Grande guerra, il centenario, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Dopo la mostra del 2012 “Verso la Grande guerra”, la mostra aperta al Vittoriano, sala Gipsoteca, dal 31 maggio al 31 luglio 2014   “La Prima guerra mondiale” 1914-18. Materiali e fonti”,  è il primo atto delle celebrazioni ufficiali del centenario.  Alla sua realizzazione da parte di “Comunicare Organizzando”  di Alessandro Nicosia hanno partecipato le  istituzioni depositarie di archivi storici  fornendo materiali  e documenti originali cui si sono aggiunti supporti  visivi e sonori. E’ stata curata da Marco Pizzo, del Museo centrale del Risorgimento con esponenti delle altre istituzioni. Catalogo Gangemi a cura di Marco Pizzo.

La sobrietà è l’aspetto che colpisce subito della mostra, priva di ogni retorica, e questo è  dovuto al suo scopo documentario piuttosto che  celebrativo. Per questo l’attenzione delle varie sezioni va più alle fonti e ai materiali di documentazione che alle manifestazioni eclatanti di un pezzo importante di storia patria. E si viene a conoscenza del fatto che la documentazione in materia è immensa, e va dalle fotografie alle cartoline, dai manifesti ai giornali per la trincea, dai fogli di propaganda ai fascicoli personali dei caduti, dalle lettere ai diari dei soldati al fronte, dai dipinti alle musiche e ad  altre forme di testimonianza.

Il grande archivio telematico per proprie “mostre virtuali”

Rossella Caffo, direttore dell’Istituto del Catalogo unico, tra i curatori della mostra,  ci fa sapere ch e l’istituto da lei diretto , in collaborazione con il Museo centrale del Risorgimento e alcune grandi biblioteche, ha dato corso al progetto “14-18. Documenti e immagini della Grande Guerra” riunendo le più importanti raccolte di documenti e testimonianze di guerra in una banca dati che finora dispone di  250.000 immagini, visibili sul sito http://www.14-18.it/ e sul portale europeo http://www.europeana1914-1918.eu/.  Vi si trova la vastissima documentazione data dalla molteplicità dei materiali sopra citati, i n continuo ampliamento, anche perché vi stanno confluendo le più importanti collezioni di altre istituzioni, dall’Istituto Luce agli uffici e musei storici delle forze armate ad archivi pubblici della più varia natura, tutti in possesso di prezioso materiale.

“Tutte le risorse contenute nel sito http://www.14-18.it/  – precisa la Caffo – opportunamente catalogate e indicizzate, saranno a disposizione di tutti istituzioni o progetti, che potranno attingere ai contenuti ognuno secondo le proprie necessità”. Con il progetto Movio viene fornito “agli istituti ma anche alle scuole o a privati cittadini uno strumento di facile utilizzo per creare mostre virtuali”, cioè per ciascuno “propri percorsi e chiavi di lettura, differenti da quelli proposti dal curatore, allargando l’orizzonte delel proprie conoscenze”.

Con questo strumento è stata già presentata nel dicembre 2013 la mostra virtuale “Movio. Vedere la Grande Guerra”,  La mostra attuale compie il percorso inverso perché presenta i materiali reali archiviati in modo virtuale, che nell’esposizione hanno il fascino dei reperti originali e dei cimeli. Ma non è solo un insieme di documenti, c’è dietro un lavoro di ricerca e di analisi, oltre che di selezione, volto ad offrire uno spaccato originale di quegli anni approfondendo alcuni temi  non da tutti conosciuti in modo adeguato anche perché sottaciuti ritenendoli poco consoni a un evento su cui la retorica patriottica ha avuto la prevalenza.

In particolare desideriamo sottolineare la parte dedicata alla censura che impediva di pubblicare determinate notizie e fotografie negli anni della guerra e che di fatto è proseguita anche dopo per una tacita intesa. Al cinema “Uomini contro” di Francesco Rosi ha fatto eccezione  rispetto ai grandi affreschi bellici edificanti con la forza dirompente delle sue immagini impietose di documentazione e denuncia; citiamo anche “All’ovest niente di nuovo” dal romanzo i “Nulla di nuovo sul fronte occidentale” di Eric Maria Remarque, antiretorico e profondamente umano, ma meno dirompente.  

