I lager nazisti, dallo sterminio alla liberazione, al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

“La liberazione dai campi nazisti”, dal 28 gennaio al 15 marzo 2015, al Vittoriano, rievoca la tragedia dei campi di concentramento nazisti, divenuti campi di sterminio, ricostruendone tutti i passaggi, dall’istituzione alla destinazione, fino agli ultimi convulsi spostamenti con le “marce della morte” e la liberazione da parte delle forze alleate; la rievocazione prosegue con le vicende successive, il difficile rientro degli internati nei propri paesi e la ricerca degli scomparsi. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Marcello Pezzetti, Direttore scientifico della Fondazione Museo della Shoah, che ha curato anche il Catalogo Gangemi. 

Con questa nuova iniziativa l’organizzazione del Vittoriano conferma la capacità di evitare quella che Giovanni Maria Flick, Presidente onorario della Fondazione Museo della Shoah di Roma chiama “trappole della memoria”: si va “dalla memoria a comando al dovere burocratico della memoria; alla memoria falsa; a quella burocratica; a quella ufficiale; a quella rancorosa, fonte di risentimenti; all’eccesso di memoria”, infine “alla memoria come alibi”.  Proprio per questo, conclude,  è necessario “riflettere sul perché, sul cosa,  sul come ricordiamo”.

Perché, cosa e come ricordare

Il “perché”,  in questo caso è di un’evidenza solare, è un dovere imprescindibile mantenere la memoria di eventi terribili che potrebbero venire dimenticati con la naturale sparizione dei  sopravvissuti mentre devono restare presenti alla memoria delle nuove generazioni come ammonimento e monito affinché l’umanità non debba più provare una simile barbarie; e tanti fatti gravissimi odierni mostrano come di questo si abbia sempre più bisogno, eloquenti al riguardo  le parole di Primo Levi: “E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo… può accadere e dappertutto”.

Il “cosa”, riguarda non solo gli eventi nella loro tremenda concatenazione  legata ad una logica inumana oltre che criminale e perversa; ma anche le persone identificate nella loro identità e umanità  perché  i precisi riferimenti ai nomi, ai volti e alle storie personali sono più eloquenti di tante descrizioni.

Sul “come”,  nasce il problema della memoria selettiva,  del criterio con il quale si effettuano le scelte tra il vastissimo materiale documentario a disposizione, ancora più importante nel caso di una esposizione necessariamente limitata negli spazi e nei contenuti.

Ebbene, nella mostra del Vittoriano abbiamo potuto riscontrare che il “cosa” l’esposizione contiene  e il “come”  lo presenta sono all’altezza del “perché” è stata organizzata.  Un perché legato all’esigenza di non dimenticare e di ammonire, mentre cosa è stato selezionato e come viene presentato fa sentire la tragedia immane quale  è  stato il genocidio nei campi di sterminio.

Il clima della mostra, sgomento e raccoglimento

Il clima che si respira nel lungo percorso espositivo al Vittoriano è di sgomento e insieme di raccoglimento mentre si rivivono situazioni  al di fuori dalle dimensioni dell’umanità:  per di più è una tragedia relativamente recente che ci coinvolge geograficamente, nel cuore della nostra Europa.

Tutto questo senza drammatizzazioni né ricerca di effetti speciali, ma con la forza di una testimonianza visiva e informativa, ricca di fotografie, cimeli, scritti,  così serrata che lascia senza respiro dinanzi all’evidenza di  atrocità inimmaginabili ma documentate in modo inequivocabile..

Si vive il consumarsi di un dramma senza fine, una sacra rappresentazione dai toni tragici di una messa da requiem: scandita non da enfasi volute bensì dalla meticolosa esposizione di  un meccanismo ancora più aberrante in quanto  nato da calcoli politici  allucinati tradotti in strumenti organizzativi perversi e consapevoli, non frutto bacato di esplosioni episodiche di follia criminale.

