Ebrei romani, 70 anni dopo l’ “infamia tedesca”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, lato Ara Coeli, nella sala Zanardelli, dal 17 ottobre al 30 novembre 2013 la mostra “16 ottobre 1943 –  La razzia degli ebrei di Roma”,  nel quadro delle manifestazioni per il 70° anniversario ricorda il tragico evento, inquadrandolo nel contesto storico con un’accurata ricostruzione di luoghi, vicende e  protagonisti e una ricca esposizione iconografica e documentale.  La mostra, con il coordinamento generale di Alessandro Nicosia, è realizzata in collaborazione tra “Comunicare Organizzando”, di cui è Presidente, e la Fondazione Museo della Shoah ed è curata da Marcello Pezzetti, che ne è il direttore. Prezioso per la ricchezza documentaria e l’accuratezza editoriale  il Catalogo di Gangemi Editore, a cura dello stesso Marcello Pezzetti.

Il coraggio della mostra

La prima notazione  è il coraggio nell’immagine-simbolo: la pagina del 16 ottobre 1943 dell’agenda con scritto a mano in corsivo “infamia tedesca”: si badi bene, tedesca e non nazista come spesso viene fatto per ridimensionare fino a negare le responsabilità del popolo, un negazionismo anche questo da evitare. In Germania non ci sono stati moti popolari di resistenza, neppure come quello italiano al di là dell’agiografia ufficiale, e le fallite ribellioni a Hitler sono venute soltanto dai vertici delle forze armate, Rommel e gli autori dell’attentato. Diciamo questo per la verità storica non per ostilità verso la deleteria egemonia tedesca sull’Europa monetaria, che ci imprigiona nella gabbia di ferro di un euro ridotto a supermarco impedendoci di crescere.

Il coraggio della mostra si manifesta anche nel dare un volto ai perversi autori della razzia e delle persecuzioni antiebraiche che vengono documentate: i loro volti e le loro figure impettite nelle divise o dentro comuni abiti borghesi sono nell’apposita sezione; la loro tranquillità a confronto con l’umanità dolente dei perseguitati, ripresi nella razzia ma anche nei momenti tranquilli. La galleria di nomi con cui inizia la mostra, e quella di volti con cui si chiude, sono  un omaggio e un monito, è bene che siano nomi e volti a parlare, non soltanto i freddi numeri di una contabilità angosciosa.

Ma  non si limita a  questo, e sarebbe già molto, la comunità ebraica romana non è vista soltanto nel momento della razzia, bensì nella sua evoluzione nel tempo, fin dall’insediamento: e sono eloquenti le immagini di quartieri e persone, come la ricca documentazione che le accompagna.

La nostra visita ha avuto una guida di eccezione, il curatore Marcello Pezzetti, che ha illustrato i vari momenti con trasporto e insieme con serenità, nessun residuo di rancore nelle sue parole, del resto l’incancellabile indignazione era “in re ipsa”, per così dire. D’altra parte gli ebrei non hanno speculato sulle azioni scellerate come quella del 16 ottobre 1943 culminate nel genocidio dell’olocausto; vittime inermi senza resistere nei ghetti divenuti segregazione e poi annientamento,  con la creazione dello stato di Israele hanno realizzato un’autodifesa attiva che li ha portati, con una popolazione di pochi milioni, numero assimilabile a quello della città di Roma, a fronteggiare e vincere le aggressioni di cento milioni di arabi decisi ad eliminarli  dalla Terra promessa dove sono approdati nel loro “exodus” eroico realizzando il sogno biblico, con una forza miracolosa che lascia increduli e ammirati.

Con la mostra viene evocato uno spezzone di storia che è istruttivo vedere alla luce dell’attuale situazione degli ebrei stretti  nella difesa di Israele, sorretti da un vasto concorso di nazioni amiche ma consapevoli che per la loro sicurezza e la loro stessa esistenza l’unica valida garanzia è la loro forza. E questo, lo ripetiamo, suscita in noi  incredulità e insieme ammirazione pari alla condanna per chi vorrebbe in altre forme, non cruente ma altrettanto distruttive,  ripetere l’infamia dell’olocausto.

