D’Annunzio, 2. L’arte contro il potere, fino all’esilio in patria

di Romano Maria Levante

Ripubblichiamo il 2° articolo, dopo il primo uscito il 12 marzo 2021, mentre gli ultimi 4 usciranno dal 14 al 17 marzo, tutti già pubblicati sul sito www.arteculturaoggi.com nel 150° anniversario della nascita il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013.

Nel 150° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio, avvenuta il 12 marzo 1863, ne ricordiamo la figura inimitabile seguendo il filo rosso dei rapporti tra arte e potere, evocati dalle mostre romane sui “Realismi socialisti” e “Deineka”. Abbiamo già parlato dell’artista superuomo nell’umiltà, con la gente che “s’ingigantiva” in lui; quindi del suo carisma, per la forza trascinatrice del pensiero e della parola, attraverso la sua partecipazione attiva alla prima guerra mondiale e l’impresa di Fiume; infine dell’artista osservato speciale, l’ispirazione e l’azione sotto gli occhi del potere. Dopo i suoi primi accenni alla pacificazione davanti alle vittime negli scontri fratricidi a Fiume, si passa al suo disegno per l’Italia ispirato alla pacificazione nazionale. Ne parliamo adesso, anche nei suoi rapporti con Benito Mussolini, fino all’esilio dorato al Vittoriale sul Lago di Garda.

In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani

Conclusa la prova di Fiume, il vero confronto tra arte e potere si ebbe nei riguardi del movimento fascista, non ancora entrato nelle istituzioni, ma sempre più minaccioso, aggressivo e impaziente.

Il confronto tra artista e potere emergente: il disegno di pacificazione nazionale

D’Annunzio, che si trovava a Milano per motivi editoriali presso l’albergo Cavour, il 3 agosto ‘22 fu chiamato perché parlasse dal balcone di Palazzo Marino dai fascisti che avevano occupato il Municipio nella mobilitazione contro lo sciopero generale; Finzi e Teruzzi, racconta Umberto Foscanelli, lo convinsero dicendo: “Non siamo noi che vi reclamiamo, ma il popolo milanese, Comandante”. Tenne il discorso “Agli uomini milanesi per l’Italia degli italiani”: “O fratelli, siete l’unanimità del fervore innumerevole; siete la concordia del consenso innumerevole. Mentre la passione di parte tuttavia arde, mentre tuttavia fumano le arsioni e sanguinano le ferite, mentre il volto della Patria è tuttavia velato, noi qui invochiamo la pace e onoriamo la bontà. Sento fremere intorno a me la giovinezza generosa che tende la mano aperta non più in atto di sfida ma in atto di promessa, non più in atto di minaccia ma in atto di protezione. Quando mai, nel travaglio del mondo, la bontà ebbe forza e pregio come in questa nostra vigilia tormentosa e turbinosa?” E ancora: “La bontà ha le sue faville, e tutte le faville secondano la fiamma grande. Vedo in voi sfavillare la bontà efficace e militante, la bontà affermatrice e creatrice, la bontà dei lottatori e dei costruttori: la bontà vittoriosa”. “La folla – si legge nel “Libro ascetico” – dopo un grido confuso e prolungato… erompe in acclamazioni senza fine. Tutte le bandiere e tutti i gagliardetti si agitano”.

Sono bandiere e gagliardetti fascisti trascinati verso un itinerario di “bontà vittoriosa” che non era solo un messaggio spirituale da artista sognatore, quanto un disegno lungimirante di pacificazione nazionale inserito in un progetto politico non inerte e imbelle, dato che pensava di realizzarlo con la spinta di un’adunanza di ex-combattenti di ogni parte politica: “Essi imporranno al Paese – diceva – la loro volontà di unione e di pace. Dove? Quando? Fra due mesi, forse. Vi saranno migliaia di bandiere. Tenetevi pronti. E poi? Un governo provvisorio, la fine della guerra civile, le elezioni in un regime di libertà. ‘Sine strage vici'”. Per questo disegno tesseva una trama complessa della quale citiamo due aspetti in cui spicca l’impronta dell’artista insieme alla strategia del politico.

Il primo aspetto sono riguarda gli obiettivi, così definiti da Paolo Alatri: “Ciò a cui D’Annunzio mirava era di porsi come pacificatore al di fuori della mischia, che in quel periodo, con l’offensiva squadristica, era feroce… quest’opera di pacificazione implicava il coinvolgimento del mondo del lavoro e delle sinistre, quindi una presa di contatto con i loro rappresentanti, il che spiega i colloqui dell’aprile-maggio ’22 e, subito dopo, la protezione accordata alla Federazione italiana lavoratori del mare di Giulietti”; e, forse, spiega anche l’incontro del 27-28 maggio dello stesso anno con Cicerin, il Commissario agli esteri della Russia, che dopo il colloquio disse: “Fui sorpreso di trovare in D’Annunzio un sentimento vivo di simpatia per le lotte sociali degli oppressi”.

L’altro aspetto riguarda i modi con cui intendeva attuare questo disegno, e basta riportare quanto scrive Foscanelli: “Il rifugio di D’Annunzio a Cargnacco era diventato una specie di tempio delfico cui si accostavano tutti coloro che sentivano come il fascismo si facesse ogni giorno più forte e aggressivo”. Sembra addirittura che, prendendo atto della situazione, lo stesso Mussolini lo sollecitasse a un impegno politico diretto. Lui accoglie soltanto l’invito che veniva da Nitti per promuovere l'”unione delle forze più sane” della democrazia, del socialismo, del fascismo nella linea della pacificazione nazionale, antitetica alla linea perseguita dal fascismo: “Tu vedi il pericolo e tu puoi agire sulla gioventù, infiammarla e riportarla sul buon sentiero”, gli scriveva Nitti proponendo un “programma di salvezza per l’Italia” e superando il risentimento per le vicende di Fiume dove il Comandante gli aveva rifilato l’epiteto dispregiativo di “Cagoja”.

Con Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia, in visita al Vittoriale, maggio 1922

 Un primo successo del potere: il progetto di pacificazione è neutralizzato

Ora la parola passa alla dura logica dei fatti, a una realtà che sconvolge tutti i programmi. Mussolini mostrò di aderire al progetto di pacificazione, presumibilmente per controllarlo e cercare di vanificarlo come aveva fatto con l’impresa di Fiume, chiedendo solo che prima dell’intesa a tre si incontrassero Nitti e D’Annunzio. Questo incontro, fissato per il 15 agosto ‘22, non ci fu mai. Mentre Nitti stava partendo per l’appuntamento con un salvacondotto di Mussolini a protezione dalle violenze squadriste, alle ore 23 del giorno 13, praticamente la vigilia di ferragosto, ecco il “deus ex machina”: la misteriosa caduta dalla finestra che tenne D’Annunzio per molti giorni tra la vita e la morte per le ferite alla testa, descritte poi in modo romanzato nel “Libro segreto”.

Non ci soffermiamo sulle versioni e le ipotesi fiorite intorno a questo giallo, dalla caduta accidentale al gioco erotico alla baruffa per questioni di gelosia; e neppure sulle conclusioni – “casualità” senza escludere il “fatto colposo” – dell’indagine del Commissario Dosi, spacciatosi da pittore di farfalle e paesaggi per entrare al Vittoriale e gratificato dell’appellativo di “lurido sbirro” appena la sua identità fu scoperta. Nino Valeri si è chiesto: “Fu un gioco del caso? Ancor oggi gli elementi non ci consentono di dar corpo alle ombre accumulatesi sul fosco episodio”. E questo per la cronaca può bastare.

Dal nostro angolo di visuale ci interessano le parole, riportate nel “Libro ascetico”, che l’artista scrive nel “Commento meditato a un discorso improvviso”: “C’è chi tuttora allude, presso il mio letto… non già a una mia caduta mistica di arcangelo esiliato o d’angelo mutilato ma a non so qual mia caduta d’uomo”, che più avanti definisce causata “da non so che tradimento o da non so che provvidenza”; e le parole scritte nel “Diario della volontà delirante e della memoria preveggente”: “Veramente io sono stato precipitato dalla rupe tarpea. E la lupa capitolina non ha forzato le sbarre della sua gabbia, né Marco Aurelio è disceso dal suo cavallo e dal suo piedistallo”. Alla data del 20 agosto descrive la sua caduta così: “Non sono caduto come un arcangelo folle né come un angelo stanco. L’Italia m’ha gettato dalla rupe tarpea, m’ha precipitato dal monte della cieca giustizia”, frase riferita anche da Tom Antongini che la sentì pronunziata da lui “nei primissimi giorni della convalescenza presenti almeno una ventina di persone”.

Fatto si è che per la conquista del potere da parte del fascismo la neutralizzazione dell’artista che ne stava sconvolgendo le mire, e quindi il sabotaggio al suo disegno, fu provvidenziale. Tre giorni prima, il 10 agosto, c’era stata la drammatica denuncia di Treves alla Camera: “Il fascismo vuole il potere, tutto il potere. Mentre dice che non ha ancora risoluto l’equivoco, se esso è totalitario o insurrezionale, l’insurrezione è vittoriosa. Può darsi che oggi o domani si decida a violare le porte del Parlamento come ha violato quelle dei Municipi”. Quasi a volergli rispondere, in un’intervista pubblicata l’11 agosto sul “Mattino” di Napoli, Mussolini definì un’eventuale “marcia su Roma… non ancora, politicamente, inevitabile e fatale… Che il fascismo voglia diventare ‘Stato’ è certissimo, ma non è altrettanto certo che per raggiungere tale obiettivo si imponga il colpo di Stato. Bisogna però noverare questa tra le possibili eventualità di domani”.

E il domani, anzi il dopodomani essendo il 13 agosto, dopo la richiesta al Governo del Comitato centrale del partito fascista di sciogliere le Camere per convocare le elezioni, Mussolini dichiara: “Per diventare Stato noi abbiamo due mezzi: il mezzo legale delle elezioni e il mezzo extralegale della insurrezione. Bisogna ponderare prima di prendere una decisione e questa decisione non potrà essere presa che tenendo conto di molti fattori di ordine pratico, politico, ed anche degli imponderabili. Il momento è molto delicato, e occorre pensare bene a tutte le evenienze”.

Nella tarda serata dello stesso giorno si verificò l'”imponderabile”, l'”evenienza” della caduta dalla finestra che impedì l’incontro di D’Annunzio con Nitti bloccando il disegno di pacificazione nazionale e di unione delle forze sane sotto la guida dell’artista. Nino D’Aroma scrive che D’Annunzio aveva confidato a lui, parecchio tempo dopo, che in quel fatale agosto ’22 Mussolini gli aveva proposto di “capeggiare tutte le forze nazionali e di dare insieme vita e sostegno a un governo nuovo che raccogliesse tutte le correnti politiche di buona volontà”; e che lo stesso Mussolini aveva rivelato, sempre a lui, incontrandolo a Piazza Venezia all’indomani della morte di D’Annunzio, che prima dell’estate ’22 gli aveva detto: “Noi siamo fortissimi oggi, ebbene andiamo al governo con i socialisti più comprensivi e, con le leve del potere, imporremo sicuramente, in quarantott’ore, la pace a tutti, rinnovando con adeguate riforme le vacillanti e tarlate strutture dello Stato. Voi dovreste prendere la Presidenza e l’iniziativa, noi vi seguiremo, assistiti questa volta da una nostra forza immensa pronta a tutto!”.

Con Mussolini nella visita del maggio 1925, con loro l’on. Alessandro Chiavolini
e, al balcone, Luisa Baccara

La vittoria definitiva del potere: la pax romana della Marcia su Roma

Una pace siffatta, imposta “in quarantott’ore”, non può essere che una “pax romana”, il contrario della pacificazione perseguita da D’Annunzio, imperniata sulla fraternità; e simile invece a quella evocata da Mussolini rivolgendosi ai fascisti il 24 agosto ’22, con l’artista ancora in gravi condizioni: “Il momento per noi è propizio anzi direi fortunato. Se il governo sarà intelligente ci darà il potere pacificamente; se non sarà intelligente lo prenderemo con la forza. Dobbiamo marciare su Roma per toglierlo ai politici imbelli ed inetti”.

Pur con questi precisi intendimenti la strategia dei fascisti resta accorta e attendista, cerca di prendere tempo e di controllare le mosse degli altri due protagonisti: il barone Avezzana in una lettera a Nitti del 26 settembre conferma la disponibilità di Mussolini ad un incontro a tre, sempre dopo un preventivo colloquio di Nitti con D’Annunzio, già d’accordo, anzi assicura una scorta per proteggere il viaggio del primo dalle violenze squadriste; il 14 ottobre Schiff Giorgini scrive a Nitti che Mussolini, alla presenza di Tom Antongini in rappresentanza di D’Annunzio, ha precisato che gli incontri fra loro tre si sarebbero potuti tenere tra il 25 e il 30 ottobre dello stesso 1922.

Il 20 ottobre, però, Mussolini si esprimeva con queste parole incompatibili con quelle di una settimana prima: “O il fascismo si afferma e allora sarà un bene per il Paese. O non saremo capaci di affermarci e allora il pallone fascista sarà sgonfiato e il paese troverà un’altra via”. Un’alternativa che Roberto Farinacci traduce in termini di emergenza: “Dunque, bisogna far presto, bisogna cogliere l’attimo felice perché questo stato di eccezionale favore del popolo italiano per il fascismo e di sfavore per il governo e per il regime non può durare a lungo”.

D’Annunzio con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927

 La rottura degli indugi da parte di Mussolini, trascorso qualche altro giorno, sembra fosse dovuta al timore che il carisma di D’Annunzio desse la spinta decisiva per una inarrestabile marcia su Roma quasi a ripetere quella su Fiume. L’evento avrebbe potuto verificarsi il 4 novembre, sull’onda del discorso celebrativo del quarto anniversario della vittoria che, con l’accordo del governo, l’Associazione dei mutilati alla cui testa c’era il grande mutilato Carlo Delcroix aveva chiesto all’artista di tenere nell’adunata di ex-combattenti che sarebbe culminata con la sfilata dei mutilati.

D’Annunzio, in  mezzo a pressioni da ogni parte, già il 25 ottobre, dopo quattro giorni dal solenne annuncio del 21 ottobre, aveva rinunciato  alla manifestazione per non essere strumentalizzato; la notizia della rinuncia fu diffusa il 27 ottobre, ma sin dall’adunata fascista a Napoli del 24 ottobre sembra che Mussolini avesse deciso di anticipare la Marcia su Roma per prevenire la temuta iniziativa dannunziana del 4 novembre, e la rinunzia non cambiò il programma. Oreste Cimoroni  fu molto esplicito: “I fascisti saputo ciò che si svolgeva attorno a Gardone, chiusero bruscamente il congresso di Napoli e precipitarono la Marcia su Roma. Cadeva così il Ministero Facta e Mussolini assumeva il potere”.

D’Annunzio fu avvertito a cose fatte soltanto il 28 ottobre, sebbene la marcia fosse iniziata il giorno prima in Emilia e Lombardia, Toscana e Umbria, con un messaggio perentorio di Mussolini, in palese contrasto con quanto era intercorso nei colloqui per combinare l’incontro a tre all’insegna della pacificazione nazionale e dell’unione delle forze sane: “I giornali e il latore vi diranno tutto. Abbiamo dovuto mobilitare le nostre forze per troncare una situazione ‘miserabile’: Siamo padroni di gran parte d’Italia, completamente e in altre parti abbiamo occupato i nervi essenziali della nazione”. Poi le espressioni ultimative: “Non vi chiedo di schierarvi al nostro fianco – il che ci gioverebbe infinitamente: ma siamo sicuri che non vi metterete contro questa meravigliosa gioventù che si batte per la ‘vostra’ e nostra Italia. Leggete il proclama! In un secondo tempo, Voi avrete certamente una grande parola da dire”.

Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932

 Il prezzo della vittoria del potere sull’arte: il regime, l’esilio al Vittoriale

D’Annunzio rispose lo stesso giorno, insistendo sul disegno di pacificazione che gli sembrava soltanto interrotto: “E’ necessario radunare tutte le forze sincere… Dalla pazienza maschia e non dall’impazienza irrequieta, a noi verrà la salute. I messaggeri vi riferiranno i miei pensieri e i miei propositi, immuni da ogni ombra e da ogni macchia”. Una rassicurazione, seguita da una presa di distanza: “Il Re sa che io sono tuttavia il più devoto e il più volenteroso combattente d’Italia. Rimanga egli tuttavia levato contro le sorti avverse, che debbono essere affrontate e superate. La vittoria ha gli occhi chiari di Pallade. Non la bendate. ‘Sine strage vincit – Strepitu sine ullo'”.

Torna a farsi sentire l’artista, e il 1° dicembre ‘22 scrive che “dopo otto anni di azione dura” è “ripreso da un glorioso amore delle belle idee e della mia arte”.Il suo “sono pronto a dare l’opera mia, il mio colpo di spalla risoluto e robusto” va riferito sempre al suo disegno, ben diverso da quello del fascismo: “Prima di ritirarmi vorrei offrire alla Patria l’unione vasta e divota di ‘tutti i lavoratori'”. E richiamava Mussolini al mantenimento degli impegni di fraterna pacificazione (“iuratae foedus amicitiae”) assunti con il Patto marinaro, chiedendogli di liberarsi “dei consigli ‘avversi’, quasi tutti impuri” con una conclusione eloquente: “Io nulla chiedo, e nulla voglio per me. Intendi? Nulla. Se non potrai togliermi da questa tristezza e da questo disagio spirituale, con fraterna sollecitudine, io me ne andrò nuovamente in esilio, come nel 1912. Preferisco l’esilio allo strazio cotidiano. ‘Non veder, non udir…'”.

E andò effettivamente nell’esilio dorato nella  villa Cragnacco  posta in alto sul Lago di Garda,  che trasformò radicalmente portandovi i suoi cimeli e i suoi simboli, e creando il Vittoriale, che definì, sin dal 22 giugno 1923, scrivendo a Giuriati, “Italia degli Italiani più che qualunque altra terra”.

Il potere si era imposto, ma l’artista non si era arreso, aveva salvato i lari e i penati come Enea che lasciò Troia per una nuova sfida su un campo ancora più vasto. All’inizio dell’“Atto di donazione al popolo italiano” si legge: “Prendo possesso di questa terra votiva che m’è data in sorte, e qui pongo i segni che recai meco, le mute potenze che qui mi condussero”.  Nella “Premessa”  scrive: “Già vano celebratore di palagi insigni e di ville sontuose, io son venuto a chiudere la mia tristezza e il mio silenzio in questa vecchia casa colonica, non tanto per umiliarmi, quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creazione e di trasfigurazione. Tutto, infatti, è qui da me creato e trasfigurato”.  Parla anche di “rivelazione spirituale” e di “testimonianza di dritta e invitta fede”, perché c’è un altro “potere” con cui si confronterà sempre di più, ne parleremo prossimamente. 

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di  Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293, e la parte prima su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118;  la parte terza è su “Il mistero”, la religiosità, pp. 293-470.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti  del libro inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini. Il primo dei sei articoli del nostro servizio è uscito, in questo sito, il 12 marzo, con 6 immagini, gli altri  quattro articoli usciranno il 16, 18, 20, 22 marzo 2013, con altre 6 immagini ciascuno. Cfr., inoltre,  l’intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013, in http://www.100newslibri.it/, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”. 

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 284-289) che le ebbe dalla Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura, In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani;seguono,  Visita a D’Annunzio di Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia nel maggio 1922 al Vittoriale e Con Mussolini durante la visita a d’Annunzio nel maggio 1925, insieme a loro l’on. Alessandro Chiavolini e, al balcone, Luisa Baccara; poi, Con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927 e Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932; in chiusura, Sul MAS-96 nel 1925.

Il Comandante sul MAS-96 nel 1925

 

D’Annunzio, 1. Nel 158° dalla nascita, arte e potere

di  Romano Maria Levante

Ripubblichiamo, a cominciare dal 1° e in successione da oggi 12 al 17 marzo 2021, i 6 articoli già pubblicati sul sito www.arteculturaoggi.com nel 150° anniversario della nascita il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013. Tutti senza alcuna modifica tranne 158° invece che 150° nel titolo di questo primo articolo come virtuale aggiornamento al momento della nuova pubblicazione. Nessun’altra variazione, sono temi sempre attuali, e la testimonianza evocata nei due ultimi articoli resta in tutto il suo valore e la sua portata.

Oggi 12 marzo 2013, l’apertura di un Conclave straordinario, dopo secoli con il papa dimissionario e in vita, coincide con il 150° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio: un parallelointrigante alla luce dei suoi tormentati rapporti con la Chiesa, che mise i suoi scritti all’Indice per ben 4 volte. La Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani” lo celebra nel Convegno di studi “D’Annunzio 150”, all’Aurum di Pescara. Noi lo ricordiamo per i rapporti tra arte e potere, rimessi in gioco dalle mostre del 2010  al Palazzo Esposizioni di Roma sui “Realismi socialisti” e il loro esponente “Deineka”; all’inizio del terzo millennio  c’è stata la mostra “L’uomo, l’eroe, il poeta”, alla Fondazione Roma al Corso nel 2001, per celebrare un protagonista del “novismo” del ‘900.. Nella prospettiva arte-potere rievochiamo l’uomo e l’eroe, gli aspetti personali e politici, senza quelli letterari, in fasi cruciali.

l Poeta-soldato, 1916, in divisa da tenente dei “bianchi lancieri di Novara”
durante la prima Guerra mondiale

I

Per D’Annunzio non si deve parlare di influsso del potere sull’arte, come è avvenuto nella storia umana: dai remoti egizi ai tempi antichi con i mecenati e le committenze, ai tempi moderni con i regimi dittatoriali,  nazismo e comunismo. Anzi, è avvenuto il contrario: l’artista diventa protagonista politico e con il suo carisma fa tremare il nuovo potere mentre si va affermando.  .

Infatti, sebbene il fascismo influisse notevolmente sull’arte, in questo caso abbiamo avuto piuttosto l’influsso dell’arte sul potere: lo si vede nei rapporti di D’Annunzio con il regime e con Mussolini, in Italia l’incarnazione del potere assoluto. Rievochiamo questi rapporti e le vicende anteriori e successive inquadrandoli nella sua figura, in una sequenza che è un pezzo di storia d’Italia.

La difficile convivenza tra arte e potere – che tratteremo in generale  prossimamente,  al termine della rievocazione dannunziana – con lui assume aspetti del tutto peculiari. Ci riferiamo all’ombra che può dare al potere la presa dell’artista sul popolo, in un confronto nel quale il sistema, se è assoluto e dispotico, invece di valorizzarne il contributo cerca di neutralizzarlo per il pericolo che nasca o si rafforzi un potenziale concorrente. Ben diversa la situazione nel sistema democratico in cui tutto deve svolgersi alla luce del sole in modo trasparente ed è, o dovrebbe essere, sottoposto al controllo popolare contro ogni tentativo di  prevaricazione.

In D’Annunzio l’immagine di artista era resa ancora più luminosa dalle prove di ardimento fornite, già prima dell’impresa fiumana, come poeta-soldato impegnato in pericolose missioni nella guerra 1915-18: in particolare in montagna, sul Veliki e sul Faìti; in mare, sulla silurante “Impavido” fino al MAS della Beffa di Buccari; in aria, nelle ricognizioni sul Carso e sulla Bainsizza, su Parenzo e su Pola, su Trieste e nel bombardamento sulle Bocche di Cattaro fino al volo di sfida su Vienna.

Sono prove di ardimento che davano corpo ai suoi motti, da “Memento audere semper” a “Più alto più oltre”, da “Ardisco non ordisco” a “Sufficit animus”, da “Semper adamas”  a “Prima squdriglia navale, Il Comandante”; e lo immergevano in un clima eroico tra l’angoscia per i caduti – tra essi i piloti più amati, Bailo e Barbieri, Bresciani e Prunas, su tutti Locatelli e Miraglia per lui “dimidium animi” – e l’umanità dei commilitoni, ai quali era unito dalla solidarietà in trincea e negli assalti nel fuoco nemico o nell’orrore della decimazione, nel filo della fraternità con gli umili fanti..

D’Annunzio a Gradisca, ottobre 1915

 

L’artista superuomo nell’umiltà, le gente “s’ingigantisce” in lui

Ne sono testimonianza gli episodi riportati nei suoi scritti autobiografici.

Ecco dal Libro segreto: “Che mi vale ogni specie di gloriola? Qual lode gretta e guardinga può rivelare me a me stesso, in confronto dei riscontri improvvisi che mi vengono dai miei pari noti e ignoti?” Alcuni  riscontri sono nel Libro Ascetico, quando dice al mutilato: “Come te, io sono minore della Patria; e sono minore di te, minore di tutti… Le lacrime chiamano le lacrime. La pietà chiama la pietà. La bontà chiama la bontà”. Si dipana “il filo della fraternità umana” dalla deposizione dalla Croce con Giuseppe d’Arimatea, di cui vanta le stesse iniziali, alle trincee del Carso: nell’episodio dei due fanti che sotto le granate gli offrono da bere le poche gocce d’acqua piovana raccolte con un filo di paglia, rievocato con toni commossi; e in quello del  fante abruzzese che gli dice “”E chi sti’ fa a ècche? Vàttene! Vàttene!  Si i’ me more, n’n è niende. Ma si tu te more, chi t’arrefà?”. Dalla “Licenza” della “Leda”, il fante che si schermisce dicendo: “L’aije muccicate, ‘gnore tenende” nel dargli un pezzo di pane, che lui chiama “il miglior pane ch’io abbia mangiato , in verità, da che ho denti d’uomo. E’ il pane dell’umiltà e della fraternità insieme”.

Ancora nel Libro Ascetico, dinanzi all’uccisione di tanti commilitoni scrive: “Credo che oggi potrei chiamarmi il primogenito dei morti. Da più settimane io vivo con loro, vivo morendo e risuscitando in loro, rimango coricato presso di loro”; lo ripete dinanzi all’orrore della decimazione. E nelle ultime pagine si congeda da loro con queste parole: “Tutto quel che di me non può perire, ad essi io lo debbo. E tutto quel che di più divinamente umano in me vive, da essi ha origine”.  Nel suo letto di degente dopo la caduta dell’agosto 1922, mentre gli antichi commilitoni, anche feriti e mutilati, chiedono di fargli visita, esclama: “Vogliono entrare? vogliono guardarmi? vogliono riconoscermi? Lasciali entrare. Accompagnali al mio capezzale. Il miracolo si snoda”.  Li riconosce ad uno ad uno: “Sono anch’io della medesima razza, della medesima fede, del medesimo comandamento”. 

Scrive anche “e più mi umilio in me e più la mia gente s’ingigantisce in me”, espressione che può essere il sigillo della forza che  può rendere l’artista protagonista attivo e non sottomesso al potere 

Le ferite di guerra, con la perdita dell’occhio destro in una missione aerea, e le medaglie al valore completavano questo quadro che si riflette con immagini suggestive come quelle evocate, dove l’arte raggiunge livelli altissimi di commozione autentica e coinvolgimento corale. L’elemento religioso si unisce a quello eroico e patriottico, con l’aggiunta della fraternità e generosità umana riassunta nel motto “Io ho quel che ho donato”, in una miscela dalla carica travolgente per forza evocativa e capacità espressiva: dai “Taccuini” al “Notturno”, dal “Libro ascetico” al “Libro segreto”, dalle “Preghiere”, di Doberdò, Sernaglia, Aquileia, a “Per la più grande Italia”.

Questo gli diede un forte carisma, espresso in una escalation di proclami e messaggi, invocazioni, e soprattutto azioni che sembrava inarrestabile, fino all’impresa fiumana e  alle iniziative successive. Nella prospettiva dei suoi rapporti con il potere ci piace chiamarlo artista invece che Poeta, l’espressione più usata sul versante letterario o Comandante, la più usata per l’aspetto militare.

Sul Faiti, mentre tiene un discorso, 1917

Il carisma dell’artista: la forza trascinatrice del pensiero e della parola

Abbiamo riportato sopra alcune sue espressioni suggestive in cui trovare le fonti della presa dell’artista sulla gente che si “ingigantisce” in lui. Nel “Notturno” lui stesso descrive come questo carisma si manifestò sin dalla sua orazione davanti alla folla romana in Campidoglio, ancora prima che le imprese eroiche ne accrescessero la portata e la presa popolare. Inizia con l’esaltazione personale: “Vivo alfine il mio ‘Credo’, in ispirito e in sangue. Non sono più ebro di me ma di tutta la mia stirpe”; segue l’esaltazione collettiva: “Il tumulto ha il fiato di una fornace, l’ànsito di un cratere vorace, il croscio di un incendio selvaggio. Trascino e sono trascinato. Salgo per incoronare e salgo per incoronarmi. Una primavera epica mi solleva e mi rapisce… E’ come il dolore di una creazione, è come l’angoscia di una nascita. La folla urla in travaglio. La folla urla e si torce per generare il suo destino… Vedo mille e mille e mille volti, e un volto solo: un volto di passione e di aspettazione, di volontà e di riscossa… La folla è come una colata incandescente. Tutte le bocche della forma sono aperte. Una statua gigantesca si fonde… Tutto è ardore e clamore, creazione ed ebrezza, minaccia e vittoria, sotto un cielo afoso di battaglie ove stride il saettìo delle rondini…”.

Ne ha una conferma esaltante a Fiume, come ricorda nel “Libro segreto”: “In Fiume d’Italia ho conosciuta intera la diversità fra l’orazione scritta e l’orazione improvvisa… Il popolo tumultuava e urlava chiamandomi, sotto le mie finestre la disumanata massa umana estuava ribolliva ristoppiava come la materia in fusione. io dovevo rispondere alla sua angoscia, dovevo esaltare la sua speranza, dovevo rendere sempre più cieca la sua dedizione, sempre più rovente il suo amore a me, a me solo. e questo con la mia presenza, con la mia voce, col mio gesto… Senza determinare la mia eloquenza e il mio accento, accordavo a quel diffuso e confuso clamore non so qual clangore della volontà, non so quali squilli dell’imperio… Una forza non più contenibile mi saliva allora al sommo del petto, mi anelava nella gola…”.

Il D’Annunzio fiumano era tenuto sotto osservazione dal sorgente movimento fascista, e non sfugge all’analisi interessata di Roberto F arinacci che nella “Storia della rivoluzione fascista” ne analizza il grande ascendente: “Egli li agita, questi giovani, e li ricompone in una più alta visione; egli li provoca alla passione e all’azione, e li rivela a loro stessi, li educa a contemplarsi ed a scoprire la bellezza delle loro stesse immagini e dei loro gesti, delle canzoni e dei motti, delle insegne e dei simboli, delle gare e delle cerimonie, anche delle cerimonie religiose, ch’egli suscita e inventa per elevarli, per affinarli, per farli arditi e splendidi”.

Il fascismo ne fu così colpito da emularlo, dal Fascio littorio all’inno “Giovinezza” e al saluto romano che il movimento prese dagli Arditi di Fiume, la camicia azzurra diventa nera e il grido dannunziano  “eia eia alalà”, dall'”alalazo” greco, entra a vele spiegate nel rituale fascista. Con le deformazioni provocate dal potere ogni volta che vuole confrontarsi con l’arte e la cultura.

