Seicento italiano, 1. Le collezioni dei Reali di Spagna alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Dal 14  aprile al 31 luglio 2017 alle Scuderie del Quirinale la mostra “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni dei Reali di Spagna”  espone  60 opere  del Patrimonio Nacional, l’istituzione spagnola che gestisce le collezioni della Corona e ha partecipato all’organizzazione italo-spagnola della mostra insieme  ad Ales, la società del Mibact che gestisce le Scuderie, presidente e A.D. Mario De Simoni  che nelle Scuderie come Direttore generale dell’Azienda Speciale Palaexpo ha organizzato dal 2008, tra le tante, 8 grandi mostre monografiche e 5 importanti retrospettive. La mostra è a cura di Gonzalo Redin Michaus, come lo splendido catalogo edito da Skira con i due enti organizzatori.

La nuova gestione delle Scuderie del Quirinale fa il bis dopo “Il Museo universale”, due mostre spettacolari accomunate, oltre che dalla ricchezza espositiva, con cataloghi veramente monumentali, dalla destinazione estera, edidenziata da entrambe,  delle opere dei nostri grandi artisti del ‘500 per la mostra precedente, del 1600 per quella attuale. Si ferma qui l’analogia perché  tale destinazione mentre nel “Museo universale”  è stata temporanea in quanto dopo le  requisizioni napoleoniche del 1796-1811  si è avuta  la restituzione al nostro paese nel 1916, per i “Capolavori del ‘600 italiano” è stata definitiva, sono entrate nelle Collezioni Reali con modalità del tutto regolari, tra donazioni, acquisti e committenze.

I doni di opere d’arte venivano fatti al Re di Spagna direttamente oppure tramite i suoi alti dignitari, Ambasciatori e Viceré, ai quali venivano regalate  dai principi e governatori italiani per ingraziarsene i favori, come avvenne ad esempio per il principe di Piombino, Niccolò Ludovisi, che lasciò per testamento a Filippo IV  sei opere d’arte che il re avrebbe potuto scegliere a piacimento dalla sua collezione.

Inoltre vi erano gli acquisti diretti e le committenze di opere con precise destinazioni, come fece Filippo IV, lo documenta l’accurato saggio di David Garcia Cueto che ricorda il suo grande interesse per la pittura italiana, favorito dalla conoscenza diretta di artisti e mecenati.

Volendo portare la  modernità nell’austero Palazzo Reale di Madrid, creò il Salòn Nuevo, che fu chiamato “degli specchi” e per adornarlo  incaricò l’ambasciatore a Roma, il nobile Inigo Vélez de Guevara, conte di  Onate e altri suoi rappresentanti in Italia, come il governatore di Milano don Gonzalo de Còrdoba, di prendere contatto con gli artisti per gli acquisti e le committenze;  queste ultime con precise indicazioni sui temi da illustrare nell’ambito di un  programma iconografico complessivo “destinato ad esaltare, con dipinti di eccellente qualità, la grandezza del principato degli Asburgo”. Già nel ‘500 Carlo V aveva avviato il collezionismo di opere d’arte italiana, pratica che si estese nel ‘600 con i successori.

Il ricchissimo patrimonio artistico della Corona fu collocato nel Museo Real, istituito nel 1819 da re Ferdinando VII,  poi è divenuto il Museo del Prado dove si trovano attualmente, a parte le opere rimaste nei Reales Sitios, le residenze regali. Quella che era una semplice collocazione è divenuta  un’acquisizione definitiva dal 1865 allorché la regina Isabella cedette alla Stato la gestione dei beni ereditati rinunciando a conservarne la proprietà; a tal fine fu istituito l’apposito fondo collezionistico, il “Patrimonio National” che per questa mostra ha selezionato le opere da esporre mirando alle eccellenze e, come abbiamo premesso, ha partecipato alla sua organizzazione.

Le opere della collezione reale hanno esercitato  notevole influenza nell’arte spagnola, che ha avuto il suo culmine in Velàsquez, anche perché comprendevano  maestri come Caravaggio e Bernini, i due estremi del realismo e del barocco insieme ad altri alfieri del classicismo e del naturalismo.

Per questo, sempre nel ‘600  vi furono proficui scambi di artisti, lavorarono alla Corte spagnola artisti italiani come Luca Giordano, per dieci anni, mentre artisti spagnoli vennero in Italia, come José de Ribera che si trasferì stabilmente a Napoli dieci anni dopo essere giunto a Roma nel 1606, quando aveva 15 anni.

