.  C’è anche la coppia di “Kiss”, 2005, gli occhi schermati  mentre si baciano strettamente abbracciati.

Poi, piccoli gruppi dagli occhi schermati non con i consueti rettangoli neri, ma con strisce avvolgenti, rosa in   “The Collaborators” , 2007, con 3 uomini, e nere in “Triple Cross”, 2008, con 3 donne., e in “Russian Protocol”, 2014,  con 5 teste che spuntano su un tavolo. 5 figure felici in “The Boat Ride”, 2013.

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Della serie “Black Box Paintings“, “Kiss”

Gruppi molto più numerosi, con gli occhi schermati delle persone quasi in posa, da” The Irascibles” con 15 persone – in un’opera vediamo l’autoritratto vicino a questo quadro – a “Ecole des Beaux Arts I“, con 25 persone di cui solo una non schermata, entrambi del 1996, “Passengers”, 2007, con una diecina di persone dagli occhi schermati, e “Crimson Ball” in cui le strisce nere spiccano sull’immagine del ballo in un rosso quasi in dissolvenza; sul rosso sfumato anche “Turkish Manifesto”, 1996, 10 volti schermati rivolti verso l’alto, mentre in “Turkish Spectators”, 2014, le figure dagli occhi schermati sono oltre un centinaio.

Nella stessa logica  di stile e di contenuto la serie “Banquets”, più spettacolare per le grandi dimensioni della maggior parte delle opere esposte. I commensali guardano tutti verso  chi li sta fotografando, e in questo modo si rivolgono allosservatore con gli occhi coperti dal rettangolo nero, una contraddizione; come è contraddittorio il loro stare insieme ma nel contempo essere isolati. Nel contempo l’osservatore si sente attirato nella scena, come se si aggiungesse un posto a tavola. 

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Della serie “Banquets”

Si va da “The Banquet”, 1994-95,  con la particolarità che il centinaio di persone in abito da sera guardano tutte l’osservatore pur con gli occhi schermati, come fossero in posa, a  “The Brasserie”, 2013-14,un solo tavolo imbandito  con una quindicina di persone; poi, del 2013, “Banquet Triptch”, un trittico lungo quasi 6 metri per quasi 2 e mezzo di altezza, e “The Jewish Banquet”, di 1,80 x 3,60, del 2014,  “Bipolar Banquet”,  di 2 x 3 metri, e “Contorsionist Banquet”, con una contorsionista sul  tavolo centrale  tra oltre 100 commensali tutti dagli occhi schermati.

Ugualmente schermati gli occhi della serie “Photographers” , dal 2013 al 2017, individuati da un numero progressivo, con in più una certa rarefazione in dissolvenza delle immagini, che vedremo tra poco accentuarsi in altre serie fino alla scomposizione, e il rettangolo nero sugli occhi, una contraddizione ironica con la loro attività, vi è anche una striscia di colore come nei provini fotografici. E’ evidente che si tratta di un omaggio ai pionieri della fotografia, da lui tanto utilizzata.

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Contorsionist Banquet”

Una declinazione che potremmo dire opposta del concetto di identità, rispetto all’oscuramento degli occhi con le strisce nere visto finora, è la serie delle foto segnaletiche  , intitolata “Mugshots”: sono una ventina, per ciascuno viene esibito lo scatto frontale e di profilo, nel riquadro nome e matricola. i soggetti sono rigidi per l’attesa dello scatto nei lunghi tempi di posa con le macchine fotografiche dl tempo, “Per lui, secondo Putnam, “rappresentano anche una opposizione simbolica alla sorveglianza e alla accessibilità on line dei dati personali”, e si ricollegano “anche al suo fascino verso la fisionomia umana, o al giudizio della personalità dato in base all’aspetto del viso”,  speculare all’oscuramento identitario tramite i rettangoli neri  a copertura degli occhi.

Sono tutte del 2017 –  a parte alcune intitolate “Photofit” alquanto differenziate dalle altre – le segnaletiche intitolate E’ proibito sorridere”, realizzate con soggetti fotografati a Roma durante un evento nella Galleria Mucciaccia, altra prova evidente della sua caratura artistica e organizzativa. Li ha definiti “ritratti anti-identitari”,  identificati da un numero  mentre i nomi sono anagrammati, e questo “oscura e sovverte la loro vera identità”; le serigrafie sono invecchiate artificialmente e in tal modo ha  ottenuto quella che lui stesso chiama “una perfetta combinazione tra pittura e fotografia, utilizzando insieme vernice e materiale fotografico”. 

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Ragazza con nel corpo immagini di ‘Banquets

Ma oltre all’aspetto tecnico esalta l’aspetto umano di quest’operazione: “Durante la ricerca dei soggetti di questa serie, sono rimasto spesso molto impressionato dall’entusiasmo e dal desiderio di partecipazione delle persone.  Che cosa ci dice questo comportamento sulla psiche umana? Quale straordinaria propensione hanno mostrato queste persone ad assumere il ruolo di un criminale e posare  come un gangster o un condannato!”  Non si dà una risposta, ma pensiamo che sia evidente nella stessa sua impostazione, che sottolinea “gli errori di identificazione e le false convinzioni”, i soggetti si sono sentiti non identificati come rei ma come possibili vittime di errori giudiziari.