Lo emulò lo stesso Mussolini, e Paolo Alatri lo dice chiaramente: “L’oratoria dannunziana… si rinvigorì e uscì allo scoperto nella campagna del 1915 per l’intervento e trovò la sua massima manifestazione durante l’occupazione di Fiume. Quella oratoria inaugurò un nuovo stile e una nuova tecnica, che poi, nel regime mussoliniano, domineranno in Italia per oltre un ventennio. Essa non è più diretta a persuadere, ma si rivolge a chi è già convinto e non chiede che un rito collettivo di esaltazione: non fa più ricorso ad alcun tentativo di discorso razionale, ma si appella al sentimento all’istinto alla reazione epidermica. Instaura il dialogo diretto tra l’oratore e la folla che viene chiamata a partecipare a una cerimonia di carattere mistico se non religioso”.

Dopo le  imprese di Cattaro e Pola, dinanzi all’aereo Caproni, ottobre 1917

L’artista nella politica: ispirazione e azione sotto gli occhi del potere

Su quest’onda montante conquistò un forte ascendente personale, che rappresentava già di per sé una minaccia per le mire egemoniche del fascismo. Tanto più che non restava chiuso nella torre d’avorio dell’arte, come di regola avviene, nel qual caso la convivenza con il potere emergente sarebbe stata meno difficile. Sconfinava in un ruolo politico sempre più attivo senza perdere lo spirito creativo e la forza morale, l’ispirazione dell’artista e la sua intensa espressione letteraria.

Renzo De  Felice, riferendosi in particolare al periodo fiumano, osserva che riuscì “grazie alla sua sensibilità di vero poeta, ad aprirsi come nessun altro ad un eccezionale sforzo di comprensione del travaglio morale e sociale, ancor prima che politico, del momento, e dischiudersi alle nuove realtà, ai nuovi problemi, alle nuove soluzioni umane e sociali e, dunque, politiche, confusi quant’altri mai, ma che erano comuni a vasti settori degli ex-combattenti e della gioventù… e sia pur marginalmente, anche ad altri gruppi sociali… in nome di nuovi valori che non si sapeva bene individuare e definire, ma di cui si sentiva la necessità”.

E se la sensibilità di poeta gli faceva avvertire la necessità di nuovi valori, gli dava anche l’impeto creativo e la forza trascinatrice, ancora una volta colta dall’attento Farinacci: “D’Annunzio esaltava la ribellione, educava e formava fra i suoi un’anima di guerra contro l’Italia ufficiale, suscitava in loro la gioia, anzi l’orgoglio di aver violentato la tradizione e la legalità, rompeva quell’abito italiano di obbedienza passiva e rassegnata che sempre aveva permesso al Governo in Italia di essere il despota impunito di ogni compromesso e di ogni viltà”.

Pietro Badoglio, nelle sue “Rivelazioni su Fiume” dove ne era stato l’antagonista, nel constatare che “era un gran suscitatore di energie, un prodigioso eccitatore di masse”, pur osservando che “egli era poi sensibilissimo all’applauso rumoroso ottenuto nell”arengo’, e l’urlo della folla gli menomava il senso della compostezza nelle parole e quello dell’equilibrio nelle decisioni”, riconosceva che “lontano dalla massa degli esaltati, egli ragionava con grande acume, con visione netta della realtà e, soprattutto, con cuore di grandissimo italiano”.

Del resto a Fiume ci fu un’esperienza di governo piena, con l’adozione della Carta del Carnaro che, come ha rilevato Nicola Francesco Cimmino, fu “concepita e impostata da Alceste De Ambris e scritta da D’Annunzio che le dette forma, creando per la prima volta – e forse per l’ultima – un documento di diritto che è, al tempo stesso, una pagina di poesia”. Si sente la mano dell’artista che mette a frutto il proprio carisma per realizzare un disegno complesso e ambizioso sul piano politico e sociale: “Già a Fiume, osserva ancora Cimmino, nella lotta – talora sorda, talora palese – che nella città si facevano sindacalisti e nazionalisti, egli fu per i primi, ma assorbendo nelle loro aspirazioni sociali le istanze della nazione”.

L’avventura di Fiume è istruttiva sia per l’artista sia per il potere emergente, che voleva fare tesoro a proprio vantaggio della prova generale rappresentata dal dannunzianesimo fiumano. Per D’Annunzio si trattò di una verifica sul campo, portata fino all’azione di governo, della carica rivoluzionaria e trascinatrice delle sue idee e del suo carisma; per i fascisti fu un prezioso insegnamento su come si poteva rompere l’abito italiano di obbedienza passiva e rassegnata e dare la spallata decisiva al governo, definito despota impunito di ogni compromesso e di ogni viltà.

Intanto, nel timore che la valanga dannunziana divenisse inarrestabile, il fascismo della prima ora, ancora fuori dalle stanze del potere costituito, diede solo un tiepido sostegno all’amministrazione provvisoria di Fiume, sfruttando sul piano politico l’indebolimento del governo centrale ma guardandosi bene dal rafforzare la posizione di D’Annunzio, anzi dando il colpo decisivo per affondarlo al momento opportuno. Che si ebbe con il Trattato di Rapallo, concluso il 12 novembre e approvato dalla Camera il 27 novembre del ‘20 con pochissimi voti contrari, accettato da Mussolini riconoscendo “la dolorosissima rinuncia” della Dalmazia, nonostante fosse stato respinto da D’Annunzio tanto da occupare, il 13 novembre, le isole di Arbe e Veglia andate alla Jugoslavia.

Fu una prova generale non solo per l’insegnamento ricavato dal fascismo, ma anche per il modo con cui il movimento fascista concorse all’affossamento, con l’intento di impedire al protagonista dell’avventura fiumana di puntare a un ruolo ugualmente decisivo a livello nazionale.

Durante l’impresa fiumana

Il confronto tra artista e potere emergente: il disegno di pacificazione nazionale

Benito Mussolini inizialmente minimizzava pensando che a Fiume vi fosse “più Rinascimento che Risorgimento”, e chiedendosi se in D’Annunzio “vi fosse più desiderio e amore di una vita eroica o di una immagine bella dell’eroismo”. Ma non poteva chiudere gli occhi dinanzi alla realtà e sottovalutare l’impatto che tutte queste cose insieme potevano avere, perché al di là dei reali contenuti della vita eroica non si poteva dubitare sulla capacità di darne, con la forza della creazione artistica, un’immagine in grado di coinvolgere le masse sul piano dell’azione rivoluzionaria e anche dei contenuti, ispirati a idee evocative e coinvolgenti. Scontrandosi per ciò stesso con il potere costituito e con chi voleva far prevalere il proprio potere. E c’era Farinacci a ricordare  che “D’Annunzio era un uomo di guerra e di azione e sapeva parlare in modo che i legionari l’avrebbero seguito fino al sangue, fino a più vasta guerra civile”.

Ecco come aveva parlato con loro nell’ultimo appello prima dell’abbandono: “Dal primo all’ultimo siete tutti eroi… il mio Dio, il vostro Dio, sia ringraziato… Mi sembrate creature del mio spirito. Ed ora mi apparite più belle delle mie creature”. Mentre nell’allocuzione del 2 gennaio ’21, davanti ai corpi dei morti delle due parti nel cimitero di Cosàla,  disse che se Cristo come con Lazzaro li avesse risuscitati “su dai coperchi non inchiodati ancora, io credo che essi non si leverebbero se non per singhiozzare e per darsi perdono e per abbracciarsi”. E’ il tema della pacificazione, che sarà un discorso politico per una sfida al potere sul campo già coltivato con le intense parole dell’artista.

Se Fiume è stata la prova generale, per il vero confronto tra arte e potere emergente occorre fare un salto in avanti di quasi due anni, allorché la vicendadannunziana avrà come palcoscenico la politica nazionale, sempre sotto l’attenta vigilanza fascista. Ma di questo parleremo prossimamente

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, cfr. in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118, la parte terza su “Il mistero”, la religiosità, pp. 293-470.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527.  Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini. Iniziamo oggi un servizio in sei articoli sui principali motivi dannunziani, i successivi 5 articoli usciranno, in questo sito, il 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013. Cfr. l’intervista di Anna Manna all’autore  del libro citato per il 150° dalla nascita di D’Annunzio, l’11 marzo 2013, in  http://www.100newslibri.it/.

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal libro-inchiesta sopracitato di Romano Maria Levante (pp. 272-280) che le ebbe dalla  Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: Il Poeta-soldato, in divisa da tenente dei “bianchi lancieri di Novara” durante la prima guerra mondiale nel 1916; seguono A Gradisca nell’ottobre 1915Un discorso sul Faiti nel 1917; poi Dopo le  imprese di Cattaro e Pola, dinanzi al Caproni, nell’ottobre 1917 e Il Comandante durante l’impresa fiumana; in chiusura la Copertina del  citato libro-inchiesta dell’autore. 

Copertina del libro-inchiesta dell’autore


17^ Quadriennale d’Arte, 5. “Fuori”, riflessioni sull’arte contemporanea, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Termina il nostro servizio sulla  17^ edizione della Quadriennale d’Arte nel quale finora abbiamo raccontato la mostra “FUORI”  al  Palazzo delle Esposizioni  curatori Sarah Cosulich direttore artistico della Fondazione Quadriennale di Roma, e Stefano Collicelli Cagol – che ha esposto le opere di  43 artisti. Concludiamo con riflessioni sulla comprensibilità dell’arte contemporanea dal grande pubblico, e sulle chiavi interpretative. La  mostra, inaugurata il 20 ottobre 2020,  dopo la forzata chiusura per il Coronavirus è stata riaperta il 4  febbraio 2021, e lo resterà fino alla primavera; ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci. Realizzata dalla Fondazione, ha collaborato l’Azienda speciale Palexpo, con il contributo del  Ministero per i Beni e le Attività culturali e il Turismo. Catalogo  della Treccani, bilingue.  

Cynzia Ruggeri

Questa “17^ Quadriennale d’Arte” fa tornare di attualità il problema generale della comprensibilità delle opere d’arte contemporanea, ben al di là dei problemi interpretativi che pongono quelle esposte nella mostra. La 16^ Quadriennale d’Arte  del 2016 era imperniata su 10 percorsi tematici, con altrettanti  curatori che avevano selezionato ex post le opere più consone a tali percorsi. L’attuale 17^ edizione sembra imperniata, fino a sembrarne  ossessionata, sul rovesciamento di alcuni residui del passato, dal patriarcato al colonialismo, con iconoclastia delle memorie monumentali del regime e nel presente sulla tematica gender, omosessuale e femminista, per la quale viene riletta anche l’arte del ‘900, in particolare gli ultimi sessant’anni, per far emergere e presentare i precursori di tali temi che si lamenta essere stati trascurati. 

Definimmo “un salto nel futuro”  la mostra del 2016;  su questa del 2020 abbiamo parlato di “testa rivolta al passato” per molte delle espressioni artistiche le cui ispirazioni ci sembrano retrospettive. Perciò ne siamo rimasti sconcertati e lo abbiamo manifestato esplicitamente, al punto da porre l’interrogativo sui limiti dell’arte contemporanea,  che veniva avanzato già agli esordi dell’astrattismo e dell’espressionismo, della Pop art e del concettualismo, ma non sono mai arrivati agli estremi  cui si assiste nel momento attuale.

Lydia Silvestri

Secondo il presidente della Quadriennale Umberto Croppi, l’arte contemporanea non è incomprensibile: e sembra sia così stando agli elementi forniti dai curatori nella loro introduzione e  alle dettagliate quanto impegnate schede che di ogni artista e delle sue opere spiegano ampiamente il significato. Come si possono definire incomprensibili opere illustrate esaurientemente nei loro significati reconditi?

Cominciamo dalle spiegazioni che vengono fornite, spesso quanto mai  cerebrali e lontane dalla possibilità dei non iniziati di immaginarle sia pure lontanamente; tanto che in questi casi non infrequenti l’interprete appare ancora più “creativo” dell’autore,  anzi sembra volersi sovrapporsi ad esso, in una sorta di virtuale  ”appropriazione” dell’opera. Non ci si deve stupire se è incomprensibile per i non iniziati i quali, oltretutto, non hanno la possibilità di far sì che gli autori rivelino loro gli intendimenti contenutistici, se ne hanno avuti, perché spesso la creatività è frutto di un impulso immotivato e indecifrabile anche per loro.

Zapruder Filmmakersgroup

Questo ci porta a cercare di risalire alle motivazioni  di tale incomprensibilità, sia essa assoluta sia relativa, e alle ragioni del suo superamento sia pure nelle condizioni cui abbiamo accennato. L’interprete “creativo”,  cioè il critico d’arte e nella circostanza i due curatori della Quadriennale, è parte in causa, quindi dobbiamo cercare posizioni neutrali, vicine al pubblico che considera l’arte contemporanea spesso incomprensibile: perciò è bene non liquidare tale constatazione con un diniego, ma al contrario approfondirne le ragioni.

Ci aiutano ad approfondirle osservatori impegnati nel giornalismo culturale, crediamo non si considerino “critici d’arte”, noi ci definiamo “cronisti d’arte” perché raccontiamo le  mostre viste con l’occhio del visitatore avveduto, usando il linguaggio comune, non quello troppe volte criptico di tanti iniziati.

Guglielmo Castelli

Perché l’Arte contemporanea sembra “spazzatura”?

 In queste riflessioni sull’arte contemporanea, ispirateci anche dai limiti a cui si è spinta l’attuale “17^ Quadriennale d’Arte”, occorre innanzitutto rispondere a una prima domanda che taluni osservatori si sono posti, in modo da sgombrare il campo da un quesito pregiudiziale: “L’arte contemporanea è solo spazzatura?”  Se l’è posto nel luglio 2016 Gianfranco Missiaja, docente di architettura e artista con 75 mostre in Europa, America, Giappone, osservatore qualificato  e insieme parte in causa.

La domanda non è peregrina e improponibile come potrebbe apparire, anche se a prima vista può sembrare stravagante. Nasce  dalla vista di “gallerie occupate da opere d’arte realizzate attraverso esercizi concettuali incomprensibili, esposizioni sommerse da installazioni che sembrano discariche, animali impagliati battuti all’asta per due milioni di dollari”; e dallo “scoprire alla Biennale delle performance di negri che si sodomizzano con le banane, sapere che scatolette di merda, firmate e numerate, vengono vendute a peso d’oro e che certe tele imbrattate e scarabocchi vengono acclamati dai critici d’arte”; e anche “di fronte al degrado di molti musei trasformati in supermarket, grandi magazzini affollati da chi ricerca solo mostre-evento, invasi da orde di turisti maleducati ed incivili”.

Daar Sandi Hilal-Alessandro Petti

Per la risposta Missiaja cita “L’inverno della cultura” di Jean Clair, lo pseudonimo di Gèrard Regnier, membro dell’Académie francaise, conservatore al Musée national d’art moderne, già direttore del Museo Picasso e commissario di importanti mostre, in particolare delle monografiche su Balthus e Duchamp e delle tematiche sulla “Malinconia” e su “Delitto e castigo”, direttore nel 1994 e 1995 della Biennale di Venezia; questo per il passato, ma Clair sarà anche il curatore della grande mostra celebrativa del 7° centenario di Dante, “Inferno”, che si aprirà nell’ottobre 2021 alle Scuderie del Quirinale. Dunque non è un contestatore ribelle, ma “un raffinato intellettuale” che “non ha niente da spartire con la maggior parte dei critici attuali intenti soprattutto ad assecondare le mode e il gusto corrente”. Ebbene, nella sua opera del 2011, che fa seguito a saggi come “De immundo” del 2005,  Clair parla di  “degenerazione dell’arte contemporanea” che purtuttavia, e forse per questo,  anche nelle sue espressioni più problematiche per autori pompati dalla critica può avere quotazioni superiori ai grandi maestri rinascimentali. Si tratta solo di operazioni di marketing che, nella citazione che ne fa Missaja, “nulla hanno a che fare con il sentimento ed il piacere di gustarsi un prodotto della maestria, delle capacità, del talento e dell’esperienza di anni di impegno, di studio e di duro lavoro per imparare, ma manifestazioni estemporanee, che possono essere distrutte dopo la loro esposizione”.

Priva di un retroterra culturale, l’arte contemporanea sembra essere “una operazione di marketing” perché “non la bravura in senso lato dell’artista, non le sue capacità, non la sua esperienza e cultura, ma solo il mercato decreta il valore dell’opera”; il mercato a sua volta è “promosso da curatori, critici, galleristi ecc. che cercano di portare alle stelle il valore di manifestazioni e oggetti esposti a scopo di lucro”.

Francesco Gennari

Se le cose stanno così, ammonisce Clair-Regnier nelle citazioni di Missiaja, “vi ritroverete di fronte ad un grande bluff: un’immensità di spazzatura da buttare rappresentata da opere ormai catalogate da critici, galleristi e istituzioni pubbliche e private ormai dichiaratamente affermate per far parte, indissolubilmente, della storia dell’arte”. Immeritatamente, sottintende, come effetto speculativo, mentre in realtà  “siamo arrivati al crollo di una estetica e di una cultura millenaria”, dal momento che  “oggi gli artisti sembrano testimoni di un’estetica del disgusto, sfidano ogni morale, con un gesto portato all’estremo limite…”  

Su come reagire non ha dubbi: “Davanti a me vedo solo un inaccettabile imbarbarimento estetico e di fronte a ciò non resta che essere reazionari”. Ed ecco la soluzione che propone: “Riscoprire sobrietà, equilibrio, sapienza. L’arte deve tornare all’universo di bellezza e di purezza”. Per questo deve recuperare le regole classiche che sottendono questi valori, in “opposizione alla mercificazione, all’omologazione culturale, al livellamento estetico” con “l’arte ridotta a intrattenimento e strategia di marketing”. Altrimenti si resta soggetti “al più clamoroso paradosso e ad un imbroglio epocale”, dato che “l’artista del nostro tempo non è più un profeta: pratica la dissacrazione, la profanazione”.

Benni Bosetto

Missiaja ricorda la beffa degli studenti livornesi che scolpirono una finta testa di Modigliani e la fecero rinvenire nel canale più adatto con gli entusiastici elogi al Modigliani scultore dei critici che perseverarono nella loro attribuzione al punto di fare subito il catalogo, fino a venire smentiti in televisione dagli studenti che ne scolpirono in diretta una identica. E cita due episodi significativi: a Padova un’”opera d’arte” esposta all’aperto fu portata all’inceneritore da netturbini pensando fosse un rifiuto, a Verona avvenne la cancellazione dal pavimento da parte dei pulitori di un’”opera d’arte” scambiata per macchia di vernice.

Di  questo capovolgimento non solo della concezione dell’arte ma anche del buon senso, non si può non  ritenere responsabile “anche il mondo della critica che onora ed acclama l’artista contemporaneo le cui opere incomprensibili vengono battute quotidianamente all’asta per milioni di dollari in nome della speculazione. Anzi, tanto più sarà difficile darne un significato, nel senso tradizionale del termine, tanto più salirà nell’olimpo dell’eccezionalità e della magnificenza. Non avrà molta importanza se poi la spiegazione del critico si discosterà completamente dall’intenzione dell’autore o darà interpretazioni che l’artista neppure immaginava”.

Giuseppe Gabellone

Clair-Regnier non è il solo a lanciare questo allarme. Da un altro punto di osservazione viene denunciato  “il grande imbroglio dell’arte contemporanea”  iniziando con questa constatazione: “Nell’era della riproducibilità tecnica sembra essere sparita l’opera d’arte. Ne resta solo una vacua aura. A prevalere è una produzione di installazioni, video, performance a effetto choc o che all’opposto cercano l’anestesia più totale con opere iper-concettuali, che celebrano il vuoto”.

Si tratta dell’“Attacco all’arte. La bellezza negata”,  è il titolo del libro di  Simona Maggiorelli secondo cui “tra la fine del Novecento e il primo quindicennio degli anni Duemila l’arte contemporanea sembra aver vissuto una lunga notte piena di incubi orrorifici, quanto improbabili, popolati di squali in formaldeide (firmati Damien Hirst), bambole gonfiabili (Jeff Koons), cloache meccaniche (Wim Delvoye), autoritratti scolpiti nel proprio sangue congelato (Marc Quinn) e via di questo passo. Si è dispiegato cosi un universo visivo di figure grottesche, di funeree nature morte, di trovate goliardiche e raccapriccianti”.

Simone Forti

Altro che l’astrattismo e il minimalismo, la Pop Art e la Op Art!  Viene evocata “la carne, la morte e il diavolo” di Mario Praz con  al posto del diavolo  un automa; che richiama le modelle anoressiche di Vanessa Beecroft simili ai manichini; negli anni ’90 c’erano stati i mutanti di Matthew Barney, i manga di Takashi Murakami, prodotti in serie, in una esasperazione della Factory di Andy Warhol.

Le raffigurazioni vuote di senso si confanno ad una società dominata da immagini e pubblicità, Avatar e realtà virtuale, e a coloro che frequentano le aste in una “finanziarizzazione dell’arte contemporanea”. In tale contesto, “per i tycoon ultramiliardari che le acquistano, conta la spettacolarizzazione, il gigantismo, la dismisura, in spregio alla crisi. Non importa se l’effetto è palesemente kitsch. Il fatto che opere di questo tipo siano diventate uno status symbol per pochi …. ha fatto strage di ogni altro significato. Ai galleristi non importa se tutto ciò abbia provocato un impoverimento culturale della proposta, gli interessa che l’opera abbia le caratteristiche per essere vendibile all’upper class”, la quale “sembra sentirsi parte di una élite, di un circolo esclusivo”.

Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi

Sarah Thornton, storica dell’arte, in “Il giro del mondo dell’arte in sette giorni” ha scritto nel 2009 che  “l’arte contemporanea è un surrogato della religione, che si celebra in ghetti patinati”, e in quanto tale essendo dogmatica, aggiunge la Maggiorelli, “non ammette critiche. Ed è questo forse l’aspetto più bizzarro dell’attuale Art world. In fondo, che l’estetica dominante sia imposta da una manciata di collezionisti miliardari, magnati della moda come François Pinault, galleristi come Larry Gagosian ed ex pubblicitari come Charles Saatchi, potrebbe anche interessarci relativamente, se ci fossero spazi pubblici di dibattito critico e per un vivace confronto fra proposte artistiche differenti. Ma chi fa ricerca oggi per lo più resta fuori dai riflettori”. E se si leva qualche autorevole voce di protesta, quale il sopra citato Clair-Regnier, “viene subito additata come passatista e conservatrice, come ha scritto  Angelo Crespi nel 2014 in “Ars attack. Il bluff del contemporaneo”.

E’ gustosa la rievocazione fatta da Mario Vargas Llosa nel 2016 sul giornale spagnolo “El Pais”, di una visita al “Tate Modern” di Londra allorché –  dopo aver assistito alla spiegazione di un’insegnante alla sua scolaresca di come un manico di scopa senza saggine per togliere la funzionalità fosse diventato una scultura, magari “ready made” aggiungiamo noi – ebbe questa tentazione. “Dirle che ciò che stava facendo”con dedizione, ingenuità e innocenza, non era altro che contribuire a un imbroglio monumentale, a una sottilissima congiura poco meno che planetaria su cui gallerie, musei, illustrissimi critici, riviste specializzate, collezionisti, professori, mecenati e mercanti sfacciati si sono messi d’accordo per ingannarsi, ingannare mezzo mondo e, di passaggio, permettere che pochi si riempissero le tasche grazie a una simile impostura”. Nel giudicare queste espressioni estreme non va dimenticata la caratura di chi le pronuncia: addirittura un Premio Nobel.  

Caterina De Nicola

Con pari determinazione  Achille Bonito Oliva ha denunciato “l’effetto omologante della globalizzazione sull’arte”, tanto che le collezioni dei più grandi musei del mondo –  il MoMA e  il Guggenheim di New York, il Centre Pompidou di Parigi e la Tate Gallery di  Londra – “si assomigliano in modo impressionante, tanto da avere la sensazione di un continuo déjà-vu”; con il Modern Art Museum e il PS1 “questi templi del contemporaneo formano una specie di cartello di aziende”. 

Il critico napoletano ABO  le considera “le sette sorelle dell’arte contemporanea” e paragona “le loro alleanze e fusioni a quelle dei grandi gruppi finanziari multinazionali che regolano i loro rapporti, fin quasi a formare un’unica holding museografica”. Nel 1999 scriveva: “L’arte è diventata un grande condominio in cui il museo è il proprietario, i curatori sono i ragionieri e il pubblico un veloce ospite-voyeur”, e con la sua finanziarizzazione, la globalizzazione ha imposto  “una sorta di pensiero unico: un’estetica prevalentemente anglo-americana, che lascia poco o nessuno spazio alla ricerca sulle immagini con un senso e un contenuto profondo, che non siano fantasticheria, vuota figurazione o arido concettualismo.

Salvo

Il discorso sull’arte prevale sulle immagini, l’arte è diventata meta-arte, sur-arte. Al punto che la maggior parte di ciò che viene esposto risulta incomprensibile senza un debito apparato di spiegazioni”. Di fatto, dopo il superamento dell’idea di bellezza, e poi di quella di “mimesi della realtà”, questa torna mediante  il suo “calco più triviale”!

Anche la Maggiorelli, come prima Missiaja, cita episodi gustosi, quale quello dell’ottobre 2015 al Museion di Bolzano allorché gli addetti alle pulizie gettarono  via l’opera di Goldschmied & Chiari “Dove andiamo a ballare stasera?” scambiandola per i resti del banchetto della festa svoltasi nel museo;  e la beffa di un visitatore della Biennale di Venezia che espose un sacchetto di spazzatura ingannando gli altri visitatori che si immergevano nella contemplazione fino ad impegnarsi nel cercare di interpretarne il significato.

Bruna Esposito

Ci fa ripensare alla scena del film “Le vacanze intelligenti” con Alberto Sordi,  in cui viene presa per opera d’arte dai visitatori la  moglie seduta su una sedia per riposarsi con la sua figura imponente, e tutti compunti a cercare di interpretarla, dopo essersi  fermati a osservarla con aria seria e contemplativa. “Iper-realismo incellophanato, vacuo estetismo, provocazione fine a stessa compongono la trama invisibile che percorre tante Biennali anni Novanta e Duemila, da Venezia a Istanbul” ed oltre, si cita Frieze London, la mostra mercato di Basilea e  Documenta di Kassel; possiamo aggiungerci qualche Quadriennale d’Arte romana, magari proprio quella attuale con certi suoi eccessi che abbiamo sottolineato nella nostra narrazione?

Perché l’Arte contemporanea sembra  “odiata”?

In tale situazione non deve sorprendere neppure la domanda: “Perché tutti odiano l’arte contemporanea?” se non per quel “tutti”, certamente eccessivo ma non lo è riferito alla gente comune, il pubblico dei visitatori che nella grande maggioranza spesso commenta: “Anche un bambino potrebbe fare questa roba.”.

Bruna Esposito

Nel 2016 Thèophile Pillault ha raccolto una serie di commenti, cominciando da quello di Paul McCarthy  il quale nel 2013 ha detto che “il rapporto tra arte contemporanea e grande pubblico è la classica storia d’amore impossibile, che va ben oltre il classico commento ‘mia figlia potrebbe fare questa roba in cinque minuti’”. Nel pensiero di una specialista, Nathalie Heinich, “l’arte contemporanea gioca su livelli che non riguardano esclusivamente la natura delle opere stesse. Qui entra in gioco il concetto di paradigma, un insieme di convenzioni condivise da tutti in un dato momento storico che riguardano un ambito specifico”.

E l’unico paradigma che vale per certi artisti contemporanei è quello secondo cui  “sembra che  tutta l’arte contemporanea abbia smarrito il proprio spirito dentro un immenso centro commerciale, il simbolo per eccellenza dell’oppressione, e questa rottura non può che causare l’indignazione di molte persone”. Si è perduto il senso del lavoro,  dell’impegno e della fatica per raggiungere quel livello che dà dignità artistica. “Come in Avatar, l’arte contemporanea è un ecosistema autonomo, in grado di prosperare senza bisogno di nessun pubblico…  ha dimostrato di sapersi rimodellare e rigenerare da sola”.

Giuseppe Chiari

Già nel 1946,  Ad Reinhardt in “How to Look at Modern Art” scriveva: “Staccandosi dalla corrente classica e moderna, l’arte contemporanea si è rinchiusa in una nicchia specializzata… Fin dall’inizio del movimento, le opere contemporanee sono state accompagnate da certi discorsi. Discorsi che possono diventare anche molto complicati, a volte incomprensibili o in certi casi addirittura esoterici”. Oltre alla funzione di veicolare un messaggio, “questa ricca narrazione svolge anche una seconda funzione: non consentire proprio a chiunque di entrare a far parte del club. Questo divario linguistico evita che tutta una serie di prodotti entrino in contatto con la massa del pubblico non iniziato, che ignora o non è abbastanza informato su certi discorsi per affrontare a dovere l’arte del commento e dell’interpretazione”.

Si è ben lontani dall’intento iniziale dell’arte  contemporanea di porsi come “ una forma di protesta”  rifiutando,  dopo il superamento dell’idea di bellezza avvenuto da molto tempo, anche “l’idea di armoniosità data dall’accademia”.

Michele Rizzo

Zahia alla FIAC  nel 2014 ha spiegato perché l’arte contemporanea è divenuta un “ambiente per pochi eletti”: “Una nuova generazione sta emergendo, è vero, ma occorre fare attenzione. Lo strano incremento degli iscritti alle accademie di arte è allarmante. Molti degli iscritti sembrano più interessati a raggiungere lo status di artista che all’arte in sé. Uno stato, una posizione sociale il cui portale d’accesso è illuminato dalle teste coronate dell’arte globale… dall’attenzione dei media e dal self-marketing … Il famoso quarto d’ora di notorietà riguarda allo stesso modo i mestieri del cinema, del giornalismo e della fotografia, ma la verità è fatta di precarietà, abbandono e pentimento. Quindi prudenza: quella artistica è, e resterà, una scena per pochi eletti”.

C’è  tutto questo dalla parte dei protagonisti, gli artisti posti lungo un piano inclinato, ma qualcuno di loro  ne è consapevole e cerca di reagire a certe spinte irragionevoli. Lo fa il gruppo radunatosi nel 2017 intorno al “Manifesto per l’arte – Pittura e scultura”, promosso dalla associazione “in tempo”, da dieci anni impegnata su questo fronte, capofila  Ennio Calabria, che inizia con l’orgogliosa rivendicazione dei valori primari dell’umanità minacciati perché “l’attuale società si fonda sulla categoria della ‘convenienza’ che considera irrilevante l’identità umana”.  Viene considerata  “la coscienza individuale, la vera antitesi radicale nei confronti del pensiero unico dominante”.  Tutto questo rendendo protagonista “la soggettività”, si può contrastare lo spaesamento e il disorientamento dell’omologazione.

Giulia Crispiani

Nella pittura e nella scultura può prendere corpo “l’ipotesi di un processo creativo mosso dall’inedito ingresso della soggettività  dell’essere nella storia” alla ricerca della verità in un’epoca in cui si sono perduti i punti di riferimento. Il sigillo del Manifsto è “sum ergo cogito” che rovescia l’identificazione nel “pensiero”, con la precedenza tangibile all’”essere”. Già Duchamp con la provocazione del “ready made” si era ribellato alla  mercificazione dell’arte, come  ricorda nel suo pamphlet sull’artista Pablo Echaurren,  che in passato ha lottato anche in suo nome; ma aveva ottenuto l’effetto opposto, l’oggetto di uso comune sottratto al suo impiego naturale era stato considerato opera d’arte, la mercificazione per antonomasia aveva vinto.

Ma per altri versi, diremmo speculari, ci sono altri protagonisti, cioè i visitatori delle mostre, i quali  continuano  a porre la domanda con cui  Davide Mauro  intitola lo scritto del 13 novembre 2020, “Perché l’arte contemporanea è divenuta incomprensibile?”, dove  esordisce affermando che “è  proprio il vuoto,  il sentimento che spesso m’attanaglia quando mi trovo davanti a questo tipo di arte non più in grado di suscitare emozioni profonde”.

