Petrafeta, astrazioni urbane e marine, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, dal  17 luglio al 7 settembre 2014   la mostra antologica delle opere dal 2001 al 2014 di “Irene Petrafesa, tra terra e mare”. Sono 40 dipinti dall’intensa impronta cromatica, esposti cominciando con quelli di tema industriale, seguiti dai temi marini e dalle presenze umane. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia  con “Segni d’Arte”,  responsabile Cristina Bettini, a cura di Claudio Strinati e Nicolina Bianchi, che hanno curato anche il Catalogo..

Una inaugurazione molto particolare quella della mostra di Irene Petrafesa al Vittoriano, per la presenza di attori come Valeria Golino e Riccardo Scamarcio,  figlio della pittrice, e di personaggi come Marco Travaglio, con la presentazione da parte di autorità istituzionali come Nicola Giorgino, sindaco di Adria, la città dove risiede, oltre a Claudio Strinati, che ha sottolineato la coincidenza  con i numeri della nascita di Leonardo  delineando  da par suo la figura dell’artista e le caratteristiche peculiari della sua opera pittorica. Inoltre la visita alle opere esposte è stata accompagnata dalla performance di un musicista, Alessio De Simone:  il suono ottenuto con le percussioni  del suo “handpan”  ha creato un’atmosfera in carattere con il contesto pittorico..

L’artista, dalla Puglia all’Europa

Così il presidente del Consiglio regionale della Puglia, Onofrio Introna, ha presentato l’esposizione: “‘Tra terra e mare’, nel titolo della mostra antologica di irene Petrafesa Scamarcio c’è tutta la Puglia, la sua natura, la sua sostanza: Dagli incendi dei rossi, ora solo esplosioni di blu. E solo colori. Forme sempre più rarefatte, segni sempre più vaghi”. Dalle “ciminere dell’Ilva” al suo mare con “i blu tesi nma vivi, violenti ed essenziali”.

La formazione dell’artista si svolge tra Bari e Barletta, poi dal 2000 l’attività artistica prende il volo, tra mostre in Italia ed Europa, premi  e  riconoscimenti, con la menzione di “Artista europeo” nella New Art Summer di Helsinki del 2003: “Frammenti metropolitani” e “Visioni urbane”,   “Tangenzemozionali” e “Architetture e paesaggio urbano” i titoli di alcune mostre tra il 2004 e il 2008; poi la partecipazione tra il 2009 e il 2013 ad eventi come le rasssegne internazionali “Dreams-Visions-Creations: The Positive Side of the Life” sulla condizione umana e  “L’Arte contro la violenza sulle donne” nella giornata internazionale sui tale tema.  Altre mostre personali: “Fossili” e “Realtà non conforme”, “Mediterraneo” e “Ciminiere suggestioni della  memoria”.

Il disagio della civiltà in una visione ottimistica

Entriamo ora nella sua sostanza artistica che si manifesta nella tripartizione tra i dipinti ispirati alla civiltà industriale, quelli sul paesaggio marino, senza figure umane, e le opere dove la presenza è impalpabile ed evanescente, sono “passeggeri” quasi colti di sfuggita perché inafferrabili.

Per Claudio Strinati nei suoi “paesaggi industriali” si coglie la ricerca di “un’essenza profonda, un palpito di vita latente, uno stato d’animo come di delicata auscultazione di una materia che sembrerebbe di per sé arida e quasi respingente”,  il “ciclo Mediterraneo” è costruito con “schegge cromatiche” solide e nitide;  mentre  le sue figure, quando ci sono, “attraversano lo spazio lasciando solo l’impronta di sé, come personaggi “svuotati delle proprie fisicità e pure ancora intravisti dall’artista subito prima della  inevitabile sparizione delle immagini”. 

In tutto questo il critico vede espresso il “disagio della civiltà”,  l’aspetto negativo del progresso per l’isolamento e la debolezza dell’individuo, una minaccia latente cui l’artista cerca di reagire afferrando immagini che tuttavia le sfuggono senza che questo le dia una connotazione negativa; anzi “la visione del suo lavoro va in una direzione  di ottimistica costruttività e non in quella di  nichilismo pessimista”, e la sua “idea di fondo  è nella precisa definizione della propria identità, come disciolta nelle innumerevoli immagini scaturite da una osservazione fervida e dolente nel contempo”.  C’è in lei “un culto delicato per la bellezza della materia, per il senso vivido  dell’emanazione luminosa, per la classica compostezza  dell’immagine”.