L’ingresso alla mostra, con i 1022 nomi delle vittime del rastrellamento seguito da morte con 17 soli sopravvissuti,  evoca la tragedia umana perpetrata in quel triste giorno di settant’anni fa. Era trascorso poco più di un mese dall’armistizio dell’8 settembre, al razzismo antisemita si aggiungeva la vendetta verso gli italiani prima uniti nel Patto d’acciaio. Delle persone rastrellate in 26 “zone d’azione” da 360 militari tedeschi dell’unità Seeling diretti da Theodor Dannecker, collaboratore del famigerato Eichmann, ne furono rilasciate 260 dopo la selezione al Collegio militare perché stranieri protetti, non ebrei o “misti”, mentre i 1022 ebrei trattenuti furono deportati ad Auschwitz-Birkenau  dove giunsero il 23 ottobre dopo l’interminabile viaggio in treno nei tremendi vagoni piombati: più di ottocento furono uccisi all’arrivo, dei circa duecento internati si salveranno solo 16 uomini e una donna, Settimia Spizzichino.

Le parole delle autorità romane 

Conclusione tragica di una vicenda collettiva alla quale la mostra ha dato un respiro storico inquadrandola in modo da farne – come ha detto il sindaco Ignazio Marino – “un vero  e proprio viaggio della memoria, tra i vicoli del quartiere ebraico, nel Collegio militare di via della Lungara, alla stazione Tiburtina e sul treno per Auschwitz, tra i ricoveri e i nascondigli nelle chiese, negli istituti religiosi e nelle case dei romani”. Viene documentata anche la solidarietà della popolazione che consentì di salvare la maggior parte degli 8000 ebrei presenti nella città, e il contesto dei luoghi e del difficile momento nel quale i volti inermi delle vittime incrociarono i volti spietati  dei carnefici, gli uni e gli altri fissati in immagini di straordinaria forza evocativa.

“E’ questa la forza della memoria – ha detto il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti – e la caratteristica che la differenzia dalla semplice ricostruzione storica. La storia è una catena di fatti e di verità, la memoria è la comprensione delle nostre vite e della vita dei luoghi in cui viviamo. La memoria è viva quando è vivo l’atto di tramandare. Il passaggio di un testimone consegnato da una generazione alla successiva”.  E’ un ruolo vitale che Roma assolve celebrando il 16 ottobre 1943: “Continuare a costruire la memoria per il bene delle generazioni che verranno”, lo ha detto con forza  Riccardo Pacifici, Presidente della Comunità Ebraica di Roma.

Alessandro Nicosia, che ha coordinato la realizzazione della mostra, l’ha così presentata: “L’obiettivo, ancora una volta, è stato quello di fare Memoria, ricordare per fare in modo che certi fatti non accadano più, dando alla pubblica fruizione, soprattutto alle nuove generazioni, la possibilità di riflettere su una tragedia come questa, tenendo vigili e attente le coscienze di tutti”. Mentre il curatore Marcello Pezzetti ne sottolinea “l’impatto visivo capace di segnare la memoria della collettività tutta”, e  ne allarga così il raggio d’azione: “Un’esposizione che si concentra sulla sorte degli ebrei della capitale, vittime della politica di sterminio nazista, ma che si rivolge a tutti gli italiani perché si tratta della loro storia”.  Che viene tradotta in memoria da immagini evocative.

