Premio Montale a Emanuele, 2. Un lungo cammino

di Romano Maria Levante

Abbiamo dato conto del conferimento del Premio Montale “Fuori di casa” 2019, Sezione Mediterraneo per la Poesiaa Emmanuele Francesco Maria Emanuele, avvenuto a Roma, al Palazzo Althemps, l’11 aprile 2019, dopo la presentazione della direttrice del Museo Nazionale Romano Daniela Porro, ad opera della  presidente del Premio Adriana Beverini con la vicepresidente  Barbara Sussi,; è stata letta la motivazione ed è stata consegnata al premiato anche l’opera, una “E miniata”, da un codice medievale, creata per lui dal pittore e miniatore d’arte  Piero Colombani. Sono state lette molte poesie di Emanuele dall’attrice e regista Anna Rita Chierici e  singole poesie lette in omaggio da personaggi a lui vicini, tra cui Vincenzo Mascolo, curatore dell’annuale maratona poetica “Ritratti di Poesia”. Patrocinio della RIDE, Rete Italiana per il Dialogo Euro-mediterraneo e Fondazione Anna Lindh, realizzato dalla Associazione Percorsi con Alice Lorgna.  

Nel nostro resoconto, oltre a riferire nella conclusione sulla cornice della manifestazione costituita dalla  collezione statuaria di Palazzo Althemps, in associazione ideale con la collezione artistica organizzata dal premiato nel Palazzo Sciarra, abbiamo anticipato che non potevamo dimenticare le parole della poetessa Maria Luisa Spaziani, nella serata dedicata a Emanuele al Teatro Quirino il 20 ottobre 2010, né  fare a meno di ripercorrere con i suoi versi il “lungo cammino” poetico e di vita.  Rievochiamo subito le parole della Spaziani per poi immergerci nel mondo poetico di Emanuele.     

Un ricordo della poetessa Maria Luisa Spaziani

Dopo le letture poetiche di Paola Gassman e Ugo Pagliai, Geppy Gleijeses e Marianella Bargilli con lo spettacolare scenario delle immagini sullo schermo e la musica di fondo, nella serata del 2010 al Teatro Quirino entrò in scena la poetessa Maria Luisa Spaziani, allorché dinanzi alla platea non più buia ma  illuminata erano sul palco con lei i quattro interpreti e il poeta Emanuele. Il quale aveva superato la ritrosia a presentarsi in una veste che per pudore non voleva aggiungere alle altre indossate  in tante posizioni di vertice – l’imprenditore e il finanziere, l’intellettuale e lo scrittore,   

l’operatore culturale e il creatore di grandi eventi artistici – al punto di non aver voluto rilasciare un’intervista sulla poesia: “Io sono tante cose insieme – disse lui stesso – considerarmi anche poeta sarebbe troppo”. Ma non poté  insistere su questo,  lo considerava tale la poetessa per antonomasia, che con fervore giovanile fece una vera e propria orazione celebrativa. 

“Il poeta è tutto – disse nel delinearne la figura – mentre le altre attività sono parziali e settoriali, il poeta ha la visione d’insieme”. “Emanuele o Emmanuele – proseguì giocando sulla emme raddoppiata nel nome, come aveva fatto Lino Angiuli nell’introduzione scritta alla sua silloge – è imprenditore, banchiere, operatore e tanto altro, lui vorrebbe essere soltanto poeta”. Perché ne conosce il valore e il significato, anche se ne ha il pudore: “Quando la gente sente che qualcuno in aggiunta alle proprie attività è anche poeta – continuò la Spaziani – fa un sorrisetto come se fosse marginale, un giochetto tipo le parole incrociate se non una stranezza”.

La poesia, invece, è un fatto serio: “E’ un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli”. Ma è anche molto di più: “Se faccio un sogno e poi ne nascono dei versi, quei versi sono il sogno che ha sognato con me. Attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi.”. E, riferendosi alle poesie di Emanuele, aggiunse: “Io ho sognato con lui l’Africa, i suoi deserti e i suoi cactus, la Maremma purtroppo dimenticata e i suoi segreti, i misteri e le favole, Cortina e una storia d’amore”. 