Un’arte istintiva e meditata

Gli elementi evidenziati da Strinati sono l’espressione di un’arte insieme istintiva e meditata; non è un ossimoro, è su due livelli, “l’emozione e il contingente”. Lei stessa dice che “la pittura   per me è desiderio innato e naturale di esprimere ciò che è dentro. L’emozione e il contingente sono gli elementi essenziali su cui costruisco il mio lavoro”,  ma non si tratta di mera improvvisazione: “Materia, spazio, ricordo, istinto,  immagini captate e sedimentate nella memoria, vengono evocate nell’atto creativo”.

Quindi captazione immediata  insieme a sedimentazione meditata, in definitiva “la ricerca dell’anima di Irene”,  che  Graziana Lamesta  ha colto in un  “cammino nell’intimità artistica” della pittrice,  che vaga “quotidianamente nel proprio io alla ricerca dell’anima della realtà che si nasconde nel cuore dell’esistenza”.

Vediamo come  si svolge questo viaggio interiore nelle risposte della stessa artista alle domande della Lamesta. “I miei dipinti, premette, sono frutto di una ricerca interna e profonda che abbraccia l’intera esistenza, dove reale e contingente sono i volti della mia ispirazione”. 

Quindi interiorità e realtà insieme, ma come si coniugano?  “Emozioni e dati reali trovano una loro forma materica attraverso i colori e le percezioni cromatiche”, e tutto si manifesta “attraverso i segni.  Nascono come gesti primitivi di espressione”,  ma non sono  esteriori, “rappresentano il libero vagare della mente che li accoglie, li cerca, li asseconda sulla tela quasi mai con un perché ben preciso”.  Ma non è un vagare senza meta nei segni e nelle sensazioni: “Parto dal reale per poi astrarre ed entrare nell’anima delle. In fin dei conti, la ricerca di quest’anima è l’essenza stessa della mia pittura”. Quindi non è la realtà che la interessa, ma la sua anima.

A Marina Ruggero ha dichiarato: “La fonte e l’impulso della creatività, nel mio caso, è un fatto naturale, quasi una necessità, un modo di essere. Provocare una emozione in un altro, attraverso un mio lavoro, mi appaga, qualunque sia il mezzo usato”. Dunque, una trasmissione di emozioni, quella suscitata all’artista dalla realtà, poi trasfigurata dalla sua arte, infine trasferita all’osservatore.

Così Mariangela Canale esprime questo processo: “Percepire appare forse il fine ultimo della creazione artistica. Provocare una riflessione, suscitare un’emozione, una paura, perché ogni sensazione sia perfettamente riconoscibile e concretamente già vissuta nella vita. Percepire ciò che ha provato l’artista nell’atto creativo e ricnoscersi in quello stato d’animo provocato. Alloora gli elementi della natura non sono solo componenti del paesaggio”.

Nessuna pretesa, invece, di lanciare messaggi pur non restando insensibile a quanto comunicato dalla realtà e trasmesso dopo la trasfigurazione artistica: “Non è mia intenzione – afferma – l’implicazione sociologica o il messaggio politico, anche se sicuramente ci sarà un motivo per il fatto che scelga di rappresentare il disagio piuttosto che la gioia o la bellezza apparente a ciò che ci circonda”. E nel dire questo rivendica: “Sono un individuo e, come tale, il risultato di un mio vissuto, di ciò che mi circonda, di ciò che accade”.

Questa autoanalisi dell’artista ci aiuta a interpretare le sue opere, altrimenti quasi indecifrabili dato che a certe espressioni astratte corrispondono titolazioni di situazioni reali non riconducibili alle immagini. Sono  le fonti dell’ispirazione dell’artista che non si è fermata alle apparenze “di ciò che accade”,  ma è penetrata all’interno per mostrare quella che lei ha sentito esserne l’anima.

“L’opera, scrive Giusy Garoppo, diviene prodotto squisitamente ingegneristico dell’evocazione di immagini captate e sedimentate nella memoria: nasce in un equilibrio perfetto tra materia, spazio, ricordo, istinto”.