Isabella Costabile in primo e secondo piano, a dx Lisetta Carmi

Perché l’Arte contemporanea  sembra “incomprensibile”?

Ricordiamo che il presidente della Quadriennale Umberto Croppi – nella citazione con cui abbiamo aperto il nostro servizio – afferma che non solo l’arte contemporanea è comprensibile, ma addirittura aiuta a comprendere la nostra società: e dobbiamo dargli ragione se si riferisce alla riflessione suscitata in noi sulla follia che pervade l’umanità – che non può non esprimersi anche nell’arte –  e la pandemia del virus ce ne fa ricordare una capitale: le scarsissime risorse dedicate a ciò che difende la vita, in particolare la scienza che dovrebbe proteggerci almeno dai microorganismi invisibili capaci di paralizzare il pianeta, rispetto alle risorse per ciò che invece  distrugge la vita, gli armamenti; per non parlare del consumismo dissennato che insegue bisogni artificiali indotti dalla produzione assorbendo risorse sottratte agli impieghi essenziali.

Mauro, più pacatamente, ammonisce che “l’arte è l’espressione della cultura di un’epoca. Attraverso essa siamo in grado di percepire lo spirito del tempo e il sentimento dei popoli. È evidente il fatto che l’evoluzione del linguaggio artistico, a causa di molteplici eventi storici, sociali e tecnologici, sia approdato inevitabilmente a quello odierno. L’arte infatti proietta sui fruitori l’essenza più vera dei valori e delle questioni che affliggono l’uomo”. Ma “si è manifestata per secoli attraverso modalità figurative certe, tramite regole dapprima non scritte, poi oggetto di attenzione di eruditi, filosofi e scrittori che l’hanno codificata e ne hanno svelato i principi e le regole”.

Cloti Ricciardi

Gli artisti si sono dovuti misurare con tali regole per diventare tali, e anche osservatori e grande pubblico hanno potuto riconoscerne qualità e valore con quei riferimenti certi. “Attraverso queste regole si è prodotta arte e ogni artista non solo doveva conoscerle, ma doveva saperle padroneggiare: la prospettiva, il disegno dal vero e gli abbinamenti cromatici, erano alla base del suo lavoro. Eppure tutto questo sapere oggi sembra non essere più utile e anche gli artisti sostanzialmente ne fanno a meno, dato che le modalità espressive si muovono su altri livelli”. 

Prima dei livelli espressivi conta il portato del tempo e della storia, che Mauro ricollega al “tempo lineare e al tempo ciclico”: il primo portatore di progresso, il secondo di regresso: saremmo in questo secondo stadio con “la constatazione che l’avanzamento della tecnica e la cosiddetta ‘caduta nella materia’, renda l’uomo abile negli utilizzi pratici e organizzativi della vita, ma sempre più distante da un’interpretazione spirituale”, intesa “come approccio emotivo all’esistenza” tale da trasmettere emozione attraverso “la contemplazione dei luoghi” e i “simboli” evocativi dell’espressione artistica.

Alessandro Agudio

In questo modo, nel passato si trasmetteva “l’impulso  a una vita come crescita” sul piano culturale e spirituale, al di là della pur fondamentale base religiosa. E quando questa matrice è venuta meno, “gli artisti hanno continuato a trasmettere messaggi e a esprimere l’essenza del loro tempo, ma si sono distaccati progressivamente dalla complessità e dalla profondità di pensiero”; e soprattutto dai “grandi temi”: “Appare evidente come quella pregnanza di un tempo, quell’esigenza di penetrarne il mistero dell’esistenza e la natura umana, non siano più una parte essenziale dell’uomo”. 

Questa  tendenza si è accentuata man mano che l’arte si è aperta al grande pubblico, e i suoi temi “sono passati da quelli universali ai particolari di ogni giorno”, spesso legati alla quotidianità – per gli impressionisti addirittura l’attimo fuggente – o comunque ad eventi pur  rilevanti come le guerre, ma transitori.  Anche le altre grandi correnti, espressionisti, e cubisti, dadaisti e Pop Art, per non parlare degli astrattisti, hanno portato sempre più  avanti la sperimentazione senza approfondire gli aspetti introspettivi, “il mistero dell’uomo”; lo stesso viene rilevato per i grandi, come Caravaggio,  Van Gogh e Picasso, Wahrol e Burri, Fontana e Duchamp”.    

Diego Marcon

Viene citata la constatazione di Kandinsky nel saggio “Sulla forma”,  cioè i due elementi compresenti nell’opera d’arte classica, la “rigorosa astrazione” che si esprimeva attraverso un “rigoroso realismo” si sviluppano oggi “secondo direttive distinte. Sembra che l’arte abbia posto un punto finale alla piacevole complementarietà di astratto e concreto, e viceversa”. Con questa conclusione: “Tale scissione tra le due modalità espressive, mostra ancora una volta la cesura dell’uomo contemporaneo e le sue ripercussioni sul valore artistico in termini assoluti”.

Tutto questo sarebbe il riflesso dello spirito del tempo, che è nell’essenza stessa della creazione artistica.   La classe sociale cui è destinata è “sempre meno incline alla cultura e all’introspezione”, si è estesa molto in quantità impoverendosi in qualità; e i suoi comportamenti sono “sempre meno consoni alla contemplazione del bello e sempre più alla spettacolarizzazione”.

Valerio Nicolai

Alessandro Baricco ha definito “l’avanzata dei barbari”  il crescente predominio della tecnica e della velocità rispetto alla riflessione e all’approfondimento: “In fondo il pubblico di oggi non ha più gli strumenti e l’esigenza di ricercare un significato importante in queste opere, non solo perché ritenuta non più necessaria, ma anche perché l’uomo contemporaneo ha perso il senso profondo del vivere, non è più abituato a pensare e attraverso tale spirito del tempo l’arte stessa si conforma divenendo muta, priva di ideali, di messaggi e di idee”.

E proprio per la conseguente “discrasia tra ragione  e sentimento”,  “l’arte contemporanea, così criptica, assurda e spesso incomprensibile, non toccando più i tasti  dell’animo umano, racconta se stessa tramite concetti. Tali concetti sono assolutamente personali, spesso espressi come un moto che emerge da un’intuizione o un guizzo dell’inconscio che si esprime senza regole né schemi. Così diventa necessaria la figura del critico d’arte … un intermediario-guru tra il pubblico e l’artista”.

Luisa Lambri

Siamo tornati così, seguendo passo passo l’itinerario logico e razionale di Mauro – con l’aggiunta della passionalità di Baricco – al punto che ci interessava evidenziare ulteriormente, dopo  aver citato altri osservatori attenti a questi aspetti  e scevri dal “servo encomio” come dal “codardo oltraggio” verso certe espressioni dell’arte contemporanea: “Il critico d’arte diventa  l’unico in grado di rendere più o meno intellegibili i sottili significati  espressi dagli artisti poiché egli è uno specialista, ha studiato e conosce gli artisti… Pertanto è la forza e il carisma del critico d’arte a fare spesso la differenza per un artista”. Come delle volte anche il proprio carisma, citiamo Dalì e de Chirico, in aggiunta al talento. 

Ma proprio l’assenza di “regole” che abbiamo evidenziato, rende il suo giudizio  “inoppugnabile”: “Non  si può quindi contestare l’opinione di un critico perché non c’è un criterio assoluto su cui valutare un’opera. Non un difetto di prospettiva, di colore, di forma o di composizione; tutti questi aspetti un tempo noti a chiunque non valgono…”.

Alessandro Pessoli

Per questo nel “raccontare” la “17^ Quadriennale d’Arte” abbiamo citato, per ogni autore e le sue opere principali, il giudizio dei curatori avanzando solo qualche perplessità da cronisti impertinenti allorché il significato attribuito ci è apparso al di fuori di ogni possibile percezione dell’osservatore. Del resto, è l’unica via per dar conto dell’imperscrutabile e indecifrabile arte contemporanea. Lo prova il libro di Francesco Poli, “Non ci capisco niente. Arte contemporanea. Istruzioni per l’uso”, che spiega il significato e le motivazioni alla base di una sessantina di opere.  I curatori della “17^ Quadriennale d’Arte”, Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol,  lo hanno fatto per i 43 artisti espositori, e le singole schede illustrative hanno aggiunto interpretazioni ampie e argomentate.   

“Così è se vi pare”, è il sigillo che poniamo a conclusione del nostro racconto della mostra che ci ha portato a questo inusuale excursus sull’arte contemporanea sulla scorta delle analisi di osservatori disincantati. A loro, come semplici cronisti, siamo grati per averci consentito di penetrare sotto la scorza esteriore dell’arte contemporanea nella sua 17^ prestigiosa celebrazione quadriennale.

Salvo

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner”Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”,   Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue.  Gli altri 4 articoli sulla mostra sono usciti in questo sito in successione nei giorni scorsi, 1°, 2, 3, 4 marzo 2021.  Cfr. i nostri articoli, in questo sito, sulla mostra:  per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  20 luglio, 13 marzo 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati in www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli: in questo sito, De Chirico v. Info 3° articolo, Manifesto 3 aprile 2020 con Duchamp ed Echaurren  6, 9 aprile 2020;  in www.arteculturaoggi.com, Calabria 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019, Futuristi 7 marzo 2018, Mangasia  1, 6 novembre 2017, Warhol 15, 22 settembre 2014, Praz 17 febbraio 2013, Echaurren  20, 27 febbraio,  4 marzo 2016,  23, 30 novembre, 14  dicembre 2012, Duchamp 16 gennaio 2014; Impressionisti e moderni  12, 18, 27  gennaio 2016, Impressionisti 5 febbraio 2016, Cubisti 16 maggio 2013, Pop Art, Minimalisti al Guggenheim 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012, Astrattisti  5, 6 novembre 2012, Dalì 28 novembre, 2, 18 dicembre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Impressionisti 27, 29 giugno 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009  (l’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su un altro sito).

Nanda Vigo

Photo

Tutte le immagini dell’allestimento con le opere e le installazioni nelle sale sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata anche fornendo il prezioso Catalogo; nelle didascalie è indicato solo il nome degli artisti che espongono in tali sale, le immagini sono inserite nell’ordine in cui sono state fornite. Altrettante immagini delle sale illustrano il 1° articolo, mentre il 2°, 3° e 4° articolo sono illustrati con 2 opere per ognuno dei 43 artisti espositori, nelle didascalie sono indicati anche titolo e anno di realizzazione. Le immagini sono state tutte inserite “courtesy Fondazione Quadriennale di Roma, photo DSL Studio”, a loro va il nostro ringraziamento. In apertura, Lydia Silvestri e Zapruder Filmmakersgroup; poi, Guglielmo Castelli, e Daar Sandi Hilal-Alessandro Petti; quindi, Francesco Gennari e Benni Bosetto; inoltre, Giuseppe Gabellone e Simone Forti; ancora, Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi e Caterina De Nicola; continua, Salvo, e 2 immagini delle installazioni di Bruna Esposito; poi, Giuseppe Chiari e Michele Rizzo, quindi, Giulia Crispiani e Isabella Costabile in primo e secondo piano, a dx Lisetta Carmi; inoltre, Cloti Ricciardi e Alessandro Agudio; ancora, Diego Marcon e Valerio Nicolai; continua, Luisa Lambri e Alessandro Pessoli; poi, Salvo e Nanda Vigo e, in chiusura, altra visuale della facciata di Palazzo delle Esposizioni, sede della mostra.

Altra visuale della facciata di Palazzo Esposizioni, sede della mostra

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17^ Quadriennale d’Arte, 4. “Fuori”, termina la galleria della mostra, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Andiamo ancora avanti nella nostra narrazione della 17^ edizione della Quadriennale d’Arte espressa nella mostra “FUORI”  al  Palazzo delle Esposizioni, curatori Sarah Cosulich direttore artistico della Fondazione Quadriennale di Roma, e Stefano Collicelli Cagol, con  gli ultimi 11 artisti dei 43 espositori, dopo aver commentato finora gli altri 32.  Nel realizzare la  mostra, la Fondazione si è avvalsa della collaborazione dell’Azienda speciale Palexpo, ha contribuito il Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo.  Inaugurata il 20 ottobre 2020, dopo la chiusura prolungata per la pandemia Coronavirus,  è stata riaperta il 4 febbraio 2021 e potrà essere visitata  fino alla primavera; ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci. Catalogo della Treccani,  bilingue.

Salvo, “Case con lampione”, 1986

Nei  tre articoli  precedenti abbiamo riassunto all’inizio l’impostazione della mostra, con al centro Roma e il Palazzo, le Quadriennali precedenti e l’Arte italiana,  rivisitata nel corso degli ultimi sessant’anni per proporre oggi artisti che avevano una visione anticipatrice, nelle tre linee di ricerca, il Palazzo, il Desiderio, l’Incommensurabile. Poi abbiamo passato in rassegna 32 artisti dei 43  complessivi e le loro opere, citando le descrizioni e i significati attribuiti dalle schede illustrative e, in molti casi dai curatori, risultando improponibile l’interpretazione al cronista che, come semplice narratore, le considera indecifrabili e pensa che lo siano anche per il comune visitatore.  Completiamo ora la rassegna con i restanti 11 artisti.

Ci siamo lasciati nell’ultimo articolo  con il primo di tre artisti “ammaliatori”, Franceschini. E’  il turno degli altri due, De Luca e Sacchi.  Tommaso de Luca  ha una  linea scenografica  riferita all’architettura,  secondo la scheda con “l’esplorazione della coreografia che uno spazio architettonico crea in relazione ai corpi che lo attraversano”. In pratica mette in scena “macchine visive che fanno saltare l’assunzione di una corrispondenza diretta tra visione e realtà e incoraggiano invece il visitatore a percorrere lo spazio assumendo posture alternative”. 

Salvo, “Il passaggio del numero 1”, 2014

Addirittura nell’opera di De Luca si vedono “gli echi della pratica del cruising, un incontro di sesso casuale tra uomini che avviene in spazi non deputati, come parchi o toilette”. Non sappiamo assumere le posture alternative evocate né riusciamo a immedesimarci nello squallido ambiente di cui all’opera intitolata “”Salopp Gesagt Schlapp” 2014, che “mima l‘estetica dei bagni pubblici, utilizzati dalle comunità omosessuali come luogo di incontri e soddisfazione di desideri e contemporaneamente richiama la costruzione di un forum, inteso come un posto di incontro e scambio, alludendo alla natura ambigua di fruizione insita nello spazio stesso”.

Dopo i progetti di “Bagni pubblici biologici”  di Bruna Esposito ritroviamo gli stessi ambienti, prima declinati all’insegna della sensibilità ambientale e dell’equilibrio tra corpo e natura, ora in chiave sessuale, anzi omosessuale. La mostra così rende onore al suo titolo “Fuori” nell’accezione del movimento di Angelo Pezzana, e alle proprie motivazioni. L’altra opera, “Die Schlussel des Schlosses” 2020, mostra “un padiglione non finito” che evoca “l’ambiguità destabilizzante del lavoro”. In altri termini, “quella che De Luca sembra proporre è un’analisi grammaticale dello spazio del potere, riflettendo sulla strutturazione e sul mantenimento del privilegio”. Altro che “ammaliatore”, l’artista ci riporta ai temi ideologici molto frequentati, tutt’altro che ammalianti….

Francesco Gennari, “Tre colori per presentarmi al mondo, la mattina”, 2013

Il terzo artista  che abbiamo definito “ammaliatore” prendendo lo spunto  da Collicelli Cagol, Davide Stucchi – un ritorno il suo dopo la 16^ edizione del 2016 presenta  opere radicalmente diverse,  che la scheda descrive come sculture “risultato di fragili modifiche dei materiali, azioni minime che, aggrappate  – come cinture – alla vita e all’autobiografia dell’artista, disegnano nuovi corpi, descrivono l’intimità degli spazi e la vulnerabilità degli oggetti”. All Clothes Artists’ Own”  2020 mostra una persona vestita distesa bocconi su un letto che guarda un video.

Le altre opere realizzate per la Quadriennale sono molto diverse. In  “Light Switch (The Guy Next Door)”  si vedono luci al neon ancora semi imballate in scatole semiaperte, sul ballatoio del Palazzo, lampade a terra tra fili elettrici. “Traslocando (Shy Neon)”  si ispirerebbe a due quadri di Giorgio de Chirico, “Arrivo del trasloco” 1951 dove si vede  un pacco caduto dal veicolo a terra nell’ombra, e “Sole sul cavalletto” 1973 con il filo elettrico che sembra alimentare la sorgente di luce.

Francesco Gennari, “Autoritratto su menta (con camicia bianca)”, 2020

Ma, a parte tali lontani riferimenti, peraltro a dipinti, le scatole semiaperte come in un trasloco ci fanno pensare a quanto avvenuto in altre circostanze in cui oggetti dello stesso tipo e imballaggi sono stati addirittura ritenuti da utilizzare o riporre, fino ad essere scambiati per rifiuti,  ne parleremo al termine.

Questa volta non c’è  un rischio simile, data la cornice in cui li colloca  l’allestimento considerando il valore loro attribuito nella scheda: “L’opera è una riflessione sull’intimità, sui perenni traslochi di vite precarie e instabili, sulla memoria di oggetti desideranti che ormai hanno appreso la capacità di lasciarsi andare o la curiosità instancabile di costruire nuove occasioni e relazioni”.

Anna Franceschini, “Villa Straylight” 2019, # 1

Sempre di Stucchi vediamo i simil-interruttori fissati al muro, “Kitchen” e “Corridor”: al posto del pulsante si intravvedono immagini, cosa che “mette in scacco la gestualità convenzionale del suo utilizzatore”. In tal modo “Stucchi invita al voyeurismo, sollecita la curiosità e stimola il contatto”. Ma come?

Ecco la risposta: “Stucchi si confronta con la letteratura queer, spesso interessata allo spazio pubblico,  e riporta la trasgressione del cruising (la ricerca di incontri sessuali in luoghi pubblici con sconosciuti) e l’esposizione del sé a una dimensione domestica e quotidiana, dove l’io si confronta con se stesso  e la maggior parte delle sue esperienze, infine accade”. Anche qui non vediamo evocato l’“ammaliatore” suggerito da Collicelli Cagol, ma la tematica omosessuale legata a luoghi pubblici, peraltro  squallidi, come quelli progettati dalla Esposito ed evocati anche da De Luca.

Anna Franceschini, “Villa Straylight” 2019, # 2

Andiamo “in più spirabil aere”, ci sia consentito di dire,  con Caterina De Nicola che,  secondo la scheda,  “analizza i processi di estetizzazione culturale, esaminando motivi e tendenze ormai svuotati di senso ma che circolano ideologicamente nella società”, cosa che a nostro avviso darebbe loro pur sempre un senso, quale che sia l’ideologia.

In questa ottica “sfida la percezione immediata delle sue opere, mirando a stimolare sensazioni opposte” e impiega materiali eterogenei, quali immagini e simboli di varia natura, prodotti di design, testi e tracce sonore ricomposti con il “mash up”: una tecnica utilizzata soprattutto nella musica miscelando brani diversi per ottenere un nuovo suono  pur restando distinguibili le componenti.

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Tomaso De Luca, “Salopp Gesagt Schlapp”, 2014

Ne deriva una forma di espressione definita  “theory fiction”  che consiste nel “toccare tematiche specifiche  attraverso la finzione” realizzando degli ibridi, nei quali si perde il riferimento al singolo autore o personaggio pur se “i suoi testi parlano in prima persona”. Per cui “il risultato finale è un ibrido tra oggetto di design e libro, tra un quadro e una scultura, sulla cui indeterminata definizione l’artista non prende una decisione”.

“Moxette’s Crazy. Stupid Love” presenta i 7 nani disneyani su una trapunta verde, in un ritorno all’infanzia, mentre “Erotic Injury” e “Degought Depletion”  “ sono tra le prime opere dell’artista a riunire scrittura, pittura e scultura” con scritte apposte su tessuti presi nei mercati dell’usato, tutte del 2020. “Sotto la sua azione, le forme del design subiscono un processo di trasformazione che con ironia mette in luce  la tendenza – comune sia al design che all’arte – di scadere nella riconoscibilità, ripetitività e prevedibilità, in una parola: nello stile”. 

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Tomaso De Luca,“Die Schlüssel des Schlosses”, 2020

Sulla ripetitività e prevedibilità siamo d’accordo, ma lo “scadere nella riconoscibilità” può essere solo un’espressione ironica, perché altrimenti il visitatore potrebbe aversela a male.  E non serve spiegare perché, ne parleremo al termine riguardo al problema della comprensibilità che si pone per l’arte contemporanea, non solo per questa mostra.

Altri tre artisti, Castelli,  Bosetto, Nicolai, “nel loro essere fuori scala, fuori norma, fuori dal tempo, implicano l’apertura al futuro  e un sentirsi organici  alle sfide (e alle ansie) del mondo globalizzato” afferma Collicelli Cagol, e cita “”le posture squilibrate e disarticolate delle creature di Guglielmo Castelli, gli interni abbandonati di Benni Bosetto,…  la fragola gigantesca di Valerio Nicolai”.  Consideriamo ad uno ad uno questi tre artisti accomunati dall’essere “fuori” da tutto.

Davide Stucchi, “Traslocando (Shy Neon)”, 2019

 “Nelle tele e nei disegni di Guglielmo Castelli una certa  nostalgia malinconica indugia sul momento dell’attesa, l’attenzione concentrata su attimi apparentemente insignificanti”, osserva la scheda, che esemplifica questi momenti nella “fine di un pasto, il dismettere le scarpe da danza, l’accosciarsi su un divano”, con i  materiali utilizzati in modo innovativo al di fuori delle regole tradizionali, un altro “fuori”…. “Le figure umane  sono agglomerati di materia cromatica resi fluidi dagli effetti debordanti delle pennellate” e attraverso mescole di colori acrilici e a olio,  resi più brillanti e luminosi: le ambientazioni  “sono paesaggi che si prolungano e si disperdono sui corpi che le abitano”.

“Ordine nostalgico di un assetto spaziale” è un’installazione per la Quadriennale con un varietà di componenti, tele di misure diverse e disegni di piccole dimensioni. ”L’ordine si piega alla nostalgia,  una qualità ondeggiante tra l’eccesso  di immaginazione e il desiderio acuto misto a rimpianto…”.  Ma poi la scena si anima con un’altra opera, “Compiuta figura” , una danzatrice che ballando si specchia nella propria ombra, mentre altre volteggiano e ci sono anche quelle distese nel riposo dopo la danza. 

Davide Stucchi, “Socket (Corridor)” , 2019

Dal movimento all’intimità in “Ogni cosa nel buio la posso sapere”, una camera da letto il cui disegno “sottolinea come in Castelli, le posture dei corpi si sviluppino  in maniera uniforme al gesto continuo del pittore, lo seguano interpretandone la durata”.  Non mancano gli animali domestici nel trittico “Giochi da adulti” , i gatti  da scoprire nelle macchie di colore, i topi  nel labirinto. Tutte del 2020, come  “A memory”, “About today”, “All You Can Eat”, mentre è del 2019 “I muscoli del Capitano”. Sono opere di un cromatismo coinvolgente che hanno il pregio, o il difetto – a stare a quanto si è letto su De Nicola – della riconoscibilità, e per il visitatore è una boccata di ossigeno dopo tanta stupefatta  apnea.

Benni Bosetto dipinge e disegna sulla parete, inoltre, sottolinea la scheda, realizza sculture e installazioni “che immergono chi le incontra in mondi dove il corpo è decostruito e  immaginato nuovamente”.  Nelle sue opere, “la corporeità si dissolve  divenendo parte di altre specie, altri generi e altri tempi che si tengono e riallacciano in un racconto eterno – balsamo contro ansie e incertezze, strategia di localizzazione”.

Caterina De Nicola, “Moxette’s Crazy, Stupid Love”, 2020

Frammenti umani rappresentano il “linguaggio corporeo” dell’artista e si uniscono ad elementi vegetali anche con “processi alchemici rocamboleschi” partendo sia da antiche leggende medievali, sia da fatti di cronaca. Nella performance  “Ambiente X” 2019, vengono presentati ossessivamente  i gesti quotidiani  del lavoro d’ufficio “in una reiterazione meccanica che li priva di senso”. Ma è altrettanto arduo  il senso nell’interpretazione che viene data, dopo la descrizione appena riportata: “Il rito,  come il racconto, è allora una strategia che, opponendosi all’escapismo, afferma un’iper-presenza  dai confini espansi”, fa uscire dall’”ambientazione standardizzata” dell’ufficio e “abbraccia altri possibili luoghi e il tempo si liquefà connettendo le tradizionali ripartizioni tra presente, passato e futuro”.

Per  la Quadriennale ha progettato l’istallazione ambientale sonora “Anima”,  che rappresenta una stanza  quasi “in  rovina”, dato che la carta da parati è strappata e si vedono disegni sul muro con travi di legno insicure e rifiuti: “La  presenza umana è evocata in assenza. Si possono udire flebili rumori, stridori e voci indistinguibili che compongono un paesaggio sensoriale dalla profonda qualità fisica”.

Caterina De Nicola, “Degrought Depletion” , 2020

Il Catalogo riporta ”Jewels” 2019, due “Senza Titolo” identificate in  “Lo scriba” e “Il giornalista” del 2020.  “Cleaning” è un disegno a muro con un “superorganismo” fantasioso, dove le figure, collegate da tubi biomeccanici, “rivelano la centralità del corpo come baluardo di ricchezza sensoriale, centro della percezione, fonte di conoscenza materiale e depositario  di memoria interpersonale e intergenerazionale”. Non è  troppo caricare il “superorganismo” di tutti  questi contenuti? Li vede l’interprete, speriamo che possano vederli anche i visitatori, al cronista risulta difficile.  

 Valerio Nicolai  va anch’egli oltre i limiti, come i due artisti precedenti, anche quando resta nella pittura  perché “mette in continua  frizione la realtà, creando dei cortocircuiti nelle immagini”. E lo fa  “innestando elementi in contesti inaspettati” seguendo l’immaginazione e la libera associazione di idee, “in un processo psicanalitico che cerca di non far sfuggire i lampi improvvisi di immaginazione e memoria”; in pratica, “l’immagine viene smontata e rimontata in un processo di aggiunte e sottrazioni”.

Guglielmo Castelli, “Compiuta figura”, 2020

Così la scheda, ma non sappiamo quale “processo psicanalitico” possa essere alla base della ceramica cromata “Coglione” (sic!) 2017 e dell’olio e acrilico su tela “Mare di merda # 5” (sic bis!) 2018; è come se dopo sessant’anni la celebre “Merda d’artista” di Piero Manzoni sia uscita dai 90 barattoli numerati uno dei quali venduto all’asta a fine 2016 per 275.000 euro…

Ben diversa è “Tempesta al prosciutto cotto” 2019, un tela di 177 x 254 cm con le venature che diventano fulmini e saette, fino a “Capitan Fragolone” 2020, una enorme fragola di cartapesta  rossa esposta nel Palazzo con delle fessure per vedere all’interno una nave dove c’è un “performer” nella cambusa vestito da pirata;  “mondi inaspettati si fondono l’uno dentro l’altro, attivando l’effetto di una serie di scatole cinesi che il visitatore è chiamato ad aprire”. I visitatori partecipano a questo viaggio fantastico e fantasioso.

Guglielmo Castelli, “All You Can Eat”, 2020

Lo “Spremilimone candelabro” 2019, sempre di Valerio Nicolai, è perlomeno stravagante, mentre “Prospettive di una matrioska” ispira questo volo pindarico: “Mondi inaspettati si fondono l’uno dentro l’altro, attivando l’effetto di una serie di scatole cinesi che il visitatore è chiamato ad aprire, sospeso tra il desiderio della scoperta e lo spaesamento a cui essa lo condurrà”. Dal prosciutto cotto, il fragolone e  lo spremilimone alla matrioska, al “coglione” e al “mare di merda”, non c’è che dire, complimenti! Escursioni impensabili nella loro stupefacente varietà…

Dalla  pittura,  dalla ceramica e l’improbabile “ready made”, al rapporto tra scultura e fotografia che troviamo in Giuseppe Gabellone, le cui opere scultoree vengono spesso conosciute solo attraverso immagini fotografiche, e poi a volte distrutte, in modo da non essere databili, quindi fuori dal tempo e soprattutto dalla contemporaneità.

Benni Bosetto, “Jewels”, 2019

I lavori di Gabellone non appaiono realizzati nel presente, ma per la scheda sembrano “emersi da qualche archetipo tempo delle origini della storia dell’arte italiana del Ventesimo secolo, che non trova però collocazione precisa su un’immaginaria linea del tempo”.

E’ il significato dato alle due “Falsa Finestra”  del 2020, create per la Quadriennale:  grandi  pannelli in fibra di vetro, resina e colori acrilici, con un “lavoro di stratificazione che conduce a questo tempo indefinito” facendo perdere di trasparenza ma riacquistando il colore rispetto a lavori precedenti sullo stesso tema, in particolare alla “Falsa Finestra” del 2019.  La  mancanza di trasparenza è il risultato di un processo lento di stratificazione che dà “un alto tasso di opacità” alle sue opere collegato “alla riflessione sulla memoria e in qualche modo sull’atemporalità della pratica dell’artista”.

Benni Bosetto,“Senza titolo (Il giornalista)”, 2020

Richiamano lavori anteriori “emblematici dell’interrogazione che Gabellone  avanza ai confini di bidimensionalità e tridimensionalità” e  nella loro materialità opaca la quale inibisce di guardare oltre fanno sì che, mentre cerca “di interrogare l’immagine che dovrebbe rivelarsi, si trovi invece a guardare tutto insieme, tutto in una volta sola”.  Con questa conseguenza: “Ecco allora che il processo di lenta sedimentazione degli strati non ha come risultato un qui e ora, che viene dichiarato impossibile dall’opera di Gabellone, ma offra invece una visione sincronica di tutto ciò che è sempre qui”. Provare per credere, il visitatore è avvertito, deve solo interrogare e guardare.

Luisa Lambri  è una “fotografa di luce e architettura: la sua ricerca è orientata a restituire l’esperienza di essere negli spazi”. Dopo questa presentazione la scheda descrive l’architettura nelle sue fotografie luminose, considerando che “non usa le sue immagini per rappresentare delle architetture, mette piuttosto in atto il procedimento inverso, partendo dalle  architetture per creare le proprie opere”.  

Valerio Nicolai, “Coglione”, 2017

E come avviene questo? Con una propria visione degli spazi che ne rende la percezione e sensazione al di là della rappresentazione oggettiva, ottenuta con “tagli diagonali, porte socchiuse, riflessi” per renderne l’atmosfera e “svelare qualcosa che c’è ma che, senza l’aiuto del suo sguardo, potrebbe rimanere per sempre celato, nascosto”. Vediamo 3 opere in stampa a pigmenti, “Untitled”, del 2007 “Schinder House” e 2 opere del 2016, “The Met Breuer # 5 e 7”.  

In esse “l’atto di fotografare il modernismo diventa occasione per metterne in scacco il linguaggio formale”, ed ecco come: “Rileggendolo da un punto di vista obliquo che ne ridisegna le geometrie e  dà  una tridimensionalità scultorea all’immagine”. Se si trattasse solo di tecnica fotografica ci verrebbe da associarla alle riprese oblique che hanno reso celebre il fotografo russo Aleksander Rodcenko, ma si vuole ci sia molto di più.

