Emigrazione, il suo ruolo, il Museo al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, l’8 novembre 2011 si è svolto il convegno sul “Ruolo dell’emigrazione italiana nell’Unità nazionale”,  nel segno delle parole di Donna Galbaccia secondo la quale “non è possibile comprendere la creazione dell’Italia né il movimento volto a definire una nuova nazione degli italiani senza tenere conto delle emigrazioni”.  L’incontro si è svolto nell’ambito del Museo dell’Emigrazione Italiana del Vittoriano, con l’introduzione dell’allora sottosegretario Mantica, gli interventi di Nicosia direttore del Museo e Prencipe coordinatore del Comitato scientifico nonché le relazioni di studiosi sui  paesi di accoglienza, primo tra tutti l’ambasciatore dell’Argentina Di Tella.

La sala Zanardelli era affollata la mattina del Convegno che si è protratto per l’intera giornata. Nella pausa delle 13 la vista mozzafiato della terrazza  del Vittoriano, e poi la visita emozionante del Museo dell’Emigrazione Italiana al pianterreno, guidata dal Coordinatore del comitato scientifico del Museo Lorenzo Prencipe, che ha moderato il Convegno arricchendolo di dati precisi.

Mantica: dalla rimozione alla celebrazione

In una giornata cruciale per la politica il sottosegretario  agli esteri pro tempore Alfredo Mantica, è stato presente per tutta la mattinata, con un un intervento andato ben oltre il rituale indirizzo di saluto. Ha esordito con una verità difficile da ammettere: per lungo tempo l’emigrazione è stata considerata come “una storia di serie B, quasi da averne vergogna, comunque da dimenticare. Seguiva le due guerre,  rifletteva  uno stato di miseria da cui fuggire, momenti difficili, perché ricordarlo?” Peter Kammer dirà poi che sono i tedeschi a doversi vergognare di come li hanno trattati, non gli italiani per essere emigrati; Mantica, tuttavia, ci sembra abbia colto un sentire diffuso, da noi verificato anche direttamente nel paese natale, ed ha avuto il coraggio di esternarlo.

Nei 150 anni dall’Unità si è capito di dover ricordare questa storia, non solo di sofferenze ma di successi personali e contributi allo sviluppo dei paesi di destinazione. “Successi costati lacrime e sangue, che però hanno mostrato la capacità della nostra gente di  affrontare le temperie della vita, inventandosi nuove opportunità con coraggio e spirito di iniziativa”.  I nostri emigrati sono partiti con le loro identità regionali e di campanile, hanno acquisito l’italianità mescolandosi agli altri, come nelle trincee della prima guerra mondiale. Non c’è contraddizione, nell’appartenenza regionale si riconosce l’italianità che si nobilita nello spirito identitario che nasce dal campanile. “L’Unità d’Italia è stata realizzata mettendo insieme tante diversità”, o se si vuole tante identità. La stessa dicotomia Nord-Sud non esiste nell’emigrazione, se si pensa che le maggiori provenienze dei nostri emigrati sono dal Veneto, seguito dalla Sicilia e al terzo posto troviamo la  Lombardia.

Mantica ha accennato anche al contributo dato storicamente alla crescita del paese con le rimesse dei loro risparmi e alla nuova forma di emigrazione “in business class” di ricercatori e altri “cervelli” che cercano all’estero spazi qui sempre più ristretti: Ma si tratta di temi che saranno sviluppati in seguito, come quello del Museo dell’Emigrazione,  nato sotto l’egida del Ministero degli Esteri per dare un riferimento unitario agli oltre 50 musei locali dell’emigrazione, anche minuscoli: come quello nell’isola di Salina per le Eolie nella casa d’origine di un emigrato.

Nicosia e Prencipe per il Museo dell’Emigrazione italiana

Del Museo dell’Emigrazione Italiana ha parlato Alessandro Nicosia che ne è il Direttore ed è il “dominus” delle manifestazioni e mostre del Vittoriano con la sua “Comunicare Organizzando”: ha realizzato altri convegni per i 150 anni dell’Unità, il nuovo spettacolare allestimento del Museo storico del Risorgimento, e mostre della memoria, come quella sul “Milite ignoto” e il viaggio del treno commemorativo, e di grande valore culturale come quelle sui più grandi artisti.