Ancora più precisa e documentata delle precedenti mostre nelle quali sono stati approfonditi altri aspetti della terribile storia delle aberrazioni naziste: la trilogia da “Auschwitz-Birchenau” nel 2010 ai “Ghetti nazisti” nel 2012, alla “Razzia degli ebrei” nel 2013; insieme a queste anchemostre “liberatorie”, da “Lo sbarco di Anzio”  alla “Liberazione di Roma” nel 2014.  Tutte al Vittoriano, nel luogo simbolo dell’Unità d’Italia con l’altare della Patria, dove ci sono state anche mostre celebrative del  “Milite Ignoto” nel 2011, della “Grande Guerra” nel 2012 e 2014, della “Bandiera”  nel 2014 all’interno del Sacrario.

La documentazione dei campi di sterminio è tanto accurata quanto serrata, i cartelli illustrativi lungo il percorso espositivo contengono una quantità di informazioni che consentono di dare una dimensione alle atrocità ricordate attraverso  fotografie quanto mai eloquenti, cimeli e documenti.

La macabra contabilità dei campi di sterminio

Nel percorso espositivo le vicende dei principali campi scorrono in tutta la loro drammaticità,  punteggiate dalle testimonianze di deportati italiani sopravvissuti con schede, immagini, documenti e cimeli: una personalizzazione che, come si è detto,  fa immergere ancora di più nella tragedia. Abbiamo contato oltre  200 fotografie, 13 video dove scorrono le immagini e  un grande schermo.

All’ingresso alla mostra è stato posto un reticolato, al termine  il cancello  di Auschwitz con la scritta “Arbeit Macht Frei”, “Il lavoro rende liberi”, versione nazista all’incontrario delle  parole infernali “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate” ,del resto è  un viaggio nell’inferno quello che  si prepara.

Nelle prime fasi, dal 1933, i “lager”, cioè i campi di detenzione, cominciarono a sorgere all’interno della Germania per internarvi gli oppositori politici, per “motivi di sicurezza”. Dal 1936  la Germania si riarma e il sistema di detenzione viene adeguato alle nuove esigenze, si smantellano i piccoli campi e si creano nuovi campi principali  e sottocampi vicino a fabbriche o cave per utilizzare i detenuti nei lavori per l’industria della guerra. Ancora politici e “asociali”, termine sinistro nel quale sono comprese categorie da  perseguitare, dagli omosessuali agli zingari.

Nel 1939 nuova escalation, altri lager vengono costruiti nelle terre occupate per rinchiudervi prigionieri di guerra e oppositori politici, gli ebrei vengono deportati e messi a morte, almeno un milione nel solo campo di Birkenau associato ad Auschwitz.  Per tutti i detenuti le condizioni disumane di vita nei lager  determinano un’elevatissima mortalità, di dimensioni incalcolabili,  si pensi che sono più di 1000 i campi e sottocampi di detenzione.

La mostra presenta i campi principali con notizie dettagliate per ciascuno oltre ai dati su caratteristiche e struttura, comandanti  e categorie di prigionieri, il numero delle vittime e le cause della mortalità, i trasferimenti fino alla liberazione, e l’indicazione anche dei deportati italiani nel singolo campo e della loro sorte.  I dati sono agghiaccianti, citiamo i campi i cui nomi sono già tristemente noti: a Buchenwald su 250.000 internati 56.000 vittime, a Dachau su 200.000 internati  41.000 vittime, a Mathausen su 200.000 internati 100.000 vittime, a Bergen-Belsen su 120.000 internati 52.000 vittime, fino all’ecatombe di Auschwitz-Birkenau, su 1.300.000 internati 1.100.000 vittime, di cui quasi 1.000.000 ebrei, soprattutto sterminati nella camere a gas o con altri mezzi.

Altri campi meno noti hanno cifre altrettanto agghiaccianti: a Sachsenhausen su 200.000 internati tra 40.000 e 50.000 vittime,  a Majdanek su 150.000 internati 80.000 vittime, di cui 60.000 ebrei, a Stutthof su 110.000 internati 65.000 vittime, e l’elenco potrebbe continuare con gli altri dati forniti.  