Mentre  Claudia Germano fornisce un altro aiuto alla comprensione  descrivendo “il passaggio graduale, dalla rappresentazione di un paesaggio decisamente soggettivo, fino all’astrazione”: ebbene, ciò è avvenuto “mediante un processo di semplificazione che ha indotto l’artista ad esprimere il reale  attraverso il vario disporsi di piani irregolari di colore”.  E’ la ricerca di “spazi illimitati” che avviene con l’esplorazione della “struttura più autentica e la concretezza universale delle cose”. Una missione impossibile?  No, la soluzione viene trovata “attraverso un alfabeto pittorico piuttosto semplificato ma estremamente rigoroso, la cui unica cifra è nello spazio cromatico  che trae certezza dall’inflessibile e casuale intersecarsi di linee nello spazio”.

Lo spazio cromatico dell’artista e i risultati

Uno spazio cromatico  molto particolare. Per la Germano  “i colori, quasi sempre puri e nettamente divisi, anche se non escludendo ombre e vibrazioni luminose, esaltano la trasparenza stessa della luce, che tende ad un’assoluta luminosità”; per Francesco Salamina.: “Il  colore si dipinge sulla tela raccontando la sua Anima: il ‘blu’ affonda nei segreti candori, il ‘nero’ è ambivalente voluttà, il ‘bianco’ acqueta ardori. Sono i colori di Irene Petrafesa, punti cardinali di uno spazio pittorico tenuto insieme da pochi ma significativi quadri”,  E parla di “ColoreEmozione come la Musica, raschia i meandri nascosti”.

Vinicio Coppola ha parlato della “lenta e progressiva metamorfosi” del suo colore, dopo i neri e i rossi negli scenari metropolitani diventa  “più essenziale, quasi evanescente, con ampie aperture all’azzurro, al bianco, al viola. con il risultato di mitigare un po’ la carica dirompente”, soprattutto nel passaggio ad altri soggetti come le marine.

L’artista  ha risposto così alla domanda di Maria Grazia Rongo sull’uso del colore: “Nei dipinti in mostra uso tutta una gamma  di bianchi e di blu che poi sfumano al grigio e all’imprtovviso sono quasi squarciati da grandi macchie rosse b, perché è così, niente è mai uguale  a se stesso, ci sono forti momenti emozionali che non ti aspetti e che arrivano all’improvvisdo a interrompere  il grigio consueto”.

Giuliana Schiavone nota: “La superficie appare ora densa, segnata da ferite ancora pulsanti, ora più eterea, impalpabile e incorporea come gli elementi naturali o concreti suggeriti dalla composizione”,

Se queste sono le fonti di ispirazione, gli intenti e le forme espressive, quali i risultati? Prima di illustrare le opere esposte in mostra, ancora la parola alla critica. Così laSchiavone: “Il processo creativo, più simile a una trasfigurazione inversa  che a una rappresentazione strictu sensu, scava nella litografia del reale, giungendo al nucleo primordiale”. Si tratta di un “approccio creativo  contestualmente istintivo e analitico”, nel quale l’artista è portato ad “intercettare i materiali primari dell’esistenza, in uno spazio fluido e di passaggio, di sospensione temporale in cui il pensiero, il dato emozionale e simbolico, sono ancora a uno stadio evolutivo prelinguistico, antecedente a qualsiasi determinazione finita”.

Le opere in mostra, dai paesaggi industriali alle marine

Con questo corredo di interpretazioni critiche il cronista si sofferma sui tre principali soggetti e forme espressive: il, paesaggio industriale e urbano, la marina, le presenze fuggevoli di sagome umane. Di questi soggetti così parla Mariangela Canale: “Cosa accomuna un paesaggio industriale, una periferia solitaria, un muro, una strada? Sono tutte ‘situazioni’. Situazioni dell’esistenza in cui l’essere umano agisce, vive, muore. Irene Petrafesa dipinge immagini ma intende situazioni”.  Parole che ci sembrano la migliore premessa per la visita alla mostra.