Oltre alle foto singole ci sono quelle intitolate Eye Totem con un’acrobatica  moltiplicazione degli occhi che allungano a dismisura il viso del soggetto fotografato, maschile e femminile;  dopo la schermatura degli occhi la loro moltiplicazione ci  sembra un fatto rimarchevole. Tanto più che nel “Black Box Mugshots 2” ci sono 18  strisce costituite da  un insieme di foto frontali di visi, prese dalle segnaletiche, ma sorprendentemente con gli occhi schermati ds una linea nera continua.  

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Serata danzante con occhi coperti

Negli anni più recenti a queste forme espressive basate sulla negazione dell’identità e, specularmente, sulla sua esibizione in negativo, sì è aggiunta una quella intitolata “Mille-Feuille”, in cui le immagini non sono schermate ma le identità vengono rese evanescenti da una particolare “sfuocatura,  risultante da una parziale scomposizione realizzata mediante le 100 strisce separate del pannello di legno sul quale le immagini sono dipinte, che vengono opportunamente deviate.  L’idea fu data all’artista da una nuova anomalia nello schermo del suo computer mentre ritoccava un’immagine digitale, il risultato richiama lo sfarfallio: “L’immagine – spiega Putnam – inizia come una foto e diventa un dipinto, le sue parti si separano e si risistemano,  diventa tridimensionale, al contempo pittura e scultura”, evocando anche in questo modo “il tema dell’identità, come personalità dissociata, trauma e memoria frammentaria”.

In due opere del 2015 quest’operazione è soltanto accennata, “Colin Campbell Ross”, dove la composizione si avverte appena nel busto, mentre il volto è nitido, è un “olio su legno e un meccanismo di motorizzazione” non meglio identificato, evoca un tragico scambio di identità per cui un innocente viene impicacto nel 1922 a Melbourne per un omicidio non comemsso. “Schoenberg”, è un volto meno nitido del primo, attraversato soltanto da vibrazioni grafiche. C’è anche “Skull”, un teschio. appena  sfiorato dalla scomposizione.  

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Della serie “Eye Totem”, # 1

Nello stesso anno irrompe un’opera di notevoli dimensioni, lunga quasi 5 metri e alta 1,5, , “Mille-Feuille Banquet“, in cui la scomposizione  altera leggermente, ma in modo evidente, i volti delle centinaia di persone che banchettano, una variante notevole alla schermatura della serie “Banquet”degli anni immediatamente precedenti.  Segue, nel 2016, “School”, lungo più di 2 metri, la tipica classe di ragazze con il grembiule e il colletto bianco schierata, a fianco la maestra, e addirittura il suo “Self Portrait”, quasi avesse voluto sperimentare su se stesso, la peculiare formula espressiva adottata ; poi, nel 2017, “Walking Man” e “Running Man”, che riecheggiano la “Ragazza che corre sul balcone” di Duchamp, anche loro di dimensioni consistenti, 2 m di lunghezza per 1 m di altezza.  Nell’anno c’è anche un ritratto,  “Mayakovsky”, non solo il volto ma la figura seduta, in cui la scomposizione è molto accentuata, e ancora di più lo era in “Unseated Nude”, del 2015,  un’opera propriamente  cubista. 

Non si esaurisce nelle opere fin qui descritte  la feconda e poliedrica attività artistica dell’autore, in “Black Box Paintings” ci sono delle schermature non ai volti ma a particolari dell’ambiente, come in “Metaphysical Seaescape”, 1997 –  anno nel quale abbiamo anche un sorprendente “Freud’s Window”, o delle costruzioni raffigurate, come in “Sonderzugdepot”, 2013,  “Catatonics”, 2014,  “Cabin”, 2015.  Inoltre , sempre tra il 2013 e il 2015, figure intere quali “The Green Mask” e  “Male Nude Study (Back)” e volti in “Eye Operation”, “Restraining Order” ed “Exit Wound”.

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Della serie “Eye Totem”, # 2

E’ un lungo itinerario, quello dell’artista, in un’inquietudine creativa che lo ha portato a esplorare sempre nuove strade  all’insegna dell’identità declinata in modi sempre diversi.  Si può misurare l’ampiezza  del tragitto compiuto considerando la radicale diversità delle prime opere, dalla serie “Constrictions” del 1991, fotografie in bianco e nero segnate da forti contrasti luminosi, con figure nude legate da corde quasi evocando i legacci delle mummie, riferimento divenuto diretto nella serie immediatamente successiva “Earthworks and Mummifications” ispirata da suoi studi sulla mummificazione dell’antico Egitto al Cairo e a Luxor, che si sono tradotti anche in teste modellate nell’argilla e bendate nei modi delle mummie. Con il progetto immediatamente precedente.