Valerio Nicolai, “Capitan Fragolone”, 2020

In primo luogo si butta di nuovo nell’ideologia di genere affermando che “guardando all’architettura modernista, Lambri svela il suo sguardo che è da intendere come una vera  e propria esperienza femminile in un mondo costruito  e creato dagli uomini”; e con questa espressione femminista si fa un torto alle donne che hanno contribuito insieme all’uomo  al mondo come lo vediamo. Inoltre si valorizza la sua fotografia ad opere d’arte, come i”tagli” di Fontana  da lei ripresi “riempiendo tutto il campo di visione di questa lacerazione  che sprigiona una potenza tattile”.

Infine,  “di fronte all’interpretazione di Lambri degli spazi assistiamo alla metamorfosi di un corpo, il corpo dell’artista, in architettura”. E nessuno potrà dire di non aver capito, neppure noi ci azzardiamo a questo, perché la scheda precisa: “Quello messo in atto non è un semplice gioco di rispecchiamento, ma un’operazione di riconoscimento”. Vuol dire che “scade nella riconoscibilità” che prima abbiamo visto considerato come fattore negativo? Forse, ma solo parzialmente.

Giuseppe Gabellone, “Falsa Finestra”, 2020

Dalla “metamorfosi del corpo dell’artista in architettura”  a una visione speculare, che attiene non al corpo né a un contraltare materiale bensì  “al campo espanso della percezione, della cognizione e della relazione interpersonale” cui Raffaela Naldi Rossano affida  “la prerogativa della costruzione del sé, dell’altro e del noi”, è scritto nella scheda. Oltre ai fattori biologici interni operano “supporti esterni, estranei: linguaggio, artefatti tecnologici e culturali”, che ci sembrano il “pendant” rispetto a corpo e architettura della Lambri.

Né il corpo è assente in questa visione dato che “se la memoria si deposita, non può che farlo nell’odore di un corpo, nel sapore di un pasto, nella pelle d’oca al passaggio di una brezza”, che sono le “porzioni di realtà”. Tutto  questo si esprime, in particolare, in 2 opere del 2019. “Noi siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare“, declinata in inglese, esprime già nel titolo la sua provocazione, le streghe sono considerate “eroine resistenti” e non nell’accezione negativa che le faceva ardere sul rogo. Si tratta di 56 lettere di ceramica con le quali l’artista “ricostruisce una discendenza ideale, ribadendo lo spirito inclusivo e fantasioso alla base della costruzione di linee familiari e collettività materiali”.

Giuseppe Gabellone, “Falsa Finestra”, 2020, interno e dettaglio

“A Liquid Confession” è  un’acquasantiera in ceramica smaltata con dei limoni veri, che ha tagliato la stessa artista perché i visitatori  sentano il loro aroma e partecipino  “ai ricordi dell’artista”. Meglio i limoni che la m…da, ci viene da dire con una facile battuta. Sarebbe troppo semplice, per questo la scheda richiama subito alla complessità interpretativa: “Naldi Rossano compone uno spazio in cui incontri casuali e diacronici  danno avvio a relazioni con le visitatrici, i visitatori e la storia, e in tali movimenti e trasformazioni l’io, la memoria e i corpi ne risultano espansi e continuamente rinnovati”.  E chi non vorrebbe una tale mutazione?  Ma come accorgersene ? 

Passiamo  alla danza e al cinema con i due ultimi artisti della nostra rassegna, e della mostra, rispettivamente  Rizzo e Zapruder. Michele Rizzo coreografo e danzatore “ha arricchito la sua formazione con il linguaggio scultoreo che, come la danza, gli consente di esplorare le relazioni tra materialità e movimento”.

Luisa Lambri, “Untitled (Schlindler House # 01)”, 2007

La scheda su Rizzo sottolinea il rapporto biunivoco tra la danza che diviene scultura e la scultura che acquisisce il movimento, ma non è qualcosa di automatico bensì il risultato delle sue ricerche e dell’aver  portato la danza negli spazi espositivi: “Attraverso l’uso del corpo, l’artista permette alla danza di assumere una posizione scultorea e alla scultura di poter abitare il movimento”.  

Ne sono testimonianza le “performance” degli ultimi anni, come “High xtn “ 2018 in cui “la ripetizione ossessiva dei gesti induce i raver a uno stato di trance che permette loro di essere contemporaneamente corpo collettivo  e individuale, vere e proprie forme-sculture in movimento”.

Luisa Lambri, “Untitled (The Met Breuer # 05)”, 2016

In questa Quadriennale ciò è reso plasticamente da Rizzo nella “performance” ”Rest”  2020, 4 sculture viventi con corpi adagiati su portantine deposte nella sala “a formare un’installazione immersa in un paesaggio di luci e suoni”, coreografia che “riecheggia la ritualità delle processioni religiose del sud Italia”: tutto ciò  nello spazio museale che è il “tempio dell’arte”, e viene evocato anche il Mare Mediterraneo, “simbolo di infinito e di vita, ma anche terminus di migliaia di vite in cerca di speranza”.

Oltre all’accenno alle migrazioni, vengono citate “le rivolte sociali (unrest) che hanno infiammato diverse città a sostegno delle proteste del  movimento Black Lives Matter”,  come “risveglio da un’età dell’innocenza a favore di una presa di coscienza”: l’immancabile corredo ideologico di tante opere in mostra. A parte ciò, con “Rest” Rizzo evoca il riposo dopo la danza, mentre da parte nostra possiamo vederci anche un riferimento di attualità alla immobilità forzata conseguente al “lockdown”, l’opposto del movimento vitale che può essere visto in quest’altra chiave: “Un momento di ricongiungimento con sé stessi, attraverso cui rielaborare la propria relazione con ciò che è prossimo”. Senza dubbio un utile richiamo  alla meditazione che può aiutare in un periodo come questo, di ansie e incertezze. 

Raffaela Naldi Rossano, “Noi siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare“, 2019

Con Zapruder Filmmakersgroup si conclude la galleria espositiva, e non a caso, è l’ultimo in ordine alfabetico e costituisce un collettivo cinematografico italiano con 20 anni di vita e tre componenti,  impegnato  in ricerche sul teatro con la già citata Romeo Castellucci Socìetas, “contribuendo a definire un territorio di incontro tra arti performative, figurative e cinematografiche”  mediante “elementi installativi che esulano dallo schermo di proiezione”; è un “cinema espanso, con sperimentazioni anche nel campo della stereoscopia”, un “cinema da camera” ispirato ai cinema delle fiere di paese, nell’accostamento operato dalla scheda.

Viene presentato per la prima volta completo “Zeus Machine” 2019, dopo “Salita all’Olimpo” 2016 che è un box dorato nel quale si può entrare per la visione di un film girato nel Festival dei teatri, per una esperienza “fortemente immersiva”.  “L’invincibile” è un video con “dodici reperti archeologici estratti dal presente”, la video narrazione “radica  l’esperienza della fatica di Ercole nel contemporaneo”, ma non con le immagini della mitologia classica, bensì con quelle dei film “peplum”, i famigerati banali colossal.

Raffaela Naldi Rossano, “A Liquid Confession”, 2019

“La riflessione sul mito, inteso come tentativo di rappresentare l’irrappresentabile, e la mitologia, nell’accezione di strumento di riproduzione e sopravvivenza del mito  (o anche ‘macchina mitologica’..) è centrale in questo lavoro”.  E si svolge incarnando l’eroe mitico nei soggetti della  realtà quotidiana, per di più alle prese con situazioni contemporanee dissacranti in cui ci si scontra con la modernità. Ma in questo modo non  esorcizza, bensì “restituisce in pieno la natura del  mito,  colto nella sua narrazione mutevole e circolare, facendo fare allo spettatore esperienza della ‘macchina mitologica’, in grado di riprodursi infinitamente insieme con le gesta degli eroi che la incarnano”.  

E’ una “narrazione mutevole e circolare” anche quella fatta fin qui, e il nostro spettatore ha potuto conoscere la “macchina artistica” della Quadriennale, connaturata ai suoi eroi: gli espositori selezionati appunto dalla “macchina “ suddetta.  Ci ha sorpreso la scelta  di tanti  temi  orientati ideologicamente, e in una sola direzione, per questo ci sembra si sia rinunciato di fatto a dare un panorama a 360 gradi dell’arte contemporanea anche nella rivisitazione del passato, a meno che  i temi declinati siano gli unici frequentati dagli artisti di oggi e di ieri, cosa di cui ci permettiamo di dubitare.

Michele Rizzo, “Rest” , 2020, # 1, dettaglio

La “macchina artistica” della Quadriennale  ha fornito anche le interpretazioni e le motivazioni delle singole opere e dei loro autori, da noi riportate traendole, lo ripetiamo, dalle introduzioni dei due curatori, Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, e dalle esaurienti schede illustrative cui abbiamo attinto.

 Lo abbiamo fatto, ribadiamo anche questo, per l’umiltà del cronista che non è critico d’arte, quindi non ha il “sacerdozio” per interpretare l’arte contemporanea, o almeno certa arte contemporanea, e quella della Quadriennale d’Arte in particolare. Diciamo questo a ragion veduta:  a parte ogni nostra personale considerazione che non conterebbe,  c’è un settore molto ampio degli appassionati dell’arte che andrebbe opportunamente rassicurato per non perderlo.  Perciò parleremo prossimamente, a conclusione del nostro “viaggio”, della difficile comprensibilità dell’arte contemporanea e delle sue motivazioni e implicazioni.  

Michele Rizzo, “Rest” , 2020, # 2, dettaglio

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”,   Treccani, pp. 680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo. Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, i primi 3 articoli sono usciti in questo sito il 1°, 2, 3 marzo, l’ultimo uscirà domani 5 marzo 2021.   Cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla mostra: per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  20 luglio, 13 marzo 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati nel sito web www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016.

Zapruder  Filmmakersgroup, “Zeus Machine. L’invincibile”, 2019, # 1, fotogramma video

Photo
Le immagini delle singole opere dei 43 artisti espositori, come le panoramiche delle sale espositive – queste ultime inserite nel 1° e 5° nostro articolo sulla mostra – sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata fornendo anche il prezioso Catalogo; alterttante immagini delle opere illustrano il 2° e 3° articolo, anch’essi dedicati alla galleria dei 43 artisti. Sempre sono state inserite immagini di 2 opere per ogni artista, tutte “courtesy l’artista” e in taluni casi anche “courtesy Collezione” o “courtesy Galleria”; a loro, e a tutti i titolari dei diritti, il nostro più vivo ringraziamento. Anche per illustrare ogni artista con 2 opere, in aggiunta alle immagini fornite dall’Ufficio stampa ne sono state inserite altre tratte dal Catalogo, in questo articolo le n. 7, 10, 11, 14, 15, 17, 20, 21, 23, 26; quindi, si ringrazia anche l’Editore con i titolari dei diritti. Sono tutte inserite nell’ordine di citazione nel testo, con l’avvertenza che le 2 opere di Salvo, di Francesco Gennari e di Anna Franceschini, con cui iniziano le illustrazioni, sono commentate alla fine del 3° articolo. In apertura, Salvo, “Case con lampione” 1986, e “Il passaggio del numero 1” 2014; seguono Francesco Gennari, “Tre colori per presentarmi al mondo, la mattina” 2013, e “Autoritratto su menta (con camicia bianca)” 2020; poi, Anna Franceschini, “Villa Straylight” 2019, # 1 e 2, due installazioni; quindi, Tomaso De Luca, “Salopp Gesagt Schlapp” 2014, e“Die Schlüssel des Schlosses” 2020; inoltre, Davide Stucchi, “Traslocando (Shy Neon)” , e “Socket (Corridor)” 2019; ancora, Caterina De Nicola, “Moxette’s Crazy, Stupid Love”, e “Degrought Depletion” , 2020; continua, Guglielmo Castelli, “Compiuta figura“, e “All You Can Eat”, 2020; poi, Benni Bosetto, “Jewels” 2019 e “Senza titolo (Il giornalista)” 2020; seguono, Valerio Nicolai, “Coglione” 2017, e “Capitan Fragolone” 2020; poi, Giuseppe Gabellone, “Falsa Finestra” 2020, # 1 e # 2 intera, interno e dettaglio; quindi, Luisa Lambri, “ Untitled (Schlindler House # 01)” 2007, e Untitled (The Met Breuer” # 05″)” 2016; inoltre, Raffaela Naldi Rossano, “Noi siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare“, e “A Liquid Confession” 2019; ancora, Michele Rizzo, “Rest” 2020, # 1 e # 2 dettagli; in chiusura, Zapruder  Filmmakersgroup,“Zeus Machine. L’invincibile” 2019, # 1 e # 2 fotogrammi video .

Zapruder  Filmmakersgroup, “Zeus Machine. L’invincibile”, 2019, # 2, fotogramma video

17^ Quadriennale d’Arte, 3. “Fuori”, prosegue la galleria della mostra, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Continua la nostra narrazione della 17^ edizione della Quadriennale d’Arte espressa nella mostra “FUORI”  al  Palazzo delle Esposizioni, curatori Sarah Cosulich direttore artistico della Fondazione Quadriennale di Roma, e Stefano Collicelli Cagol, con  altri 16 artisti dei 43 espositori, dopo i 16 artisti presentati in precedenza.  Alla sua realizzazione da parte della Fondazione ha collaborato l’Azienda speciale Palaexpo, con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo.  Inaugurata il 20 ottobre 2020  dopo la lunga chiusura per la pandemia Coronavirus è stata riaperta il 4 febbraio 2021 e lo resterà  fino alla primavera;  ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci. Catalogo della Treccani,  bilingue.   

Alessandro Pessoli, “Ritratto di Zucca”, 2013

In precedenza abbiamo passato in rassegna  i primi 16 artisti della nostra galleria e le loro opere, dopo aver prima riassunto l’impostazione della mostra, con al centro Roma e il Palazzo, le precedenti Quadriennali e l’Arte italiana, in una rivisitazione anche delle Quadriennali del passato che ha fatto proporre oggi artisti degli ultimi sessant’anni con una visione anticipatrice  allora ignorata.

Inoltre abbiamo indicato le tre linee di ricerca: il Palazzo, come sede storica della mostra alla quale si attribuisce una valenza particolare, avendo “una storia connotata con il ventennio fascista”; il Desiderio, ritenuto troppo trascurato mentre le sue pulsioni sono determinanti, in collegamento con le tematiche queer, femministe e omosessuali; l’Incommensurabile nell’opera dell’artista, non misurabile nè esprimibile, che va al di là di ogni collocazionw. Nella nostra rassegna abbiamo citato le descrizioni dei curatori e delle schede illustrative, data l’indecifrabilità per un cronista che non si atteggia  a critico d’arte, ma è un semplice narratore.

Sylvano Bussotti, “Il tappezziere”, 1953

Abbiamo concluso la rassegna dei primi 16 artisti con le “partiture musicali” di Sylvano Bussotti: ebbene, scrive la Cosulich,“a cavallo tra arte e musica ha lavorato anche Giuseppe Chiari  sostenitore della gestualità nella lettura delle opere, sia da parte del performer che interpretava le sue partiture musicali, sia dello spettatore posto di fronte a scritte che negavano la possibilità di rimanere inermi, passivi”.

La scheda lo considera, in linea con “Fuori”, “uno strumento che invita il pubblico ad assumere una posizione eccentrica  da cui guardare l’arte italiana, scrivendo un percorso narrativo rispetto alla sua tradizione canonica”. 

Sylvano Bussotti, “Arlequin Poupì”, 1955

Come si esprime tutto questo? “Le frasi scritte dalla mano di Chiari sono dichiarazioni icastiche che, muovendosi sul confine tra provocazione e non senso, non chiudono il discorso in modo assertivo, ma aprono un dialogo con il pubblico che le legge”. Ce n’è anche per le loro componenti: “Le parole  scritte dall’artista sembrano dare voce ai dubbi e alle perplessità che sorgono nei visitatori, ponendosi come un commento partecipato della mostra in cui sono esposte”.

Vediamole queste frasi, sono  gli “Statements”, con le scritte, in tutte maiuscole: “Forse  tu sei centrale e questo foglio è al margine” e “Lontani indipendenti  liberi ingenui appassionati naturali antagonisti, “Voglio  vivere senza capire. Posso? Graziee “Se questa è arte tu sei pazzo”,   il pubblico potrebbe rispondere che può vivere senza capire e far sua proprio quest’ultimo statement!  

Giuseppe Chiari, “Lontani indipendenti… “, 1999

Collicelli Cagol considera le scritte di Chiari “un ottimo viatico”  per reagire  “all’ossessione per il nuovo” in modo da  “sostituire e sostenere un cambio di postura con cui provare a ripensare il modo di guardare l’arte”. Farlo con questi “statements” del 1999 rispolverati dopo vent’anni quasi fossero ruderi preziosi e presentati come le “tavole della legge” ci lascia basiti, come si dice a Roma: sarà un nostro limite ma non possiamo nasconderlo.

Ancora il co-curatore cita “la potenza delle immagini, delle parole e delle azioni che promana da ogni spettacolo di Romeo Castellucci Socìetas. Lo vediamo in “Uso umano di esseri umani. Un esercizio in Lingua  Generalissima”  da Bologna  2013 e Mosca 2015. Tale lingua artificiale, coniata dalla Socìetas nel 1984, si legge nella scheda, “scaturiva dallo studio delle lingue morte ma compiutamente decriptate. Un ruolo preminente era riservato alla bruciante necessità comunicativa che fonde  le lingue creole, germinate in seno alle comunità di schiavi in stato di convivenza coatta  nelle regioni antillano-caraibiche, zone di deportazione coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo”.

Giuseppe Chiari, “Se questa è arte…”, 1999

Cosa c’entra  questo con la mostra?  L’installazione sulla “Resurrezione di Lazzaro” la “riconvoca a trent’anni di distanza dalla sua invenzione”, la testa guarda ancora più lontano all’indietro.  Con questa caratteristica: “I dispositivi scenici di Romeo Castellucci si fondano sul disinnesco di ogni illustrazione devota  al regime mimetico del teatro”.  Ed ecco l’intento: “Si tratta di far fallire il potenziale comunicativo, retorico e pedagogico della scena che si fonda sulla pretesa di uno sguardo trasparente sul Reale”.  Nella performance  sull’affresco di Giotto, “di fronte al Cristo benedicente, Lazzaro pronuncia un diniego alla vita, supplicando la propria permanenza nel mondo dei morti”. Il linguaggio, e tutto il resto, “fuori”  dall’abituale, torna il passato per il salto nel futuro. Sarà……

Le  fotografie di Lisetta Carmi , secondo Collicelli Cagol,  “raccontano i sintomi di potere di una società  patriarcale attraverso la lettura del suo erotismo e autoritarismo, in un ciclo continuo di morte e rinascita”. Da pianista a fotografa, presa dall’impegno per le cause sociali e i diritti dei lavoratori, “le sue immagini mettono in luce le relazioni tra classi, generi, tra erotismo e potere alla base della società italiana”, secondo la scheda.

Romeo Castellucci Societas,“Uso umano di esseri umani.Un esercizio in Lingua Generalissima,2014 # 1

Nella serie “I travestiti” 1965-71,  dà dei transessuali “con delicatezza l’immagine di corpi che vengono rappresentati nella loro completezza, senza soffermarsi solo sulla loro sessualizzazione e la loro mercificazione”. Vien fatto di chiedersi come avrebbe potuto farlo.  “Il parto” 1968 richiama le immagini senza veli, forse le prime che più esplicite non potevano essere, del  film uscito poco prima, nel settembre 1967, “Helga”, le cui inquadrature  ruppero  il tabù del nudo integrale femminile con il pretesto di riprendere il travaglio della nascita.

Il precedente “Erotismo e autoritarismo a Staglieno” 1966, sempre della Carmi, intende sottolineare  “lo sguardo patriarcale  che orienta la rappresentazione della donna nei gruppi di sculture  funebri di fine Ottocento presenti nel cimitero di Staglieno a Genova”.  Ma non c’è solo la “sguardo patriarcale”, anche  “il perbenismo borghese  e il paradosso dell’uso di stereotipi religiosi”; e le statue femminili fotografate “coniugano l’erotismo alla sottomissione”, le donne sono “madri e mogli fedeli” ma anche  “ancelle e dee il cui corpo  sessualizzato dallo sguardo maschile viene  tagliato, isolato e svelato”. Certo, per riesumare – ci si perdoni il verbo ma siamo in carattere con l’ambiente cimiteriale – fotografie di oltre mezzo secolo fa, i “sacerdoti” dell’arte contemporanea  dovevano cercare motivazioni all’altezza.  Ma non è un’esagerazione?

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Romeo Castellucci Societas,“Uso umano di esseri umani.Un esercizio in Lingua Generalissima,2014,# 2

Gli “immaginari coloniali e fascisti”, con la loro “pervasività e la presenza nella società e nel paesaggio italiano” sarebbero  “parte di un inconscio collettivo, un alfabeto da destrutturare e da demolire”, nella presentazione di Collicelli Cagol. Per fortuna  la “demolizione” del Palazzo delle Esposizioni è stata solo virtuale, sostituita dalla “sfilata” di stanze in cartongesso dell’allestimento che lo mimetizzano.  Il curatore riferisce tale operazione a due coppie di artisti  che, “con metodologie diverse, attraverso l’uso di archivi e l’analisi di persistenze culturali e architettoniche,  ci invitano a reagire a questo patrimonio ingombrante, ripensandone la relazione in maniera propositiva, invece che distruttiva”.

Rassicurati per lo scampato pericolo, guardiamo la rielaborazione, da parte di  Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi,  dei fotogrammi di film della prima metà del Novecento “per far emergere nei loro film – attraverso lo zoom e il ralenti – il mostruoso altrimenti celato”; in “Pays Barbare”  2013 le immagini del video parlano alla memoria collettiva in senso anticolonialista, e fin qui è una constatazione.

Lisetta Carmi, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno, 1966, # 1

L’ideologia prevale quando, pur nella giusta condanna delle nequizie del fascismo e nell’irrisione dei suoi aspetti grotteschi, la scheda su Gianikian conclude con le “responsabilità individuali e collettive, odierne come passate” con queste parole: “Insolente, atrocemente farsesco, il fascismo si ripresenta. Noi proviamo un sentimento di inquietudine.  Siamo immersi in una notte profonda. Non sappiamo dove stiamo andando. E voi?”. Modestamente lo sappiamo, certo non nella direzione ossessivamente temuta dai due artisti. Vorremmo  andare avanti senza la testa rivolta all’indietro, e poter chiamare anche questa Quadriennale come quella del 2016 “un salto nel futuro” e non una retromarcia nei gorghi del passato, tanto più così angoscioso.  

Con DAAR, di Sandi Hilal  e Alessandro Petti, si va addirittura oltre nel tenere la testa rivolta all’indietro, con una “ricerca per fondare l’Ente di decolonizzazione italiano”. Vi sono fotografie che lo collocano ad “Asmara”  e in  Sicilia, “Borgo”, sono del 2019 e 2020. Secondo la scheda, tale fantomatico ente “è un  urgente contributo  alla discussione sulle persistenze del passato e sull’oblio della memoria” in modo da iniziare “un percorso di decolonizzazione degli immaginari collettivi e individuali”. 

Lisetta Carmi, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno,1966, #2

L’acronimo DAAR, di Hilal e Petti è sulla decolonizzazione (“Decolonizing Architecture Art Residency” ), definita “il processo di liberazione da una produzione di conoscenza a senso unico, per restituire a una pluralità di voci altrimenti ignorate il senso della Storia, della memoria e della sensibilità”. E viene rivolto un invito “alla riflessione sulla presenza delle architetture fasciste in Italia per minare la logica della riduzione del Meridione alla stregua delle ex colonie africane”.

Non sono soltanto astrazioni, con il progetto  Campus in Camps DAAR ha lanciato nel 2012 un programma educativo sperimentale in un campo di profughi palestinesi trasformati in soggetti politici con questa impostazione: “La dimensione artistica diviene un terreno dove rendere possibile e giustificabile l’esercizio di pratiche utopiche”. Speriamo non si trasformino in qualcosa di diverso, il riferimento alle “architetture fasciste” è inquietante, i fanatismi fondamentalisti hanno fatto già troppi danni.  

Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, “Pays Barbare”, 2013, # 1, fotogramma video

Avendo  la testa sempre rivolta all’indietro  si fa la conoscenza di Amedeo Polazzo, il cui “Studio per dipinto a muro”   – con i ghirigori dai colori tenui in pastello e acqua a richiamare i cancelli e le grate dei cantieri,  lungo lo scalone in “pendant”  con i grandi fiori sull’altro scalone – secondo Collicelli Cagol “sovverte gli intenti celebrativi di quella tradizione”, identificati nella “cultura della pittura murale italiana degli anni Trenta”.

La lingua batte…. dato  che,  secondo la scheda,  gli scaloni del palazzo non solo vanno visti come “elemento scenografico  di esaltazione retorica nelle  Quadriennali degli anni Trenta” –  e questa sarebbe una ovvia constatazione –  ma altresì “recano nella loro magniloquenza la tensione tra la propaganda fascista di supporto all’arte e l’istituzionalizzazione del lavoro artistico”.

Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, “Pays Barbare”, 2013, # 2, fotogramma video

Come demistificarlo? “Le sue opere sono destinate ad essere cancellate e a non lasciare alcuna traccia” in quanto i colori tenui molto diluiti in acqua sulle pareti sono tali da dissolversi; tuttavia  la pittura, anche se al termine della mostra “non lascerà tracce visibili, allo stesso tempo però essa impregna i muri di Palazzo delle Esposizioni”. Il tema del cantiere nelle sue recinzioni è declinato come metafora di tante ingiustizie, dal lavoro domestico femminile mal retribuito a quello disumano dei braccianti,  quindi il lavoro, allora esaltato in termini magniloquenti, ora “si fonde a un immaginario apparentemente domestico”.

D’accordo sulla metafora, però ci sembra eccessivo dire che “Polazzo ribalta  gli assunti propagandistici degli anni Trenta  richiamando per contrappasso l’articolo 1 della Costituzione italiana ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’”. Anche i regimi  esaltano il lavoro, lo faceva quello fascista e quello comunista con il “Realismo socialista” nell’arte,  in termini magniloquenti, sì, ma non è  magniloquente, però  in modo giusto, aver  fondato sul lavoro la nostra Repubblica democratica?

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DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, “Ente di decolonizzazione, Asmara”, 2019

Si torna nel presente dopo la demistificazione del passato, sempre in chiave ideologica, leggendo nello scritto di Collicelli Cagol  che le  pareti della sala espositiva “vengono letteralmente fatte a pezzi nel video di  Monica Bonvicini“, la quale si  serve di  varie forme espressive, oltre al video, disegno e fotografia, performance e architettura. Si legge nella scheda che, “in particolare, il lavoro di Bonvicini osserva il modo in cui  architettura e corpo umano si compenetrano, assumendo l’architettura come una delle migliori rappresentazioni delle ideologie del potere”.

Non basta, l’inquadramento ideologico  parla di “un processo di decostruzione di un modello patriarcale e maschilista, colpito nei propri simboli e negli immaginari tramite un lavoro di sovversione che, con fare umoristico, mette in questione il ruolo passivo tradizionalmente attribuito alla donna”.  Può essere evocato dalla performance ”Give me the pleasure”  dell’installazione “3nd Act Never Die for Love”  del 2019,  due gabbie cilindriche per il 3° atto della “Turandot” di Puccini con la donna che cerca di uscirne: “Le gabbie diventano armature  che proteggono e delimitano uno spazio interiore in cui l’identità femminile è in grado di autodeterminarsi e di muovesi liberamente  in un ambiente normato dal desiderio maschile”.

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DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, “Ente di decolonizzazione. Borgo”, 2020

Vediamo, sempre della Bonvicini, anche 5 partiture musicali numerate “From the Series Bind Me! Torture me!” 2019 con sovrapposte scritte nelle quali “la rabbia femminista si tramuta in un potere vitale e costruttivo”: leggiamo “women’s desire” ed “erotic love”, fino alla domanda cruciale “what does woman want?”.  Se invece di “woman”  fosse scritto il nome dell’artista forse qualche visitatore potrebbe cimentarsi nel dare una risposta, oltre a quella della scheda.

Lorenza Longhi  viene collocata con gli artisti definiti della tendenza ”glam”,  il “glamour” cui Collicelli Cagol  attribuisce “l’associazione ai poteri seduttivi di una donna”, tanto più  “in una società intrisa di maschilismo”,  con lei anche altri come il già citato Vetrugno.  Vediamo “Virtual Hell” 2019 e varie “Untitled” del 2018, con le specifiche “Brocki”, “Food Narrations”, “Table 1”.  Secondo la scheda, quelli dell’artista “si atteggiano a USM Haller, tipiche scaffalature da ufficio standardizzate dal rigore svizzero, sembrano neon bianchi, presentano serigrafie di giganteschi moduli da compilare e pubblicità da riviste patinate…”.

Amedeo Polazzo, “Studio per dipinto a muro”, 2020, # 1, dettaglio

Sono realizzate con una “manualità artigianale” ottenendo “pezzi unici, irriproducibili”. Precisamente, “Longhi personalizza  così i mobili, svelandone le potenzialità espressive  attraverso il gioco delle possibilità combinatorie”. E il significato? “Con gli interventi sull’architettura e sugli arredi della sede espositiva, Longhi ne commenta la magniloquenza e il retaggio del sistema di potere di cui è portatrice”. Ed ecco come: “Lo fa travestendo, sporcando e parzialmente celando i simboli di rappresentanza per  rivelarne in maniera ancora più chiara la logica nascosta”. Magniloquenza e retaggio di potere del Palazzo, altro che “damnatio memoriae”! Un’ossessione che si perpetua.

Nelle  sculture  e nei disegni di  Isabella Costabile, secondo Collicelli Cagol, “si muovono personaggi ispirati  agli immaginari dell’afrofuturismo, della cultura giamaicana  e italiana tra le quali è cresciuta”. L’afrofuturismo è un movimento sorto negli anni ’70 con l’intento di sostenere le lotte per i diritti civili degli africani: la scheda lo considera  “come strumento di riappropriazione speculativa della capacità di immaginare il futuro, proiettando narrative ottimistiche e  costruendo situazioni ideali”. Sono figure fantastiche  extraterrestri, realizzate con materiali di scarto e oggetti tra i più disparati – “utensili esauriti, elementi organici e artificiali come bambole, posate, gusci di uova e chiodi arrugginiti” – impegnate in riti  magici in paesaggi lunari.

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Amedeo Polazzo, “Studio per dipinto a muro”, 2020, # 2, dettaglio

In tal modo l’artista “decostruisce” con la “defamiliarizzazione”, e in tal modo “garantisce il distacco tra l’oggetto e il suo ambito di provenienza”. Vediamo , del 2016 “High Priestless”, del 2018  “Santa Maremma”, “Frustone”, “Al pascolo”, nei quali l’artista interviene sui “giocattoli usati” con vari materiali, anche forchette, cucchiai, scarti di metallo e simili. 

E  raggiunge questo risultato: “Costabile traduce tali disposizioni in un’etica processuale che indaga la metafisica dei corpi, siano essi persone e oggetti:  le espanse potenzialità di alcune forchette, le nuove utilità dei barattoli di latta diventano attualità e sono pretesti tramite cui, come l’artista sottolinea, ‘possiamo capire molto su noi stessi’”. A noi non è riuscito, sarà ancora un nostro limite.