Ciò riflette gli stretti legami sul piano artistico e culturale tra Italia e Spagna nel nome dei quali la mostra è stata inaugurata dal Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella alla presenza del Presidente della Camera dei Deputati di Spagna Ana Pastor Juliàn.

Le opere sono presentate in 5 sezioni che ripercorrono una parte importante della storia dell’arte italiana ed europea nel Seicento, e consentono le opportune comparazioni tra artisti diversi mettendone in risalto le differenze di stile in ordine alle principali correnti del periodo, dal naturalismo al realismo, dal classicismo al barocco. in questo senso ha un alto valore didattico ed educativo e pertanto va raccomandata alle scuole d’arte e agli istituti scolastici in genere.

Dal punto di vista del visitatore è una cavalcata esaltante tra 60 opere di grandi artisti,  capolavori di pittura e scultura, molti spettacolari per le dimensioni, la resa cromatica e la maestria compositiva, esposti in modo suggestivo nella penombra delle Scuderie.

 Racconteremo la mostra, dopo aver sottolineato ancora l’importanza che i grandi allestimenti nei palazzi reali spagnoli ebbero nelle richieste di opere d’arte degli italiani  per esservi collocate a seguito di donazioni, acquisti o committenze. Dal Salon Nuevo dell’Alcazar, poi “degli specchi”, come abbiamo ricordato,  al Palazzo del Buen Ritiro, inaugurato nel 1633, e soprattutto all’Escorial, definito “Pantheon reale”, un monastero con le spoglie degli avi di Filippo IV che lo inaugurò il 15 marzo 1654 dopo un restauro di decenni; le opere considerate minori venivano collocate in una parte secondaria del monastero, e questa sorte toccò anche al “Crocifisso” di Bernini, un vero capolavoro che fu paradossalmente “declassato”, come vedremo, a vantaggio di un’opera meno pregiata.

La storia delle acquisizioni è molto interessante, perché consente di entrare in vicende con intrecci tra aspetti personali e istituzionali che fanno rivivere ancora di più il periodo storico in cui si collocano le opere esposte nella mostra. Questa ricostruzione si trova nel saggio del già citato David Garcia Cueto, che consigliamo per una lettura istruttiva e avvincente. Ma anche tutti gli altri saggi del ricchissimo catalogo, che illustrano e documentano accuratamente i vari aspetti del periodo storico, e non citiamo solo per brevità, sono una documentazione preziosa di cui fare tesoro.

Dal manierismo  al realismo con Caravaggio passando per Barocci

La visita inizia con la 1^ sezione, “Dalla maniera alla natura. Tra  Barocci e Caravaggio”. Il titolo riassume un evento epocale nella storia dell’arte, l’irrompere del realismo di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, che ha rivoluzionato la pittura con la sua rappresentazione veristica della realtà, nella drammaticità data dall’ uso della luce e delle ombre, in un chiaroscuro fatto di sciabolate tale da scolpire le immagini rendendole vive e calandole nella realtà del suo tempo.

Anche lui fa riferimento alla natura, ma prendendola nella sua interezza, senza sceglierne le parti più belle ed edificanti come il naturalismo, né  quelle che esaltavano l’ideale della bellezza come il classicismo, e tanto meno quelle artificiose e affettate come il manierismo. 

Caravaggio, anzi, manifesta la propria rabbia esistenziale – che lo vide coinvolto in episodi di violenza fino all’uccisione avvenuta in una rissa e a lui imputata, divenuta causa delle sue tormentate peregrinazioni – eludendo i vincoli delle committenze religiose con modelle e modelli presi dall’umanità considerata degradata e con il rilievo dato a particolari non certo edificanti ma espressione della cruda realtà.

E’ al centro di uno dei tanti confronti che la mostra offre al visitatore perché possa vedere direttamente i radicali salti stilistici tra vari artisti nella rappresentazione degli stessi soggetti, cogliendo anche le notevoli differenze nei contenuti più profondi delle opere esposte.

“Salomè con la testa del Battista” di Caravaggio, 1607,  e “Giuditta con la testa di Oloferne”, 1596-1610,  di Fede Galizia, degli stessi anni di due artisti lombardi, sembrano agli antipodi. Alla drammaticità della scena scolpita dalla luce che scava nel buio del primo, con i volti delle tre figure presi dalla gravità del momento, corrisponde un’immagine improntata a letizia, spiccano l’abito di velluto e broccato e l’acconciatura scintillante di gioielli, i volti sorridenti anche se nel vassoio c’è una testa mozzata peraltro dall’espressione placida rispetto alla durezza di quella di Caravggio.