La censura

Cominciamo proprio da questa parte nel raccontare la mostra, perché ci è sembrata emblematica della sua impostazione. Si voleva dare, osserva il curatore Marco Pizzo, “una visione della guerra quasi anestetizzata che si muoveva all’interno di alcune sponde censorie che saranno codificate nel luglio 1917 “.In effetti,  le fotografie dovevano illustrare soprattutto la vita nelle retrovie e nelle marce di avvicinamento al fronte, spesso sottolineandone le difficoltà e l’ardimento, nonché la situazione nelle zone attraversate dalla guerra, dove si contrapponeva una certa  “normalità” nella vita quotidiana alle distruzioni e rovine.

Le fotografie dovevano essere presentate alla Censura Militare in tre esemplari, di cui uno veniva restituito con l’approvazione o meno.  Secondo le direttive generali non si potevano riprendere immagini relative alle truppe come dislocazione e organizzazione, numero e attività, ai mezzi di offesa e difesa, munizioni e armamento, allo stato di strade e ferrovie, ai morti e feriti; prescrizioni queste  comprensibili per la sicurezza militare. Altre disposizioni,  indicate in apposite circolari, o adottate di fatto, censuravano i “cadaveri in posa macabra” e quelli “insepolti che destano orrore e raccapriccio”, e non solo; erano vietate le immagini dei soldati ripresi nei momenti di riposo  se poco edificanti, come quelle della vita di trincea se appariva disordinata, e soprattutto le scene delle esecuzioni capitali, dei disertori, spie e non solo.

Non erano vietate le foto dei morti, e non poteva essere in una guerra che da parte italiana ne ha avuti 650.000 e in totale ben 9 milioni. Ma dovevano essere  fotografie “composte” di morti  dai corpi integri tali da non suscitare disgusto, ma pietà, per cui i fotografi cercavano addirittura pose plastiche. Anche nelle fotografie dei feriti la doppia visione ordinata ed edificante da un lato, realistica e impressionante dall’altro.  Le fotografie di propaganda sfruttavano anche la cura alle ferite per rimediare ai danni inferti dalla guerra. Una sezione della mostra è dedicata alle Crocerossine con immagini edificanti della loro dedizione.

Tra quelle le fotografie censurate  ricordiamo in particolare la fotografia di un “militare giustiziato sul fronte del Piave”,  legato all’albero dove è stato fucilato, è del Reparto fotografico del Regio esercito italiano; e la foto  dell’esecuzione di cecoslovacchi” impiccati ad un albero con dei cartelli appesi al collo del Reparto fotografico dell’esercito austro–ungarico, in entrambi i fronti documentata la durezza implacabile con cui venivano eliminati coloro che non rispettavano le rigide regole di guerra. Ricordiamo la  “decimazione” con cui si punivano interi reparti scegliendo a caso i condannati alla fucilazione, D’Annunzio vi assistette dedicandovi poi commosse parole.  Ma sono tra quelle censurate con una croce blu anche immagini diverse, come quella della benedizione di una bandiera con il prete in cotta o quella del riposo in trincea.

Il ruolo della fotografia

Le immagini censurate  sono nella sezione “la Grande Guerra in fotografia”, che documenta il ruolo assunto dall’immagine fotografica nel far conoscere il conflitto.  Furono riprese centinaia di migliaia di foto e riprodotte nei modi più diversi, sui giornali e in cartoline da spedire “in franchigia”, furono perfino realizzate  mostre in diversi comuni  con immagini di piccolo formato e ingrandimenti a migliaia.  Ciò è stato possibile perché, a differenza della guerra libica del 1911, nel 1915 iniziò ad operare la Sezione foto-cinematografica dell’Esercito italiano e nel 1816 fu riorganizzata in stretto contatto con il Comando supremo  con professionisti quali Giovanni Virrotti, della Ambrosio Film, Luigi Marzocchi e Antonio Revedin. E intellettuali come Ugo Ojetti il capitano Giorgio Pullé e il maggiore Maurizio Rava.

E’ un vastissimo materiale raccolto in volumi-album nei quali  è indicato il nome dell’autore delle fotografie per documentarne l’attività personale. Tra le immagini esposte in mostra colpiscono quelle delle opere d’arte e dei monumenti, una serie dedicata alla loro protezione, un’altra alla loro distruzione sotto i bombardamenti, un’altra ancora alla loro bellezza intatta che prendeva il fotografo al punto di non poterle ignorare anche se era impegnato a documentare gli effetti della guerra. Nacque allora il “reportage di guerra”, anche perché la tecnica consentiva già con tempi di posa ridotti, di fissare il movimento, ed eseguendo le foto in rapida successione si avevano sequenze quasi cinematografiche; inoltre si potevano riprendere scene a 360 gradi unendo diverse immagini in modo da rendere la grande apertura delle montagne come l’Adamello, il monte Grappa, il Carso che erano lo scenario della guerra. Le località di alta montagna erano poco note per il loro isolamento e le immagini contribuirono a farle conoscere.