Nella prima sala troviaamo “Frammenti metropolitani – Sobborgo”, 2004, il paesaggio urbano più vicino al figurativo con le sagome degli edifici in una fuga prospettica, mentre  altri “Frammenti metropolitani” appaiono meno identificabili; poi .i “rossi” e ocra di “Industriale”, 2005,  contrassegnati da numeri e i “bianco-neri”  oppure “rosso-marroni” dei trittici “Ciminiere”, 2006-07, nonché opere di analogo anche se più violento cromatismo come “Rosso”, 2011;  una striatura di rosso intenso  compare anche in “Bianco”, 2009, su fondo chiaro con un groviglio scuro, un riquadro rosso sfumato in “Cattedrale”, 2010, mentre  “Grigio”, 2009, rende onore al titolo. Otto anni tra  “Tangenze”,  “Mar Nero”, 2006, e “Sospeso”, 2014, lo stesso cromatismo scuro, mentre in “What Identity, 2007, torna la dominante rossa.

Francesca Mariotti vede nella realtà urbana “cantieri sempre aperti in  cui ciò che nasce distrae da ciò che muore, creando luoghi fantasma, abbandonati e aridi”. Si tratta della cosiddetta “Land Art o Art-chitettura” di denuncia che negli ultimi anni esprime una sorta di malcontento o di nostalgia verso un modo di vivere più a misura d’uomo”.  L’artista, in realtà, non vuole lanciare  messaggi, ma sono insiti nella realtà che la emoziona e nelle emozioni che trasmette: “I suoi sono i grandi edifici, vuoti e aridi, successioni di muri e di strutture, in cui la presenza umana non è mai visibile”.

Quando compaiono figure umane nei suoi dipinti non sono  nel contesto urbano, bensì in una nebbia che avvolge degli ectoplasmi fuggevoli e abbozzati quasi in dissolvenza: Strinati parla di “ombre misteriose e sfumate con cui l’artista ha sovente delineato i suoi personaggi che attraversano lo spazio, lasciando soltanto l’impronta di sé, svuotati della propria fisicità e pure ancora intravisti dall’artista subito prima della inevitabile sparizione delle immagini”. E ne dà un’interpretazione  che va ben al di là del fatto estetico e della forma espressiva: “C’è così, nella nostra pittrice, una dialettica tra istanza della definizione e della definizione dell’immagine, e una opposta tendenza, appunto, alla sparizione e all’annientamento quasi della forma”.

Nelle forme umane fuggevoli, in definitiva, si manifesta ciò che è insito nell’intera sua produzione, anche se meno evidente: “Una innata propensione a inseguire le sembianze di tutte le cose, che tuttavia sfuggono, si nascondono all’artista stessa, si ritraggono quasi fossero portatrici di un senso di mortificazione e abbandono”.  E questa, prosegue Strinati, “è la quintessenza del suo essere. Non è un’arte rinunciataria e impalpabile quella che la Petrafesa ha costruito nel tempo e che continua a dipanare come un unico lunghissimo tema che non può trovare un punto culminante o finale. E’ un’arte, piuttosto, incisiva e determinata”,

Le fuggevoli quanto emblematiche figure umane sono nella serie “Passeggero”, la più recente datata 2014 che potrebbe preludere a un’interessante evoluzione con sbocchi imprevedibili. Oscar Iarussi nota che “non dipinge persone, Petrafesa,se non talora come ombre passeggere, tremule, indefinite, e riporta l’interpretazione autentica della stessa artista: “Già, le rare figure umane servono a delimitare connotare il vuoto, fungono da quinta ai paesaggi”.

Nella seconda sala cambia tutto, vediamo una serie di  grandi tele celesti, leggiamo i titoli: “Mare” e “Respiro”, “Profili” e “Asfalto”, dal 2011 al 2013, i titoli non aiutano, mutano leggermente le tonalità e i segni di graffiti, ma l’apparenza è analoga, per interpretarli basta ricorrere ai commenti sopra riportati: è l’emozione che viene trasmessa, piuttosto che l’evidenza visiva.