Il  naturalismo è rappresentato dal dipinto di Federico Barocci, “Vocazione di sant’Andrea e san Pietro”, 1584-88,  il cui dono del duca Della Rovere al re Filippo II procurò un invito a corte all’artista, declinato per misantropia e salute cagionevole. Figure luminose in primo piano con un fondale  marino scuro dall’atmosfera corrusca, un’apertura paesaggistica che si impone all’attenzione  nonostante la posizione dominante di Cristo e san Pietro.

II  curatore Gonzalo Redin Michaus  giustifica la presenza di quest’opera anteriore in una mostra dedicata al ‘600, ricordando quanto scritto nella biografia di Giovanni Bellori secondo cui vi sono “nell’opera di Barocci tratti – quali l’accentuata indole emozionale delle sue dinamiche composizioni, caratterizzate da forti contrasti di luce – che anticipano il barocco e che furono tenuti ben presenti da alcuni dei suoi protagonisti: Annibale Carracci (1560-1609), Peter Paul Rubens (1577-1640), Giovanni Lanfranco (1582-1647), e Gian Lorenzo Bernini (1598-1680)”. E prosegue: “Composizioni che Barocci costruisce, almeno in parte, secondo il metodo classicista caldeggiato da Bellori, incentrato sulla paziente esecuzione di disegni preparatori alla maniera di Raffaello (1483-1520) e sullo studio del naturale, passaggio indispensabile per abbandonare l’arte della maniera, fondata sull’artificio e l’affettazione del tutto estranea all’imitazione della natura”.

Le altre opere della sezione sono scultoree, un piccolo “Crocifisso”in bronzo di Antonio Susini su disegni del Gianbologna, 1602, in cui Cristo è ancora in vita, guarda verso l’alto e non presenta segni di sofferenza né nel volto né nel corpo che sembra intatto; in un altro “Crocifisso”  di avorio, forse di Georg Petel, la testa invece è reclinata, l’espressione patetica e sofferente, il corpo leggermente arcuato che segue la naturale curvatura della sezione della zanna da cui è stato ricavato dallo scultore e all’insegna della sofferenza, come tutto il resto, dalla bocca aperta nell’esalare l’ultimo respiro, alle mani, i piedi e la pelle raggrinzita, e ulteriori dettagli altamente drammatici.

Siamo fuori dal tormento e dalla sofferenza del Cristo in croce  nel “Tabernacolo” di Domenico Montini, 1619, in bronzo e argento con  un mosaico fiorentino in pietre dure, come un tempio rinascimentale con statuette di santi intorno e sotto la cupola, e nelle nicchie in basso, è alto circa 190 cm, veramente spettacolare. L’autore era uno specialista di tabernacoli con inserti lapidei, si legge nelle cronache che gli era stato chiesto di inserire una serie di pietre, la cui lista la dice lunga su quanto fossero esigenti i committenti che minacciavano anche penali in caso di inadempienza: agata, eliotropio, lapislazzuli, diaspro, calcedonio, corniola e ametista.  

Infine due “Ritratti di giovane di profilo”, uno rivolto a sinistra, l’altro a destra, di Giovanni Baglione, il rivale, per così dire, di Caravaggio. Sono di piccole dimensioni, volti femminili  che, scrive Maria Cristina Terzaghi, “non sono iconograficamente uniformabili ai ritratti di ‘belle donne’ che ebbero una vasta fortuna in Europa nella seconda metà del Cinquecento e fino al Settecento, generalmente ritratte frontalmente. Il taglio di profilo suggerisce la vicinanza con le antiche medaglie e dunque, più che ritratti, sembrano immagini ideali o di antiche donne illustri, che talvolta completavano le più diffuse serie maschili.

Abbiamo parlato di ideali, questo ci introduce alla sezione successiva della mostra, e vedremo perché.

Dal naturalismo fino al realismo, poi all’idealizzazione

Nella 2^ sezione, “Natura e ideale. da Caravaggio a Reni”, irrompe sulla scena un nuovo protagonista, Guido Reni della scuola  bolognese allorché, dopo le affettazioni del manierismo veniva propugnato un ritorno alla natura ma senza difetti, per seguire un ideale di bellezza.