Monica Bonvicini, “Give Me the Pleasure” da “3nd Act Never Die for Love”, 2019

Anche Nanda Vigo  va su piani virtuali galattici, ricorda Collicelli Cagol, “per tutta la vita ha progettato strumenti per entrare in contatto con altre dimensioni oltre al visibile che abitiamo quotidianamente”.  La ispirano i  viaggi che sono stata la sua passione e il suo alimento culturale e vitale, e nonostante la loro limitazione terrestre le hanno aperto gli occhi sull’incommensurabile. Nella scheda si legge che “l’intento della sua ricerca estetica è quello di  sondare la possibilità di creare stimoli sensoriali attraverso  l’impiego di materiali industriali e la creazione di spazialità  che inglobino e avvolgano il visitatore”. 

Ed ecco i suoi motivi ispiratori: “Per l’artista,  un cronotopo è un ‘tempo-spazio’ che conduce il visitatore verso dimensioni altre, non ancora esplorate, alla ricerca di una vera  e propria a-dimensionalità”.  Così “Exoteric Gate” 1976, ispirato ai luoghi dove sono nate le più antiche civiltà, Egitto e Iran, Nepal e India, Messico, una serie di figure geometriche semplici ed essenziali rievocano l’”Alfabeto cosmologico” del 1972. “L’ambiente creato, attraverso specchi e neon, si configura attraverso un altrove sospeso nel tempo, su cui si aprono dei portali, passaggi che conducono verso una realtà ignota, quello spazio-tempo relativo da lei  immaginato”. Un cronotopo provvidenziale libero da ogni riflesso ideologico, ci piace aggiungere.  

Monica Bonvicini, “From the Series Bind Me! Torture me! # 2″, 2019

Riconducono al tempo “che non può più essere pensato lineare” Agudio e Marcon – presenti nel 2016 alla 16^ edizione – “ci spingono a tornare sui nostri passi, per immergerci tra visioni di pittura espansa e desideri erotici”, dato che  “i palazzi storici italiani sono macchine del tempo”, osserva Collicelli Cagol.

Alessandro Agudio , si legge nella scheda, “non concepisce i propri lavori come opere ma come oggetti colti nel pieno dell’esaurimento della propria funzione”. In pratica utilizza oggetti di arredamento per le case della borghesia lombarda “come degli idoli da salotto, oggetti seducenti da esporre in bella vista”. Così “evoca un’immagine  archetipica dell’identità italiana creata dall’arredamento diffuso  nelle case della media borghesia degli anni Ottanta”. Il suo interesse al dettaglio e  alla superficie degli oggetti esprime “la propria natura artificiosa e stimolante”, e lo spazio così “arredato” appare come “un’impalcatura teatrale”. 

Lorenza Longhi, dalla mostra “Visual Hell”, 2019

Nelle opere concepite da Agudio per la Quadriennale, “l’elemento del corpo come unità di misura è centrale”, tanto che impiega “attrezzi da palestra” e in particolare “quattro forme usate per l’allenamento delle dita in sospensione dei climber” , a parte “Un angolo (torcia) 2019. Sono del 2018 “Un angolo (Tipo vespasiano)” e due oggetti forse da palestra separati da uno spazio, fissati al soffitto e al pavimento da due corde con ganci, il lunghissimo titolo è “Hello, I Know It Might Sound Weird but I Am Wondering if It Is Possible to Make Sure that the Surface of of the Item Is Homogeneous as Possible. Many Thanks”, 2018. “Nei cavi e nella sospensione si annida un erotismo violento… suggeriscono un’atmosfera erotica soffusa eppure esplicita, la stessa che si respira nei club finitess”.

Non basta, non ci eravamo accorti che l’atmosfera creata da Agudio “invita a toccare, a infilare le dita a giocare con le forme, a spiare i corpi degli altri nella relazione con gli attrezzi, nell’atto dello sforzo fisico”. Se lo scrivono sarà così, anche se personalmente confessiamo di non sentire un simile impulso…

Lorenza Longhi, Untitled (Table 1)”, 2018

Pur se accomunato nei “desideri erotici”, Diego Marcon – presente anche alla 16^ edizione del 2016 – presenta opere ben diverse, innanzitutto in quanto si tratta di film e video, poi perché riguardano il mondo dell’infanzia “non più in termini di purezza o innocenza: quello che interessa l’artista è la sua natura ambigua”, per cui lo spettatore viene  ad assumere “un punto di vista sentimentale e allo stesso tempo opaco, straniante nei confronti di un mondo in cui trasparenza e positività diventano ideali consunti e triti”.

Le parole della scheda sull’opera di Marcon evocano  una metafora della condizione umana considerata patetica dall’artista “tenendo insieme due dimensioni, quella del dolore e quella della comicità, che spesso si intrecciano nella sua opera”. L’opacità è espressa dal buio, irrompono “rumori fuori scena”, ci sono gli adolescenti come “presenze inquietanti”, immobili o addormentati, su cui incombono minacce indistinte.

Isabella Costabile, “Santa Maremma”, 2018

“Il buio di  “Monelle”  – il titolo del film di Marcon del 2017 – non è un buio vuoto o silente: la visione delle immagini, così repentina e fugace, carica lo spettatore di una fame dello sguardo, una frustrazione derivata dalla difficoltà di trattenere l’immagine e il desiderio di interrogare lo schermo nero”.  Si intitola “Monella” il film di Tinto Brass del 1998, con l’adolescenza inquieta e inquietante, sarà una coincidenza?

L’intento di  Diego Gualandris  ”che vede i suoi quadri come  dispositivi di seduzione”,  secondo Collicelli Cagol  è di “risvegliare l’eccitazione sessuale attraverso il giardino pittorico creato per FUORI”. Già ci sfuggivano l’erotismo violento dei cavi che sorreggono gli attrezzi e  i desideri erotici riferiti da Marcon ad adolescenti nel buio, vediamo se ora possiamo sentire l’eccitazione sessuale data dagli “effetti psichedelici con il potere di attrarre e re-incantare nonostante la repulsione che provocano”,  provocati da frammenti umani, vegetali  e microorganismi “che emergono attraverso le velature e le campiture”.

Isabella Costabile, “Frustone”, 2018

Il curatore spiega da dove trae origine e alimento la “seduzione” evocata per Gualandris : “La capacità di ammaliare, incantare si riassume in una parola che racchiude una dimensione molto presente nell’immaginario collettivo italiano e sull’Italia”, la parola è il “glam”, l’abbiamo già citata, un termine prima “associato a  incantesimi e magia”, poi divenuto più ampio,  “riferito a qualcosa che strega, irretisce, affascina e conquista”.

E non manca l’inquadramento ideologico: “In una cultura intrisa di maschilismo, l’associazione ai poteri seduttivi  di una donna è immediata”, del resto è uno dei “leit motiv” dichiarati della mostra. Sarà colpa nostra se continuiamo a non sentire questo effetto sessuale. L’opera di Gualandris, realizzata per la “Quadriennale”, è il trittico “Edera” 2020, sull’’Eden immaginario, con tre grandi tele collegate , “Terza testa del Galloleone”, “Casa dei sogni di un ragno violino”, “Digerire una tigre” , tra il 2018 e il 2020.

Nanda Vigo, “Strigger of the Space”, 1974, # 1

Un  “uso psichedelico dei colori” sarebbe tipico anche di Salvo, derivato dalla musica psichedelica degli anni ’60 di cui era appassionato, tradotto nel “reincantamento dei paesaggi urbani, montani, marini e campestri”- nelle parole di Collicelli Cagol –  esso pure improntato al “glam”, espresso nel trattato dello stesso Salvo “Della pittura”. Ci troviamo di fronte, questa volta,  a un artista concettuale di  alta levatura  che nella pittura si esprime attraverso soggetti e cromatismi di grande effetto negli  esterni con lampioni e paesaggi, negli interni con architetture e ambienti di sogno.

Attraverso un uso sapiente dei colori – è scritto nella scheda –  l’artista ripensa i generi della pittura italiana  tradizionale, come il paesaggio e la natura morta, immergendo lo spettatore in trip cromatici inaspettati”. Vediamo realizzati, tra il 1986 e il 1988 “Undici luci” e “La città”, “Casa con lampione” e “Al cinema”; nel  1992 e 1999 “Ottomania“  e “Roma”, nel 2014 “Il passaggio del numero 1”.

Nanda Vigo, “Strigger of the Space”, 1974, # 2

“Reincantare  il mondo e aprire le porte della percezione (per parafrasare il famoso libro di Huxley)  sembra essere la risposta a chi considerava la pittura  spacciata di fronte all’immaterialità (e semplificazione) delle ricerche concettuali divenute tendenza”. Evviva per questo ritorno a parlare di arte dopo tanta ideologia passata e presente che trova, sì, i suoi riflessi nell’arte di cui spesso è ispiratrice, ma non può essere  così dominante fino a sembrare ossessiva.   

“La stessa rigorosa matrice concettuale e demiurgica di Salvo ispira Gennari  nella scelta dei materiali come viatico per esprimere la propria dimensione, che si (s)materializza in gin, vetri e superfici liquide che rifrangono  luci e immagini, marmi e metalli che con la loro allure  attirano i visitatori”, così Collicelli Cagol presenta  Francesco Gennari.

Alessandro Agudio, “Un angolo (torcia)”, 2019

La scheda su Gennari parla di “una radice minimalista che si accompagna a un’emotività straripante, creando una dicotomia inedita tra metafisica e minimalismo”. E’ “autorappresntazione” la sua con “la percezione dell’esistenza di un doppio , un altro con cui relazionarsi: nella stessa persona esistono due Gennari, uno che pensa e l’altro che esegue”.

Vediamo in mostra, di Gennari, “Tre colori per presentarsi al mondo, la mattina” 2013, due  “Autoritratto su menta (con camicia bianca)” 2018 e 2020, il primo un triangolo di sottili tubi di vetro  di Murano fusi a mano, gli altri due evanescenze verdi a getto d’inchiostro su carta, molto più spettacolari del primo, sembrano di due autori diversi.  Nel triangolo c’è  “il tentativo di una presentazione di sé che l’artista fa al mondo”; nelle evanescenze “un’immagine di sé incorporea, animalesca e quasi mostruosa”. In queste opere  il visitatore vede tutto fuorché un vero autoritratto.

Alessandro Agudio, “Hello, I Know It Might Sound Weird but I Am Wondering if It Is Possible to Make Sure that the Surface of of the Item Is Homogeneous as Possible. Many Thamks”, 2018

Franceschini, De Luca, Stucchi  utilizzano display, vetrine e scenografia per “ammaliare o giocare con linguaggi in grado di irretire, per sovvertire le apparenze, giocare con gli stereotipi  e rivelare quanto  di artefatto popola gli immaginari collettivi”, osserva Collicelli Cagol.   

Anna Franceschini – un ritorno il suo dopo la partecipazione alla 16^ edizione del 2016 – si concentra “sugli oggetti e sul loro potenziale narrativo, in relazione alle persone e al loro vissuto. Il suo lavoro è tutto teso ad animare l’inanimato”, recita la scheda. E’ una “architettura visiva” che vuole coinvolgere lo spettatore strappandolo dalla consueta posizione passiva e si esprime anche nel linguaggio cinematografico, il movimento ne è una componente importante. E’ esposta  una sua installazione  del genere “screenless animation”, con il “cinema senza schermo”, il movimento è dato da un macchinario che muove parrucche bionde utilizzate negli spettacoli  “drag”.

Diego Marcon, “Monelle” 2017, # 1, fotogramma di film

“Villa Straylight” 2019 è intitolata l’opera della Franceschini ispirata alla fantascienza., “il movimento immaginato dall’artista somiglia  a una danza in cui desiderio e inganno si confondono, una danza di cui non riusciamo a individuare la successione delle figure, l’ordine degli strumenti, l’inizio e la fine”.

Questo per il movimento, e il resto? “La parrucca allude a un immaginario erotico che pone al centro corpi non normati, eccedenti… I capelli delle parrucche di Franceschini ondeggiano  sinuosi trasportati dalle carrucole, mettendo in scena un corteggiamento, un’ipnosi incantevole”. Di nuovo  dobbiamo confessare che corteggiamento e ipnosi non li abbiamo sentiti, sarà ancora colpa nostra…

E De Luca e Stucchi, gli altri due artisti “ammaliatori”? Ne parleremo prossimamente descrivendo gli ultimi 11 artisti dei 43 espositori nella mostra.

Diego Marcon,“Monelle”, 2017, # 2, fotogramma di film

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. . www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”,   Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo.  Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, i primi 2 articoli sono usciti in questo sito il 1° e 2 marzo, gli ultimi 2 usciranno il 4, 5 marzo 2021.  Cfr. i nostri articoli, in questo sito, sulla mostra:  per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  20 luglio, 13 marzo 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati nel sito web www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016; per gli artisti citati,  in questo sito, De Chirico, 2019: settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13,  15; 18, 20, 22; 25, 27, 29;  nello stesso sito www.arteculturaoggi.com  De Chirico 2016: 17 dicembre e 21 febbraio, 2015: 1° marzo, 2013: 20, 26 giugno, 1° luglio,Tinto Brass 5 marzo 2016, 12 aprile 2014, Deineka (Realismi socialisti)  26 novembre, 1, 16 dicembre 2012;  in cultura.inabruzzo.it,  Realismi socialisti 3 articoli 31 dic. 2011, De Chirico, 2010: 8, 10,11 luglio,  2009:  22 dicembre, 23 settembre, 17 agosto,  in fotografia.guidaconsumatore.com Rodcenko, 2 articoli il 17 dicembre 2011  (gli ultimi due siti  non sono più raggiungibili, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su altro sito). Su De Chirico,  a stampa nei semestrali della Fondazione Giorgio e  Isa de Chirico  “Metafisica” e   “Metaphysical Art” (edizione in inglese) n.11-13 del 2013.  

Diego Gualandris, “Terza testa del Galloleone”, 2018

Photo
Le immagini delle singole opere dei 43 artisti espositori, come le panoramiche delle sale espositive – queste ultime inserite nel 1° e 5° nostro articolo sulla mostra – sono state messe a disposizione dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata fornendo anche il prezioso Catalogo; altrettante immagini delle opere illustrano il 2° e 4° articolo, anch’essi dedicati alla galleria dei 43 artisti. Sempre sono state inserite immagini di 2 opere per ogni artista, tutte “courtesy l’artista” e in taluni casi anche “courtesy Collezione” o “courtesy Galleria”; a loro, e a tutti i titolari dei diritti, il nostro più vivo ringraziamento. Anche per illustrare ogni artista con 2 opere, in aggiunta alle immagini fornite dall’Ufficio stampa ne sono state inserite altre tratte dal Catalogo, in questo articolo le n. 1, 5, 7, 9, 12, 19, 21, 23, 24, 26, 28, 29; quindi, si ringrazia anche l’Editore con i titolari dei diritti. Sono tutte inserite nell’ordine di citazione nel testo, con l’avvertenza che la 2^ opera di Alessandro Pessoli e le 2 opere di Sylvano Bussotti, commentate nel 2° articolo sono riportate all’inizio di questo; e che le 2 opere di Salvo, di Francesco Gennari e di Anna Franceschini, commentate in questo articolo, sono riportate nel 4° articolo. In apertura, Alessandro Pessoli, “Ritratto di Zucca” 2013; seguono, Sylvano Bussotti, “Il tappezziere” 1953, e “Arlequin Poupì” 1955; poi, Giuseppe Chiari, “Lontani indipendenti… ” e “Se questa è arte…” 1999; quindi, Romeo Castellucci, Societas, “Uso umano di esseri umani. Un esercizio in Lingua Generalissima” 2014, # 1 e # 2, due momenti della “performance”; inoltre, Lisetta Carmi, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno 1966, # 1 e # 2 stampe; ancora, Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, “Pays Barbare” 2013, # 1 e # 2 fotogrammi di video; continua, DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, “Ente di decolonizzazione. Asmara” 2019, ed “Ente di decolonizzazione. Borgo” 2020; poi, Amedeo Polazzo, “Studio per dipinto a muro” 2020, # 1 e # 2 dettagli; quindi, Monica Bonvicini, “Give Me the Pleasure” da “3nd Act Never Die for Love” e “From the Series Bind Me! Torture me! # 2″, 2019 ; inoltre, Lorenza Longhi, dalla mostra “Visual Hell, New Location” 2019, e “Untitled (Table 1)” 2018; ancora, Isabella Costabile, “Santa Maremma”, e “Frustone” , 2018: continua, Nanda Vigo, “Strigger of the Space” 1974 # 1 e # 2; poi, Alessandro Agudio, “Un angolo (torcia)” 2019, e “Hello, I Know It Might Sound Weird but I Am Wondering if It Is Possible to Make Sure that the Surface of of the Item Is Homogeneous as Possible. Many Thaks” 2018; quindi, Diego Marcon, 2 fotogrammi del film “Monelle” 2017, in chiusura, Diego Gualandris, “Terza testa del Galloleone” 2018, e “Casa dei sogni di un ragno violino” 2019.

Diego Gualandris, “Casa dei sogni di un ragno violino”, 2019

17^ Quadriennale d’Arte, 2. “Fuori”, inizia la galleria della mostra, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Inizia il nostro racconto della galleria di opere dei 43 artisti presentati al  Palazzo delle Esposizioni  con la mostra “FUORI” , dalla  Fondazione Quadriennale di Roma nella  17^ edizione della Quadriennale d’Arte, curata dal direttore artistico della Fondazione Sarah Cosulich  con Stefano Collicelli Cagol, selezionatori degli artisti. Ha collaborato con la Fondazione nel realizzare la mostra l’Azienda speciale Palaexpo, ha dato il suo contributo il Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo. La mostra, aperta il 20 ottobre 2020  e chiusa a lungo per la pandemia, dopo la riapertura del 4  febbraio 2021  per i giorni feriali, si potrà visitare fino alla primavera;  ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci. Il Catalogo, bilingue, è della Treccani.

Micol Assaël, “Stone Broken Circuit” , 2016-20

Abbiamo già indicato sommariamente l’impostazione e le  motivazioni  della mostra sulla base di quanto contenuto nella presentazione dei due curatori, dalle cui argomentazioni abbiamo cercato di trarre, invero con qualche difficoltà data la materia spesso imperscrutabile, quello che ci è sembrato l’essenziale, non risparmiando un  giudizio critico su alcuni passaggi: in sintesi, i quattro “vertici del perimetro” della mostra, aperto all’esterno, sono Roma e il Palazzo, le precedenti Quadriennali  e l’Arte italiana, con tre” linee di ricerca” già illustrate: il Palazzo, il Desiderio, l’Incommensurabile. E abbiamo cercato di precisarne i contenuti,  nella nostra interpretazione di quanto indicato nel Catalogo.

Le interpretazioni e i contenuti indecifrabili, l’effetto spettacolare

Siamo giunti al momento di confrontare  la sensazione ex ante tratta dalla sintesi iniziale del  Catalogo con quella analitica ex post. Lo faremo descrivendo le opere esposte dai 43 artisti sulla base delle interpretazioni fornite dai due curatori Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, nonché delle schede illustrative che sono particolarmente ampie e, come si dice con un orribile neologismo, esaustive.

Micol Assaël, “Reality is Not Contemporary” , 2020

Ma proprio tale loro caratteristica positiva sottolinea e approfondisce ulteriormente il solco tra la visione del visitatore –  al quale possiamo aggiungere il cronista –  e quella del curatore e del critico.  Infatti  i significati e i contenuti sono indecifrabili e spesso sorprende quando vengono descritti con parole  e iperboli inenarrabili  che vanno oltre  l’immaginazione, quindi ben al di là della  comprensione. Da semplici cronisti ne daremo conto  fedelmente,  confessando che non  riusciremo a trattenere le nostre reazioni istintive, lo premettiamo, nessuno è perfetto….

Ciò detto, però, va aggiunta una considerazione fondamentale. Al di fuori delle interpretazioni e dei contenuti  la mostra ha una straordinaria forza spettacolare. Le opere esposte hanno un impatto visivo intrigante  e coinvolgente al quale nulla toglie l’indecifrabilità, anzi aggiunge quel tocco di mistero che spinge il visitatore a dare sue interpretazioni senza peraltro potersi avvicinare alla lettura dei “sacerdoti” che sanno, solo loro, decifrare i geroglifici…   

Chiara Camoni, “Kabira” , 2019

Sebbene negli intenti dichiarati affondi spesso nel passato, come impressione immediata nell’approccio visivo suscita la stessa sensazione della 16^ Quadriennale “Altri tempi, altri miti” del 2016,  che definimmo “un salto nel futuro”. Ed è quello che conta per una grande mostra di arte contemporanea, quindi possiamo dire “missione compiuta” anche in questo anomalo 2020-2021; anzi soprattutto ora,  risultando la maggiore esposizione nel suo genere, l’unica a livello internazionale della sua caratura.     

Nei nostri commenti sui singoli artisti e sulle loro opere, ripetiamo, citeremo le interpretazioni dei curatori quando disponibili – e lo diremo espressamente –  e quelle delle  schede illustrative che riporteremo virgolettate, delle volte senza indicare la provenienza dalla scheda avendolo già detto ora per tutte.

Chiara Camoni, “Senza titolo (una tenda)”, 2019

Ciò premesso, apriamo la nostra  galleria espositiva iniziando da  Micol Assael, la cui opera “Stone Broken Circuit”  2016, è un  circuito elettrico di bachelite definito dalla Cosulich  “una potente mappa mentale di opposti: da immagine simbolo di conducibilità  il circuito diviene, attraverso l’uso di un materiale isolante,  corto circuito mentale”. 

In questa ottica si collegano leggi fisiche e visione filosofica,  i dadi sparsi indicano la casualità,  il circuito è come lo spago del gioco della matassa in mano al visitatore. Forse  lo giudicherebbe un gioco, se i voli pindarici interpretativi non lo riportassero alla realtà sorprendente dell’arte contemporanea, alla quale si riferisce esplicitamente un’altra opera, intitolata appunto “Reality is Not Contemporary” 2020;  è una finestra con polvere, mentre è un libro l’opera intitolata “Free Fall in the Vortex of Time” 2006, un “vortice”…  di 14 anni.  

Cuoghi Corsello, “Anima diversa”, 2019

Non sembra un gioco, sebbene nella scheda le opere di Assael…. “mettono in gioco  aspetti cognitivi e sensoriali coinvolgendo il pubblico  in situazioni impossibili da prevedere e controllare assumendo la fisionomia di veri e propri esperimenti”. E dinanzi ad essi non si può restare in situazione passiva: “I lavori della  Assael provocano e contemporaneamente impongono un ’interazione da cui potrebbe scaturire un disagio psicologico  causato  da uno stimolo fisico”.  Provare per credere, intanto non possiamo negare che il “disagio psicologico” lo proviamo già nel leggere queste parole magniloquenti. 

Anche nell’opera di Chiara Camoni, “Senza titolo (una tenda)” 2019,  la curatrice vede il gioco della matassa, questa volta da parte della natura, con “le impronte liquide di fiori e piante selvatiche a imprimere la  tela” per la grande tenda simbolo di “protezione collettiva, in continuità con il considerare la creazione artistica un gesto comunitario”; l’altro curatore osserva che viene considerata   “l’arte come bene comune”. 

Cuoghi Corsello, “Adoro diventare una principessa”, 2020

Secondo la scheda, la Camoni “ si prende cura degli oggetti trovati, dei processi naturali a cui sottopone i materiali che usa, delle persone che coinvolge nella propria pratica e  delle forme che reclamano la sua mediazione per materializzarsi”. Sembra semplice, ma non è così, si innesca un processo imperscrutabile: “Il recupero della dimensione spirituale dell’individuo crea delle sacche di resistenza morale e passa attraverso  l’esplorazione di una dimensione intima, uno spazio partecipato, un tempo di creazione e di fruizione che diventa  lento e di cui mettersi in ascolto”. Chi saprà farlo?

Oltre all’opera citata, della Camoni abbiamo “Kabira” 2019: un grande cavallo nero, con lunghe collane di pezzi di creta assemblati,  dà l’impressione di poter  essere “abitato” come “riparo e capanna”,  una riedizione… pacifica  del Cavallo di Troia. Aggiungiamo quest’associazione di idee all’interpretazione di curatori e scheda.

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Simone Forti, “Zuma News” , 2014, # 1, fotogramma video

 “Cuoghi  Corsello”  sono due artisti ma non formano un duo, non c’è la congiunzione tra i loro nomi. Hanno rivisitato spazi industriali abbandonati occupandoli e trasformandoli in studi d’artista  e in dimore temporanee, ed eccone l’effetto secondo la scheda: “L’atto dell’occupazione raccoglie intorno a Cuoghi Corsello  una comunità reattiva  e riunita ma non  viene vissuto collettivamente, bensì con il rimando a una dimensione domestica e intima”.  E’ la dimensione di  “Anima diversa” 2019: un viso quasi in dissolvenza  emerge in tinta spray su una moquette,  che “in mostra si srotola come un papiro, una sacra scrittura”.

Cosa evocano Cuoghi Corsello? Per la Cosulich “mondi altrettanto familiari eppure misteriosi, risultati di cortocircuiti in cui la narrazione è fuoruscita dall’opera per entrare nella vita degli artisti, e viceversa”, per Collicelli Cagol sono “immersioni negli incommensurabili sé”.  Non abbiamo solo un viso specchio dell’anima, ancheMutandine”, “Ciclamini”, “Tulipani” , del 2016, nella stessa tecnica, con questo intento preciso: “Il mondo  che ci circonda viene dissacrato e ripensato attraverso uno sguardo aguzzo e ironico e la creazione di  un’alternativa immaginifica popolata di icone che, facendosi risorse, generano una nuova grammatica”. Forse per questo chi, come noi, non la conosce, ne resta irrimediabilmente escluso.

Simone Forti, “Zuma News” , 2014, # 2, fotogramma video

Di  Simone Forti i video “Zuma News”  2014 e “A Free Consultation” 2016, il primo una sorta di danza nel cercare di recuperare dei giornali sulla spiaggia da parte dell’artista, che in genere si ispira al movimento degli animali. Per la Cosulich “usa il corpo  come elastico primordiale e strumento d’avanguardia, anticipatore, sensibile a narrazioni private e ai cambiamenti nel mondo” , con l’aggiunta qui di sabbia e carta;  Collicelli Cagol vi vede “l’approccio multidisciplinare”.

Ci sono  anche 16 disegni su carta intitolati “Animal Study- Gorilla” 1990, risalgono a 30 anni fa le sue osservazioni sul modo con cui gli animali in cattività nello Zoo di Roma si misuravano con “lo spazio del confinamento”, nelle loro relazioni con l’esterno: disegni appena abbozzati, poche linee, quindi criptici per l’osservatore, come d’altra parte tante opere anche ben  definite dell’arte contemporanea.

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Irma Blank, “Bleu Carnac”,1992

Pur essendo la danza il suo campo – essendo coreografa e danzatrice, oltre che artista e scrittrice –  “Forti si allontana dalle coreografie strutturate della danza moderna in favore dell’improvvisazione e dello studio dei movimenti del quotidiano, descrivendo se stessa più come un’artista del movimento che come un’artista performativa”. 

Viene declinato ulteriormente tale concetto: “Pensare con il corpo per Forti  vuol dire relazionarsi con lo spazio, gli oggetti, i suoni, attraverso strumenti cinetici e visivi, stabilire un dialogo, domandare e rispondere al movimento con il movimento”.  Si deve  essere “artisti” per farlo, non ci  provi il volenteroso vsitatore.

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Radical Writings, Abecedarium 27-3-91″, 1991

Irma Blank  presenta “Bleu Carnac” 1992, 38 oli su tela dell’installazione al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, riadattata per il Palazzo delle Esposizioni, disposti lungo un corridoio nel quale si vorrebbero evocare gli “allineamenti megalitici” della località Carnac in Bretagna che dà il nome all’opera: “Quello che si crea è quasi un percorso sacro, celebrativo, scandito dal ritmo creato dal colore e dalle pause tra una tela e l’altra”.

Vediamo  uno dei “Radical Writings, Abecedarium”  1991 che vi sono inseriti. Ed ecco l’interpretazione della Cosulich: ”La sua è una scrittura asemantica, svuotata di significato culturale e riempita di significato metafisico, autonomo nella sua potenzialità universale di insegnare a guardare e non a leggere… Non c’è figura nè figurazione nel suo lavoro ma un movimento trasformativo di linee che corrono parallele, imitano, in alcuni casi si intersecano”.  

Lydia Silvestri, “Sogno di una vergine araba”, 1970

Un minimo di decifrazione delle parole sulla Blank è necessario, non sappiamo se possibile. Forse tutto nasce dal suo trasferimento dalla Germania alla Sicilia con i problemi linguistici che ha approfondito tornando ai segni primordiali, “ogni segno tracciato risponde al ritmo della respirazione”. Si legge nella scheda:  “Il blu delle tele non è colore di sfondo o suggestione, ma è lo spazio megalitico stesso, che prende forma e pulsa al centro di Palazzo delle Esposizioni”. I visitatori lo potranno vedere, ma dubitiamo che penseranno allo “spazio megalitico”.   

Con  Lydia Silvestri irrompe  il desiderio. Per la Cosulich “nella sua dimensione di ossessione ripetuta”, la sua ricerca incentrata “sulla liberazione della sessualità e del desiderio, personifica un erotismo fluido di cui è sorprendente pioniera”; per Collicelli Cagol è “la fusione del maschile e del femminile, corpi i cui sessi e generi diventano  irriconoscibili”.

Lydia Silvestri, “He”, 1974

Sono riconoscibili, eccome, le sculture falliche in bronzo  della Silvestri come “He” 1974 e semigres come due “Incontro” 1981-83, preceduti da  “Sogno d’ambra”  e “Sogno di una vergine araba” del 1970 in cristallo, prima ancora da  “Aspide”  1969, una bella immagine di africana con collana e anello;  tornando ancora indietro nel tempo abbiamo i marmi “Ex voto – per un amore perduto e ritrovato” 1965 e  “Torso di G. FA”  1963 i quali, secondo la descrizione della scheda, “lasciano che l’atmosfera sensuale ed erotica pervada il tema sacro”.

Ma non si tratta di atmosfera sensuale senza altre implicazioni: “La dualità ambigua dei sessi, il rapporto attrattivo tra di essi  e lo scontro-incontro che in ragione di questo si scatena, viene esplorato dall’artista attraverso lo studio e la composizione di forme sinuose e conturbanti”.  Sono quanto mai esplicite le sculture falliche sopra citate, se  possono definirsi conturbanti potranno giudicarlo i visitatori, in base alla rispettiva propensione personale a siffatto coinvolgimento.

Halilaj-Urbano, “Work in progress”, 2020

“Il rapporto simbiotico tra sessualità e natura è incarnato dai  “Fiori giganti” di Petrit Halilaj e Alvaro Urbano, simbolo unico  di unione sentimentale, fisica e politica”, quella  tra i due artisti che hanno dovuto rinviare il loro matrimonio a causa del Covid. Così li presenta la Cosulich che aggiunge: “I tre livelli di lettura  di quest’opera  (ma possono essere molti di più) confluiscono  in un’unica immagine di libertà personale che appare al visitatore nella forma di un paesaggio fiabesco e protettivo”.

Nella scheda questo “paesaggio” spettacolare viene descritto così: “Halilaj e  Urbano invadono infatti le pareti e il soffitto di uno dei due scaloni interni al Palazzo delle Esposizioni con un bouquet di fiori giganti i cui petali, su tela dipinta o tinta, hanno delicate anime di acciaio”. Ed ecco il significato: “Testimoni dell’amore per la poesia simbolista, i fiori attestano la cura dell’altro, la fragilità della bellezza… l’uguaglianza dell’amore  in tutte le sue forme…”.