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Della serie “Eye Totem”, # 3

Alcune opere risalgono al periodo 1991-97: citiamo  i multipli di “Vulvas” e“Testament”,gli inquietanti “Head” e “Ancien Portrait”, gli enigmatici “Akhenaten’s Dream” e “Mummification Triptych”. Molte altre sono del primo quinquennio del 2000, per lo più senza figure umane,  dai 3 sull’ocra, “Ochre Diptych”, “Ochre Wall”, “Ochre and Grey Composition”  ai 3 rossi “Remparts Rouge”, “Haqqi (Mon Droit)”, “Steps to Kasbah”,  a 3 allusivi, “East Meets West, West Eats Meat”, “Voodoo Fetish” e infine “Marche et Cache”. 

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Walking o Running Man

In quest’ultimo, del 2005, da una piccola finestra  in un parete di tronchi di legno assemblati in modo rudimentale, si affacciano due piccole figure in abiti locali: non sono schermate, esprimono una presenza umana, un’identità rivendicata  che prendiamo come conclusione a un percorso nel quale tante identità sono state nascoste o mimetizzate. conclude Putnam la sua presentazione: “Mentre la sua opera si ricollega alla dissimulazione, Graff paragona il processo creativo ad uno scavo nell’inconscio dove vi è qualcosa di nascosto che aspetta di essere rivelato”. Ed è un’osservazione  che fa riflettere perché attiene alla sfera più intima e riservata di ciascuno.

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Stephane Graff, della serie “E’ proibito sorridere”

“Flags”, di Daniel Jouseff

Un’ “identità” molto diversa quella alla base dell’altra mostra, un’identità mancante, quella di  Daniel Jouseff , che ricerca attraverso le bandiere, “Flags” di tutti i tipi  dipinte a forti colori. La curatrice Louise Hamilton le definisce “bandiere per manifestare i propri pensieri”, ed è abbastanza singolare essendo la bandiera simbolo di un’identità nazionale che l’autore sente di non avere. Ma non si sente neppure “citttadino del mondo”, la mente torna all’ “ebreo errante” senza pace. 

Non si sente “cittadino  del mondo”, perché, come afferma lui stesso, “sono nato e cresciuto in un paese, ma le mie tradizioni erano radicate in un altro”.  Poi  è entrato in scena un terzo paese, e come risultato sente di non appartenere a nessun luogo, ma avverte sempre la forte sensazione dell’attraversamento dei confini. La si prova quando si passa da una nazione all’altra superare la barriera per andare in un mondo diverso dal proprio, ma se non si sa a quale mondo si appartiene, come cambia questa sensazione?  

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Daniel Joussef, “Multicoloured flag with stripes” a sin, e
“Moulticoloured flag pink”” a dx , 2017

L’artista esprime  artisticamente le sue emozioni  attraverso un viaggio ideale reso da mappe, terre e  bandiere, in queste mette tutta la propria inquietudine che lo spinge alla ricerca di una identità virtuale.  

Intervistato da Giulia Abate afferma: “Il mio lavoro è la chiave per scoprire  e comprendere pienamente la mia origine … E le bandiere sono il simbolo per eccellenza dell’identità e del senso di appartenenza” . Proprio perché rappresentano  vaste comunità nazionali  con la loro storia e la loro cultura, le loro tradizioni e i loro costumi. Ma all’artista manca la bandiera, quindi il  senso di appartenenza che dà l’identità: “Io ho vissuto in esilio, nella diaspora, ho da sempre desiderato una casa e posso sventolare la mia bandiera finchè voglio, ma come si può trovare la propria casa quando non sai  dove cercarla?”. 

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Border, pink, satellite” a sin, “Yellow border / satellite” al centro,
Camouflage / border / satellite” a dx, 2018

Per dire il vero la sua sembrerebbe a prima vista una storia normale, nato  in Svezia a Vaxjo nel 1975 e trasferito a Stoccolma dove vive tuttora, dal 2003. Sente tuttavia due culture sovrapposte in lui, aramaica e svedese, perché  una guerra culturale ha privato i genitori della propria lingua, con le cultura araba e turca ulteriormente sovrapposte.  “Non ho la pelle abbastanza scura per esser un mediorientale, ma non sono nemmeno abbastanza biondo per essere uno svedese, allora ho provato ad essere entrambi”, questa la confessione finale. Ne è nato “il caos con il quale mi confronto ogni giorno. Forse le bandiere rappresentano proprio questo mio costante conflitto interiore”. 

Vediamo esposte una quindicina di “flags” dipinte per lo più a olio su tela nel 2017 e 2018,  tutte di fantasia, senza riferimenti a bandiere esistenti. Dalle grandi  “Black/ yellow flag”  su legno e “Black/ black/  flag”,  di 1 metro di altezza,  alle piccole  “Small red  and yellow flag”   e “Small yellow and green flag”, alte circa 30 cm, con i piccoli triangoli giallo e verde su fondo rosso e giallo. Poi le più grandi, alte quasi 1 metro e mezzo, “Multicoloured flag pink” e  “Multicoloured flag with stripes”,  con strisce verticali  con sopra 3 triangoli, entrambe su tessuto. Alte  80 cm -1 metro  le quasi monocromatiche “Flaf/pink/white” e “Greenwhite flag”, quasi solo rosa e verde, e  le bicromatiche “Flag/ blue/ pink” e “Flag/ geren/ orange” in acrilico su carta. In matita e inchiostro su carta  “Graphite grey wood flag“, inchiostro su legno in  “Black/ red wood flag” e “Flag/ wood“, la più piccola di tutte, alta 19 cm. 