Già il sottosegretario aveva citato i musei locali sparsi per l’Italia, Nicosia ha aggiunto particolari ed ha anche parlato dei musei dell’Emigrazione sorti nel paesi di accoglienza, tutte iniziative per non disperdere la memoria e mettere in rapporto presente e passato. Il Museo Nazionale dell’Emigrazione nasce il 23 ottobre 2009 come raccordo e momento culminante delle tante iniziative locali con le quali ci sono contatti e scambi fecondi. Il Vittoriano è apparsa la sede ideale, perché dopo una chiusura durata vent’anni, con la presidenza Ciampi è diventata la Casa degli Italiani, simbolo dei valori che danno il senso di appartenenza. Per l’Unità che si realizza nella diversità cita le 16 statue del frontone, realizzate nel 1907,  per rappresentare le 16 regioni italiane, ciascuna ad opera di scultori  della regione simboleggiata. “La memoria ci rende soggettivamente e oggettivamente quello che siamo”, ha detto Nicosia, il Museo dell’Emigrazione è un museo della memoria, e prima che si disperdesse definitivamente è stato “messo a sistema” il vastissimo materiale raccolto in modo che sia accessibile a tutti con il concorso di tante istituzioni e di 60 generosi prestatori. “In questi 150 anni l’emigrazione è la cornice per definire l’identità nazionale”.

Sono 5 le sezioni cronologiche con materiale documentario di vario genere, la prima sull’Italia preunitaria e il periodo 1876-1915, poi la fase con le due guerre tra il 1916 e il45 e il dopoguerra fino al 1976, infine la realtà attuale e la nuova immigrazione, la storia si ripete a parti invertite.

Il coordinatore del Comitato scientifico Lorenzo Prencipe ne ha poi illustrato i particolari nella visita al Museo, ma prima è intervenuto anche lui sui temi generali; ha confidato che nel presentare il Museo all’estero, sentiva dire “finalmente siamo qualcuno per l’Italia che si ricorda di noi”; la rimozione, quindi, non c’è stata solo da parte dei singoli per le storie personali volutamente dimenticate; ma anche da parte delle istituzioni fino alla svolta con il sigillo del presidente Napolitano  che ha considerato l’apertura del Museo un evento per riflettere sul cammino compiuto e sulle prospettive, da collegare all'”impegno a lavorare per risolvere i pressanti problemi condividendo una memoria comune  per condividere un futuro comune, che può dare la forza per affrontare le sfide”.

Prencipe è entrato nel vivo dei temi, ricordando come l’emigrazione sia stata una valvola di sfogo per la pressione demografica ed occupazionale, e le rimesse degli emigrati un notevole contributo all’equilibrio della bilancia dei pagamenti quindi allo sviluppo economico del paese.  E’ stato un itinerario di privazioni, ma la cultura del lavoro lo ha fatto percorrere con successo. Oggi nei paesi di destinazione i nostri connazionali contribuiscono al rafforzamento delle relazioni con l’Italia  e alla diffusione della lingua e della cultura italiane.  Il Museo dell’Emigrazione affianca il Museo del Risorgimento perché l’Italia si è fatta con le armi dei combattenti e con il lavoro anche all’estero degli emigrati: “Partiti per l’estero da ‘regionali’ sono diventati ‘italiani  imparando, e poi insegnando, come sia importante mettersi a confronto e in relazione con gli altri”

Circa 29 milioni sono stati gli emigrati dal 1861, con oltre 26 milioni nel secolo 1876-1976: Ammonta a 11 milioni il numero di emigrati rientrati, portando in patria un patrimonio di conoscenze e relazioni, capacità e risorse economiche. E’ stato detto giustamente che non è possibile comprendere la storia d’Italia senza tener conto dell’emigrazione italiana”.

Prencipe ci ha accompagnato nella visita al Museo illustrando le scelte espositive: sulla fase preunitaria sono descritti visivamente i diversi momenti dell’emigrazione, l’attesa e la partenza, l’arrivo e la selezione, l’inserimento nel lavoro e le tragedie minerarie. Gli elementi dell’integrazione sono declinati nella scuola e nella religione, nelle associazioni e nella stampa, infine nella casa che una volta acquisita trattiene all’estero. Nulla di  pedante e didascalico, tutto per immagini e carte dell’epoca, anche cartoline con foto locali e vignette scherzose, nessuna ricerca del pittoresco, pochi oggetti esposti: le fatidiche valige di cartone e i bauli, gli strumenti musicali e gli arnesi di lavoro, come le lampade dei minatori.  La storia incalza, gli emigrati sono al centro di attenzioni interessate, e anche di ostilità, accomunati nelle immagini della delinquenza comune e del terrorismo anarchico, gli innocenti Sacco e Vanzetti pagarono per tutti. Poi, ecco il crinale del regime fascista che cercò inizialmente di ostacolare le partenze e di due guerre mondiali quando venivano internati se  l’Italia era il paese nemico.