Halilaj-Urbano,“7 aprile 2020 (Quince)”, 2020

Sull’opera di Halilaj e Urbano si precisa che viene “reclamato” addirittura “uno spazio di visibilità e di affermazione di diritti”, premesso che i fiori sono “sospesi su uno scalone che negli anni Trenta era  palco per la propaganda fascista”. Ci sorprende tale inattesa evocazione: un tenero richiamo alla dolcezza della vita e all’amore, senza confini né barriere, sembrerebbe lontano da pulsioni di altro tipo, però non è così, l’ideologia porta lontano ma all’indietro dove il cuore non penserebbe mai di tornare….  

Dal collettivo di artiste – ne abbiamo  contate 13 italiane e internazionali –  Tomboys Don’t  Cry,  viene presentata “la loro ricerca sulla neutralità del linguaggio di genere e il loro focalizzarsi sulla lacrima come espressione del corpo universale transitorio  e liquido”.  Si definisce “un corpo polifonico di voci unite in un percorso che esplora l’idea di corpo nella sua presenza, latenza, ed emanazione”.

Tomboys Don’t Cry, “Training Coincidences”, 2017, di Dafne Ruggeri

C’è fisicità e linguaggio, emozione e desiderio, con le radici nella “ricerca intersesezionale queer femminista”.  La vediamo in “Training Coincidences” 2017, di Dafne Ruggeri, con le dita che incontrano sottili cactus spinosi in un’edizione di poster, e soprattutto in”Pravda” 2019,  dolente viso di donna  con basco nero  di Rada Kozelj, simbolo della lotta in Bosnia.

Nei video, come quello di Tarek  Lakhrisssi Gli alieni invadono la terra per sovvertire il capitalismo” – dove arriva l’ideologia! –   e nei disegni di Cinzia Ruggeri, che ritroveremo più avanti come “solista”,  si incontrano  “creature mutanti, al confine con l’extraterrestre”; fino ai poster grafici “Malelingue” di Idroletta in “un linguaggio di narratori fantasiosi” e agli “Stivali feticcio” di Eleonora Luccarini, “dispositivo accompagnato da 13 poemi”  che sono stati letti all’inaugurazione della mostra.

Tomboys Don’t Cry,”Pravda”, 2019, di Rada Kozelj

 “Nella minima distanza” è un’installazione – sempre del gruppo Tomboys Don’t Cry – datata 1990-2020, con una “serie di lenti a contatto usate dalle partner dell’artista”,  Collicelli Cagol parla di “Body Language” definendola “mostra nella mostra”  che “condensa in una temporalità e spazialità precise energie, pulsioni erotiche, forme sospese tra sarcasmo e coscienza della propria luminosità”. Non è poco, capirlo non è facile, né la serie di lenti a contatto aiuta a vedere…

Il tratto sottile a matita o a penna di Bruna Esposito  disegna “Due gabinetti pubblici  biologici”  e 2 “Espositoilette”  1987-88, “il suo progetto di bagni pubblici autosufficienti dai canali d’acqua non rappresenta solo una forma di architettura utopica ma è un modello di ecologia e rigenerazione che guarda all’idea di scarto umano come nutrimento, nell’ottica di un diverso tipo di ecosistema, interconnesso e interdipendente”: essendo dei gabinetti si immagina di quali “scarti umani” si tratti.

Bruna Esposito, “Espositoilette” 1987-1988, # 1, disegno

Per Collicelli Cagol più semplicemente “spazi pubblici alternativi” nell’ottica dell’”Arte come bene comune”, mentre nella scheda si legge: “Quella che si crea è una fruizione scultorea di un luogo generalmente nascosto e appartato, in cui il corpo umano è inserito nella natura che contribuisce  ad alimentare, riacquisendo la propria posizione di equilibrio dinamico con l’ecosistema in cui è inserito”. Si resta senza parole dinanzi  a tale exploit descrittivo…

Il  protagonista involontario nella pandemia del Coronavirus e nel tremendo atto delittuoso che ha  dato avvio al Black Lives Matter, è alla ribalta con “Respiro” di Cloti  Ricciardi ,  presentato addirittura nel 1968  al circolo romano “La Fede”.  Secondo la Cosulich, “Ricciardi si interroga sul respiro dello spazio espositivo e sulla vitalità della creazione rispetto allo spettatore” , secondo Collicelli Cagol  “le pareti si sfaldano nel ‘respiro’”,  è la sala a essere antropomorfizzata  e a respirare attraverso l’azione del visitatore che muove i fili come un burattinaio.   

Bruna Esposito, “Espositoilette” 1987-1988, # 2, disegno

La scheda precisa: “Respiro è una stanza rivestita da una grande tela che viene attivata dai visitatori tramite fettucce che, connesse  a un sistema nascosto di carrucole, fanno in modo che la stanza intera respiri, dilatandosi e contraendosi come un grande diaframma”. L’autrice “adotta una posizione che la porta ad analizzare il rapporto artista-opera d’arte-sguardo e a rivendicare lo ‘sguardo’ laterale delle artiste donne come strumento di consapevolezza  con cui scardinare e introdurre elementi di profonda modifica nella struttura simbolica dell’arte”.  Lo esprime “con uno spazio-corpo che si svincola dalle costrizioni e prevaricazioni del patriarcato, creando un nuovo terreno di interazione confronto con l’opera”. Ci sembrava di aver capito, fino al riferimento alle “prevaricazioni del patriarcato”, poi…

Altrettanto coinvolgente  è il “respiro” non di una stanza ma dell’intero Palazzo: per la Cosulich “con Norma Jeane  è il battito del cuore dell’artista stesso a far respirare il Palazzo delle Esposizioni” in modo ancora più spettacolare ed emblematico nei lunghi giorni di chiusura della mostra per il lockdown  dando il senso che continuava a vivere, e forse anche a soffrire.

Cloti Ricciardi, “Respiro”, 1968, # 1, l’artista al montaggio

Oltre a questi  “Battiti del cuore” , che fanno respirare” il “Corpo di fabbrica” nel 2020, l’artista anonimo “senza corpo, senza genere, senza biografia” – che come Norma Jeane ha preso il nome anagrafico di Marilyn Monroe evocandone la storia – “crea un disorientamento fisico, mentale  e temporale attraverso l’esposizione di oggetti e macchine della vita quotidiana a particolari condizioni di stress e fuori dal loro contesto”: da “Loops of Fury” e“Lady Loo/ Rrose Sélavy vs R. Mutt” , tra il 2004 e il 2006,  a ”ShyBot” e “Loony Park”, tra il 2017 e il 2019.  

Il visitatore  ne viene coinvolto, “uno degli aspetti fondamentali della sua pratica è infatti la rottura della barriera che divide l’artista dal pubblico”. In questo caso addirittura il pubblico non è quello dei visitatori, a mostra chiusa,  ma quello all’esterno, sono i cittadini che passano con le mascherine davanti al Palazzo delle Esposizioni.

Cloti Ricciardi, “Respiro”, 1968, # 2, inaugurazione a Napoli

Norma Jeane “non vuole far riferimento a sé ma alla relazione sempre più centrale tra corpo umano e tecnologia”, espressa negli elettrodi che collegano la sua frequenza respiratoria all’impianto di illuminazione del palazzo e “lo fa pulsare di notte, disorientando il rapporto tra vita biologica e artificiale”. Nella chiusura della mostra, del Palazzo e in parte della città dettata dalla pandemia , è un messaggio di vita, “una soglia liminale di passaggio tra dentro e fuori, tra lo spazio espositivo e quello della realtà, tra l’arte e la città”. E questo lo si vede e lo si sente, “chapeau”!

Cinzia Ruggeri, che abbiamo trovato prima nel gruppo Tomboys Don’t Cry, “pensa il corpo e veste il pensiero: il suo è un costante uscire disciplinatamente dalle discipline, incrociando sentimenti, disegnando libertà, concretizzando manie indipendentemente dalla categoria creativa a cui i suoi oggetti e abiti appartengono”, scrive la Cosulich. Moda e design, scultura e architetture sono collegate in quelle che Collicelli Cagol chiama le “riflessioni corrosive”  che fa l’artista “mettendo in scacco topoi dell’arte italiana, del made in Italy e dei costumi correnti”. Una sorta di  “ready made” tra il 1984 e il 1989, “Scarpe scale” e “Abito salame” , “Stivali Italia” e “Guanto borsa schiaffo”, fino al “Gioiello per lampadina”  1978-2018.

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Norma Jeane, “Loony Park”, 2019

C’è ironia nelle decontestualizzazioni che fa la Ruggeri degli oggetti, ma ci sembra esagerato far irrompere l’ideologia, come si legge nella scheda: “Gli ‘Stivali Italia’ (1986), per esempio, ironizzano sul concetto del made in Italy e contemporaneamente mettono in dubbio il valore dell’unicità, tramite lo sdoppiamento della penisola italiana”, e fin qui “nulla quaestio”, ma ecco la conclusione: “Il machismo insito nel sentimento nazionalista viene ribaltato da un’estrema femminilizzazione della geografia italiana”, forse dagli stivali maschili alla penisola femminile…

Anche in Maurizio Vetrugno   troviamo oggetti di moda che raccoglie per ispirarsi ad essi nelle sue composizioni inizialmente realizzate in set fotografici, poi in ricami di artigiani. Vediamo, in progressione temporale, l’incisione “I feel Mysterious Today”  e i polimeri su seta di “E’ più che bella” 1994-95, poi i ricami  a mano in filo di seta su tela “Patty Hearst” , “Nico Chelsea Girl” e “Divine I’m so Bautiful” del 2005,  Jane B.” e “Rolling Stones. Stocky Fingers” 2007.

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Norma Jeane, “Corpo di fabbrica”, 2020

Si legge nella scheda: “Artista concettuale in grado di dialogare con il glamour, Vetrugno ci invita ad individuare valori estetici al di là di quelli sanzionati dai confini della storia dell’arte, per rappresentare l’irrappresentabile”, con questa conclusione:  “L’artista è un autore virtuale che crea ipertesti di folgorante e onnivora bellezza”.  Lo fa mescolando icone dello spettacolo a persone sconosciute, spesso suoi amici, perché nei suoi ipertesti “l’importante non è tanto la riconoscibilità del ritrattato, quanto la raffinatezza del ritratto e la sua messinscena”, E ci sembra non solo condivisibile, ma addirittura ovvio, è questo che si è sempre ammirato nella ritrattistica anche se spesso i soggetti raffigurati sono noti e ben riconoscibili.

Giulia Crispiani è invece radicata nell’oggi più angoscioso, la pandemia del coronavirus che ha stravolto in modo disumano ogni socializzazione e, leggiamo nella scheda, “porta all’interno delle sale di Palazzo delle Esposizioni le pulsioni di una collettività, mette in scacco la visione autoriale dell’artista, pone al centro della discussione il desiderio e promuove, allo stesso tempo, la circolazione  di pensieri e idee all’esterno della mostra”. In pratica, espone le risposte a una lettera inviata a 60 amici e colleghi per superare l’isolamento, e un pallet di cartoni di pizza con stampata la lettera, 3000 distribuiti nelle pizzerie di Roma per consegna a domicilio. E’ “un’opera collettiva che si infiltra nel palazzo ma origina al di fuori di esso”.

Cinzia Ruggeri, “Stivali Italia”, 1986

Riguardo all’autrice dell’iniziativa, si legge che  “Crispiani si confronta con la tradizione dei movimenti femministi,  considerandone  la forza non solo oppositiva  ma anche contro generativa. Il desiderio e il piacere sono stampati nella sua riflessione come avviene nella raccolta di lettere mai spedite ma pubblicate ‘What if Every Farewell Would Be Followed by a Love Letter’”  2020. Sono in mostra, non riusciamo a vederci la “celebrazione di un’erotica del fare  artistico che non rappresenti solo una visione individualista, ma un espediente per la cura reciproca, dove lo spazio della distanza diventa spazio del possibile”.

Con le sue ceramiche smaltate e  molte “piastre esposte a muro” Alessandro Pessoli “costruisce i propri dipinti come fossero dei collage materici e insieme concettuali”. Ne sono esposte molte del 2013, intitolate “L’ultimo impero” e “La Rivoluzione”, “Repubblica” e “Zombie Market”, “Autoritratto rosso” e “Futuro”, “Il sol dell’avvenire” e “la veglia”, ”Italietta” e “La mia gente che”.

Cinzia Ruggeri, “Gioiello per lampadina”, 1978-2018

Inoltre abbiamo, sempre in ceramica, le sculture che “ in modo tridimensionale e tuttavia pittorico, ne riprendono le atmosfere”, ”Kippenberg” 2012, “Ritratto di Zucca”e  “Il Paese (Periferia)” 2013. “La storia diventa per Pessoli un prisma attraverso cui guardare e capire il mondo contemporaneo: nei suoi lavori eventi e personaggi storici subiscono un processo di trasformazione che li radica fortemente nel tempo presente”.

Partendo da tali considerazioni, la scheda considera le sue opere “un catalogo di esperienze intime e collettive” in cui  – con uno “sdoganamento”  inatteso dopo la “damnatio memoriae” di quel passato –  risuonano echi di Umberto Boccioni, Arturo Martini, Mario Sironi, Fausto Melotti, il terzo è stato a lungo innominabile. Ma non basta, l’impostazione ideologica di cui si è detto all’inizio fa affermare che  “l’intento di Pessoli è quello di mostrare la percezione di un artista italiano di fronte al ventennio  berlusconiano, constatandole le conseguenze lasciate nella società”. Sì, in effetti anche quello “berlusconiano” è stato un ventennio, con “le conseguenze lasciate nella società”, però ci chiediamo  cosa c’entri…

Maurizio Vetrugno, “Ivy Nicholson/ Dahl-Wolfe”, 2004

Andiamo avanti. “Le partiture musicali di Sylvano Bussotti – scrive la Cosulich –  sono opere autonome,  pentagrammi sorprendenti in cui le linee si incrociano formando figure umane o geometriche, aperte all’interpretazione personale di cantanti e musicisti intenti a leggerli: un altro gioco della matassa, altre mani”. Secondo la scheda,  “l’eros, forza dionisiaca in grado di  liberare l’uomo, permea la sua arte come la sua musica, entrambe intese come  sensualismo e gestualità”.

La sua ricerca “segue la direzione di un’esuberanza sognante  e vitale, eppure elegantissima e colta”.  Si passa da “Il tappezziere”  del 1953, che mostra la schiena e il sedere nudo,  all’”Arlequin Poupi” del 1955, dal diversissimo “Autoquartetto (il quinto)” con partitura musicale e due volti  a “Il catalogo è questo” 1981 e “La vera foglia di Adamo” 1991.

Maurizio Vetrugno,“Divine, I’m so Beautiful”, 2006

“Autore poliedrico dalla “scrittura proliferante” – musicista e compositore, regista e artista –  Bussotti “immagina ogni singolo dettaglio della scena, per realizzare un ambiente dove musica, testo e scenografia si fondono seguendo la spregiudicatezza del desiderio, e pervertendo così la tradizione dell’opera d’arte totale”. Queste parole della scheda riportano alla visione interdisciplinare che è una della peculiarità della mostra; sulla pregiudicatezza e perversione… sarà colpa nostra non riuscire a sentirvi il desiderio.  

Prossimamente  proseguirà la nostra galleria della Quadriennale con altri 16 artisti, per terminare successivamente con i restanti 11 artisti.

Giulia Crispiani, “Rivolta”, 2019

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. . www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”, Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo. Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, il 1° è uscito in questo sito il 1° marzo,  gli altri 3  usciranno il 3, 4, 5 marzo 2021.  Cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla mostra per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  il 20 luglio, 12 febbraio 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati in www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016. Per gli artisti citati nel testo,  nel sito ora indicato, Boccioni 1° ottobre 2018,  Sironi  2 novembre 2015, 1°, 14, 29 dicembre 2014;  in cultura.inabruzzo.it, Sironi 26 gennaio 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su un altro sito).

Giulia Crispiani, “Lettere”, 2020, parte di “Incontri in luoghi straordinari”

Photo

Le immagini delle singole opere dei 43 artisti espositori, come le panoramiche delle sale espositive – queste ultime inserite nel 1° e 5° nostro articolo sulla mostra – sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata fornendo anche il prezioso Catalogo; alterttante immagini delle opere illustrano il 3° e 4° articolo, anch’essi dedicati alla galleria dei 43 artisti. Sempre sono state inserite immagini di 2 opere per ogni artista, tutte “courtesy l’artista” e in taluni casi anche “courtesy Collezione” o “courtesy Galleria”; a loro, e a tutti i titolari dei diritti, il nostro più vivo ringraziamento. Anche per illustrare ogni artista con 2 opere, in aggiunta alle immagini fornite dall’Ufficio stampa ne sono state inserite altre tratte dal Catalogo, in questo articolo le n. 2, 5, 14, 15, 16, 18, 20, 21, 27; quindi, si ringrazia anche l’Editore con i titolari dei diritti. Sono tutte inserite nell’ordine di citazione nel testo, con l’avvertenza che la 2^ opera di Alessandro Pessoli e le 2 opere di Sylvano Bussotti, commentate nel testo, sono riportate all’inizio del 3° articolo. In apertura, Micol Assaël, “Stone Broken Circuit” 2016-20, e “Reality is Not Contemporary” 2020; seguono, Chiara Camoni, “Kabira“, e “Senza titolo (una tenda)” 2019; poi, Cuoghi Corsello, “Anima diversa” 2019, e “Adoro diventare una principessa” 2020; quindi, Simone Forti, “Zuma News” 2014, 1 # e # 2, due fotogrammi video ; inoltre, Irma Blank, “Bleu Carnac” 1992, e“Radical Writings, Abecedarium 27-3-91” 1991, e ancora, Lydia Silvestri, “Sogno di una vergine araba” 1970, e “He” 1974; continua, Halilaj-Urbano, “Work in progress” 2020, e “7 aprile 2020 (Quince)” 2020; poi, Tomboys Don’t Cry, “Training Coincidences” 2017 di Dafne Ruggeri, e ”Pravda” 2019 di Rada Kozelj; quindi, Bruna Esposito, “Espositoilette” 1987-1988, # 1 e # 2, disegni; inoltre, Cloti Ricciardi, “Respiro” 1968, # 1 e # 2, l’artista al montaggio e inaugurazione a Napoli ; ancora, Norma Jeane, “Corpo di fabbrica” 2020, e“Loony Park” 2019; continua, Cinzia Ruggeri, “Stivali Italia” 1986, e “Gioiello per lampadina”, 1978-2018; poi, Maurizio Vetrugno, “Ivy Nicholson/ Dahl-Wolfe” 2004, e “Divine, I’m so Beautiful” 2006; quindi, Giulia Crispiani, “Rivolta” 2019, e “Lettere” 2020 parte di “Incontri in luoghi straordinari” ; in chiusura, Maurizio Pessoli, “La mia gente che va in pezzi” 2013.

Maurizio Pessoli, “La mia gente che va in pezzi”, 2013

17^ Quadriennale d’Arte, 1. “Fuori”, le ideologie e i contenuti, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Al Palazzo delle Esposizioni, con la mostra “FUORI”, la  Fondazione Quadriennale di Roma  presenta la 17^ edizione della Quadriennale d’Arte  con le opere di 43 artisti selezionati da due curatori, il direttore artistico della Fondazione Sarah Cosulich  e Stefano Collicelli Cagol. La mostra è realizzata con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo, in collaborazione con l’Azienda Palaexpo per la sede espositiva. L’esposizione, inizialmente prevista dal 20 ottobre 2020 al febbraio 2021, a seguito della chiusura prolungata per l’inasprirsi della  pandemia  è stata  prorogata fino alla primavera 2021, dopo la riapertura dal 4  febbraio per i giorni feriali; ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci.  Catalogo Treccani,  bilingue.

Il Palazzo delle Esposizioni, sede storica della mostra  

L’anomalia di una mostra chiusa poco tempo dopo l’inaugurazione per la pandemia Coronavirus consente di trarre dalla minaccia un’opportunità, pur se relativa, secondo l’imperativo manageriale che trasferiamo all’ambito artistico: rovesciare la modalità ordinaria che consiste nell’iniziare con  la visita alla mostra – magari documentandosi prima con  qualche  notizia di massima sugli artisti espositori  – per poi procedere all’eventuale approfondimento successivo sul Catalogo. Vale per il visitatore come per il cronista  che la racconta, anche nel nostro caso dopo le anticipazioni che abbiamo fornito nel luglio 2020 sugli artisti e sull’impostazione allorché è stata presentata la 17^ Quadriennale d’Arte “Fuori”.   

Un primo accenno all’interpretazione dell’arte contemporanea

In questa inversione di approccio passiamo subito all’approfondimento dei contenuti tramite il voluminoso Catalogo, cogliendo l’occasione per iniziare con la questione che si apre sull’arte contemporanea al visitatore e al cronista: annosa questione che nasce dalla lunga assuefazione al concetto che l’arte è l’espressione della bellezza, la quale, tra l’altro, salverà il mondo….   e non è stato facile superare un’idea così fascinosa rendendo l’arte espressione dei tormenti dell’artista e  del mondo esterno.

Romeo Castellucci-Socìetas

Ma per l’arte contemporanea tale evoluzione non basta, data  l’assenza di qualsiasi  limite, anche estremo, alla stravaganza, per cui vengono ritenute artisticamente valide espressioni che secondo la percezione comune  non sono altro che assurdità inenarrabili. Ed è qui che va portata la riflessione del cronista vicino al visitatore, senza la presunzione di certi critici nella loro torre d’avorio chiusa all’evidenza.  E l’evidenza è la sensibilità della gente comune che va semmai educata, non ignorata.

Il nuovo presidente  della Quadriennale di Roma – succeduto nell’ultimo anno a Franco Bernabè, che negli anni precedenti ha preparato la mostra – Umberto Croppi, anticipa l’impatto che si ha dinanzi alle opere esposte esordendo così: “L’arte non è rappresentazione del mondo… nel migliore dei casi l’arte ne è un’interpretazione, è un medium, è uno strumento rivelatore di essenze latenti. E’ una metafora. E quando l’arte è viva…  nel momento in cui si manifesta,  dispiega per intero questa sua capacità rivelatrice”.  Ma se deve rivelare, non può non avere il requisito della  comprensibilità e della accessibilità, anche se con i dilemmi da oracolo di Delfo.

  Sylvano Bussotti

Per questo forse Croppi afferma: “Sembra banale in questa sede sfatare il luogo comune  per cui l’arte contemporanea sia difficile da capire”, e lo spiega così: “Ogni produzione creativa è contemporanea al proprio tempo ed è semmai questo uno strumento per la sua comprensione”.  Addirittura,  non soltanto contenuto e significato delle opere sarebbero trasparenti, o comunque “non difficili da capire”, ma anzi aiuterebbero a comprendere la  realtà esterna ancora più criptica e incomprensibile della trasposizione artistica.

Accettiamo questo apparente capovolgimento della “vulgata” corrente secondo la quale la realtà si spiega con la sua evidenza, mentre l’arte contemporanea si sottrae alla comprensione sovvertendo ogni criterio interpretativo e valutativo.  E cerchiamo di  capirne  noi stessi, per comunicarlo ai lettori, il background culturale e artistico, affidandoci ai curatori della mostra; e riprendendo – alla fine della nostra narrazione degli artisti e delle loro opere esposte nella 17^ Quadriennale d’Arte –  il tema per noi basilare della comprensibilità, che le parole di Croppi non possono di certo esaurire.  

Anna Franceschini

Sarah Cosulich, dal “gioco della matassa” interdisciplinarietà e apertura

Facciamo  riferimento innanzitutto alle considerazioni introduttive dei curatori, cominciando da  Sarah Cosulich, direttore artistico della Quadriennale, scelta dal presidente che ha preceduto Croppi, Franco Bernabè, dopo una selezione in base al suo programma collimante con lo spirito della Quadriennale: la promozione dei giovani talenti con formazione qualificata e il loro sostegno anche all’estero.

Di qui sono nati i due programmi “Q-Rated” e “Q-International”, e  la lunga e attenta  ricognizione nel territorio che ha portato alla scoperta di energie artistiche valide e spesso ignorate, alcune delle quali sono tra i 43 espositori, insieme a “pionieri” degli ultimi sessant’anni  rivisitati perché in loro sono stati trovati  fermenti anticipatori del futuro che allora non erano percepibili.

Raffaela Naldi Rossano in primo piano, Diego Gualandris alle pareti

La Cosulich  collega le proprie argomentazioni al “gioco della matassa”, ricordando l’allestimento  dell’architetto Piero Sartogo della mostra  curata da Achille Bonitoliva nel  1970 sulla “Vitalità del negativo”: “I lunghi elastici a forma di X posizionati sopra la testa degli spettatori tagliavano  e abbassavano la sala che, con la volta oscurata, diventava incombente”. Ora questo le ispira “un ambiente fluido e aperto,  come parte di un paesaggio virtuale e futuristico in potenziale espansione”.

Si ha la sensazione che toccando i fili si generino conformazioni nuove  e diverse: “La Quadriennale d’arte 2020 non vuole rappresentare più solo una tensione, ma un’esplosione dei fili che possa dissolvere in modo metaforico il binarismo tra dentro e fuori e, in un rinnovato senso di connessione tra discipline, aprire al senso di trasversalità e di contaminazione”.  

Chiara Camoni in primo piano, Raffaela Naldi Rossano sul pavimento, Diego Gualandris alle pareti

In questa visione, “il gioco dello spago è simbolo di una Quadriennale che vuole aprirsi a nuove letture dell’arte italiana, procedendo non tanto per movimenti, ma partendo da immaginari interdipendenti costruiti da fili che  possono tendersi e  allentarsi senza mai delimitare uno spazio”. L’allentarsi dei fili senza delimitare lo spazio, insieme ai nuovi talenti, ha  fatto pescare fino a  mezzo secolo indietro, “inglobando nella contemporaneità, con uno spirito antigerarchico e multidisciplinare, anche approcci artistici d’avanguardia”: i pionieri cui abbiamo accennato.

Quindi un primo punto fermo, alquanto sorprendente:  nell’esaltazione della contemporaneità proiettata nel futuro ci si aggrappa alle opere d’arte lontane nel tempo e dimenticate, viste come  anticipatrici e preveggenti: “Significa partire da un passato da  riscoprire e ricontestualizzare e vivere il presente attraverso una possibilità di futuro difficile ma necessaria da considerare”.

Tomboys Don’t Cry

Un secondo punto fermo è che non ci si muove in un tempo  “linearmente progressivo”, ma attraverso “immagini interconnesse come quelle del gioco della matassa”, che investono diverse modalità espressive, e cancellano “i confini tra spazio interno ed esterno a favore di uno spazio fluido, narrativo, immaginativo e  aperto a nuove configurazioni”. 

Interdisciplinarità e apertura, dunque: la Cosulich inquadra le opere presentate dai singoli artisti in questa visione complessiva, ne parleremo ancora quando le passeremo in rassegna una per una.  

Lorenza Longhi

Stefano Collicelli Cagol, l’ideologia dalla “ riparazione”  e la critica sui “pionieri” 

Il co-curatore Stefano Collicelli Cagol  cerca una inaspettata quanto  improbabile  “riparazione”  delle origini del Palazzo delle Esposizioni, realizzato dal fascismo per la propria celebrazione con quattro Quadriennali, nel 1931, 1935, 1939  e 1943, inframmezzate da una  grande manifestazione sulla Rivoluzione fascista. Al riguardo cita “la Storia” di Elsa Morante per “giustificare“ che viene accettata  tale sede con un simile peccato originale, e come “riparazione” pubblica il documento del 1938 per l’esclusione degli ebrei dopo le leggi razziali dalla mostra del 1939, tra loro Corrado Cagli.

Comprendiamo la foga del curatore “newcomer”, ma ci sembrerebbe ingeneroso per le tante Quadriennali dal dopoguerra ad oggi volere e dover fare una “riparazione” soltanto adesso.  Non vorremmo che si ripetesse la “damnatio memoriae” degli artisti, e non solo, di quel periodo, come  Mario  Sironi presente nella prima Quadriennale e, in campo letterario, Gabriele D’Annunzio. Tanto più che il fascismo non volle creare “un’arte di Stato”,  quindi “di regime”, come documentato da Fabio Benzi nel  presentare la  mostra  da lui curata di recente alla Galleria Russo, “Margherita Sarfatti,  e l’arte italiana tra le due guerre”.  Comunque,  non si può tornare indietro rispetto ai  doverosi  “sdoganamenti”  susseguitisi negli scorsi decenni  rispetto al lungo ostracismo seguito alla foga iconoclasta che distrusse nell’immediato la scultura di Adolfo Wildt con il busto di Mussolini.

Lorenza Longhi in primo piano, Irma Blank in secondo piano

Ma forse la “riparazione” si deve al fatto che il Palazzo delle Esposizioni assume un ruolo centrale nella mostra. Sia nel senso visionario di Pasolini, che viene citato, di sede del potere quanto mai lontana dal popolo che resta “Fuori” – di qui il titolo della 17^ edizione – sia per i rapporti  tra arte e potere che vi furono consumati. Oltre al Palazzo, gli altri “vertici del perimetro all’interno e all’esterno del quale ci siamo posizionati”sono Roma, le precedenti Quadriennali, l’Arte italiana.

Delle  Quadriennali del passato vengono criticati “passaggi fugaci o omissioni sorprendenti tra la generazione che, in questa mostra, chiamiamo pionieri”. Anche questo ci sembra ingeneroso dirlo ex post e sulla base di una impostazione ideologica che appare subito dalle immagini in apertura del Catalogo per riassumere l’ultimo decennio. Si pensi che c’è anche il leader del partito della Lega,  Matteo Salvini, fra le 30 immagini di apertura, e il curatore definisce la decade cui le immagini si riferiscono “di sovranismo rampante  tornato a esaltare in modo sguaiato e obsoleto  concetti come patria  e famiglia, su cui si regge la cultura patriarcale italiana”, poi parla  del “ritorno  di richieste di censimenti per le minoranze e di un vocabolario da ‘ventennio’ che si pensavano estinti”. 

Micol Assael in primo piano, Irma Blank  nella parete

Con questo pensiero dominante  vi sarebbe stato il rischio di un’impostazione ideologica, della scelta di artisti collimanti, in una sorta di inedita  “arte di Stato” che neppure il fascismo aveva promosso lasciando libertà agli artisti, a differenza del “Realismo socialista” imposto nei regimi dell’Est, come si è visto nelle mostre allo stesso Palazzo delle Esposizioni con la presidenza di Emmanuele F. M. Emanuele. Ma per fortuna “il gioco della matassa”, su cui la curatrice direttore artistico Cosulich  ha imperniato la propria presentazione, sembra rassicurare sotto questo aspetto.

I capisaldi della mostra secondo i due curatori

Vediamo allora come i due curatori insieme presentano la mostra, dopo aver riassunto le loro singole posizioni, ne riferiamo  precisando quanto accennato in precedenza al riguardo.

Micol Assael al centro, Irma Blank alle pareti

Il collegamento tra “pionieri” del passato e talenti di oggi è il più evidente, sono i percorsi “transgenerazionali”, con le “posizioni d’avanguardia” di allora affiancate agli “immaginari delle giovani generazioni”; inoltre i percorsi “transdisciplinari” con altre discipline – musica e teatro, moda, danza e cinema –  “in continuo dialogo con le arti visive”.