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“Green / white flag” a sin, “Black / black flag” a dx

Sono esposte due opere identitarie in modo diverso, come   “Yellow border/ satellite”, “Camouflage / border / satellite” e “Borden patrol” con la scritta “Operation Gate Keeper”; e  altre molto differenti,  come “The book of San Michele decostructed”, copertina e due pagine aperte con dei segni azzurri di cancellature, ben diverse da quelle celebri del nostro Isgrò; e  un  singolare “U.S. President” scritto su una lavagna, “Searching for Illegals”, una scritta nera su fondo rosa. 

Ma rimangono impresse le sue “Flags” per lo più bicolori, e il significato che l’artista attribuisce loro: “Le bandiere rappresentano un processo continuo di attraversamento dei confini e il risultato della mia ricerca di una casa, della mia vera identità”. Ha esposto a Stoccolma nel 1916 e nel 1917 e nel Texas nel “Pop Austin International Show”, ma nella mostra attuale la metà sono opere del 2018,  quindi inedite, e di questo va dato merito alla Galleria  Mucciaccia.  

Vogliamo concludere citando il suo “Self portrait” del 2017: si ritrae con il cappello  e i colori della giubba di Arlecchino: evidentemente continua lo spaesamento e la ricerca di una identità, sarebbe interessante seguirne gli sviluppi. Per quanto ci riguarda siamo tornati con il pensiero alla mostra al Vittoriano tra novembre 2013 e gennaio 2014, nel “Sacrario delle Bandiere”, intitolata “90 artisti per una bandiera”, la bandiera italiana reinterpretata dagli artisti nelle sue molteplici “incarnazioni” storiche. E’ stata data ad ognuno di essi una delle 86 bandiere esposte per le strade di Reggio Emilia, la città del tricolore, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia del 2011, vi si sono ispirati rendendola in forma pittorica. Una precisa identità nazionale espressa in tanti modi convergenti, 90 artisti per una bandiera identitaria, dunque, in quella mostra; un artista per molte bandiere alla ricerca di un’identità in questa mostra. Un altro mondo!  

Da sin ““Graphite grey wood flag” sopra, “Black / red wood flag” sotto,
a dx in alto Black / yellow flag” e al lato “Black white flag” , 2017.

Info

Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella di Borghese 89, Roma. Dal lunedì  al sabato, ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.69923801, www.galleriamucciaccia.com. Cataloghi bilingue italiano-inglese: “Eyedentity”, Stefane Graff”,  Galleria Mucciaccia, febbraio 2018, pp. 330, formato 25 x 29. “Daniel Jouseff. Flags”,  Mucciaccia Contemporary  a cura di Louise  Hamilton, pp.60, formato 20 x 21. Dai cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Per artisti e mostre citati cfr. i nostri articoli: per Duchamp in questo sito 6 aprile 2010 e in www.arteculturaoggi.com 16 gennaio 2014, nel quale cfr. anche i 2 articoli su “Novanta artisti per una bandiera” 14, 15 gennaio 2014; per “Vietato! ” in fotografia.guidaconsumatore. com 31 maggio 2012 (qust’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le imamgini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Mucciaccia alla presentazione delle due mostre, si ringrazia l’organizzaione della galelria, con i titolarti dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 17 sono della mostra “Eyedentity”, quindi di Stephane Graff; le ultime 5 della mostra “Flags”, quindi di Daniel Joussef. In apertura, di Stephane Graff, della serie “Mind on Fire”, 2007-2017; seguono, della serie Glitch Paintings”, # 1, # 2, # 3, 2016; poi, della stessa serie, “Decapitated Dressed” e “Pixelate Pope”; quindi, della serie “Black Box Paintings“, # 1 e “Kiss”; inoltre, della serie “Banquets”, # 1 e “Contorsionist Banquet”; ancora Ragazza con nel corpo immagini di ‘Banquets” e Serata danzante con occhi coperti; continua, della serie “Eye Totem”, # 1, # 2, # 3; prosegue, “Walking o Running Man“; chiude“E’ proibito sorridere”; di Daniel Joussef, “Multicoloured flag with stripes” a sin, e “Moulticoloured flag pink”” a dx , 2017; seguono, “Border, pink, satellite” a sin, “Yellow border / satellite” al centro, “Camouflage / border / satellite” a dx, 2018; poi, “Green / white flag” a sin, “Black / black flag” a dx; quindi, da sin ““Graphite grey wood flag” sopra, “Black / red wood flag” sotto, a dx in alto Black / yellow flag” e al lato “Black white flag” , 2017; in chiusura, “US President” 2018., e . .