I massacri e gli scheletri umani nei campi,  le “marce della morte”

Le immagini dei campi e dei cimeli dei deportati documentano inizialmente la situazione ambientale, si vedono i deportati inquadrati o al lavoro, le autorità in visita ai campi. Poi l’orrore  con le immagini riprese dalle forze alleate, sovietici e anglo-americani, che avanzando mentre l’esercito nazista ripiegava, hanno liberato ad uno ad uno i campi, trovandosi di fronte a un qualcosa di inimmaginabile anche per chi nella tragedia della guerra ha visto le scene più raccapriccianti.

Primo Levi, nel libro “La tregua”,  racconta quando i primi soldati russi trasecolarono alla vista che si presentò loro dinanzi al reticolato di Auschwitz. Uno di loro, l’allora 19 enne Yakov Vincenko, nel 2005 ha dichiarato: “Io ho  incontrato solo spettri…: La verità è che nessuno di noi soldati si era reso conto di aver varcato un confine da cui non si rientra… Pensai a qualche migliaio di morti, non alla fine dell’umanità”. A Bruno Vespa, che ha curato la mostra “Auschwitz-Birkenau”, chiedemmo una definizione sintetica, ci disse  “la morte dell’uomo” e ne facemmo il titolo del nostro servizio, corrisponde alla “fine dell’umanità” di cui ha parlato il soldato russo dopo 60 anni. Un altro soldato, Vasily Yeremenko, sulla liberazione del campo di Majdanek, ha detto: “Quando abbiamo visto che cosa il campo conteneva, ci siamo sentiti pericolosamente vicini ad impazzire”.

Sono montagne di corpi scheletriti accatastati per essere portati ai forni crematori o seppelliti in gigantesche fosse comuni, e anche montagne di scarpe e perfino di protesi ortopediche: immagini di morte, ma non meno drammatiche le immagini di vita, scheletri umani rivestiti di pelle che pure riescono a sorridere alla riconquistata libertà.

La ricostruzione degli eventi nell’ultima drammatica fase è altrettanto accurata. Con l’avanzata dell’Armata rossa si impone la chiusura dei campi all’Est, siamo nel 1944, la parola d’ordine è “evacuazione” per spostare gli internati nel cuore della Germania e impiegarli nel lavoro bellico nella fase finale. Diventa un massacro: subito vengono eliminati gli inabili al trasferimento che avveniva spesso a piedi, nelle lunghe marce,  in cui morivano a migliaia per la fatica e la fame, il freddo e le violenze, si pensi che di 11.000 evacuati da Stutthof  morirono  9.500, per lo più ebrei.

Questa fase tragica viene documentata con cartine geografiche nelle quali sono segnate le direttrici delle “marce della morte”  e dei “trasferimenti in treno” su vagoni merci scoperti, come quello fotografato; sono esposti disegni di internati, uno ritrae la lunga fila di deportati in marcia e i corpi dei caduti nella neve lasciati  morire, o eliminati dalle guardie perché troppo lenti  I trasferimenti erano anche per 250 chilometri da percorrere in 11-12 giorni a piedi nell’inverno.

Prima dell’evacuazione spesso venivano compiuti autentici massacri, come quello scoperto dagli americani il 14 aprile 1945 a Gardelegen, con mille corpi bruciati vivi dai tedeschi il giorno prima allorché era stato evacuato il campo di Mittelbau-Dora; in queste fasi convulse aveva modo di manifestarsi in tutte le perverse espressioni il violento sadismo criminale dei sorveglianti locali.