Si spera non sia troppo ideologico neppure “l’arricchimento dato alle espressioni artistiche da visioni queer, femministe, femminili e decoloniali della società e della sua organizzazione politica”, perché vi sono tante altre espressioni che hanno cittadinanza nella società, quindi  devono  essere presentate se hanno sbocco nell’arte. E speriamo non sia contraddittorio riferirsi alle “visioni indipendenti, a modelli artistici alternativi alle narrazioni dominanti”  limitandosi a citare la “radicalità del discorso femminista e omosessuale, transessuale non binario, che ha consentito un inedito approccio all’arte e alla sua tradizione”.

Petrit Halilaj e Alvaro Urbano # 1

A parte questo aspetto, si afferma che la scelta dei 43 artisti non ha seguito tendenze e correnti, ma individualità  e “soggettività” senza alcun “disegno identitario”, che hanno “condiviso uno spazio e un tempo poliedrico e niente affatto irreggimentato”:  non limitato, cioè, neppure alle “visioni” indicate come fossero le uniche meritevoli. Mentre il dubbio viene allorché si legge che la selezione degli artisti è stata effettuata in base alla loro “capacità di sconfinare  in ambiti non strettamente legati alle arti visive ed esprimere immaginari inquadrabili in una lettura più femminile, femminista  e queer”.

Il  rispetto dovuto alla libertà creativa degli artisti – che sembra fosse assicurato anche dall’aborrito regime fascista – non vorremmo fosse condizionato dalla scelta basata sulla coerenza ideologica, tanto  più  nelle opere create  per la Quadriennale d’Arte: ne minerebbe valore e significato.

Petrit Halilaj e Alvaro Urbano # 2

Ci auguriamo che non sia così, le parole della presentazione possono aver tradito le intenzioni oppure  essere state male interpretate da noi, nel qual caso chiediamo venia. Però diverso è avere in mente dei contenuti,  e selezionare i giovani artisti che si sono posti spontaneamente in tale lunghezza d’onda, come nella Quadriennale del 2016 con i suoi 10 percorsi curatoriali, dal selezionarli per la loro adesione a una visione ideologica, magari ex post con opere realizzate quasi su commissione.

Tornando ai contenuti della mostra, vengono riassunti in tre  parole,  il Palazzo,  il Desiderio, l’Incommensurabile. Naturalmente siamo incuriositi oltre che interessati ad approfondirne i risvolti.

Il Palazzo con il riferimento a Pasolini che denunciava  l’arroccamento della politica in un bunker chiuso alla società – il “Fuori” evocato dal titolo della mostra – è “la prima linea di ricerca”. Viene  presentato come metafora “in un momento storico che ha visto movimenti e partiti nati in opposizione al sistema del Palazzo entrare e impegnarsi nel governo del paese”; ma senza osservare subito, come avviene  dopo, che tali movimenti  di fatto sono diventati  connaturati al Palazzo come i partiti  preesistenti,  si afferma che “questa metafora diventa volano per legare alla vita politica momenti differenti della storia italiana e della Quadriennale. Potere e arte sono stati sempre uniti”.

Petrit Halilaj e Alvaro Urbano # 3

Questo è un male, ma lo è pure legare l’arte all’ideologia, non da parte dei singoli artisti, ma da chi li può condizionare in base alla posizione ideologica. “Il tema del Palazzo si declina anche nelle sfarzose feste in maschera nelle quali si sovvertiva  l’ordine  sociale e di cui ci sono rimaste ampie testimonianze”.

Si resta ancora di più senza parole per la conclusione: “La cosmesi delle feste è la medesima che aiuta di volta in volta a cambiare le narrazioni di una società, riposizionandola all’interno di una storia più complessa”. Tanto più che non si tratta di considerazioni generiche: “In questi diversi livelli di significati si è sviluppata la prima linea di ricerca della mostra”. Ci sembra una linea tutta ideologica, e siamo incuriositi di verificare come sarà declinata nell’arte.

Amedeo Polazzo   

Andiamo avanti, sperando di entrare “in più spirabil aere”, e forse ci siamo. La “seconda linea di ricerca”  vede al centro  “il Desiderio come espressione delle proprie pulsioni erotiche o ossessioni personali”. Viene visto come  “tematica queer, internazionale, di rivendicazione del proprio ruolo di artista indipendentemente dal genere”; e ci mancherebbe altro che l’arte dipendesse dal genere,  sono prove del contrario grandi artiste quali Arthemisia Gentileschi e Frida Kahlo, o  come Tamara de Lempicka, se si può citare un’artista del “ventennio”.

Ma qui ci si riferisce a una rilettura degli ultimi 60 anni di arte italiana con la lente erotica per concentrarsi sugli anni ’70 nel “forte movimento di autocoscienza tra gruppi femministi e circoli omosessuali e transessuali”, in chiave  trans-generazionale. Anche su questa linea di frontiera aspettiamo al varco gli artisti.

Alessandro Pessoli

Sembrerebbe ancora più criptica “la terza linea di ricerca”: “Il tema dell’Incommensurabile, di qualcosa che va oltre la capacità di misurare, di razionalizzare attraverso le parole  e il discorso”.  Questo ci riporta alla creatività dell’artista che deve sfuggire a collocazioni artificiose di qualsiasi tipo: “L’ossessione, la necessità di esprimersi come artisti al di là dei riconoscimenti sociali, culturali o economici”.  In altre parole: “L’indicibile che si fa forma o prende forme e mette in scacco la misurazione come elemento attraverso cui fare esperienza della realtà”. 

Ebbene, finalmente siamo d’accordo, vi vediamo  una bella definizione dell’arte contemporanea. Anche perché  si precisa subito dopo: “Per molti giovani artisti la principale sfida oggi è superare la rappresentazione del reale  in favore di nuovi immaginari  e forme in grado di complicare e arricchire la percezione della realtà e la relazione con essa”. Senza ingabbiarli in costruzioni ideologiche  preordinate, come quelle che abbiamo prima criticato, anche se l’ideologia fa parte della loro vita come ne fa parte ovviamente la realtà.

Maurizio Vetrugno # 1

Ed è chiaro che si tratta di “storie personali che si intrecciano a esigenze comunitarie” e le loro sensazioni, se tradotte nell’autentica espressione artistica, “si vogliono far provare e far vivere ai visitatori”. Ma se non è il caso di condizionare gli artisti lo stesso vale  per i visitatori, e allora perché  invitare “il pubblico a prendere posizione, cambiare postura e arricchire il proprio bagaglio di immagini?   Avverrà per la magia dell’arte, se  sarà autentica e  in tal caso – ci riferiamo ancora  al pensiero del presidente Croppi – non solo non è difficile da capire ma aiuta a capire il proprio tempo, purché non caricata di troppi pesi ideologici.

Ci fanno sperare che sia così, dopo i toni  ideologici che abbiamo criticato, le parole con cui Collicelli Cagol definisce l’esposizione: “Una mostra eccentrica, inaspettata e, ci auguriamo, bella”. E spiega quest’ultimo aspetto: “Bella perché la bellezza – in tutte le sue forme, anche quelle più respingenti – è stata da subito per noi il principale orizzonte, un filtro attraverso cui leggere l’arte prodotta dagli artisti italiani  – anche fuori d’Italia – per rinvigorire l’interesse del pubblico nei confronti dell’arte contemporanea”:  e  ce n’è tanto bisogno, aggiungiamo noi, perché spesso è criptica e “respingente”.

Maurizio Vetrugno # 2

Ma la bellezza è un passepartout, anche se nelle forme “più respingenti” può non essere percepita. L’ansia  di contemplarla nelle opere esposte accresce l’interesse per la visita alla mostra, dopo la presentazione del Catalogo di cui abbiamo citato e citeremo i passaggi  più eloquenti e rivelatori..

Vediamo ora come tutto  si ritrovi nella esibizione degli artisti di cui – nel nostro servizio sulle anticipazioni date a suo tempo – fornimmo già qualche sommaria indicazione, sottolineando che 4 di loro erano già presenti nella 16^ edizione del 2016. Li descriveremo tutti, uno per uno, con le opere presentate,  e in questa  ricognizione ci faremo accompagnare dai commenti dei due curatori, che hanno inserito  le citazioni degli artisti nella loro presentazione della mostra, e dalle esaurienti schede illustrative. 

  Lisetta Carmi

Senza una guida simile – che andrebbe tenuta presente da tutti i visitatori – sarebbe forse impossibile e non solo arduo dare qualsivoglia interpretazione a gran parte delle opere esposte e all’intento degli autori: tanto indecifrabili nei contenuti e spesso nella forma che qualche volta  riuscirebbe difficile al comune osservatore persino ricondurre le opere all’arte. Sono esempi di arte contemporanea che non può essere compresa e interpretata  senza una spiegazione dell’intento recondito dell’artista che altrimenti resta, e lo vedremo, imperscrutabile ai più.   

L’allestimento di Bava,  connaturato all’impostazione ideologica 

Ci  prepariamo a entrare nel cuore della mostra parlando dei  43 artisti e delle loro opere, non prima di dire qualcosa sull’allestimento seguendo la spiegazione dell’architetto Alessandro Bava il quale  lo ha realizzato partendo dall’idea che sembra essere alla base dell’esposizione.

Monica Bonvicini

Inizia indicando “la difficoltà esistente nel chiarire quale sia il contributo apportato da un architetto a una mostra”, e questo consente di accennare a uno dei temi più generali, mentre l’altro tema riguarda le difficoltà, per usare un eufemismo, di comprensione e interpretazione dell’arte contemporanea che si pongono con particolare evidenza in questa mostra: l’intervento dell’architetto per un certo stravolgimento ambientale, la comprensibilità per espressioni estreme al limite tra l’arte  e la provocazione.

Soprattutto per  l’arte contemporanea, osserva Bava, si è avuto in passato  “un processo di ‘disinvito’ dell’architetto dalle mostre”, e  ne cita alcune che “mettono in discussione il concetto di forma espositiva quale spazializzazione di conoscenza e idee”.

Cuoghi Corsello

 Ma poi c’è stata un’evoluzione, l’intervento degli architetti viene visto “in un contesto di continuo cambiamento con la visione del mondo degli artisti  e delle pratiche creative tour court,   le quali possono offrire narrazioni e quadri interpretativi attraverso cui guardare. al mondo contemporaneo”. In questa prospettiva ecco la formula adottata: “Il compito di un progettista di allestimenti non si esaurisce nell’offerta di un’’intensità’ da vivere a spese della cognizione e delle emozioni innescate dalle opere d’arte; piuttosto, fornisce un’infrastruttura calibrata su di esse”.

Quindi l’architetto deve resistere alla tentazione di “sviluppare un proprio ‘brand’ riconoscibile in un mercato competitivo”  per realizzare invece “una proposta progettuale senza porsi in antagonismo con le pratiche degli artisti, ovvero senza metterle in ombra, ma piuttosto coesistendo con esse”.

Nanda Vigo

E allora Bava è partito dalla constatazione che “la Quadriennale d’Arte 2020  cerca per la prima volta di superare il proprio modello istituzionale, basato su una mappatura delle forme artistiche attualmente presenti in Italia, con l’intenzione di offrire  una nuova lettura delle ricerche e dei paradigmi artistici  del presente e del passato” ignorati dalle istituzioni, cioè quelli che “sfidano i rigidi confini disciplinari e che travalicano medium e canoni”, in particolare le forme che, “per ragioni di genere e di identità sessuale, si collocano saldamente al di fuori del canone patriarcale”.

E quale risposta dà l’architetto all’esigenza di rovesciare i canoni  dato che “spazio e architettura sono diventati un medium fondamentale sia per gli artisti che per i curatori”?   Ci aspettiamo che sia un capovolgimento anche della forma  espositiva perché il medium architettonico sia coerente con il suo contenuto artistico.

Davide Stucchi

Infatti, entrando nello specifico, spiega che “l’aggiunta di pareti in cartongesso provvisorie determina una nuova spazialità e al tempo stesso nasconde e incornicia il Palazzo”. L’“effetto prospettico forzato” dell’“infilata” di stanze artificiali amplifica il “classicismo simmetrico”, mentre una nuova “stanza” all’interno della rotonda centrale interrompe il flusso consueto di “accesso monumentale”  ai sette  consueti ambienti espositivi storici.

Anche l’architetto, come il curatore, la butta in politica per così dire, e non poteva fare altrimenti per essere coerente con l’impostazione: “L’ethos del progetto può essere definito  come ‘razionalista’, costituendo un tentativo deliberato…  di sradicare dal razionalismo la sua semantica autoritaria, ben espressa nel contesto romano, avvicinandolo a una spazialità democratica, inclusiva e ‘gentile’”.

Tomaso De Luca # 1

Si deve dire che l’architetto mette tra parentesi “considerata la specifica missione della mostra” dove abbiamo posto i puntini di sospensione; ma questa che appare  una  “damnatio memoriae” fuori tempo perfino dell’edificio, ci sembra superi quella comminata per decenni agli artisti e letterati del ventennio;  e per fortuna non si è scatenata nell’immediato, altrimenti il Palazzo delle Esposizioni avrebbe fatto la fine della Bastiglia parigina.

Prossimamente  faremo la nostra visita virtuale  seguendo il percorso delineato dai curatori con l’inserire i  singoli artisti nella presentazione introduttiva, e citando testualmente  le loro interpretazioni e quelle indicate nelle esaurienti schede illustrative. Intanto abbiamo cominciato ad ammirare nelle immagini delle sale l’alto valore spettacolare della mostra, mentre i contenuti risulteranno dalla presentazione dei singoli artisti e delle opere esposte, fino a concludere con alcune riflessioni sull’impatto dell’arte contemporanea presso il grande pubblico, e il tema conseguente della sua comprensibilità.

Tomaso De Luca # 2

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311.  Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”,   Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo.  Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, i prossimi 4 usciranno in questo sito da domani 2 all’8 marzo 2021.   Cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla mostra. per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  20 luglio, 13 marzo 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati in www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016; per gli artisti e movimenti citati, Sarfatti, 11 dicembre 2020, Arthemisia Gentileschi 16 giugno 2020, Corrado Cagli, 5, 7, 9 dicembre 2019; in www.arteculturaoggi.com, Sironi 2 novembre 2015, 1, 14, 29 dicembre 2014, Pasolini 27 ottobre 2015, 27 maggio, 15 giugno 2014,  11, 16 novembre 2012, Frida Kahlo 24 marzo, 12 aprile 2014,  D’Annunzio 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, Arte  e potere 29 marzo, 2 aprile 2013,  Arthemisia Gentileschi 7 febbraio 2013, Deineka (Realismi socialisti) 26 novembre, 1° e 16 dicembre 2012; in cultura.inabruzzo.it,  Realismi socialisti 3 articoli il 31 dicembre 2011, De Lempicka  3 articoli il 30 giugno 2011,  D’Annunzio 2 maggio 2011, 22 giugno 2010, 10 aprile 2009, Sironi 26 gennaio 2009; in fotografia.guidaconsumatore.com De Lempicka  5 luglio 2011, Pasolini 22 maggio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su un altro sito).

Cinzia Ruggeri

 Photo

Tutte le immagini dell’allestimento con le opere e le installazioni nelle sale sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata anche fornendo il Catalogo; nelle didascalie è indicato solo il nome degli artisti che espongono in tali sale, le immagini sono inserite nell’ordine in cui sono state fornite. Altrettante immagini delle sale illustrano il 5° articolo, mentre il 2°, 3° e 4° articolo sono illustrati con 2 opere per ognuno dei 43 espositori, nelle didascalie sono indicati anche titolo e anno di realizzazione, nel testo vengono commentati. Le immagini sono state tutte inserite “courtesy Fondazione Quadriennale di Roma, photo DSL Studio”, a loro va il nostro ringraziamento. In apertura, il Palazzo delle Esposizioni, sede storica della mostra; seguono, Romeo Castellucci-Socìetas,Sylvano Bussotti; poi, Anna Franceschini, e Raffaela Naldi Rossano in primo piano, Diego Gualandris alle pareti, e Chiara Camoni in primo piano, Raffaela Naldi Rossano sul pavimento, Diego Gualandris alle pareti; quindi,  Tomboys don’t cry, e Lorenza Longhi; inoltre, Lorenza Longhi in primo piano, Irma Blank in secondo piano, e Micol Assael in primo piano, Irma Blank  nella parete; ancora, Micol Assael al centro, Irma Blank alle pareti, e Petrit Halilaj e Alvaro Urbano; continua, altre 3 immagini delle installazioni di Petrit Halilaj e Alvaro Urbano; poi, Amedeo Polazzo e Alessandro Pessoli; quindi, 2 immagini delle installazioni di Maurizio Vetrugno Lisetta Carmi; inoltre, Monica Bonvicini e Cuoghi Corsello; ancora, NandaVigo e Davide Stucchi; continua, 2 immagini delle installazioni di Tomaso De Luca, e Cinzia Ruggeri; in chiusura, la “foto-opportunity” alla presentazione della mostra il 12 febbraio 2020 al Tempio di Adriano a Roma. Da sin., il direttore artistico-curatore Sarah Cosulich e il presidente Umberto Croppi, poi Luca Bergamo per il Comune di Roma e Lorenzo Tagliavento per la Camera di Commercio, Lorenza Bonaccorsi e Nicola Borrelli per il MiBACT, ultimo a dx Albino Ruberti per la Regione Lazio.   

La “foto-opportunity” alla presentazione della mostra il 12 febbraio 2020. al Tempio di Adriano a Roma, Da sin., il direttore artistico-curatore Sarah Cosulich e il presidente Umberto Croppi, poi Luca Bergamo per il Comune di Roma e Lorenzo Tagliavento per la Camera di Commercio, Lorenza Bonaccorsi e Nicola Borrelli per il MiBACT, ultimo a dx Albino Ruberti per la Regione Lazio

Adami, 2. Segno e colore nella mostra all’Accademia d’Ungheria

[Ripubblichiamo l’articolo uscito senza immagini e senza citazioni nel sito www.arteculturaoggi.com il 12 marzo 2017]

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“Studio per carte postali (J. Derrida), 2012-13

di Romano Maria Levante

Abbiamo già presentato in anticipo la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi”  che dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 ha esposto 60 opere pittoriche dell’artista i cui capisaldi sono l’interpretazione molto personale della funzione della linea e del colore, con l’importanza fondamentale del disegno preparatorio. La mostra si è svolta  nell’Accademia d’Ungheria, e in altre due “location” collegate, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia, ed è stata curata da Lea Mattarella con il catalogo di Carlo Cambi Editore in cui vi sono 10 saggi a corredo della ricca iconografia; la raccontiamo brevemente.

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“La fine di un mondo”, 2013

La linea narrativa dell’artista: il segno e il colore

Prima di dare conto della galleria di opere esposte completiamo l’inquadramento della peculiare cifra artistica di Valerio Adami, di cui abbiamo già indicato i capisaldi stilistici e di contenuto, con quella che Octavio Paz definisce la sua “linea narrativa” ispirandosi alle parole della stesso artista il quale è prodigo di analisi dell’arte e autoanalisi della propria, cosa che lo avvicina a De Chirico al quale lo accostano anche altri aspetti peculiari, come abbiamo evidenziato in precedenza.

Ecco cosa scrive: “Disegnare è una occupazione letteraria. Io non abbandono un disegno fino a quando posso scriverci la parola fine… Mi piacerebbe che anche in pittura si potessero usare le parole prosa e poesia per definire così il mio lavoro come una pittura in prosa. L’impulso narrativo è essenziale”, e, aggiungiamo, in lui si manifesta in forma sintetica attraverso il segno.

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Senza titolo” , 2014

Ha una propria autonomia, il disegno non segue qualcosa di preordinato ma si sviluppa in sequenza. “La linea, da parte sua – rileva Paz – è una successione di punti o, se si vuole, una successione di ponti fra un punto e un altro”. In quanto tale è la forma migliore di rappresentare il tempo: “Retta o sinuosa, circolare o spiraliforme, la linea va sempre da un qui a un altrove. La linea cammina, si raddoppia senza fine e senza fine ci racconta il suo tragitto: la linea va sempre transitando. per questo è narrativa”.

Così si esprime: “E che cosa racconta la linea? Ogni sorta di eventi e di idee nel tempo, e che sono tempo. Tuttavia, la linea non parla: per raccontare deve inventare delle forme adatte a farlo. I racconti della linea sono le forme che essa disegna”. Anche perché, spiega nelle “Sinopie”, “cerco nel disegno gli equivalenti di passato remoto, presente & futuro”.

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“La ruota”, 2014

Ma come decifrare questo racconto? Lo spiega l’artista: “Lo strumento per leggere il disegno è il colore, come la voce è lo strumento per leggere la parola scritta”, torna l’equiparazione tra pittura e letteratura, lo ribadisce Paz: “La voce – l’intonazione, è il colore della scrittura; il colore è la voce della pittura . I colori danno voce alle forme di Adami… Via via che avanza, la linea racconta e traccia una storia o diverse storie; i colori danno corpo e voce a queste storie”.

E come sono questi colori? .Netti e precisi, senza chiaroscuri né modulazioni, quasi fossero  creati incontaminati dall’aria e dalla luce, ma non sono colori puri sebbene possano sembrare tali. Lo stesso artista  nell’intervista a Penot dello scorso anno dice che si tratta di “colori piatti, sì, ma non sono stesure di colori puri. Io preparo sempre in anticipo,  nei barattoli, centinaia di toni diversi che utilizzo a seconda delle emozioni che cerco di creare”. E aggiunge: “Io non disegno mai senza pensare al colore, E’ quella la finalità del mio viaggio! Tutte le mie esitazioni iniziali, tutte le mie  cancellature debbono scomparire dietro le stesure di colore… Tutto partecipa alla scelta: il braccio, gli occhi, il cuore, il pensiero”. Conclude così: “Alla fin fine, .mi lascerò trasportare da uno stato d’animo malinconico? O mi lascerò guidare da un’idea puramente plastica?”.

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Ikaros (all’alba)”, 2014

Il risultato lo sottolinea con un’immagine efficace la curatrice Lea Mattarella: “Adami ha tolto la corona dalla testa di quella che è stata la regina della pittura del Novecento, della cosiddetta modernità nata con gli impressionisti: la pennellata”.

E spiega come: “Adami elimina il tocco, il segno del pennello che colpisce la tela”. Così “il colore è dato per campiture, è intatto, non conosce incertezze né comunica tensioni coi suoi contorni. Sta bene, è al sicuro tra linee chiuse che ne proteggono l’integrità, la certezza, la fermezza del ruolo”.

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Opera non identificata in catalogo

L’autoanalisi artistica nelle “Stanze” di Adami

Nelle “Stanze” l’artista sintetizza: “Contorno chiuso, campiture, ordine compositivo: sono queste le regole”. E precisa: “Solo il cuore può capire di che si tratta – e se di stile si tratta , questo nasce dall’idea ma si produce nel tatto delle mani”, una manualità che spesso sottolinea.

Si sofferma sulla forma, lui che mette in primo piano il segno libero da vincoli: “La forma è parola diurna e con questa ci si deve rivolgere agli altri, mentre la non forma è quel silenzio notturno che ci chiude in noi stessi e nel sogno – l’uno e l’altra convivono, e giorno e notte si susseguono”.

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“Le bouquetin (studio)”, 2014

E spiega: “La forma è persistente. Chiusa nel palmo di una mano, se ne sta ben ferma nella stanza della memoria. Da qui nascono le forme, molteplici e complicate, l’occhio del pittore le fissa nel contorno e ne cerca la ragione -ma questa abita il cuore… Infinite combinazioni ruotano disegnando, poi appare di nuovo una forma finita”.

Torna ancora sul tema: “Dapprima la forma appare chiusa in se stessa, specchio di quel che l’occhio vede e la mano tocca; vedendola, toccandola e pensandola in un percorso metaforico, la forma uscirà da se stessa e sarà diversa – diversa nel procedere, nell’aggiungere e nel togliere per somiglianze, per stanze poetiche, ecc.”.

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The portrait of the artist as a young man James Joyce”, 2014

Ed ecco come opera praticamente: “Disegno di ora in ora, disegno il destino del colore, disegno quel che vedo e quel che tocco, cancello più volte: l’oggetto si attraversa meglio nel cancellarlo e meglio si conosce nel ripeterlo. La gomma nella mano sinistra è l’attesa del tempo che passa – il mio volto che invecchia. L’unico augurio appropriato, quello di buon viaggio”.

Il suo viaggio artistico ha l’orizzonte indefinito, in una visione di tipo filosofico: “Rappresentabile/ non rappresentabile/ rappresentabile. Ossia figurabile/non figurabile/figurabile. E ancora, visibile/invisibile/visibile; e così via, per mettere fine alla linea del tempo, per manifestare in un gesto la linea che corre veloce. Così devitalizzato, però, il disegno lascia il suo posto allo schizzo – l’emozione in prima persona!”.

Schizzo, disegno, con segno e colore abbinati in modo personalissimo nei grandi acrilici su tela che colpiscono per la loro forza espressiva hanno l’eco profonda che  viene dal passato delle antiche incisioni, vivono  nel presente con le assonanze ai fumetti e alla Pop Art,  si proiettano nel futuro  con il loro messaggio di modernità fantascientifica. E’ giunto il momento della visita alla mostra.

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“Da un giallo alla TV”, 2014

La galleria di metafisiche e metamorfosi di Adami

Introduciamo la galleria di dipinti con le parole della curatrice, che sono state da guida alla nostra visita: “Le figure di Valerio Adami, le sue immagini, non vanno prese di petto, non devi cercare di comprenderle. Le devi ascoltare… I suoi quadri richiedono contemplazione”.

E non parla a caso di “ascoltare”, cita l’altro grande scrittore che, come Calvino, gli ha dedicato uno scritto intenso riferito costantemente a lui, Antonio Tabucchi, il quale ricordava “un’affermazione di Adami nella quale l’artista cercava un colore per i suoi disegni, ‘come se cercasse un suono, perché esso ha per lui lo stesso statuto delle note musicali’. Così ascoltare questi quadri non significa solo prendere parte di una storia, ma sentire la nota di un colore, il suo particolare suono”. E’ una visione in cui “questi dipinti sono partiture, l’elemento cromatico le modula, dà il ritmo, le fa vibrare anche laddove, apparentemente, tutto sembra immobile”.  L’artista lo conferma rivelando come i suoi barattoli, che sui coperchi recano scritta l’indicazione del colore, “appaiono come la tastiera di un grande strumento” 

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“Passeggiata sulle Alpi”, 2014

La curatrice commenta: “A lui, dunque, non resta che suonarlo”, e lo collega a Kandinsky, che gli ispirato il valore della pittura oltre la stessa pittura in una feconda frequentazione: “Per l’artista russo la relazione tra colore/suono/emozione è molto potente. Intitola le sue opere composizioni, improvvisazioni perché hanno uno stretto rapporto con la musica. Adami e Kandinsky non hanno quasi niente in comune, in pratica. Ma la teoria di una connessione tra colore, suono, emozione, trova qui , tra queste metafisiche e metamorfosi, un suo sviluppo originale  infallibile”.

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“Come down, please”, 2015

Ecco come l’artista esemplifica, rispondendo a una domanda di Penot nell’intervista del 2016,  il rapporto tra colore ed emozione: “La Morte di Colombina è dipinta in blu – diversi blu – ritenuti adatti a tradurre un sentimento di malinconia. Se, invece di questo blu, avessi privilegiato un fondo giallo, avrei senza dubbio raccontato un’altra storia, che sarebbe stata quella d’una Colombina solare, luminosa. Ma questa visione serena non mi ha sollecitato, d’istinto, quando ho riportato il disegno sulla tela, sono stato preso da questa malinconia che ho cercato di tradurre in toni blu”.

Tante sono le emozioni, più o meno intense o leggere, come tanti i colori piatti elaborati dall’artista e modellati sulla tela senza pennellate come vengono modulati i suoni su una tastiera.

Li abbiamo visti nei dipinti posti nelle pareti del Palazzo Falconieri – e delle due gallerie collegate -.dove sono state esposte composizioni di soggetti diversi accomunate dalle peculiarità della cifra artistica di Adami che abbiamo cercato di evidenziare, tra il segno e il colore, con  la base del disegno. Tanto che per metà delle opere, quasi tutte quelle degli ultimi anni, il Catalogo presenta il disegno a matita su carta oltre all’acrilico su tela eseguito dopo uno-due anni.

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“”Bombardier Billy Wells” , 2015

Il segno marcato non solo delimita i contorni ma fa da nervatura alle immagini percorrendole come con arabeschi o cicatrici, e il colore è piatto e monocorde all’interno delle forti linee che delimitano la forma. Evocano il passato delle incisioni settecentesche in un presente da fumetti d’autore e da Pop Art, mentre irrompe il futuro di una modernità evoluta, tra memoria, tradizione e meditazione.

Ci sono da un lato soggetti singoli – e ritratti, tra i quali diversi personaggi celebri – i più numerosi, dall’altro scene con più figure, e anche quadri di denuncia. Le opere esposte per la maggior parte erano dell’ultimo triennio, ma non sono mancate opere a testimonianza della sua produzione negli anni 70, 80, ’90, e del primo decennio del 2000, in una antologica fortemente selettiva.

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“Scena con due cani” , 2016

Sulle opere dagli anni ’70 al 2013 rileviamo che la mostra ne ha presentate 3 per gli anni ’70, i “Ritratti” di “Freud”  e “Benjamin”, la “Morte di Orfeo”; 2 per gli anni ’80 tra cui “Il ritorno del figliol prodigo” e l’evocativo “Metamorfosi” il dipinto di maggiori dimensioni, 2 metri per 2,60; 5 per gli anni ’90, tra cui il “Ritratto di Berio”, il “Passaggio sul Gange” e il “Muro del Pianto”, due sacralità rituali a confronto; 10 per gli anni ‘2000 fino all’ultimo triennio, tra questi il “Ritratto di Herman Hesse” e di “Antonio Tabucchi”, che come abbiamo visto gli dedicò una citazione molto significativa sul “suono” della sua pittura e un “diario cretese” con annesso racconto mitico sulla “cefalea del Minotauro”; troviamo altri riferimenti in“I nuovi Argonauti (news from Palestine)”, rivisitazione metafisica in occasione di un viaggio in quei luoghi. E una visione paesaggistica in “Quadro in un tramonto”, di vita quotidiana in “Home Sweet Home” e “Folding Screen”, ” Lezioni di nuoto” e “Cine Cine”, fino all’ impegno antimilitarista in”Figura crocifissa – We Want Peace dedicato a Ben Shan”, “La passione della Mira” e soprattutto in “Non ci sono guerre giuste (Ezra Pound)”..

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Opera non identificata in catalogo

Prevalgono nelle opere citate le tinte calde, come i gialli e i rossi, mentre nell’ultimo triennio sono sempre presenti le tinte fredde, come il verde e soprattutto il blu, in cui identifica la malinconia, in competizione con le tinte calde che persistono fino ad essere dominate in “Studio per brutti Presagi” e a sparire del tutto nell’ultimo quadro esposto, “Giacomo Leopardi recanatese nel letto di morte”, dove la malinconia diventa angoscia con tinte tenebrose, entrambi sono del 2016.

Soffermiamoci sulle opere del triennio 2014-16, cominciando da due composizioni enigmatiche del 2014, “Le Singe (disegno senza parole)” e “Il muro ‘capriccio turco’”, in entrambe una presenza umana dominante con misteriose piccole figure o parti di esse quale contorno allusivo.

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“Nietsche“, 2016

Niente di  misterioso, invece, nei  “Ritratti“, degli 8 che ricordiamo, 6 sono del 2016: 2 “Autoritratti” uno da giovane, l’altro come un “Giovane James Joyce”, 4 Ritratti di personaggi, “Nietsche” e “Riccardo Wagner”, “Giuseppe Verdi”  e “Gioacchino Rossini”, fino a “Filottete morso da una serpe (omaggio a Hayez)” e “Le bouquetin (studio)”.