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US President” , 2018

Bandiera, 2. Le opere di 90 artisti, nel Sacrario delle Bandiere al Vittoriano

Ripubblichiamo i due articoli usciti in www.arteculturaoggi.com il 14 e 15 gennaio 2014 collegandoli alla recensione alle mostre “Eyedentity” e “Flags”, anch’essa ripubblicata nel giorno dell'”Independence day”, in omaggio ai valori identitari che nella bandiera trovano l’espressione nazionale: un ponte ideale tra i nostri due mondi con una dedica speciale al prof. Steven E. Ostrow, una vita di insegnamento al Massachusetts Institute of Technology, il mitico MIT nel quale ha diffuso – e continua a farlo – la sua cultura classica di innamorato dell’Italia.

di Romano  Maria Levante

Abbiamo già descritto motivazioni  e aspetti dell’iniziativa da cui è nata la mostra “Novanta artisti per una bandiera”, al “Sacrario delle Bandiere” del Vittoriano dal 22 novembre 2013 al 31 gennaio 2014. A ciascuno dei 90 artisti è stata consegnata una delle 86 bandiere esposte nelle strade di Reggio Emilia nelle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia  perché vi si ispirasse nel creare un’opera d’arte da donare per la costruzione in città di un moderno Ospedale per la Donna e il Bambino. Ora descriviamo tutte le 90 opere create per tale iniziativa, esposte nella mostra al Vittoriano, in una rassegna completa e senza omissioni, forse noiosa ma specchio dell’arte e insieme della storia. Distinguiamo le opere  più vicine all’originale dalle interpretazioni più libere. Massimo Parmiggiani ha realizzato l’iniziativa, compresa la ricerca degli artisti, e ha curato la mostra ed il Catalogo di Corsiero Editore con raffigurate tutte le opere e le singole bandiere, e riportate  ampie schede biografiche dei 90 artisti: una documentazione preziosa e spettacolare.

Bruno Ceccobelli

Le opere meno lontane dall’originale

Molte bandiere le ritroviamo ben evidenti  nelle opere,  ma sempre il tocco geniale apporta una variante o un contorno che le trasforma in un qualcosa di diverso ma non lontano dall’originale.

Cominciamo con l’opera  di Alberto Andreis, che ha dipinto nel retro della Bandiera del Regno d’Etruria, del 1801, pezzi di architettura a costruzione dell’identità nazionale; poi Roberto Barni che intorno alla Bandiera del granducato di Toscana, 1765, colloca le sue figure filiformi; Davide Benati con il Tricolore dei moti del 1831 e Domenico Bianchi con il drappo azzurro e lo Stemma in oro della Presidenza della Repubblica di Saragat, 1965; Danilo Bucchi con la Bandiera navale sarda dei quattro mori, 1799-02, ne ha ingrandito uno tra sagome appena accennate, mentre Enzo Cacciola  ha appiattito in una linea il bianco dell’antica Bandiera mercantile di bompresso  in vigore dal 1793 al 1946; Giovanni Campus ha scomposto la Bandiera del Regno di Sardegna, dopo il 1765,  ed Eugenio Carmi inserisce la “sezione aurea” nel Tricolore  partigiano di Giustizia e libertà, 1943-45; Tommaso Cascella  interpreta la bandiera della Marina mercantile italiana, 1947,  “aspettando il vento” che ne mescola i colori, e Bruno Ceccobelli inserisce la scritta “Natura Super Natione” nella Bandiera del 1802 della Repubblica Cisalpina di Napoleone.

Giuliano Della

Di Bruno Chersicla un grande stemma per il Tricolore del 1706 della Legione Lombarda,  e di Andrea Chiesi un traliccio nel tricolore della Guardia nazionale veneta nella Repubblica di San Marco di Manin e Tommaseo, 1848; Pier Giorgio Colombara  pone “tra i rami” il simbolo delle Brigate Fiamme Verdi partigiane, 1943-45,  e Angelo Davoli inserisce  il logo “Quanto generoso amore” di CuraRE Onlus nella Bandiera dai colori codificati del 2 giugno 2004. Sandro De Alexandris  presenta lo stendardo reale di Casa Savoia in vigore dal 1881,  ripiegato nel 1946, mentre Lucio Del Pezzo immette propri motivi nella Bandiera del Regno di Napoli di Murat, 1801-1815. Giuliano Della Casa  depura del fascio e degli allori lo Stendardo della Seconda Repubblica Cisalpina ed  Enrico Della Torre squaderna la Bandiera della Repubblica partigiana della Val d’Ossola, 1944; mentre  Marco Ferri  inserisce motivi geometrici nella Bandiera del Regno d’Etruria del 1801, ed Ennio Finziingrandisce lo Stemma di Presidente emerito di Ciampi, 2001.

Laura Fiume  immette un rebus sull’iniziativa umanitaria nella Bandiera della Repubblica proclamata dai francesi a Roma nel 1798, e Antonio Freiles come Emilio Isgrò interpreta il Tricolore con al centro la Trinacria del governo insurrezionale siciliano del 1848: entrambi mantengono, nei loro stili, la figura centrale, il primo togliendo i colori, il secondo con le sue caratteristiche “cancellature”. Omar Galliani  presenta l’aquila rampante su fondo blu del Ducato del Friuli quasi immutata, e Marco Gastini  una grafica al centro del Tricolore della Prima Repubblica Cisalpina del 1797-98.  Giorgio Griffa inserisce dei motivi nello Stendardo dei Re d’Italia 1861-81 e Franco Guerzoni vede la Bandiera della Confederazione Cispadana, 1796-97,  a mo’ di sipario. Paolo Iacchetti scompone il Tricolore presidenziale senza stemma di Cossiga,1992.