L’imprenditore e il poeta, in sintesi l’uomo

Emanuele non è  ilfreddo imprenditore come si potrebbe pensare, nell’intervento per il Premio Montale si è commosso, ben altro dell’uomo di pietra, non lo è con la sua poesia; ne ha assorbito la sobrietà e il pudore, pur se apre il suo animo ma sempre trattenendosi. Al pari della serata attuale, anche nella serata al Quirino nel 2010 aggiunse solo i ringraziamenti alla poetessa e ai tanti amici che vollero essergli vicini, con un tocco di classe nell’evocare la città natale da cui era stato lontano per più di cinquant’anni, una lontananza voluta per non vederla diversa da come l’aveva vissuta nella fanciullezza; il nostro pensiero è corso a “Nuovo Cinema Paradiso” anche se  non c’era stato un vecchio saggio a dirgli di restarne lontano.  

C’era voluto un convegno sull’identità mediterranea per riportarlo molti anni fa a Palermo dove aveva  rivisto quel mondo e si è immedesimato nella poesia intitolata  “Città”, al culmine dei suoi pensieri: li rappresenta e lo rappresenta appieno.

Gleijeses la lesse da par suo in conclusione, dopo aver fatto un’acuta considerazione: “Come una donna bellissima paga lo scotto di non essere ritenuta intelligente, così un grande imprenditore e uomo di finanza può subire il pregiudizio di non essere ritenuto poeta”. Non è il caso di Emanuele, il riconoscimento gli è venuto da tante parti,  riconfermato allora dalla Spaziani e dai grandi attori che hanno scelto di fare lo spettacolo perché le poesie di Emanuele sono grandi poesie. 

La serata terminò con il saluto degli amici a Emanuele sempre più commosso, come si è commosso  per il Premio Montale, al termine ci sono stati anche degli abbracci, presenti in prima fila la moglie e la figlia Teresa, artista di cui ricordiamo l’opera selezionata per il Padiglione Italia, sezione Lazio,  della Biennale del 2011 curata da Sgarbi, e altre opere esposte in alcune gallerie romane, il figlio assente giustificato per un impegno di lavoro.  

Non può finire la nostra cronaca con questo flash back che riporta indietro di quasi un decennio, senza trasmettere  qualche favilla degli sprazzi di luce poetica che illuminarono allora la platea del Teatro Quirino e ora hanno illuminato la grande sala del  palazzo Althemps, gremita di intervenuti, con al centro l’imponente gruppo scultoreo.  Lo facciamo richiamandoci alla prima delle quattro  raccolte di poesie pubblicate dal 2008 al 2016, dal titolo eloquente “Un lungo cammino”,  perché non è una silloge episodica ma una vera sequenza di cinquant’anni di ricordi e di emozioni. 

L’inizio del lungo cammino

Sfogliando l’aureo libretto, cerchiamo di estrarre e legare parole che riescano a renderne il filo conduttore, il ritmo e l’armonia, la modulazione dei toni e la profondità dei contenuti, rievocando i versi che esprimono il “lungo cammino” del poeta e accompagnano quello dell’uomo.  

La prima poesia che troviamo è quella, citata in precedenza, in cui l’autore si riconosce maggiormente, “Città“, nella sezione dedicata alla terra, anni 1956-58: c’è già un primo percorso di vita nel quale si rispecchia quello successivo. Appaiono i segni arcani delle strade più buie dell’infanzia, che si ripetono più tardi nel tempo dell’ansia, tra le occhiaie vuote di vuoti destini e slarghi di rara bellezza. Negli anni successivi interviene il rimpianto, restano gli squarci di luce improvvisi su vecchi portali, il colore rabbioso dei muri, la polvere opaca, e gente incupita dall’antico dolore di chi vive nel bello e ne muore. E sempre in questo periodo, indietro di mezzo secolo, a San Martino c’è il caldo meriggio che annulla i sogni, negli angoli oscuri in fondo all’anima ansima il petto di grandi speranze che il tempo corrode. L’età dell’infanzia suscita i ricordi più dell’attesa degli anni a venire, quando un viso d’opale diffonde una luce e canti trasmettono parole d’incenso. Dalla terra prorompe la rabbia del Sud, l’antico rancore per quel che non fu, per quel che non è, le vane speranze di vite diverse e diverso futuro; in un mare che è ostile seppure ricco di antiche leggende.