Irrompe nel Museo il secondo dopoguerra, il via alla ricostruzione  all’interno e a una politica che favorisce l’esodo verso l’estero come valvola di sfogo. Le tragedie minerarie sono in agguato, da Managua con 500 morti a Mercinelle con quasi 200. La conclusione con una finestra colorata sull’immigrazione nel nostro paese e l’insorgere  di un flusso verso l’estero di emigrati intellettuali.

Abbiamo soltanto accennato ai contenuti di  un’esposizione di grande spessore e accuratezza; la vista è curata con i video e una cornice avvolgente di immagini filmate che accompagnano il visitatore, l’udito con le note di  “Partono i bastimenti” nelle sale, e musiche in cuffia, perfino “Ciao, amore, ciao”, di Luigi Tenco, con la “strada bianca” dell’emigrante, un’emozione in più.

Come emozionante è stato il filmato  “Italiani nel mondo: la storia” proiettato nel convegno  alla ripresa pomeridiana, ha  ripercorso le fasi storiche  con dovizia di immagini e un commento preciso e puntuale da parte della stessa guida d’eccezione, il direttore Lorenzo Prencipe. Un “en plein”.

Il Convegno è continuato con le relazioni per paese  “tra storia e attualità e nel rapporto con l’Italia” iniziate già al mattino, ne daremo alcuni brevi tratti.

Le analisi sull’emigrazione italiana nei principali paesi

La parte speciale – seguita all’inquadramento generale sul significato della nostra emigrazione nel definire l’identità nazionale nel processo unitario dei 150 anni, di cui abbiamo dato conto – si è concentrata su alcuni dei principali paesi di destinazione, Argentina e Perù, Australia e Svizzera, Germania e Stati Uniti. Per ogni paese, alla premessa di Prencipe che ha indicato i flussi migratori  nelle varie fasi dando un’utile dimensione quantitativa,  è seguita l’analisi dei relatori, docenti universitari  con la significativa presenza dell’ambasciatore di un paese di destinazione.

Delle analisi  ci limitiamo ad evidenziare alcuni aspetti  che ci hanno maggiormente colpito, non potendo ripercorrere gli specifici itinerari che assumono connotati diversi nelle specifiche storie delle nazioni di accoglienza. E allora per l’Argentina  il relatore Torcuato di Tella era la prova vivente del percorso di crescita, essendo diventato da figlio di emigrati l’ambasciatore di quel paese in Italia. Non ha nascosto le difficoltà incontrate  dagli emigrati pur in un paese dove la maggioranza della popolazione è di origine italiana e i nostri emigrati hanno rappresentato il 30% del totale, percentuale doppia rispetto agli Stati Uniti.  Ma a differenza degli Usa, in Argentina gli emigrati non  potevano prendere la nazionalità, avendo minori diritti nel processo di integrazione.

Subito dopo da Enzo Borsellino è stato presentato il quadro del Perù con un dato che, a differenza di quanto si crede, ha posto anche questo paese al centro dell’attenzione sui flussi migratori dall’Italia: tra il 1920 e il 1940 c’erano già 40 sindaci italiani.  Inizialmente gli emigrati erano soprattutto marinai e commercianti, poi vennero i religiosi, i flussi si intensificarono dopo l’indipendenza, soprattutto dalla Liguria e con prevalenza della capitale Lima. Oggi abbiamo anche un flusso di immigrati in Italia dal Perù che sfiora le 100 mila persone. Abbiamo detto che Borsellino ha presentato un “quadro” del paese: in effetti ha mostrato pure molti quadri e anche sculture di una mostra permanente dell’arte italiana nel paese, nata da una lettera di due emigrati ad Ugo Ojetti.  E’ stato un momento esaltante  la cavalcata dell’arte sullo schermo, sarebbe bello poter avere quella mostra al Vittoriano, una  prova  che l’Italia oltre alle braccia ha esportato cultura.

Per l’Australia padre Fabio Baggio, dell’Istituto Scalabrini per l’Emigrazione, ha portato una parola significativa perché in molti casi, e soprattutto nel paese da lui descritto, i missionari sono stati gli apripista. Dalla fase in cui la nostra emigrazione è risultata  a carattere individuale e quindi sporadica fino alla prima guerra mondiale – mentre i maggiori flussi venivano dall’Inghilterra, quasi una emigrazione interna per le affinità e gli stretti legami – al fenomeno di massa dopo l’ultima guerra che ha reso gli italiani il secondo gruppo tra gli immigrati in quel lontano paese.