Tullio Pericoli

Riccardo Licata, Tetsuro Shimizu e Ilier Melioli, tutti e tre con la Bandiera della Repubblica anconitana del 1797-98: il primo vi inserisce dei segni, il secondo ne dà la dissolvenza cromatica, il terzo trasforma in angolari le strisce del vessillo; mentre Claudia Losi trasforma in una protettiva tenda canadese vera la Bandiera con l’aquila imperiale del Regno d’Italia Napoleonico, 1805-15,  e Luigi Mainolfi  fa piovere grani sulla  bandiera del Regno di Sardegna utilizzata per il Regno d’Italia dal 1861 al 1863; Mirco Marchelli  pone sulla punta di tre lance la Bandiera di terra e di mare adottata a Milano nel 1802, e Umberto Mariani vela appena il vessillo immaginato da Carlo Pisacane senza riferimenti monarchici, 1857; Giovanni Menada  ingrandisce lo stemma del Tricolore di Stato in mare per navi non militari dal 2003, mentre  Hidetoshi Nagasawa  introduce  motivi particolari nella Bandiera dei  Cacciatori a Cavallo di Napoleone del 1805, e Gianfranco Notargiacomo trasforma in bandiera lo Stemma dello Stato Maggiore della Difesa del 2000.

Claudio Olivieri sfuma in nero la Bandiera carbonara del 1820-31, e Tullio Pericoli nel suo “Paesaggio con bandiera” aggiunge una serie di elementi grafici alla Bandiera di bompresso  per mercantili dal 1947, che resta in un angolo.  Lucia Pescador “semina croci dell’arte” nello Stendardo adottato nel 2000 dal Presidente Ciampi, e Oscar Piattella verticalizza le strisce dell’arcobaleno della Bandiera della pace adottata da Aldo Capitini nella prima marcia di Assisi del 1961. Pino Pinelli  trasforma in tre croci i colori del Tricolore francese del 1794-1812, e Graziano Pompili disegna un “paesaggio cispadano”  con una piccola scatola decorata sopra al tricolore cispadano del 1797, sbiadito;  mentre Concetto Pozzati nel fazzoletto recante motti della resistenza a Venezia del 1849,  inserisce una serie di citazioni, e  Mario Raciti copre con un velo parte delle insegne, tra cui un fascio, della Guardia nazionale milanese del 1796.

Bruno Raspanti

Jacopo Ricciardi  sfuma in orizzontale il  bianco e giallo della bandiera dello Stato della Chiesa 1808-70,  e Leonardo Rosa  inserisce le “tracce del tempo” nel Vessillo partigiano del Corpo Volontari della Libertà, 1944;  Ruggero Savinio  pone una figura seduta appena abbozzata a lato della Bandiera del Papa re, Pio IX, 1848, e Antonio Seguì presenta il tricolore dei Mille di Garibaldi del 1860 recante al centro lo stemma sabaudo rimpicciolito e deformato in mano  a Garibaldi con i garibaldini a cavallo in una suggestiva panoramica dal titolo “A la Victoria”;  Tino Stefanoni  ingrandisce artisticamente il logo delle iniziative del 150° recante tre tricolori, e Guido Strazza  traduce il tricolore mazziniano della Repubblica romana con al centro le parole “Dio e popolo”, 1848-49,  in una fuga orizzontale degli stessi colori; Wainer Vaccari  compie una rielaborazione fedele del Tricolore di Piacenza e Modena del 1859, mentre Pietro Mussini rielabora in colori diversi il Tricolore che ne incorpora uno piccolo di uno studente greco dei moti di Bologna del 1831. Valentino Vago inserisce le immagini sacre dell’Annunciazione e del Crocifisso nella Bandiera amaranto e gialla dello Stato della Chiesa  in vigore fino al 1808 senza le chiavi di Pietro.

Walter Valentini  presenta, ripiegata sotto un cielo stellato, in un’ambientazione suggestiva, la bandiera  della Brigata Partigiana Garibaldina dal nome dei fratelli Cervi, del 1944, con la stella rossa e i segni neri evocanti gli uccisi in file di 7 come i fratelli, e Paolo Valle la bandiera dei Volontari della Morte  delle  “cinque giornate” di Milano del 1848 cui ha sovrapposto segni e simboli grafici molto marcati, alcuni nei caratteri di Capogrossi. Mentre  Wal aggiunge figure tra il totemico e l’infantile ai colori della Bandiera del Ducato di Modena e Reggio, 1830-59, prima dell’annessione al Regno d’Italia, e William Xerra la grande scritta “Vive” sulla Bandiera del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, 1847-50. Infine Gianfranco Zappettini  colora di bianco la bandiera blu con 12 stelle del Consiglio d’Europa del 1950.

Marco Ferri;

E’ una carrellata nella storia patria, per questo abbiamo citato anche gli anni delle bandiere, che richiamano gli eventi popolari e bellici che li hanno contrassegnati imprimendosi nella memoria. Sono le tante tessere del mosaico unitario costituite dai Ducati, dai Comuni, dai movimenti popolari, e dalle lotte risorgimentali fino alla resistenza, espresse sempre in vessilli gloriosi,  fino a quello del Consiglio d’Europa che inizia un nuovo percorso unitario, questa volta a livello europeo.