Dalla piena cittadinanza al ricatto dei 50 chili d’oro

Le prime immagini risalgono al periodo  anteriore l’imbarbarimento razziale, dal 1870 al 1938 quando, cessato l’ostracismo dello Stato Pontificio, con Roma capitale gli ebrei divennero cittadini italiani a tutti gli effetti, integrati e assimilati nella popolazione con la piena cittadinanza romana. Vediamo la fotografia di Ernesto Nathan, ebreo di formazione repubblicana, sindaco di Roma per due mandati, dal 1907 al 1913, ricordato per i successi della sua amministrazione; e le immagini di vita rionale nell’antico ghetto, tra cui alcune di una “Roma sparita” molto suggestive.

Poi, come in “La vita è bella” di Benigni, dalle scene serene si passa all’incubo delle persecuzioni, che inizia con le leggi razziali del 1938, è esposta una serie di documenti sull’applicazione di tali leggi e sulle richieste di esenzione dovute a meriti acquisiti verso il regime: caso particolarmente pietoso quello della straniera la cui richiesta di esenzione dall’espulsione fu accolta alla fine del 1938, ma cinque anni dopo fu deportata il 16 ottobre 1943 e uccisa  all’arrivo a Birkenau.

Non solo esclusioni dal lavoro ed espulsioni per gli ebrei stranieri, anche lavori forzati lungo l’argine del Tevere, le fotografie sono eloquenti; come lo sono quelle di una manifestazione antisemita e di una lettera di commercianti italiani che denunciavano i concorrenti ebrei, nel 1941. Oltre alla solidarietà di tanti, infatti, c’era l’ostilità di alcune frange della popolazione alimentata dall’insano desiderio di avvantaggiarsi dell’insperato ostracismo dato ai temibili concorrenti, anche questo si deve ricordare pur se è doloroso constatarlo..

Con l’8 settembre1943, dalla incivile discriminazione si passa alla criminale persecuzione in atto in altri paesi d’Europa dalla quale fino ad allora gli ebrei italiani erano stati risparmiati; con l’ignobile intermezzo della richiesta fatta il 25 settembre di 50 chili d’oro alla Comunità ebraica romana da consegnare entro 36 ore pena la deportazione di 200 suoi membri; il “riscatto” fu pagato il 28 settembre, ma non placò i tedeschi che sequestrarono schedari e archivi, a nulla valsero le lettere di protesta dell’Unione delle comunità israelite esposte in mostra.

La razzia: persecutori e luoghi. testimonianze e documenti   

Ma la vera tragedia doveva ancora consumarsi, ecco la descrizione di Riccardo Pacifici. “Il 16 ottobre, all’alba, quando in molti ancora dormono sotto le proprie coperte, gli ebrei romani sono stati svegliati dalla furia nazista. Le strade dell’antico ghetto e di altri quartieri abitati  dagli ebrei della città sono state chiuse. Erano i primi passi che avrebbero destinato più di mille italiani di religione ebraica dentro il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau”.  Primi passi preparati accuratamente nei giorni precedenti con un intreccio di comunicazioni tra le autorità diplomatiche e militari tedesche a Roma e i vertici a Berlino, le prime orientate negativamente sulla deportazione, i secondi invece intransigenti per l'”ordine di Hitler di deportare gli 8000 ebrei di Roma”.  E fu un miracolo dovuto alla popolazione che li nascose e alla loro fuga se ben 7000 si salvarono, i portieri dei palazzi li nascosero negli scantinati, i parroci  nei punti meno accessibili delle chiese.