In particolare, secondo le “prescrizioni” di Giuseppe Aguzzi, ricorda il curatore, si dovevano superare le formule manieristiche con un rinnovamento, già attuato ma con forza realistica da Caravaggio, “attraverso uno studio incessante della natura; una natura che, tuttavia, l’artista doveva emendare per rappresentare le cose come dovrebbero essere in tutta la loro perfezione  e non raffigurarle tal quale, come faceva Merisi”. A questo scopo si doveva seguire una “‘Idea della bellezza’ superiore a quella offerta dalla natura stessa, raggiungibile soltanto dopo averne selezionato le parti migliori e tenendo a mente i modelli della scultura antica”.Guido Reni, pur sposando questa impostazione, come osserva ancora il curatore, non si libera subito dal fascino del realismo: “Nonostante la pronta adesione al ‘bello ideale’, si confrontò con la pittura di Caravaggio per un breve periodo… di quel momento restano tracce nella Santa Caterina immersa nell’oscurità”. Nel quadro del 1606, che vediamo esposto, l’influenza caravaggesca viene trovata “nella luce verso la quale  rivolge il viso; un’illuminazione proveniente,.come in Caravaggio, da una fonte invisibile che nonostante l’assoluta idealizzazione consente alla figura di acquisire, grazie all’intenso chiaroscuro appreso dal maestro lombardo fisicità e verosimiglianza”, mentre il volto sembra “in procinto di esalare un sospiro”, a differenza del modello cui sembra si sia ispirato, la “Santa Cecilia” di Raffaello.

Di Guido Reni vediamo anche la “Conversione di Saulo”, 1621, selezionato tra i sei quadri che, come abbiamo già ricordato, furono lasciati per testamento dal principe di Piombino alla scelta di Filippo IV. Nel dipinto viene riscontrata una “equilibrata composizione di maniera e compassato naturalismo”, con una raffigurazione insolita che isola il protagonista  facendone l’unico soggetto della scena pur movimentata, a parte il cavallo da cui è caduto a terra, per evidenziare “il carattere contemplativo e solitario della conversione” spostandosi quindi dalla rappresentazione naturale all’ideale.

 Non viene  confrontato con la”Conversione di Saulo” di Caravaggio, perché non fa parte delle Collezioni reali ma è posto nella parete della cappellina della chiesa di Piazza del Popolo a Roma, insieme al “Martirio di san Pietro”, meta di un flusso continuo di visitatori. ma la differenza è notevole, il realismo caravaggesco  e la fisicità della scena appaiono addirittura sconvolgenti.

Un altro dei sei quadri dell’eredità del duca di Piombino, anch’esso esposto in mostra, è “Lot e le figlie”, del  Guercino, al secolo Giovanni Francesco Barbieri, artista della provincia bolognese, quindi della stessa scuola di Reni e dei Carracci, uno dei quali, Ludovico, per questo quadro e per “Susanna e i vecchioni”, di soggetto affine, stabilì un prezzo elevato, e definì così il Guercino, in una lettera del 1617 a un amico: “Un giovane di patria di Cento, che dipinge con somma felicità d’invenzione. E’ un gran disegnatore, e felicissimo coloritore: è mostro di natura, e miracolo da far stupire chi vede le sue opere”. Di più non avrebbe potuto dire, del resto Ludovico muore nel 1619, due anni dopo la lettera, per cui si è trattato del  “passaggio di testimone”  dall’anziano caposcuola al  giovane artista emergente.

In effetti, il quadro ha una forte presa emotiva con un naturalismo sconfinante nel realismo per la luminosità diffusa che fa spiccare sullo sfondo scuro una scena carica di sensualità. Davide Benati descrive efficacemente la “pericolosa intimità” tra il vecchio padre, malfermo e stordito,e le figlie  che lo ubriacano in una scena di seduzione in cui “una gli incombe sopra, intenta a sollevare l’anfora per versargli altro vino, mentre l’altra, seduta ai suoi piedi, con la destra gli regge il calice e con l’altra mano ne percorre con studiata lentezza la gamba, così da avvicinarsi  insidiosamente al suo grembo”.  Visti in primo piano, il viso avvinazzato del vecchio e i volti vogliosi delle giovani figlie hanno uno straordinario impatto realistico, l'”idea del bello”  appare molto lontana. Anche in “Susanna e i vecchioni” dello stesso anno,  una scena di sensualità contrastata, qui il corpo nudo della donna che si offre alla vista bianco e indifeso sulla destra, contrasta con la figura del vecchio voglioso proteso sulla sinistra.

Sono presenti in questa sezione altri due artisti. 