Dalla terra sono ispirati i canti dell’Aspra, degli stessi anni, il poeta apre il cuore in una natura dove all’ostilità della terra si contrappone la lusinga del mare. Il mare tra le case in rovina, s’inseguono i venti di terra. Per ore – confida – guardavo le onde, pensavo al futuro di là da quel mare; poi la partenza, andai e persi il ricordo, rivedo di là altro mare, soffermo lo sguardo sull’onde e sento la stessa ansia di sempre: conosce lo stesso pensiero la mente, andare, partire. Lo spirito di Ulisse, forse, il mezzo secolo e oltre successivo mostra il lungo viaggio del poeta con  “Itaca” nel cuore.

Il porto è un luogo metafisico con la luna che emerge da dietro le vele e sembra fermarsi immota nel vecchio scenario sbiadito dove la notte che avanza rianima i moli, mentre il mare immobile attende. E sui volti di grande tristezza si legge con l’ansia il gelo di esistere. Un sentimento personale e collettivo, se un canto si leva con le nenie di popoli dispersi da sempre sul mare che unisce le coste. In un mare simile il poeta non resta in superficie a meditare, vi penetra nel fondo. Scendevo nel buio dell’acqua profonda – esclama – nel cono di luce che spegne i raggi e le stelle. Fluttuavo, portato dall’onde leggere nel sacro respiro del mare: padrone di me nel silenzio capivo che come sul mare la vita, incurante, mi avrebbe portato. 

L’estate di Pioppo ci dà immagini crepuscolari. E’ sera, mia madre suonava nel portico di vecchi fogliami – ricorda – il buio ritagliava la figura di lei, udivo il richiamo, volevo fermare la voce, l’odore di terra, le strisce del cielo, il vapore alla base dei monti, volevo che tutto restasse così, la madre e la natura. Ma il sogno d’estate carducciano sembra svanire, passa la sera e scende la notte. 

Torna la natura con il bosco e le ginestre. Una scultura antica nella radura, immobile, la quercia possente e solitaria, protesa al cielo, resiste al gelo e alla calura, ai venti e ai fulmini; i fusti leggeri invece si accalcano tremanti aggrappati l’un l’altro per cercare protezione. L’insegnamento: così nella vita l’uomo grande è solo e gli altri lo guardano timorosi, bisognosi del gruppo per esistere; e non solo per resistere, aggiungiamo. Prima abbiamo evocato Carducci, la ginestra non può non richiamare Leopardi, per il fiore del deserto il poeta trova una definizione di intensità straordinaria: risposta terrena al raggio del sole si aggrappa alla pietra più arsa. E questa sua capacità di resistere dà forza: lontano si sente l’odore portato dal vento, nel fiore si ritrova l’ardore che porta nel cuore. 

Il cammino prosegue

Scorrono lenti gli anni, siamo al 1963-67, ancora ricordi dell’isola, per la quale si prova un amore struggente, il poeta la vede e la sente, forte e  crudele,  bella di sole e di luce intrisa. E si apre a una confessione che è un’orgogliosa riaffermazione di identità: negli anni ti ho portato nel cuore, ragione di vita, nei segni lavati dal tempo aspetto di te ciò che è mio. Per questo sente che deve ancora cercare, nel rimpianto di vite diverse vissute nel sogno ed esclama: vorrei ripartire dal nulla di prima e tornare e cercare partendo da niente. Le ore di chiare speranze sembravano grandi e ora sono solo rimpianti. Non vi sono fiori sulle strade ferrate su cui corre la vita, si rimane soli e torna il gelo dell’esistenza: non vedo e non sento – dice – il freddo del cuore mi porta la neve negli occhi. 