I persecutori sono i comandanti militari e in particolare quelli dell’unità Seeling  che effettuò i rastrellamenti, come Dannacker responsabile dell’operazione ed  Eisenkolb, suo ufficiale; si vedono diverse immagini dei soldati dell’unità inquadrati in un rigido prsentat’arm oppure schierati semplicemente e in posizione di riposo. Tra i responsabili civili,vediamo il console a Roma Moellhausen, che cercò invano di dissuadere i vertici berlinesi ricevendone oltre al rifiuto degli aspri rimbrotti: questa sua posizione sarà valorizzata al termine della guerra, e rimase in Italia dove avviò un’attività commerciale che ancora oggi appartiene alla famiglia; anche Kappler e le altre autorità militari sconsigliarono l’operazione per la quale non si sentivano pronti, ma poi si misero a disposizione per farla attuare.Ed eccoci alla “razzia” del 16 ottobre, i luoghi sono documentati da una mappa in cui è indicato il numero delle persone rastrellate in ogni sito. La rievocazione più toccante è quella attraverso i  disegni di Aldo Gay e Pio Pullini, le uniche testimonianze dirette  che sono il piatto forte della mostra. Aldo Gay riuscì a sottrarsi all’arresto e memorizzò quanto vedeva fissandolo poi con  matita e acquerelli e a china; ecco i militari che caricano gli ebrei sui camion Opel modello Blitz.tra piazza Sonnino e Trastevere; ecco un  primo piano di soldato tedesco che sfonda una porta con il calcio del fucile, come fece con la porta della propria casa dove ne sono rimasti i segni, ecco la teoria dolente delle persone che scendono le scale delle proprie abitazioni scortate dai soldati; ecco la scena violenta dell’arresto dei suoi parenti, una famiglia con tre figli, fino a quella impressionante  di madre e figlia che si gettano dalla finestra per sfuggire all’arresto, e per fortuna si salvano.

I due disegni di Pio Pollini anch’egli testimone degli eventi, riproducono la scena delle donne terrorizzate sbattute su un camion dai soldati, e un soldato in divisa che afferra brutalmente per la collottola un vecchio e trascina per mano un bambino; entrambi hanno sullo sfondo le colonne del  Portico d’Ottavia  nel cuore del ghetto ebraico.

Sono queste le uniche evidenze visive della razzia. Le altre sono tutte documentali, frutto di una ricerca estremamente accurata. C’è il “calendario delle operazioni”, un  prospetto burocratico in tedesco del comandante della piazza, Reiner Stahel e due note della Questura di Roma sugli arresti operati dai tedeschi, una sorta di “mattinale” senza commenti quasi si trattasse di operazioni rientranti nella normalità, complicità o almeno il reato di omissione. Ben diverse le denunce nel dopoguerra da parte di italiani dei comandanti tedeschi implicati negli arresti e le testimonianze, in particolare contro Dannacker, a capo dell’operazione, e Kappler. Poi, specularmente, le deposizioni dei deportati e dei tedeschi impiegati negli arresti nei procedimenti  contro i responsabili delle deportazioni svoltisi in Germania negli anni ’60.

Le 1000 vittime, tra cui 200 bambini  

Dopo i persecutori e la razzia, in un’escalation di emozioni, la mostra presenta le vittime, dopo averne indicato tutti i nomi all’ingresso.  Sono per lo più bambini, donne e anziani perché si pensava che non rischiassero mentre i giovani e i maschi adulti si erano nascosti temendo la deportazione nei campi da lavoro; Dei 425 maschi deportati il 67% con meno di 15 o più di 60 anni; 196 bambini minori di 5 anni! Gli arrestati sono di umili condizioni o addetti a lavori pesanti, ma anche professionisti, avvocati ed ingegneri, perfino un ammiraglio pluridecorato.  Nel quartiere ebraico fu operata metà degli arresti, il resto nelle altre zone; colpisce il caso della famiglia  di Settimio Calò, venditore ambulante, era in fila dal tabaccaio per acquistare le sigarette il giorno della distribuzione razionata, quando i soldati fecero irruzione nella sua casa al Portico d’Ottavia prelevando la moglie e i nove figli,  non li rivedrà più. Sopravvissero in 16, nessun bambino.