Dal più lontano al più vicino, la Svizzera, ne ha parlato Michele Colucci, sottolineando come in una prima fase fosse soprattutto meta dei fuorusciti, dall’epoca risorgimentale al fascismo, citando il caso del sindacalista Giuseppe Di Vittorio. Tra la fine dell’800  e l’inizio del ‘900 la grande stagione dei trafori alpini ha alimentato un flusso di emigrazione per lavoro ingrossatosi sempre più. E qui il relatore si è immerso nella complessità del fenomeno che vede intrecciarsi diversi tipi di flussi, “rotatori” per i frontalieri e stagionali ma anche permanenti, questi ultimi contrastati  da un paese che non avrebbe voluto che i lavoratori vi si stabilissero. A differenza della vicina Germania, un 20-30% di emigrati sono andati nell’agricoltura; si aggiunge la mancata partecipazione alla Comunità Europea che ha posto seri problemi di diritti negati, sul piano della tutela e della previdenza e della domanda di cittadinanza. Dopo l’accordo del 1955 ci fu un’impennata nei flussi,  e l’ostilità alla permanenza portò al Referendum degli anni ’70  che vide sconfitti gli antiitaliani.

La relazione di Peter Kammerer  sulla  Germania ha allargato il quadro agli effetti dell’emigrazione sul paese di destinazione e di provenienza. Sulla Germania il contributo allo sviluppo, in particolare dell’industria, è stato notevole, ma lo è stato anche allo sviluppo dell’Italia per aver alleggerito la pressione demografica e sul mercato del lavoro, e con le rimesse il cui apporto ha contribuito all’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Dalla caratteristica “rotatoria” dei flussi iniziali per un ritorno dopo un certo periodo,  si è passati a flussi permanenti ma con caratteristiche peculiari. La vicinanza dei paesi ha reso paradossalmente difficile l’integrazione perché gli emigrati si sono sentiti “italiani in Germania e tedeschi in Italia” nei ritorni. E’ mancata una crescita nel modello europeo che dovrebbe far superare le origini per una appartenenza più vasta ed un’integrazione più stretta  nel senso dell’internazionalizzazione e della fratellanza.

La conclusione del giro del mondo non poteva essere più appropriata. Degli Stati Uniti ha parlato Stefano Luconi , si tratta del grande paese che dal 1820 ha accolto 6 milioni di emigrati italiani, di cui 4 milioni dal 1870 al 1920, 15 milioni di abitanti sono italo-americani. La loro crescente presenza è stata vista in modo diverso nelle varie fasi: inizialmente  confinati nei ghetti delle “little Italy” identificati in  lavori umili e comportamenti delinquenziali; più rispettati  quando sono stati alleati nella prima guerra mondiale e poi nella crescita del prestigio del nostro paese;  di nuovo ghettizzati nella seconda guerra mondiale dove erano diventati nemici, fino a rispettarli nel periodo successivo per l’influenza assunta nella politica americana.  E qui il relatore con enfasi e passione nella voce e nel contenuto, ha esaltato il ruolo svolto a favore dell’Italia delle comunità pur così lontane, legate non al campanile ma alla nazione: una lobby potente forte del proprio peso elettorale per i diritti di cittadinanza,  che ha concorso a far ottenere enormi vantaggi al nostro paese nei momenti più critici, dal Trattato di pace al piano Marshall, e dopo facendo leva anche sullo spirito anticomunista degli americani che imponeva di aiutare un paese baluardo al comunismo in Europa. Dall’analisi è emersa la gratitudine che è dovuta a questi fratelli lontani i quali, invece del risentimento verso la terra che li aveva costretti a partire non potendo assicurare loro una vita dignitosa, si sono mobilitati per aiutarla nei momenti difficili; e non solo per l’alleggerimento demografico e le loro rimesse, basilari per l’equilibrio finanziario, ma con un’azione diretta.

Possiamo dire che dopo un’analisi così appassionata, siamo usciti dal convegno con emozione e orgoglio, e un senso di ammirazione per questi italiani mobilitati per la patria utilizzando la forza data dalla loro coesione e spirito di iniziativa. E’ un’immagine inedita che dà ai tanti che hanno ascendenti emigrati in America un motivo di più di commossa riconoscenza. E’ il massimo che si poteva attendere da un Convegno di studi, diventato riscoperta memore ed  edificante; per questo abbiamo ritenuto di ricordarne diffusamente i contenuti dopo un anno  e mezzo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano, si ringrazia l’organizzazione per l’opportunità offerta. In apertura, il tavolo dei relatori al Convegno; seguono immagini di cimeli, reperti, fotografie, esposti nel Museo dell’Emigrazione; in chiusura il manifesto “Dream”, il sogno dell’emigrante.