Il lungo cammino procede, nel 1968-70 si va nell’America di Bob Dylan che cantava: “Quante strade deve percorrere un uomo per diventare uomo, quante orecchie deve avere per sentire qualcuno che piange”. La risposta è nel soffio del vento che va, ora il vento e l’uomo sono lo stesso ma non fermano le lacrime e l’odio. “The road” è il titolo, la strada su cui ora si snoda il lungo cammino, ma arriva la negazione portata dal dolore: non c’è riposta nel soffio del vento, non può rispondere l’uomo al dolore del mondo. L’anima rimane da sola, non sente i dolori del mondo e il grido cammina di notte e non sente.

L’anno dopo si apre un percorso di più di vent’anni, dal 1971 al 1994: esplode l’amore, la vita del cuore. C’è il presagio: svanisce il sogno, corrono negli anni le nuvole, mi volto indietro – sussurra – e non vedo che te, tu sola trapassi il gelo del cuore. Nell’amore si cancellano i pensieri tristi: guardarti avanzare leggera richiudere il libro del mondo, tenerti la mano. Perché sei tu, lo so – si confida – gioisce e batte il cuore al tuo sorriso e si ritrae seguendo il dolore e l’amaro di sempre. Supera l’amarezza: la luce fa sera negli occhi miei stanchi, e tu sei nel ricordo del giorno. Lei ha riportato la vita nel cuore dove non c’erano più per un tempo infinito sorriso ed emozione, nell’anima non c’erano ansie e veri rimpianti. Sparite al ricordo le voci, le facce, i sorrisi. Ma con l’amore il vento di antichi ricordi riempie i miei sogni – esclama – si irradia una luce e in essa ti vedo. L’abbraccio scaccia il tedio e dà voglia ancora d’amore, i giorni svaporano di tutto riempiti di te. 

Un’altra tappa

Dopo questo abbandono liberatorio al sentimento,  un’altra tappa, l’ultima del lungo cammino percorso fino ad allora, va dal 1994 al 2005; non arriva all’attualità, per questa ci sono le tre sillogi successive.  Ma comunque  è un momento che rappresenta  l’occasione di fare un bilancio di sentimenti e di emozioni.

Prima di evocarli con le sue stesse parole ci sono due motivi quanto mai attuali: l’Africa e il vulcano. La prima è la terra dalla quale, dopo la sua Sicilia, ha tratto le maggiori ispirazioni, e al Quirino lo  hanno ricordato le immagini straordinarie che accompagnavano la lettura poetica: il vento odoroso degli altipiani che porta sul mare i magici suoni di Fez e parla di uomini antichi, della loro civiltà. La terra li accolse felice, finché esseri di ferro crociati li spinsero sul mare. Sparirono, rimasero lì, si perse il ricordo e vissero nel canto. E oggi ritornano sospinti dal vento di Fez ma in essi si è spenta la forza creatrice,  attratti da ciò che di loro distrugge il ricordo. Veramente profonda, mentre impetuosa è l’immagine del vulcano: rossi crateri e bagliori di fuoco, il grido possente e i metalli neri e fumanti che sono disciolti e corrono a valle, dove si fermano frementi e di pietra divengono a prova che esiste, per sempre,  il dio Vulcano.

Sulle pietre è scritta la vita che a noi umani tocca leggere senza capire, e non sono le pietre del vulcano. E’ la natura, si deve sapere di aver già vissuto nei boschi in vite lontane: da lupo. Ma non si tratta dell’“homo homini lupus”, bensì di una ricerca: è questo che ora mi manca – sospira – e cerco da solo nel cupo del bosco; sapevo che c’era già stata una vita feroce e felice in cui avevo vissuto la terra mia madre, e il cielo stellato e il sole mio padre e stelle sorelle e fiumi e mari, pietre miliari del ricordo. Cercare se stesso nella natura, ma non solo: ci sono i figli e le vite, il sogno e il rimpianto. 