Che dire della galleria di volti  offerta alla nostra memoria? E delle storie toccanti che a loro si associano?  Ci sono letterine di bimbi e pagelle scolastiche insieme ad ansiose domande rivolte per iscritto a “Sua Eccellenza” sulla sorte delle persone scomparse, rimaste tutte senza risposta. Inoltre un diario e un biglietto nel quale nella sosta al Collegio militare gli internati chiedono oggetti necessari per la deportazione. Questo biglietto ci fa tornare alla mente quello consegnato dai soldati tedeschi impegnati nel rastrellamento il 16 ottobre agli abitanti delle case che sarebbero stati “trasferiti”, compresi gli ammalati gravissimi, entro venti minuti tassativi, con indicato il necessario: cibo per 8 giorni e tessere annonarie, carta d’identità e bicchieri; e il consentito, valigetta con effetti e biancheria personale, denaro e gioielli. Suona beffarda l’indicazione al punto 4 del biglietto di istruzioni: “Chiudere a chiave l’appartamento”.

Reticenza pubblica e protezione privata del Vaticano, assenza dei partiti  

Abbiamo detto che è una mostra coraggiosa, ebbene lo è anche nel documentare la reazione del Vaticano, generica e “nebulosa”, affidata a un articolo dell’ “Osservatore Romano” su “La carità del santo padre”, definita “universalmente paterna”, quindi senza confini “né di nazionalità, né di religione, né di stirpe”, e divenuta “quasi più operosa” dinanzi “all’accrescersi di tanti mali” e  inoltre “maggiormente intensificata per le aumentate sofferenze di tanti infelici”. Dinanzi a tali espressioni che  è eufemistico definire criptiche, cadono le preoccupazioni tedesche per la reazione del Pontefice, non protestano perché il riferimento alla razzia verrà capito solo “da un esiguo numero di persone”, quindi non devono temere contraccolpi. Oltre questo, solo un incontro tra il segretario di Stato e l’ambasciatore tedesco con la richiesta di salvezza per gli ebrei in modo da non mettere la Santa Sede “in condizione di protestare”. Troppo poco!.

La mostra, che con coraggio non nasconde nulla del reticente atteggiamento vaticano dinanzi alla razzia, non esita però a dare ampia evidenza all’impegno dello stesso Vaticano e delle organizzazioni cattoliche di fronte alle persecuzioni che dopo il 16 ottobre coinvolgevano anche le autorità italiane a seguito della formazione della Repubblica Sociale Italiana a fianco dei tedeschi. Una ingente documentazione prova come si siano mobilitati organismi religiosi e parroci, semplici cittadini e un’apposita organizzazione, la Delegazione per l’assistenza agli emigrati ebraici, per nascondere tutti coloro che erano minacciati di deportazione: sono esposte numerose lettere del Vaticano e di altri istituti, relazioni e attestati di varia natura, dagli oggetti di ebrei nascosti ritrovati nelle soffitte ai disegni umoristici ma espressivi di un rifugiato nel sottotetto di una chiesa; hanno un a forza documentaria ed evocativa paragonabile ai disegni di Gay e Pulli..

Sulla razzia non ci fu solo sottovalutazione da parte vaticana; la stampa, salvo poche lodevoli eccezioni,  la ignorò e così le forze politiche, compreso il Comitato di Liberazione Nazionale dei partiti antifascisti che, riunito il pomeriggio del 16 ottobre non parlò del grave evento.

L’orrore della deportazione e il ritorno alla vita dei 16 sopravvissuti  

Ma lasciamo alla storia ogni giudizio, la mostra ci porta ora a rivivere la deportazione con i biglietti passati furtivamente alla stazione Tiburtina e i diari dei sopravvissuti; e l’arrivo ad Auschwitz e Birkenau:  qui soccorrono le immagini fotografiche dei luoghi dove giunsero la sera del 22 ottobre gli ebrei rastrellati a Roma il giorno 16, una lunga teoria di baracche in una landa desolata, com’erano allora e i resti di oggi. E poi i documenti della lugubre contabilità della meticolosa burocrazia nazista, schede personali ed elenchi di prigionieri arrivati, liste di morti, e sanitarie; anche in questa sezione le toccanti testimonianze  dei pochi sopravvissuti.