Una mostra nella mostra è l’esposizione “Teatri di guerra”,  una trentina di  ingrandimenti delle montagne sede di combattimenti riprese  recentemente da Luca Campigotto, un celebre fotografo di “viaggi”, questo suo è un viaggio nella storia, anzi nella storia patria. Non sono foto d’epoca ma la loro magnificenza rende in modo suggestivo il clima e l’ambientazione di quei luoghi dove si vedono opere belliche e altre tracce di quel passato; picchi e canmminamenti, aperture nella roccia che immettono nel cuore della montagna, grotte e feritoie, fortificazioni di ogni tipo rendono ancora oggi gli impervi “teatri di guerra” di allora.

Tornando all’esposizione con le foto d’epoca, scopriamo lo “Scudo rotante, elemento di trincea mobile, Defilamento anche dai tiri obliqui”, sono scudi allineati con delle ruote che formano un fronte protetto, ci vengono in mente le corazze da guerrieri medioevali con cui nel film “Uomini contro” i  nostri si avvicinavano ai reticolati nemici per tagliarli credendosi protetti, mentre venivano falciati essendo quella una fragile difesa. Due stampe di atti di valore, in particolare di Filippo Zuccarello, ci riportano all’roismo, mostrano la conquista del Podgora da parte di pochi uomini tra scoppi di granate e gli austriaci che si arrendono vistosamente a mani alzate.

I documenti e le opere d’arte

Abbiamo cominciato dalla “Grande guerra in fotografia”, che è la parte prevalente, ma è importante anche l’esposizione di documenti autentici, come l’originale  con i sigilli in ceralacca e le sottoscrizioni autografe,  del trattato della “Triplice Alleanza” del 1882, che vedeva l’Italia alleata all’Austria divenuta la sua nemica nella Grande Guerra, e la bozza manoscritta del verbale con cui il Consiglio dei Ministri decise l’entrata in guerra. Vediamo anche le sentenze di condanna a morte,  per diserzione, con fucilazione alla schiena, in documenti originali  e manifesti.

Ma non vi è solo questo all’inizio della mostra, l’accorta regia vi ha  abbinato due quadri di Giacomo Balla, “Bandiere all’altare della Patria“, 1915, e “Colpo di fucile (domenicale). Viva l’Italia”, 1918,  la guerra all’inizio e alla fine vista in chiave futurista. E’ noto come dopo il “manifesto futurista” del 1911 in cui si inneggiava alla guerra “igiene del mondo”, i futuristi si arruolarono volontari  ma furono scottati dalla dura realtà della vita di trincea che ribaltava la loro visione eroica. 

Litografie e vignette umoristiche, e libri sulla guerra, come “Un  anno sull’altipiano” di Emilio Lussu  e “Il mio Carso” di Scipio Slataper,  “Cose e ombre di uno” di Stuparich e il “Diario giornaliero dle capitano Bodrero” dell’ottobre 1918, completano la cornice artistica e culturale con cui si apre la mostra, sono presentate anche le poesie di Giuseppe Ungaretti, “Porto sepolto”  e il suo “Allegria di naufragi”.

La propaganda

Sono queste espressioni spontanee dell’arte e della cultura, cui va aggiunta la propaganda, che spesso se ne serviva.. A questa è dedicata una sezione della mostra, dove si ricorda il servizio P con le parole di Giuseppe Prezzolini: “Il servizio P. fu propaganda, assistenza, vigilanza. Ma in fondo queste tre funzioni furono una sola attività,  soltanto la pratica e la burocrazie le divisero”.  Una delle più importanti raccolte di documenti e testimonianze di questa attività fu messa insieme all’epoca dal Comitato nazionale per la storia del Risorgimento italiano con altre istituzioni mentre il Vittoriano, che doveva ospitarle, era in costruzione.

La propaganda impegnava tutti i paesi in  guerra, in forma spesso simili, come il manifesto funebre dell’Austria nel 1915 sulla morte dell’Italia, poi copiato dalla stessa Italia a parti invertite. Su  questa forma di persuasione, da lei definita “una sorta di guerra ‘fredda’ ma pur sempre guerra”, Nicoletta Dacrema scrive: “Inventare un linguaggio assoluto, fatto di tutte le astuzie, che mescolasse insieme comunicazione,psicologia, politica, parola, immagine, suono,m e che ricorresse a tutti i toni – da quelli a bassa voce a quelli gridati – era più che mai necessario per stimolare un comportamento emotivo che facesse accettare un’inaccettabile carneficina”.  Per questo è stata definita  “arte dell’impossibile”.