Di Simone Cantarini vediamo la “Pietà” e “Sant’Antonio da Padova”, 1640,  due piccole formelle esagonali la cui attribuzione del ‘700 ad Annibale Carracci, per l’assonanza con la sua “Pietà”  farnese, ne prova il livello artistico, mentre il materiale raro, l’alabastro cotognino che veniva dall’Egitto, dei dipinti a olio  ne qualificano il valore e fanno pensare a un dono giunto in Spagna per vie diplomatica. Hanno uno sfondo e il cromatismo simile, i colori neutri rischiarati dal celeste di un abito. Nella prima formella troviamo originale che un angelo-putto sorregga la mano di Cristo volgendo la testa all’indietro verso un altro angelo-putto che si protende verso i piedi sempre di Cristo, riverso supino sulle ginocchia della Madonna, la veste celeste, il viso raffaellesco; nella seconda,  uno dei tre angeli sulla destra ha la veste celeste, al centro il santo che solleva uno dei bimbi alla sinistra.

Spettacolare il grande dipinto di Emilio Savonanzi, 265 per 190 cm, “San Benedetto da Norcia e san Giuseppe (?)“, 1630, anch’esso con un’attribuzione prestigiosa al Guercino al cui stile si avvicina, ma nel suo dipinto ci sono anche altre influenze, da Ludovico Carracci a Guido Reni, del resto si definiva “pittore di più pennelli”. Il quadro  forse fu acquistato da Carlo IV di Borbone nell’esilio romano, e per questo il santo con san Benedetto potrebbe essere san Placido, come risulta da documenti dell’epoca. Su san Benedetto non vi sono dubbi per la presenza della tiara e del pastorale tenuti da due angeli, e di un corvo dietro di lui, il volatile al quale si tramanda abbia affidato il pane avvelenato. Indossa un saio scuro, è seduto immerso nella lettura, con un’espressione attenta e distesa; mentre appare movimentata la scena sulla destra con un angelo che porge un ramoscello al santo in veste rossa e oro che farebbe invece escludere san Placido, raffigurato sempre in abito monastico; per san Giuseppe milita la scritta in basso del salmo “Beatus vir”, riferito normalmente  a lui.

Così termina la 2^ sezione della mostra, racconteremo  prossimamente le restanti 3 sezioni, “La Roma di Bernini”, “Ideale e  Accadenia”,  “Da Roma a Napoli, da Napoli alla Spagna”. con  Bernini e Algardi, De Ribeira, Luca Giordano e tanti altri.  

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Aperto tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato chiusura protratta alle 22,30. La biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50. Tel. 06.39967500; www.scuderiequirinale.it.  Catalogo “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle collezioni dei Reali di Spagna. “, a cura di Giordano Redin Michaus, Patrimonio Nacional, Scuderie del Quirinale, Skira,aprile 2016, pp. 228, formato 23,5 x 28. dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito il  7 giugno p. v. con altre 12 immagini.  Sugli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito, per Caravaggio 6 giugno 2013 e 27 maggio 2016,  per Baglione, Reni, Carracci  5, 7, 9 febbraio 2013, per Guercino 15 ottobre 2012; in cultura.inabruzzo.it, per Caravaggio 8 e 11 giugno, 21, 22, 23 gennaio 2010; per Barocci 28 febbraio e 1° marzo 2010  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito)..

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante in parte nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte dal Catalogo, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, Caravaggio (Michelangelo Merisi), “Salomè con la testa  del Battista”,1607;seguono. Fede Galizia,  “Giuditta con la testa di Oloferne”,  1596-1610, e Federico Barocci,  “Vocazione di sant’Andrea e san Pietro”, 1584-88; poi, Giovanni Baglione, “Ritratto di giovane di profilo rivolta a destra” con “Ritratto di giovane di profilo rivolta a sinistra”, 1621-22, e Guido Reni, “Conversione di Saulo”, 1921; quindi, Guercino (Giovanni Francesco Barbieri), “Lot e le figlie”, 1617; inoltre, Emilio Savonanzi, “San Benedetto di Norcia e san Giuseppe (?)”, 1630, e Giovanni Lanfranco e bottega, “Trionfo di un imperatore romano con due re prigionieri”, 1634-36; ancora, Domenico Montini, “Tabernacolo”, 1619, e Charles Le Brun, “Cristo morto compianto da due angeli”, 1642-45, e Velasquez (Diego Rodrigo de Silva), “La tunica di Giuseppe”, 1630-34; in chiusura, Giulio Cartari, “La regina Cristina di Svezia”, 1681.