Le ultime sezioni della mostra, organizzata su due piani con un’accurata regia espositiva, sono il contraltare delle tragiche immagini di Auschwitz, agghiaccianti anche se non si vede il campo di sterminio con le sue vittime, ma solo le baracche e la contabilità dell’orrore. Infatti si tratta del “ritorno alla vita” dopo la liberazione di Roma del 4 giugno 1944. Ma non è un ritorno immediato, anche questa per gli ebrei romani sarà una conquista difficile: il ritorno nelle loro case sequestrate e nei negozi espropriati è difficile per le resistenze degli occupanti, mentre le notizie dei deportati sono molto incerte: tutto questo viene evidenziato dai documenti esposti, di varia natura, provenienza e destinazione, che fanno rivivere la fase di transizione verso la normalità convulsa ma finalmente aperta alla speranza. Commuovono le richieste di notizie, come il Bollettino del Comitato Ricerche dei deportati Ebrei, appositamente costituito, che il 20 settembre 1945 reca il nome di Settimia Spizzichino tra i “reduci” .

E’ stata l’unica donna a sopravvivere, la madre, una sorella e una nipotina furono mandate nelle camere a gas, l’altra sorella Giuditta non superò gli stenti del lager; lei resistette anche al trasferimento da Auschwitz a Belsen Belsen dove fu liberata nell’aprile 1945, riuscì a  rientrare a Roma nel mese di settembre. Per ciascuno dei 16 sopravvissuti  una foto e una scheda che ne fa rivivere l’odissea con le tremende vicende dell’arresto, la deportazione e prigionia nel lager-campo di sterminio dove molti di loro hanno perduto i propri familiari, fino alla liberazione.

La mostra non termina con le loro immagini. Doverosamente si chiude con la galleria dei deportati, almeno trecento di loro come gli eroi delle Termopili, visi di ogni età negli atteggiamenti più diversi, per lo più felici e sorridenti. Ricolleghiamo le loro figure alla teoria senza fine dei 1022 nomi all’ingresso della mostra, è come una immensa lapide collettiva che diventa l’epopea di un eroismo, di persone normali che la sorte ha fatto diventare eroi. Il loro sacrificio e quello delle tante altre vittime dell’insensata violenza razzista segni per sempre la fine di queste orribili tragedie che ripugnano alla coscienza civile e alla stessa umanità.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, p,zza Ara Coeli, sala Zanardelli. Aperto tutti i giorni, compresi domenica e lunedì. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-18,30; da venrdì a dome nica 9,30-19,30.; accesso consentito fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma”, a cura di Marcello Pezzetti, Gangemi Editore, ottobre 2013, pp. 272, Formato 21×29,6. Per altre mostre sulle persecuzioni antisemite e le deportazioni nonchè su quegli anni di guerra cfr. i nostri articoli  in “cultura.abruzzo.it” “Auschwitz-Birkenau, ‘la morte dell’uomo’”  27 gennaio 2010,  “Il bombardamento di Montecassino”  16 febbraio 2009 e  “Ombre di guerra”  8 agosto 2009; e  in http://www.fotografarefacile.it/,   “I ghetti nazisti” 27 gennaio 2012 e “Ombre di guierra alll’Ara Pacis”  2 febbraio 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano all’inaugurazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e la “Fondazione Museo della Shoah” con Marcello Pezzetti e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura un simbolico “muro del pianto”, seguono  la Roma del quartiere ebraico, con una visione da lontano e immagini ravvicinate dei luoghi, poi ebrei romani al lavoro sul Tevere nel 1942  e due immagini dei lager di deportazione e sterminio, quindi l‘unica donna sopravvissuta Settimia Spizzichino, l’ultima a destra nella foto; in chiusura la galleria delle vittime con cui termina il percorso espositivo.