La liberazione dei campi, la sindrome di ri-alimentazione

Dopo la liberazione di Auschwitz  nel gennaio 1945, nella Polonia occupata dai tedeschi,  e di Gross-Rosen a febbraio, nel mese di maggio i sovietici entrati a Berlino liberano i campi di Sachsenhausen e Ravensbruck; gli americani i campi di Flossenburg a Norimberga, di  Dachau presso Monaco e di Mathausen in Austria,  i britannici liberano Bergen-Belsen e a maggio entrano nel campo di Neunengamme che trovano vuoto, i 9.000 internati sono stati evacuati su una nave affondata dall’aviazione britannica, evento provocato dai tedeschi, alla perfidia non c’è mai fine.

Come non c’è fine al dramma, se a Bergen-Belsen in aggiunta all’ecatombe precedente, ben 5.000 internati morirono nei dieci giorni successivi alla liberazione:  ironia della sorte, dopo la fine dell’incubo si continua a morire. Si tratta, in questo e in molti altri casi, della “sindrome di ri-alimentazione”,  perché la mancanza di nutrizione ha impoverito di fosfati e sali minerali l’interno delle cellule, per cui tornando all’alimentazione normale si crea uno scompenso neuromuscolare che compromette la contrazione muscolare e cardiaca e può portare alla morte entro pochi giorni.

La documentazione dell’orrore dei campi di sterminio

Sovietici, americani e britannici documentarono fotograficamente gli eccidi; in particolare  a Bergen-Belsen furono scattate dai britannici 200 fotografie e girato un filmato di 33 bobine con immagini considerate tra le più terribili dei massacri e delle denutrizioni, e anche immagini sull’opera di recupero e di assistenza.

Dopo la guerra gli americani produssero il cortometraggio “Death Mills” con il regista divenuto celebre  Billy Wilder, mentre il regista britannico Sidney Bernstein, assistito da Alfred Hitchock ebbe il compito di selezionare e montare decine di ore di materiale di ripresa dei  diversi eserciti. Il risultato fu così sconvolgente che lo produzione fu interrotta, la bobina di Auschwitz e Majdanek fu  restituita ai sovietici, le altre cinque, tre su Bergen-Belsen e le altre  su  Dachau, Buchenwald e Mathausen furono depositate nell’Imperial War Museum di Londra dove sono restate 40 anni. Finché nel 1985 sono state montate dalla Frontline, che ha acquisito i diritti,  nel  documentario “Memory of the camps” trasmesso e distribuito in DVD. Nel 2014  l’Imperial War Museum ha restaurato interamente il premontato aggiungendo la sesta bobina dei sovietici e realizzando il nuovo documentario completo cui è stato dato  il titolo originario “German concentration camp factual service”. Un’opera di testimonianza, prova e documentazione per mantenere la memoria.

Nell’immediato fu fatto qualcosa per far conoscere e, in un certo senso, espiare ai tedeschi civili ciò che era avvenuto: furono obbligati a  vedere i cumuli di cadaveri e anche ad aiutare a rimuoverli, in questo lavoro le immagini riprendono soprattutto le guardie del campo costrette a seppellire i morti. Sono eloquenti le fotografie con  alcune donne  tedesche, e perfino un bambino di 7 anni, che guardano i corpi delle le vittime del “treno della morte”, proveniente da  Buchenwald e diretto a Flosseenburg, restato fermo per una settimana nel loro paese prima di proseguire per Dachau. Ed è particolarmente espressiva l’immagine del rabbino in piedi sull’attenti che recita la preghiera dei defunti dinanzi a una spaventosa fossa comune, come tante altre che restano nella memoria.

La gioia della liberazione, l’odissea del ritorno a casa

Le  immagini non sono solo di morte ma anche di vita, riprendono la gioia nei volti dei liberati, la fotografia di otto di essi su una panchina li mostra scheletriti, sono alcuni sopravvissuti di Mathausen. Anche scene di massa con i liberati festanti che si accalcano e salutano i liberatori.

Non è tutto finito, però, si tratta di organizzare il rientro dei milioni di deportati dal territorio liberato  nei loro paesi di origine, e  con lo scenario di distruzione  non si poteva contare su una rete di trasporti funzionante in Europa. Primo Levi ne “La tregua” ne ha dato una testimonianza diretta.