I 60 artisti citati finora hanno interpretato le rispettive bandiere, come abbiamo visto,  restando aderenti al tema in modi diversi. L’originale è sempre riconoscibile, nella forma o nel colore, o con dei richiami ben evidenti che abbiamo cercato di indicare sia pure sommariamente.

Completiamo la rassegna passando alle opere in cui la libera interpretazione dell’artista si è allontanata maggiormente dalla bandiera cui si è ispirato, fino a rendere il nesso irriconoscibile.

Giovanni Campus

Le variazioni sul tema più libere

Luca Alinari con il tricolore del Granducato di Toscana del 1848, mostra un volto femminile dai grandi occhi senza contorni  intitolato “La bandiera senza la quale”, che lui stesso commenta così “Ogni uomo è un inganno. Ci salva la bandiera”. Mentre di Giosetta Fioroni un moderno volto femminile con occhiali neri contornato dai capelli e la dedica “Per la Donna col bambino da… Giosetta Fioroni”, la finalità benefica prevale sul riferimento alla bandiera, che nella circostanza era quella della Serenissima di Venezia del 1797. “Donne” è il titolo dell’opera di Antonio Marras, due figure stilizzate appena abbozzate, molto diverse dai visi netti delle due opere appana citate, su uno sfondo con i colori della Bandiera di terra  e mare della Repubblica Cisalpina de1 1802. Un viso di donna anche nell’opera “Cheval-roi & cephalopode” di Pat Andrea, con tante gambe, un cavallo coronato e l’aquila in riposo, sono gli elementi reinterpretati ironicamente dello stemma  della Bandiera  del Regno di Napoli di Giuseppe Bonaparte  del 1805-08.

Assadour interpreta i colori della Bandiera mazziniana del 1831 con il motto al centro in due opere dal titolo “Itinerario di una bandiera/ Storia di una bandiera”,  utilizzando le sue geometrie enigmatiche, e  Gabriella Benedini si ispira alla Bandiera garibaldina, che dopo l'”obbedisco” di Teano dovette attendere dieci anni per  tornare a Roma, con l’opera “Il cielo del 26 ottobre  1860”, il giorno di Teano,  un collage del firmamento con astri e corpi vaganti tra cui molto in piccolo in alto si intravede la minuscola bandiera. Alfonso Borghi si allontana dalla Bandiera della Prima Repubblica Cisalpina” del 1797-98,  con “Immagine, omaggio a John Lennon”, una stesura materica in rosso, frastagliata, recante la scritta evocativa REPU. Vi accostiamo idealmente “I fiori e la bandiera” di Fausto De Nisco, ispirata al vessillo del Regno d’Italia con lo stemma sabaudo del 1861, per l’assemblaggio di forme in parte geometriche.

Roberto Casiraghi con “Essere”, forme fluttuanti e addensamenti, interpreta il Tricolore dai colori francesi a bande verticali che durante la rivoluzione del 1848  sostituì provvisoriamente quello orizzontale; lo stesso tricolore viene interpretato da Marino Iotti “nel vento”, un collage di grigi con un lembo rosso a ricordare con un solo colore la bandiera.  Elio Marchegianiinserisce nel  lenzuolo bianco divenuto simbolo dell’impegno comune contro la mafia dopo la strage di via D’Amelio del 1992,  un  triangolo dal vertice in basso con reiterate in crescendo verso l’alto le figure di Falcone e Borsellino. E Attilio Forgioli nel suo “Paesaggio con tricolore”, in una bandierina  a margine riporta i forti colori del vessillo di Ferdinando II del 1848, senza stemma, mentre le delicate tinte pastello delineano l’ambiente, chissà se anche i raduni degli alpini cari all’artista. Alessandro Gamba rende il tricolore codificato il 2 giugno 2004  con l’installazione “Come… in croce”, forse perché si era scoperto che il tricolore al Parlamento Europeo era irriconoscibile con il rosso tendente all’arancione, di qui la rigorosa codifica.

Di Marco Grimaldi “Senza titolo”, dove  si intravvedono appena, dietro forme verticali fluttuanti  in primo piano, i colori del tricolore della seconda Repubblica Cisalpina del 1800-02.   Mentre “Segnale di pericolo” di Carlo Mastronardi, un triangolo rovesciato dalle pennellate grevi,  richiama nel cromatismo il tricolore del giugno 1860 adottato nel  Regno delle Due Sicilie da Francesco II dopo i Mille. Elisa Montessoriinterpreta lo Stemma della Repubblica adottato dai deputati costituenti con “Articolo I della Costituzione  italiana”,  il testo è riportato in scritte in più lingue, con grafiche evocanti il lavoro.  E Giulia Napoleoni dinanzi al simbolo di un’illusione del 1848 –  le reiterate immagini di Pio IX  inquadrate nel tricolore – con tre piccolissime colonnine dai colori diversi esprime forse lo stravolgimento delle illusioni, e annega il tutto nel cromatismo preferito, una vasta campitura blu, in parte variegata, “Prussia-Cobalto” è il titolo.