Nel sonno dei figli si scopre un intenso sentimento, è questa la gioia più grande. Le vite nel corso degli anni spariscono, rimane il ricordo, si perdono nel nulla esperienze ed emozioni. Restano rari momenti: un sorriso di donna, un grido d’amore di figli, la polvere tutto sopisce e ricopre, e nulla più torna nella vita. Il sogno che sempre ritorna non porta più a me il tuo dolce bacio – sospira – ogni ora sapendo che nulla sarà mai come allora.

Si sente,  nella  canzone d’amore, il ricordo di una figura lontana che si cerca di far rivivere: le forme tornite, la veste gioiosa, le labbra dischiuse, e anche il passo armonioso, l’andare altero, lo strano sorriso: rimpiango il tempo perduto e come i rami spezzati mi butto alle spalle i ricordi, sfinito e perduto. Ci sono i sogni portati dal delirio di gloria che atterrano l’uomo ma lo spingono anche a volare alto nel cielo come nuvole d’oro.

E sono proprio le nuvole l’immagine terminale del lungo cammino che abbiamo percorso con il poeta  Riportiamo integralmente, senza scegliere alcune parole “fior da fiore” come fatto finora, la poesia loro dedicata nella sua lapidaria scansione in versi: “Nuvole immobili/ il sole le passa/ riscalda le pietre sconnesse del tempo/ l’umano rincorre l’umano/ costretto da un vivere incerto/ inquieto si aggira/ chiedendo conferma…”.

Qualunque parola di commento guasterebbe, è un percorso di vita e di sentimenti che sentiamo anche nostro, grati al poeta di averci offerto questa sua introspezione che illumina tutti noi, ci fa aprire gli occhi dinanzi a stimoli emotivi che ora ci appaiono più chiari e coinvolgenti, dopo aver fatto un viaggio emozionante che solo la poesia può rendere con le parole che vengono scolpite.

Al termine di questo percorso riecheggiano le parole della poetessa Spaziani al Quirino nel 2010: la poesia é un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli, “i versi sono il sogno che ha sognato con me, attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi”.

Ebbene, con le poesie di Emanuele non abbiamo sognato solo l‘Africa e la sua Sicilia, abbiamo sognato noi stessi, le nostre illusioni e le nostre inquietudini. Abbiamo sognato la nostra vita. Si fermano al 2005, poi ci sono quelle delle sillogi del 2009, 2013 e 2016.  Il lungo cammino continua. 

Info

Palazzo Althemps, Roma, piazza  di Sant’Apollinare, 46.  Il primo articolo sulla premiazione è uscito  in questo sito il  14 aprile  2019, con altre 13 immagini. Cfr,. i nostri articoli sugli annuali “Ritratti di Poesia”: in questo sito,  il 17 febbraio 2019, 1° e 5 marzo 2018, 13 marzo 2017, 19 febbraio 2016, 15 febbraio 2013; in fotografia.guidaconsumatore,  il 30 gennaio 2012; in cultura.inabruzzo.it,  il 9 maggio 2011;  sulla serata teatrale citata nel testo, in cultura.inabruzzo.it  “Quirino,  la poesia di Emanuele diventa teatro”, 24 ottobre 2010 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini della premiazione e delle opere statuarie sono state riprese a Palazzo Althemps da Romano Maria Levante la sera della consegna del Premio, si ringrazia l’organizzazione del Premio Montale e la direzione del Museo Nazionale Romano per l’opportunità offerta.  Le prime 3 immagini sono sulla premiazione, al centro Emmanuele F. M. Enanuele, alla sua sin.la presidente del Premio Adriana Beverini, alla sua dx la vicepresidente Adriana Sussi,  nella 4^ Vincenzo Mascolo legge una poesia in onore di Emanuele, nella 5^ una visione della sala, nella 6^  il Sarcofago scolpito in fondo alla sala; le  immagini successive, dalla 7^ alla 12^, sono sulla collezione statuaria di Palazzo Althemps, la 13^ e ultima, l’interno del  Teatro Quirino, dove nel 2010  si svolse la serata sulla poesia di Emanuele rievocata nel testo.