A queste persone, internati nei campi di lavoro e di sterminio, prigionieri di guerra, lavoratori civili, fu dato lo status di “Displaced persons”  e per loro furono allestiti 227  campi dall’UNRRA. Si pensi che in questi campi nell’estate del 1947, due anni dopo la fine del conflitto, erano presenti ancora in 600.000, di cui 170.000 ebrei; l’ultimo campo fu chiuso dieci anni dopo, nel 1957, e anche se la maggior parte di essi fu chiusa prima del 1952, sono dati eloquenti di queste difficoltà.

Viaggi ed attese interminabili, spesso con direttrici opposte rispetto alla destinazione, secondo le linee disponibili, mesi e mesi di disagi inenarrabili anche nella gioia della libertà riacquisita, con l’impossibilità di far avere notizie. Si costituirono comitati appositi intorno alla Croce rossa, come il Comitato ricerche deportati ebrei, si mobilitò per le ricerche anche il Vaticano.

La situazione in Italia, i campi della Risiera di San Saba e di Bolzano-Greis

Nella mostra un’apposita sezione è riservata alla situazione in Italia. C’erano due zone sottoposte all’amministrazione tedesca, di cui vengono indicati i nomi in tedesco e in italiano.

La  prima è  la “Zona di operazioni del Litorale Adriatico” dove fu istituito il Campo di detenzione di polizia della Risiera di San Saba; vi transitarono 20.000 prigionieri, ne morirono 2000-3000, molti uccisi con il gas o con fucilazioni e colpi alla nuca.  Poi la “Zona di operazioni delle Prealpi”  dove venne  istituito il Campo di smistamento e transito di Bolzano-Greis, gli internati  furono 10.000. Nei due campi varie categorie di perseguitati, compresi ebrei e zingari.  

Si crearono in molte province piccoli campi di concentramento presso carceri e caserme, ville requisite e altri locali, finché nel 1943 a Fossoli di Carpi fu istituito un campo nazionale anche per detenuti politici. Alcune brutte macchie:  il 26 gennaio il primo trasporto di ebrei libici deportati, anche se organizzato dalle SS;  il 22 febbraio  il convoglio per Auschwitz-Birkenau con più di 600 ebrei italiani, finché il 15 marzo il campo passò sotto il controllo dei tedeschi.

Agli italiani ricordati nella mostra la nostra dedica

Tiriamo un sospiro di sollievo al termine di una ricostruzione che non esitiamo a definire sofferta  e concludiamo con quanto di più evocativo e positivo possa esserci: gli  italiani deportati e sopravvissuti, le cui  fotografie e cimeli punteggiano, come già detto, l’intero percorso espositivo.

Vogliamo ricordarne i nomi, per ciascuno di essi c’è una storia toccante ricostruita nella mostra con ampiezza di documentazione originale: Mario Limentani e Sion Burbea, Shlomo Venezia e Giuseppe Di Porto, Primo Levi e Sami Modiano, Isacco Sermoneta, Amalia e Lina Navarro, Liliana Segra  e Nedo Fiano, Franco Schonheit e Luciana Nissim, Rosa Hanan,  Ida e  Stella Macheria, Nathan Cassuto e Anna Di Gioacchino, Arminio Wachsberger e Alberto Sed, Liliana (Tatiana) e Alessandra (Andra) Bucci . Oltre agli ebrei, i deportati politici:  Lidia Beccaria Rolfi e Max Boris, Aurelio Carpinteri e Angelo Adam. Infine gli IMI, gli Internati Militari Italiani, su 600.000 oltre 50.000 morirono, sono ricordati con la storia di Enrico Blasi, che come gli altri rifiutò di combattere a fianco dei taprile 1945edeschi.

A  questi fulgidi esempi di sacrificio e di resistenza vittoriosa dedichiamo questo nostro resoconto di una mostra che evoca sgomento e orrore,  ma suscita anche un senso di liberazione.