Vediamo esposti  una serie di grandi manifesti e le fotografie di strade di Roma di cui sono tappezzate: Quelli per sollecitare a sottoscrivere il “Prestito nazionale” mostrano la vittoria alata con il braccio proteso mentre sullo sfondo si intravede la carica dei bersaglieri, oppure scene più raccolte come l’alpino con la figlia che saluta la teoria di commilitoni in marcia, fino all’alpino seduto che scrive la lettera alla famiglia.

Il cinema  e la musica

La solidarietà e il sostegno popolare alla  causa italiana furono sollecitati anche dalla mobilitazione del mondo dello spettacolo, dal cinema alla musica. Nel 1916 erano già 100 i film sulla guerra, iniziò Carmine Gallone con il film “Sempre nel cor la Patria”, del settembre 1915, delle pellicole venivano dedicate anche ai bambini, come “Maciste l’alpino”. I film che abbiamo citati all’inizio, di Rosi e dal libro di Remarque, sono invece rivisitazioni successive a distanza di tempo, c’è stata la seconda Guerra mondiale, ancora più sanguinosa, a favorire  una tale presa di coscienza.

In campo musicale ci fu la produzione di canzoni popolari e  patriottiche che celebravano la dedizione e il sacrificio e anche gli affetti lontani del soldato sotto le armi.  Abbiamo quindi canti guerreschi e di dolore, di sentimento e malinconia, e anche di rabbia e protesta, perfino antimilitarista e di prigionia, questi ultimi recuperati soprattutto in epoca successiva a quella della censura imperante, prima nel periodo bellico, poi sotto il regime fascista.

La Discoteca di Stato ha raccolto i documenti sonori, che ebbero rapida diffusione per radio, e anche su disco,  in mostra sono esposte a titolo evocativo, gli apparecchi radio e fonografici di allora. Vi sono anche le voci dei protagonisti, come l’“Ordine del giorno alle truppe” di Luigi Cadorna del 7 novembre 1917 e il “Bollettino della vittoria” di Armando Diaz del 4 novembre 1918, il discorso alla camera dei deputati di Vittorio Emanuele Orlando “La Vittoria” del 19 gennaio 1919. Dei canti degli alpini citiamo i  notissimi “Ta pum”, “Monte Nero” e “La tradotta”,  rientra nelle canzoni patriottiche il celeberrimo”‘O surdato ‘nnammurato”  con la tristezza e la nostalgia e anche l’inno alla vita. Naturalmente “La leggenda del Piave”, composta da un dilettante suonando come facevano in trincea con i mandolini, nella sua spontaneità è il più evocativo, al punto da essere stato proposto ripetutamente come possibile inno nazionale.

La componente religiosa: il Sacro Cuore, padre Gemelli e Semeria

Nella mostra è sottolineata anche la componente religiosa, c’è un quadro con l’immagine del Sacro Cuore di Gesù, la sua devozione fu propugnata dalla Chiesa, che gli consacrò le famiglie, durante tutto il conflitto  che aveva cercato di evitare con gli interventi di papa Benedetto XV  contro “l’inutile strage”.  La guerra veniva vista come “punizione di Dio” e le nazioni cattoliche che la dichiararono vedevano, scrive Alvaro Cacciotti, “l’occasione della guerra come il momento propizio per ridurre l’umanità intera alla legeg di Cristo sotto la guida della Chiesa cattolica”.

Le figure di Gesù, Giuseppe e Maria, cui si rivolgevano le preghiere, “divengono il riferimento di una vita familiare cristiana volta a superare i tragici eventi della guerra”, sorsero associazioni e confraternite dedite al Sacro Cuore che propugnavano la fine del conflitto con il riconoscimento della superiore volontà di Cristo. In questo contesto si colloca l’iniziativa di padre Agostino Gemelli, che ha creato l’Università del Sacro Cuore, e ideò nel marzo 2016 la consacrazione dell’Italia in guerra al Sacro Cuore, con il parere favorevole del Comando Supremo e il benestare di papa Benedetto XV: così il primo venerdì del mese di gennaio 1917 in  tutti i luoghi militari avvenne la solenne consacrazione dell’esercito al sacro Cuore.  Non si trattava di promuovere uno spirito di crociata, ma di porre le premesse per realizzare quella che Cacciotti definisce “la sua aspirazione religiosa più alta i n attesa della fine del conflitto: il rinnovamento culturale e religioso che avrebbe permesso all’Italia una sicura crescita morale e sociale”.