Invece la serie “Mediterraneo”  appare maggiormente figurativa, l’immagine a forte cromatismo è divisa tra blu intenso e altri colori, verde o  un biancore accecante,  sono opere anteriorei, del 2001, ancora il legame con la realtà è forte, successivamente ci sarà il sempre maggiore ingresso nell’area dell’astrazione emotiva. Nel più recente “Anemos”, 2014, un semicerchio bianco è inscritto  nel celeste sfumato di fondo per evocare quello che la Schiavone definisce il “soffio, vento, respiro” , cioè “quel principio vitale, elemento vivificatore di tutto ciò che esiste nel mondo, che permea di essenza identitaria quanto è già dotato di realtà biologica, e di cui l’essere può intuire l’impercettibile e assidua presenza nel corso della sua storia individuale”.Analoga la forma, anche se rovesciata, nel precedente “Sul filo della memoria”, 2013, evoca una lettera chiusa nella busta.   

Alcuni giudizi conclusivi

Dopo la rapida rassegna delle opere esposte concludiamo con altri giudizi critici che forniscono ulteriori chiavi interpretative di un’artista in cui, ha detto ancora Strinati, “l’apparenza corre il rischio di ingannare, ma non inganna affatto … E’ il suo un itinerario autentico fatto di sviluppi continui, di rimandi interni incessanti, di proposte sempre nuove pur all’interno di un immaginario circoscritto e molto vigilato”.  Nel quale Maurizio Vitello vede “successivi perimetri, pienamente lavorati, ed ulteriori riquadri in cui si distendono, si raggomitolano, si ritraggono, si rifugiano e su sostanziano assopiti sensi vitali in corpi adamitici” . E ancora: “Si percepisce, comunque, il nocciolo della vita, quello che potrebbe accadere. Il ‘fil rouge’ della vita è nas costo, ma presente, celato ma non cancellato”.

C’è, dunque, sempre la realtà  dietro la trasfigurazione artistica che confina con l’astrazione, e Paolo Meneghetti la vede così: “La pittura di Irene Petrafesa vale nella possibilità di confondere visivamente la realtà della figurazione con la sua astrazione del ‘piano immaginario'”. Ecco come questo avviene: “Le velature del colore e i ‘graffi’ del segno spingono a immaginare la pittura, contraddicendo la realtà della prospettiva o della forma. Il quadro è più da vedere che da capire”.

E’ una conclusione che conforta il cronista dinanzi ad alcuni titoli di opere cui corrispondono immagini indecifrabili. Alla quale associamo il giudizio conclusivo di Strinati, derivante più dal vedere che dal capire, anche se lo storico dell’arte ne ha dato l’interpretazione prima riportata dei contenuti: “C’è  nell’artista un culto delicato per la bellezza della materia, per il senso vivido dell’emanazione luminosa, per la classica compostezza dell’immagine, che ne fanno una pittrice sorretta dalla tradizione ma catapultata in un tempo che non concede troppo all’edonismo e al piacere della forma. Piacere della forma che tuttavia resta profondamente radicato nel suo immaginario”.

Come resta negli occhi del visitatore, una volta superata la tentazione di decifrare il rapporto forma-contenuti, quanto mai impenetrabile, essendo i secondi filtrati dalle emozioni. Sono proprio le emozioni più che i contenuti a venire trasmesse, ed è questa l’intrigante magia della sua arte-

Info

Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere, Sala Giubileo, tutti i giorni compresi i festivi, ore 9,30-19,30, ingesso gratuito; accesso consentito fino a 45 minuti prima dell’orario di chiusura. Tel. 06.6780664. Catalogo: “Irene Petrafesa tra terra e mare” a cura di Claudio Strinati e Nicolina Bianchi, “Segni d’Arte”, Monografie, luglio 2014, pp..72, formato 21×28; dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese nel Vittoriano da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta, in particolare l’artista anche per aver accettato di farsi riprendere da noi. In apertura l’artista dinanzi  a “Mare nostro”, 2014;  seguono “Frammenti metropolitani- Sobborgo”, 2004, e ” Industriale 3″, 2005, poi “Mare Nero”, 2006, e “Ciminiere”, 2006, quindi “What Identity”, 2007,  e “Cattedrale”, 2010, ancora  “Asfalto”,  2011,  e  “Rosso”, 2011, infine “Respiro 1”,  2012,  e “Passeggero”, 2014; in chiusura, “Anemos”, 2014, con Alessio De Simone che suona l'”handpan”.