Info

Complesso del Vittoriano, lato piazza Ara Coeli, tutti i giorni, da lunedì a giovedì ore 9,30-19,30, da venerdì a domenica ore 9,30-20,30, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito.  http://www.comunicareorganizzando.it/; . Tel. 06.6780664. Catalogo “La liberazione dei campi nazisti”, Gangemi editore, gennaio 2015, pp. 208, formato 21×29,5, dal catalogo sono tratte le notizie del testo. Cfr. i nostri articoli: per le altre mostre sul tema, in questo sito, “Ebrei romani, 70 anni dopo l’ ‘infamia tedesca’”  24 novembre 2013, e “Roma, la liberazione del 1944 dopo 70 anni”   5 giugno 2014; in www.visualia.it , “Roma. I ghetti nazisti, fotografie shock  al Vittoriano”  27 gennaio 2014, “Roma. Ombre di guerra all’Ara Pacis”  2 febbraio 2012; “Roma. In mostra le fotografie dello sbarco di Anzio”, 22 giugno 2014″  21 gennaio 2012in “cultura.inabruzzo.it”  “Auschwitz-Birkenau, ‘la morte dell’uomo’”  27 gennaio 2010, e “Scatti di guerra alle Scuderie”  8 agosto 2009; per le altre mostre celebrative, in questo sito: “Grande Guerra, immagini, cimeli e documenti, al Vittoriano”  15 dicembre 2012, e  “Grande Guerra, il Centenario al Vittoriano”  2 giugno 2014, “Bandiera, 90 artisti in mostra al Vittoriano” 14 gennaio 2014, e “Bandiera, 90 opere di artisti sul tema, al Vittoriano” 15 gennaio 2014; in www.visualia.it“Roma. Il treno del Milite Ignoto nelle foto d’epoca” 2 novembre 2011,  e “Roma. Al Vittoriano le fotografie del primo ‘900 verso la Grande Guerra” dicembre 2012.

Foto

Le immagini  sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Museo della Shoah,  per l’opportunità offerta. In apertura, l’ingresso della mostra con il reticolato;  seguono,  Flossenburg,  il rancio dei  prigionieri al lavoro in una cava nel 1942 e  Auschwitz-Mauthausen, la “marcia della morte” nel disegno “Evacuazione”, di David Olére, ebreo polacco assegnato a Birkenau, sopravvissuto, poi  Auschwitz-Birkenau, i liberatori russi davanti a una fossa comune, e Mauthausen, un’immagine scattata da un prigioniero spagnolo nel 1945, presentata come prova al processo per i crimini di guerra nazisti, quindi Bergen-Belsen, il rabbino dell’esercito britannico  Leslie Hardman recita la preghiera dei defunti davanti a una fossa comune nel 1946, e Dachau, sottocampo Allach, gli internati salutano i liberatori americani il 30 aprile 1945; quindi,  Bergen-Belsen, guardie femminili del campo costrette a seppellire i morti il 18 aprile 1945, e Mauthausen, sopravvissuti ischeletriti su una panchina, maggio 1945; inoltre, Auschwitz-Birkenau, bambini liberati, 1945, e  Bergen.Belsen, distribuzione del pane alle donne sopravvissute il 24 aprile 1945; infine, un sopravvissuto russo liberato dagli americani denuncia un aguzzino il 14 aprile 1945  nell’immagine simbolo della mostra,  e uno dei blocchi fotografici dell’esposizione, coni civili tedeschi obbligati a vedere i cadaveri del ‘treno della morte’ riesumati a Nammering, a destra in alto anche un bambino di 7 anni; a destra in basso, Dachau, sottocampo Landsberg, soldati americani davanti a centinaia di cadaveri il 30 aprile 1945;  in chiusura, la ricostruzione al termine della mostra, dell’ingresso di Auschwitz.con la famigerata scritta “Arbeit Macht Rei”, “Il lavoro rende liberi”.