Nunzio interpreta la Bandiera delle Brigate garibaldine, del 1944-45 – al centro una stella rossa nel tricolore recante l’immagine dell’eroe – nel suo “Tegola nera con dentro la bandiera”, di cui si intravede appena un lembo, forse per proteggerla nascondendola.  E Bruno Raspanti  si ispira alla Bandiera di Napoleone Bonaparte del 1802 della Repubblica Cisalpina con una composizione che esprime, nelle sue parole, “precarietà, evocazione, nomadismo, spazio in cui le cose devono abitare, e soprattutto inattuabilità”. Dal canto suo Giovanni Sesiarende lo spirito di commozione e reazione civile dello striscione con su scritto “E adesso ammazzateci tutti” dietro cui sfilarono i ragazzi di Locri nel 2005 dopo l’assassinio di Francesco Fortugno, con un’opera in tecnica mista su  base fotografica “I caduti fella strage di Locri”, un lenzuolo insanguinato  davanti alla lapide con i nomi delle vittime della mafia.  

Carlo Nangeroni

Medhat Shafik  interpreta la Bandiera di Napoli del 1798-99  con il “Canto epico”, quattro livelli  in verticale con incorporati oggetti nei quali è racchiuso il significato, e Aldo Spoldi per la Bandiera degli Usseri della Repubblica Cisalpina 1797-98  presenta un “Garibaldino a cavallo”,  un vero  e proprio Guidoriccio da Fogliano in chiave risorgimentale, mentre per Mauro Staccioli il tricolore della Costituente del 1947 è la  “Bandiera avvolta su ramo o radice”, a forma di V, simbolo di vittoria.  Nani Tedeschi  si riferisce allo Stemma del Regno delle Due Sicilie, fino ai Mille del 1860,  con l’opera “Dietro ogni bandiera c’è un convitato di pietra”, Garibaldi sul cavallo bianco, davanti al vessillo con il leone  incoronato, in alto una colomba bianca nel cielo blu cobalto.

Spettacolare “Celebra (R.E.) la bandiera” di Nino Migliori, per la Bandiera di bompresso di navi non militari del 1947,  presenta una fotocomposizione arcitettonica  con un tempio al culmine. Mentre Carlo Nangeroni mantiene il campo azzurro della bandiera dell’ONU, ma trasforma il piccolo planisfero tra due foglie d’alloro dello stemma al centro, in una sorta di sistema solare, gli astri sono molti cerchi dal bianco al nero passando per un celeste che si confonde quasi con lo sfondo e ruotano in orbite circolari, forse le principali aree del pianeta; il  planisfero diventa così un empireo dantesco, di certo lontano dalla realtà tormentata, ma aderente all’ideale di pace dell’ONU.

Tommaso Cascella

La rassegna degli ultimi 26 artisti termina con questo finale planetario ispirato alla bandiera dell’ONU, e conclude la cavalcata tra le 90 interpretazioni artistiche di bandiere espressive di mondi ben più ristretti e lontani nel tempo, ma che hanno il respiro della storia ed evocano figure ed eventi  patriottici indimenticabili. 

C’è  infine un ultimo – o primo – artista, la cui opera collega artisticamente l’omaggio alla Bandiera con la Donna alla quale é dedicato l’Ospedale per la Donna e il Bambino reso possibile per il contributo dato dalle opere esposte. E’ Ilario Tamassia,   l’opera è  “Libertà con donna a specchio e bandiera”: due vessilli e un’alta figura femminile con le braccia levate in alto realizzata con pezzi di  specchio, i frammenti del terremoto. “Il dolore è un ponte che raggiunge l’Amore”, ricorda l’artista.

Questo  e tutto il resto ci sembra da non dimenticare. Perciò abbiamo voluto fissarne il ricordo.

William Xerra

Info

Complesso del Vittoriano, Sacrario delle  Bandiere (ingresso laterale del complesso destro Piazza D’Aracoeli). Tutti i giorni ore 9.30-15,30, lunedì chiuso. Ingresso libero. Tel. 02.36755700, http://www.ciponline.it/. Catalogo: “Novanta artisti per una bandiera”, a cura di Sandro Parmiggiani, Corsiero Editore, marzo 2013, pp. 198, formato 24 x 28, euro 20,00; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito il 14 gennaio 2014. Per due tra i 90 artisti cfr. in questo sito anche i nostri articoli “Giosetta Fioroni, monocromie  e ceramiche alla Gnam”, 11 gennaio 2014, e “Isgrò, il modello Italia nelle ‘cancellature’ alla Gnam”,  16 settembre 2013.

Foto

Le immagini sono state fornite dagli organizzatori che si ringraziano, con i titolari dei diritti. In apertura, la bandiera di Bruno Ceccobelli, seguono  quelle di Giuliano Della e Tullio Pericoli; poi di Bruno Raspanti e Marco Ferri; quindi di Giovanni Campus e Carlo Nangeroni, inoltre di Tommaso Cascella e William Xerra; in chiusura, la bandiera di Nino Migliori.

Nino Migliori