Tutto questo nell’accettazione della guerra, espressa sulla sua  rivista “Vita  e Pensiero” con queste parole , nel maggio 1915: “La patria chiama tutti alla sua difesa,. Cessino le discussioni, i dissidi. Noi cattolici, che sino a ieri abbiamo lavorato per impedire la guerra, oggi dobbiamo dare tutta la nostra attività, tutto il nostro cuore, tutto il nostro ingegno a chi tiene nelle sue mani il destino della patria”. Tre mesi dopo fu chiamato dal Comando Supremo come cappellano militare e medico, al fronte curò i feriti e creò un laboratorio di psicologia e un ospedale da campo apposito.  Dopo Caporetto si prodigò, anche con atti di eroismo, nel salvare le vite dei feriti nella rotta del nostro esercito, propugnando in risposta alle rovine e all’angoscia del paese “la necessità di un ritorno alle fonti inesauribili del Cristianesimo”, nell’anno esce il suo scritto “Il nostro soldato”, saggi di psicologia militare; poi la controffensiva del Piave confermò il suo pensiero: “non le armi ma sarà il coraggio  e l’anima dell’uomo il vero fattore della  vittoria”, ricorda Cacciotti.

Un altro religioso, padre Giovanni Semeria, viene ricordato nella mostra per la sua partecipazione alla Grande Guerra. Allo scoppio del conflitto tornò in Italia dal Belgio dove era stato mandato “in esilio” per il suo modernismo, e riuscì a farsi nominare direttamente da Cadorna cappellano militare al Comando Supremo, avesse  compiuto 46 anni e nel 1887 fosse stato riformato, superando l’indisponibilità di posti. I n questa posizione poteva andare nelle zone di guerra, ma non fare predicazioni cui era stato inibito dalle autorità ecclesiastiche. Ciononostante, scrive Filippo Lovison,  “non curandosi delle accuse di interventismo e di nazionalismo, si rivelò un instancabile animatore delel truppe nel cercare di coniugare iun un rinnovato patriottismo cristiano quel concetto di ‘Patria’ e di ‘Chiesa’ che tanto volevano vedere divisi se non addirittura contrapposti” A dispetto dei divieti  fece vibranti prediche al Comando supremo come ai soldati  in prima linea, visitò e confessò i feriti, curò lo smaltimento della corrispondenza con le famiglie,  collaborò con Padre Gemelli anche nell’organizzazione dell’ufficio doni, i nervi cedettero dinanzi a tanti orrori obbligandolo a un’interruzione alla fine del 1916, ma riprese presto. Dopo Caporetto seguì la sorte di Cadorna con la rimozione da cappellano addetto al Comando, ma proseguì nella sua missione nei campi di concentramento veneti ed emiliani. Gli verrà conferita una medaglia di benemerenza il 1° giugno 1919.

Anche questo è un merito della mostra, e un altro aspetto della sua originalità: aver sottolineato con questi due personaggi  la componente religiosa in un conflitto che inutilmente la Chiesa aveva cercato di impedire.

C’è tanto altro, rispetto a quanto abbiamo cercato di ricordare, e soprattutto un allestimento suggestivo nei vasti spazi della Gipsoteca in cui ci si inoltra circondati da una quantità tale di documenti e testimonianze visive da sentirsi immerso in quella realtà ma senza esaltazioni eroiche, tutt’altro: con una riflessione e meditazione profonda su una parte così importante della nostra storia patria di un  secolo fa.

Info

Complesso del Vittoriano, Gipsoteca, Piazza Ara Coeli, tutti i giorni, da lunedì a giovedì ore 9,30-19,30,  da venerdì  a domenica ore 9,30-20,30, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo “La Prima guerra mondiale 1914-18, materiali e fonti”, Gangemi Editore, maggio 2014, pp. 160, formato 21×30, da cui sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri precedenti articoli, in questo sito sulla mostra “Verso la Grande guerra”, in www.fotografarefacile.it “La Grande guerra a colori“.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia per l’occasione offerta; un particolare ringraziamento a Luca Campigotto, per la riproduzione delle sue fotografie.  In apertura e chiusura, immagini di nostri soldati al fronte; nel testo,  riprese di sezioni della mostra intervallate dalle spettacolari fotografie dei “Teatri di guerra” di Campigotto.