Poi la quotidianità di “Un giallo alla TV”, il volo pindarico di “Sarasvati, Dea della Poesia” e le evocazioni alpestri di “Muflone” e “Passeggiata sulle Alpi”, del 2015, con l’animale a fianco dell’uomo in una serie che parte da “La notte dello stambecco” del 1988. fino a “Scena con due cani” e “Scena d’amore con cane e due violini”, del 2016. Ancora figure singole in primo piano negli“Angeli” raffigurati in 3 suggestive composizioni, “L’ange Dechu”, “L’angelo della sera” e “L’angelo e l’elefante”, immagini serene rispetto all’angoscioso “L’angelo” del 1992, un angelo della morte con la falce che scende accanto al letto del malato.

Diventano due i protagonisti della quotidianità evocata in “Le ore della sera, il passare del giorno”, e“Cercando l’ispirazione” del 2015, “L’incontro” e “Ballo al chiaro di luna” del 2016, accomunati da vitalità e passione anche nel cromatismo addirittura carnale;  mentre in “L’arcangelo San Michele che abbatte il demonio da Pelagio Palagi” e  “L’ora dell’angelo“, ambedue del 2016, la seconda figura è uno scheletro. La scena si anima con più figure gioiose in “Teatro (‘Sei figure per una Commedia)” e “Siedo e guardo il giorno di un pugile”, anch’essi del 2016, oltre al precedente “Tenerezza (la famiglia)”, 2014.

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“Giuseppe Verdi”, 2016

Non è mancato il paesaggio, come sfondo in “Uomo e donna (durante una vacanza alpestre)”, con la figura femminile dominante rispetto a quella maschile e all’animale nonché all’orizzonte con montagne, cielo azzurro percorso da qualche nuvola e caseggiato; e in primo piano, ma con evocazioni militaresche, nei due soldati che si immaginano contrapposti dalle diverse “uniformi” in “Paesaggio”,  e “Sulla spiaggia”, alla figura in divisa in primo piano si aggiungono il paracadute che scende dall’ alto e la minuscola tenda in basso.

L’antimilitarismo è apparso esplicito in “La rancon de la guerre”, e “Memoria del tempo di guerra”, “Commando” e, “Niente di nuovo all’est”, del 2016, che segue di tre anni “La fine di un mondo”  del 2013, è quello dei “communists”, una vistosa scritta con la grande falce e martello, una sorta di “si scopron le tombe…” al contrario, tra il rosso e il giallo. Forse anche “Au depart de l’avion” si può leggere in chiave antimilitarista, dinanzi al pianto della madre che viene consolata mentre sullo sfondo si vede un aereo militare in attesa; così, sia pure con maggiori dubbi, “Western con Pinocchio”, del 2016, ce lo fa pensare il fucile in alto e la bandiera piantata in basso. E poi la “Nemesi”, composizione in 4 quadri, nel primo la casa, nel secondo la partenza verso un radioso orizzonte, negli ultimi due i volti affranti con la croce del cimitero sullo sfondo grigio.

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Gioacchinno Rossini”, 2016

Alla scena tragica di “Une Famme chasse la mort” vogliamo contrapporre  le immagini volitive di “Ikaros (all’alba)” del 2014 e “Il sogno di volare”, del 2016, che dimostra come la vitalità non solo non sia venuta mai meno ma anzi appaia sublimata nei tempi più recenti.

La lezione di vita per tutti

Un’ultima notazione: la maggior parte delle opere esposte è stata realizzata nel nuovo millennio, dopo il 2000, e quasi un terzo nello scorso anno: precisamente, dei 65 dipinti, circa 10 fino al 2000, e dei 55 realizzati  nel nuovo millennio, 15 fino al 2013, e 40 nell’ultimo triennio, di cui 10 nel 2014 e 10 nel 2015, mentre 20 nell’ultimo anno, il 2016.

Quindi l’artista, classe 1935,è  ancora attivo eccome! Una longevità artistica non comune, considerando che la sua prima mostra collettiva risale al 1960 e la prima personale al 1964, oltre mezzo secolo di successi in tanti paesi nei vari continenti con una creatività mai scemata nel tempo.

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Opera non identificata in catalogo

E’ un’ulteriore, straordinaria peculiarità, oggetto dell’ultima domanda all’artista da parte di Penot, nell’intervista del 2016 cui ci siamo riferiti in precedenza. La domanda è stata questa: “”‘Amate la vita! E’ ciò che deve dire un quadro, tanto a chi lo fa, quanto a chi lo guarda’ affermavate all’alba dell’anno 2000. E’ perché amate la vita che continuate a dipingere, a ottant’anni passati?”. La risposta dell’artista è eloquente: “Io continuo a dipingere perché sono in vita e la pittura è tutta la mia vita… E’ una necessità profonda, reale. Il mio cuore batte; il mio cuore dipinge. Quando cesserà di battere cesserà di dipingere”.

Una lezione di vita anche per noi giornalisti, collimante con quella di Indro Montanelli, e chi scrive, quasi coetaneo dell’artista, la mette in pratica quotidianamente. E una lezione esemplare per tutti, perché trovino nella quotidianità motivi di stimolo: la linfa prodigiosa dell’amore per la vita.

Per tutti, quindi, oltre che per l’artista, vale l'”augurio di buon viaggio” con cui si chiudono le sue “Stanze”.

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“La Satyre et sa femme”, 2016

Info

Accademia d’Ungheria  in Roma,  Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma.  Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore,  gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal  catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo è uscito in questo sito il 16 gennaio u.s. [Aggiornamento : il primo articolo è uscito in questo nuovo sito nei giorni scorsi. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli, in questo sito su De Chirico nel 2019 a novembre 22, 24, 26, a settembre Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli, su De Chirico in questo sito nel 2019, novembre 22, 24, 26, settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29; in www.arteculturaoggi.com, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno e 1° luglio 2013: in cultura.inabruzzo.it 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito); nei periodici “Metafisica” e “Metaphysical Art” n. 11/12 del 2013. Sulla Pop Art in www.arteculturaoggi.com 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012].

Photo

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, tranne quelle da 1 a 5, 8, 9, 14, 16, 19 tratte dal Catalogo, si ringrazia l’organizzazione e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; sono tutte opere di Adami, in ordine cronologico, in questo articolo le opere dal 2012 al 2016, nel precedente dal 1971 al 2010. In apertura, “Studio per carte postali (J. Derrida) 2012-13; seguono, “La fine di un mondo” 2013 e “Senza titolo” 2014; poi, “La ruota” e “Ikaros (all’alba)”, 2014; quindi, opera non identificata in catalogo e “Le bouquetin (studio)” 2014; inoltre,”The portrait of the artist as a young man James Joyce” 2014 e “Da un giallo alla TV” 2014, ancora, “Passeggiata sulle Alpi” 2014 e “Come down, please” 2015; ancora, “”Bombardier Billy Wells” 2015 e “Scena con due cani” 2016; continua, opera non identificata in catalogo e “Nietsche” 2016; prosegue, “Giuseppe Verdi” e Gioacchinno Rossini” 2016; infine, opera non identificata in catalogo e “La Satyre et sa femme” 2016; in chiusura, opera non identificata in catalogo.

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Opera non identificata in catalogo

Adami, 1. Metafisiche e metamorfosi, all’Accademia d’Ungheria

[Ripubblichiamo l’articolo uscito senza immagini e senza citazioni nel sito www.arteculturaoggi.com il 16 gennaio 2017]

di Romano Maria Levante

In tre location”, dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi” presenterà una selezione di oltre 60 opere di un artista ben noto all’estero che dà un’interpretazione del tutto personale della linea e del colore, con una discendenza stilistica che va dalle incisioni veneziane del ‘500 alla Pop art, in una valorizzazione del disegno come strumento della composizione e soprattutto base dell’atto creativo che prende forma quasi in modo autonomo.  La mostra, curata da Lea Mattarella, si svolgerà presso l’Accademia d’Ungheria, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia. Il bel catalogo, con 10 saggi e una ricca iconografia, è di Carlo Cambi Editore.

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“La morte di Orfeo”, 1971

Atto meritorio dell’Accademia d’Ungheria è estendere con questa mostra – non limitata alle sale di Palazzo Falconieri ma con parecchie opere presentate nella vicina galleria André e nella Mucciaccia – la conoscenza a Roma e in Italia  di un artista, molto apprezzato all’estero, che ha girato in tante città e nazioni  in diversi continenti, dimorando a lungo dove lo portava la sua insaziabile volontà di conoscere. “Avevo la curiosità del mondo e la curiosità delle persone. Degli uomini, delle donne, della loro vita, delle loro ide”. Si era nel secondo dopoguerra “molte cose ci erano state nascoste. Molte altre  erano state interrotte. Allora io volevo scoprire il mondo coi miei stessi occhi”.

Così soggiorna a lungo sempre dove si svolgono le sue mostre, a un ritmo incessante. Ne abbiamo contate 70 personali, 50 collettive, oltre a 30 collezioni pubbliche selezionate: si va dall”Italia tra Firenze e Venezia, Milano e Roma, Torino e Ravenna, Lucca e Siena; alle altre nazioni europee, Belgio e Svizzera, Germania e Gran Bretagna, Francia e Grecia, Spagna e Portogallo, fino a Israele e alla Finlandia; al continente americano, Stati Uniti, Cuba, Messico; al Giappone e l’India.

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Doctor Sigm. Freud”, 1972

Lo hanno fatto conoscere anche 20 monografie selezionate su di lui, e si è fatto conoscere con 5 proprie pubblicazioni in cui disvela i segreti della propria arte, cui vanno aggiunte interviste, come quella molto personale in cui ripercorre la sua vita fin dall’infanzia, data  a Christophe Penot nel 2016, riportata nel Catalogo con il titolo “Valerio Adami, l’uomo”.

Le origini e i capisaldi della sua arte

L’iniziazione all’arte, di Valerio Romani Adami – bolognese del 1935 trasferito presto a Milano, come artista ha semplificato il cognome – avvenne a Venezia nello studio di Felice Carena, che “mi faceva disegnare molto”, ma la folgorazione ci fu  alla Biennale del 1952 dinanzi al “Prometeus” di Oskar Kokoschka, per lui “la tela non era che un immenso foglio bianco sul quale si proponeva di esprimere, coi pennelli, le idee che sapeva d’altra parte sviluppare così bene” con la scrittura. Di qui nasce una frequentazione assidua così rievocata: “Kokoscha, che ho rivisto spesso, mi invitava sul lago Lemano  a dare alla mia pittura una dimensione intellettuale, che  non avrebbe mai potuto trovare senza la sua influenza”. Fino a scoprire  che “la pittura è molto di più che la pittura”. 

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Ritratto di Walter Benjamin“, 1973

Ma non per questo trascura la forma pittorica, l’intenso “apprendistato tecnico” a Milano, nell’Accademia di Belle Arti di Brera ai corsi di Achille Funi, in cui “disegnavamo otto ore al giorno”, ha fatto sì che il segno divenisse la base della sua pittura, seguito dal colore. Funi era “un disegnatore straordinario! Io aspettavo con impazienza le sue correzioni”, e ha continuato a farle  autocorreggendosi in proprio, sempre avendo la gomma a portata di mano, fino a intitolare una sua pubblicazione del 2002 “Dessiner. la gomme et les crayons”, ma non si tratta delle “cancellature” di Emilio Isgrò applicate in modo definitivo a scritte simboliche, quelle di Adami sono transitorie.

Dà molta importanza alla luce, ritenendola fondamentale sia per chi guarda sia per chi dipinge, luce che varia a seconda delle situazioni: “E’ come la luce del giorno: rischiara,certo, ma non è mai la stessa!”.  Però c’è dell’altro ancora più importante: “Eppure, lo sapete, i miei quadri nascono tutti con lo stesso procedimento: prima disegno, ed è questo disegno che riporto sulla tela. Dunque, il disegno è all’origine di tutto. E’ quello che apporta la luce, se la luce c’è . ma è quello che allo stesso tempo conserva un a parte di oscurità, seguendo una propria logica, che non è sempre quella che io gli assegnavo…”. Come nei “segni” di Guido Strazza, in mostra quasi contemporanea alla Galleria Nazionale, che però non si trasformano in un “figurativo”, come in Adami, il quale accetta questa qualifica ma rifiuta quella data alle sue opere di ” figurazioni narrative”, basata sul movimento pittorico “Figuration narrative” in cui all’inizio degli anni ’60 si facevano rientrare i pittori che si contrapponevano all’arte astratta sempre più diffusa.

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“L’angelo”, 1992

Ed ecco come procede praticamente, secondo la sua istintiva rievocazione in cui, dopo essersi schermito delle “lodi sulla forza del mio disegno, sulla mia maestria”, spiega: “Ma in realtà le cose sono più complicate. Quando prendo un foglio di carta per disegnare, come faccio ogni giorno, non so mai quali gesti compiere, né quale disegno nascerà. Allungo il braccio, la mano posa la punta della matita sul foglio: un punto. Un  punto che si muove e diventa linea, creando ben presto una forma, vale a dire un raccordo tra il vuoto e lo spazio, il visibile e l’invisibile.”.

Finora solo disegno, poi sembra subentrare Kokoscha: “E’ un rapporto che talvolta mi sorprende, mi infastidisce, mi disturba? Allora cancello, aspetto il tratto seguente, che certamente cancellerò di nuovo. Forse è il mio inconscio, un inconscio che si rivela più forte della mano… Un inconscio nato da tutti i ricordi, tutti gli incontri, tutte le mie esperienze  passate e dalla mia vita quotidiana”. 

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“Luciano Berio”, 1996,

E sono tante per un artista che ha girato il mondo in lungo e in largo, ma è sempre tornato in Italia, dove si è formato artisticamente al classicismo e alla modernità, come ha sottolineato l’amico scrittore Carlos Fuentes. Sugli stimoli inconsci l’artista cita il concetto di Edouard Munch, “essenziale per la comprensione del mio lavoro: io non dipingo ciò che vedo, dipingo ciò che ho visto… tutto quello che ho visto si trova archiviato nella mia memoria, alla quale attinge l’inconscio a seconda delle mie emozioni. ma , dovunque attinga, l’inconscio ritrova la mia identità italiana”. E lui stesso nelle “Sinopie” scrive: “Il vero autore dei miei quadri è la tradizione cui appartengo”.

Per questo non può essere assimilato alla visibilità realista della Pop Art al di là delle apparenze: “Chiamo sinopia – afferma nello scritto così intitolato -. quel substrato di associazioni, di intenzioni, di presente & passato, di ricordi, etc., che tanta importanza ha nella genesi di un quadro. Questo processo mette il pensiero in movimento e, a sua volta, la mente mette in movimento la mano”.

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Opera non identificata in catalogo

Oltre ai maestri ha incontrato anche, se non un mecenate, un mercante che, con un contratto di esclusiva nel quale aveva tutte le opere di Adami – dai quadri compiuti, ai disegni preliminari, fino agli schizzi sui foglietti dei caffè francesi – e, racconta l’artista, “in cambio egli prese in carico tutte le mie spese, assicurandomi un tenore di vita inimmaginabile per un giovane pittore. Perché allora ero un giovane pittore. per lui rappresentavo l’avvenire.”. Si chiamava Aimé Maeght, conosciuto intorno al 1970 dopo aver avuto una sala tutta per sé alla Biennale di Venezia del 1968, era un mercante che lavorava con tanti grandi artisti come Matisse e Chagall, Braque e Mirò, Adami gli riconosce “un ruolo decisivo” esprimendogli riconoscenza con queste parole: “Tutti i vantaggi materiali che hanno facilitato la mia vita, li debbo a Aimé Maeght”;  e perché non si cada in equivoco conclude: “Ma, ancora una volta, il grande mentore della mia esistenza resta Oskar Kokoscha. E’ lui che mi ha permesso di diventare il pittore che Aimé Maeght in  seguito ha difeso”.

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“Passaggio sul Gange (Banaras)”, 1996

Di qui la conoscenza di alcuni grandi pittori,tra cui Mirò verso il quale ci fu “una vera ammirazione e d un vero affetto – un affetto che egli mi rendeva, credo”, e una frequentazione, “più volte, con Camilla, siamo andati a trovarlo  nella sua casa di Maiorca”, Camilla è la moglie pittrice che firma anch’essa con il cognome Adami. Ciononostante erano molto diversi, “io avevo una conoscenza del disegno, che lui non possedeva, ma che non cercava neppure. A che gli sarebbe servita? Mirò volteggiava in un altro mondo, su un altro pianeta”, e aveva un segreto, “la sua semplicità. Durante tutta la sua vita, lui ha dipinto come si respira, naturalmente, senza porsi domande”.

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“Il muro del Pianto 2”, 1996 i

Rispetto a Giorgio de Chirico la curatrice Lea Mattarella istituisce assonanze e dissonanze, richiamandosi per le prime “a Dore Ashton che si meraviglia per quanto poco il Grande metafisico sia stato citato come ‘predecessore spirituale’ di Adami. Li unisce l’occhio italiano, la linea chiusa, l’amore per il classico, l’idea che la pittura conduca altrove“. Così prosegue la Ashton: “Anche le ombre in de Chirico sono delimitate da linee, e quando ha bisogno di suggerire la modellatura, è spesso il tratteggio classico, compresa la linea, che la genera”. Ed ecco l’ “altrove”: “Non è solo l’amore per la linea precisa e pulita che collega de Chirico ad Adami, ma anche una concezione della pittura che onora la memoria (o l’immaginazione) sopra ogni cosa”.

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“Herman Hesse”, 2000

Tutto ciò porta alle  visioni “metafisiche” cui si intitola la mostra aggiungendo però “metamorfosi”, le dissonanza che la curatrice sottolinea: “Oltre all’ “apertura di Adami verso l’Oriente, un’altra lontananza è la consapevolezza che esistono e si possono affrontare in pittura anche scene  apparentemente intime e quotidiane, senza per questo negare quel senso di attesa che qualcosa accada”, cioè l’atmosfera di sospensione metafisica che avvolge di mistero le piazze del “Pictor classicus”, nel suo ritorno alla classicità. mentre “Adami fa un’operazione ancora più sofisticata: applica alla classicità una specie di decostruzione  per poi ricomporla in una nuova veste. E così facendo, la salva per sempre”, così le sue “metamorfosi” si aggiungono alle “metafisiche”.

Ma “tocca ad ogni artista trovare la sua strada”, lui si sente più vicino a Tintoretto che a Pollock perché lavora sulla rappresentazione attraverso la forma in modo nuovo, di “ispirazioni eterne”.

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“Antonio Tabucchi”, 2000

Gli scritti per Adami, da Italo Calvino ad Antonio Tabucchi

Anche grandi scrittori scrivono rivolgendosi direttamente a lui, Italo Calvino  nel 1980 “Quattro fiabe d’Esopo per Valerio Adami”. Sono riportate nel Catalogo, precedute da alcune “massime” di Adami sull’argomento riassunto nel titolo;  poi lo scrittore penetra nella creazione pittorica e si cala  nel mondo dell’artista con delle favole i cui  protagonisti sono gli elementi costitutivi delle sue composizioni – indicati nei titoli – che si contrappongono orgogliosi per primeggiare l’uno sull’atro.

In “La mano e la linea” la linea cessa di essere tale acquisendo la forma di una mano, ciascuna pensa di dominare l’altra mentre sono reciprocamente dominate, la linea perché non è più libera ma fissata nei contorni delle mani che disegna, la mano  perché senza linea non esisterebbe più.

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“Figura crocifissa – we want peace dedicato a Ben Shan” , 2002

Nella seconda favola, “I piedi e la figura”, questa non accetta di dipendere  dai piedi del pittore essendo fatta di linee e colori che le danno leggerezza per sollevarsi, ma viene richiamata alla realtà dal pittore il quale riesce a disegnarla solo partendo dai suoi piedi che la fissano al suolo.

“La linea orizzontale e il colore blu”  presenta un acceso dialogo in cui ciascuno si vanta di essere “padrone dello spazio” – l’orizzonte è indicato da una linea lontana, o dall’azzurro del cielo  o del mare –  mentre irrompono le figure che si posizionano e in tal modo dominano  spazio e tempo.

Con la quarta favola, “La parola scritta, i colori e la voce”, due elementi della composizione, manca la linea, si sottopongono al giudizio della voce, sembra prevalga la parola scritta perché viene letta e pronunciata, ma i colori hanno il sopravvento e la voce può cantare a voce spiegata.

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Opera non identificata in catalogo

Si resta senza fiato nel leggere questi sapidi quadretti sul mondo creativo di Adami, vi abbiamo ritrovato il fascino meditativo ed enigmatico di “Palomar” con le riflessioni profonde di Calvino mosse dall’osservazione attenta e disincantata con una disinvoltura sul filo del paradosso.

Altrettanto sorprendente il “Diario cretese con le sinopie di Valerio Adami” che Antonio Tabucchi gli dedica con sapide annotazioni da Cnosso tra il !°  e il 4 giugno 2000, da Hanià e Sfakià tra il 6 e l’11 giugno. Leggiamo che nel suo viaggio lo scrittore si è portato le fotocopie dei disegni dell’artista perché, esordisce, “caro Valerio, credo che questo luogo, forse come nessun’altro, sia adatto per parlare della tua pittura”; inoltre, guardando il labirinto cretese, gli torna in mente “una frase letta nei tuoi appunti: ‘Il mito è uno dei tracciati-radice della nostra cultura, il cui sapere si definisce in un pensiero di metamorfosi’. Non ho potuto fare a meno di pensare al tracciato dei tuoi disegni, e al punto di entrata, che è libero”.  

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“Home sweet home”, 2004

Come con Calvino, troviamo lo scrittore impegnato ad interpretare l’arte del pittore: “Se il tracciato delle tue opere è aperto a ogni arbitrario ingresso, rischiamo di restarci rinchiusi dentro come degli uccelli in una pania”. Per trarne considerazioni amare: “In questo universo in cui siamo allegramente entrati, con una libertà che  rasenta la sconsideratezza, cominciamo ad indugiare, ne rimandiamo l’uscita e vi facciamo naufragio”.

Del diario di Tabucchi potremmo ricordare anche il dialogo con un pittore locale sul libro di Adami che lo scrittore gli ha mostrato, il ricordo di quando a Parigi l’artista gli disse che cercava “un colore per i tuoi disegni come se tu cercassi un suono, perché esso ha per te lo stesso statuto delle note musicali”;  fino all’esclamazione “Caro Valerio, bisognerebbe dare un premio alla mente umana perché è riuscita a concepire l’infinito, concetto che a quanto pare esiste solo lì dentro”. Per questo gli ispira il “racconto a espansione limitata” “Le cefalee del Minotauro”,  provocate “dalla marea del tempo che ti è scoppiata nella testa come un brodo dell’origine che ribolle, e dove tu affoghi”. Lo manda ad Adami scrivendogli che, mentre si esploreranno i misteri insoluti, “noi continuiamo a fare quello che facciamo ogni giorno: cose fatte di linee, di colori, di parole”.

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“Davanti alla betulla”, 2005

A Tabucchi dovrebbero essere riferite le parole, mentre ad Adami le linee e i colori; e forse questo è il senso che dà lo scrittore a tale considerazione. Ma non possiamo non ricordare che in alcune opere di Adami ci sono delle scritte, e questo non va ritenuto un fatto secondario, come si vede dal modo approfondito pur se disincantato con cui, in un ampio scritto immaginifico, viene analizzata  la “frase che attraversa Ich in alto” da parte di Jacques Derrida, da lui conosciuto a Parigi intorno al 1975 allorché realizzò il manifesto per Glass che divenne simbolo del movimento decostruzionista.

Tra le quattro favole di Calvino e il diario cretese di Tabucchi mettiamo le “Righe per Adami” di Carlos Fuentes, non sono solo righe ma pagine e pagine di una cronaca surreale che comincia e finisce con il Cavaliere e il suo Scudiero, al termine identificati in don Chisciotte e Sancho Panza, si vivono le situazioni più strane e diverse, spesso paradossali,  c’è anche Camilla, la moglie di Adami e lui stesso come convitato di pietra di cui si sente sempre la presenza, con qualche citazione diretta.

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“La lezione di nuoto”, 2008

Si parla anche seriamente di temi legati alla pittura: “E lui dice che vede il tempo come qualcosa di eternamente aperto, in sé non formale né formalizzabile. Forse soltanto un quadro possiede il valore formante del tempo”. In modo forse più criptico;: “Allora avviene che le cose avvengono, che son percorse da situazioni che a loro volta le percorrono; che l’assenza di un oggetto può cospirare contro la presenza di un soggetto, e viceversa; che queste temibili cose, innocue  meravigliose, succedono in uno spazio che le situa,, cioè che dà loro un luogo, ma che anche le insegue, le incalza, le mette in movimento”.

Repentino il passaggio al quadro, che segue subito dopo: “Dice che, semplicemente, ogni quadro è la struttura stessa del quadro. Aneddoticamente invisibile, a un quadro può succedere tutto e tutto è successo, prima e dopo il suo spazio” .

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“Quadro in un tramonto”, 2008

E dal quadro al suo autore: “Il creatore guarda il quadro prima che esista, e a poco a poco ne diventa il primo spettatore; ma, contemporaneamente, è guardato dal quadro. Il creatore provoca una fame di spettacolo nel quadro. Divorato dal proprio quadro, l’artista, che non smetterà mai di guardarlo, non potrà più vederlo se non guarda insieme con lui i nuovi spettatori che, a molteplici livelli, lo//li guardano e ripetono il processo all’infinito”.

Qui l’orizzonte si allarga: “Che fare d’una mente, d’una materia o di una società isolate? Non bastano: bisogna catturarle dentro il loro sistema di dipendenze e poi liberarle dentro uno nuova struttura e sottomettersi alle pochezze dell’univoco e del reale. la pittura di Valerio Adami: riferimento mobile continuo della struttura del reale alla struttura figurativa, con tanto di biglietto d’andata e ritorno”.

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I nuovi Argonauti (news from Palestine” , 2009

Non si limita a questo accenno, più avanti afferma: “Cerchiamo di vedere l’arte di Adami come una vasta profanazione dei significati di questa ‘realtà’ chiusa , mediante un rimescolamento dei segni che la sostengono: scompiglio che è  un modo di fare ordine, il proibito, l’inquietante, l’insopportabile, ciò che converte la sicurezza, la simmetria, l’analogia, i premi, i castighi, l’interazione dell’ordine in un incubo di disordini appassionati, cioè insoddisfatti”.

Anche lo scritto di Fuentes, come quelli di Calvino e Tabucchi, è tutt’altro che un’ordinaria amministrazione, tutti e tre sono originalissimi e toccano aspetti importanti della creatività artistica di Adami inserendoli nelle situazioni più improbabili in un contesto fantasioso e immaginifico.

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Opera non identificata in catalogo

E ci sembra che quanto abbiamo citato  – tra il tanto di più che si potrebbe ricordare rispetto a una vita artistica così intensa e feconda – basti per definire la straordinaria caratura di questo artista.

Visiteremo la mostra che si preannuncia così importante e rivelatrice, dopo aver riassunto la linea narrativa dell’artista e la sua personalissima visione del segno e del colore, i capisaldi della sua arte, ansiosi di vederne la realizzazione pittorica.

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“Studio per le ali dell’angelo”, 2010

Info

Accademia d’Ungheria  in Roma, Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma.  Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore,  gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal  catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo saarà pubblicato in questo sito il  12 marzo p.v.  [Aggiornamento : il secondo articolo sarà pubblicato prossimamente in questo nuovo sito. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli, in questo sito su De Chirico nel 2019 a novembre 22, 24, 26, a settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29, ; in www.arteculturaoggi.com su De Chirico, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, Strazza 11 marzo 2017,  Pollock 3 luglio 2015. Chagall 30 maggio 2015, Matisse 23 maggio 2015, Isgrò 16 settembre 2013, Braque e i cubisti 16 maggio 2013 ,  Tintoretto 25, 28 febbraio, 3 marzo 2013. Pollock e Pop Art, 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012, Mirò 15 ottobre 2012; su De Chirico in cultura.inabruzzo.it 8, 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito), e nei periodici a stampa “Metafisica” e “Metaphysical Art” n. 11/12 del 2013].

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, tranne le n. 1, 3, 5, 10, 13, 14, 16, 19 tratte dal Catalogo, si ringrazia l’organizzazione e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; utte opere di Adami, in ordine cronologico, in questo articolo le opere dal 1971 al 2010, nel successivo dal 2010 al 2016. In apertura, “La morte di Orfeo” 1971; seguono, “Doctor Sigm. Freud” 1972 e “Ritratto di Walter Benjamin” 1973; poi, “L’angelo” 1992 e “Luciano Berio” 1996, opera non identificata in catalogo e “Passaggio sul Gange (Banaras)” 1996; quindi, “Il muro del Pianto 2” 1996 e “Herman Hesse” 2000; inoltre, “Antonio Tabucchi” 2000 e “Figura crocifissa – we want peace dedicato a Ben Shan” 2002; opera non identificata in catalogo e “Home sweet home” 2004: ancora, “Davanti alla betulla” 2005 e “La lezione di nuoto” 2008; continua, “Quadro in un tramonto” 2008 e “I nuovi Argonauti (news from Palestine” 2009; infine, opera non identificata in catalogo e Studio per le ali dell’angelo” 2010; in chiusura, opera non identificata in catalogo.

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Opera non identificata in catalogo

Margherita Sarfatti, l’arte italianissima nella prima metà del ‘900, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

All’inizio dell’autunno, dopo i rinvii e con le limitazioni del Coronavirus, alla Galleria  Russo a Roma si è svolta dal 10 ottobre al 7 novembre 2020 una mostra molto significativa: “Margherita Sarfatti e l’arte italiana tra le due guerre”, a cura di Fabio Benzi.  Con questa iniziativa  la Galleria Russo ha aggiunto un capitolo importante al racconto che prosegue da anni dell’arte italianissima  troppo trascurata dai principali centri espositivi, anche se la “damnatio memoriae” del periodo considerato dalla mostra è ormai superata: un periodo che vede il suo prologo 106 anni fa, con la fondazione l’11 dicembre 1914 dei Fasci di Azione Rivoluzionaria Interventista da parte di Filippo Corridoni con il patrocinio di Benito Mussolini. La mostra ha aggiunto alla rievocazione artistica quella storica e di costume ponendo al centro dell’evento espositivo una figura che è stata una protagonista dal profilo intrigante sotto tanti aspetti: la collezionista delle opere.

Mario Sironi, “Ritratto di Margherita Sarfatti”, 1916-17

Per qualificarne la sua figura bastano le parole  con cui Fabio Benzi apre il saggio introduttivo: “Margherita Sarfatti fu una donna  di straordinaria forza, di sofisticata cultura e di autentica intelligenza”; e per il suo profilo intrigante quelle di Corrado Augias: “Delle due amanti ‘ufficiali’ la più famosa è stata Claretta, l’altra Margherita, nelle cronache postume quasi scompare”. Mussolini “anche per Margherita Sarfatti è stato un grande, appassionato amore  ma nel loro rapporto c’era  dell’altro”. E vediamo cosa: “Margherita giocava su due piani. Amante appassionata ma per certi aspetti era lei a dominare, quanto meno ad essergli abile guida nel suo apprendistato al mondo”.

Le sue lettere d’amore del 1923, che Augias cita, hanno espressioni ardenti. Si erano incontrati nel 1912  quando andò nella sede dell’”Avanti” da  Mussolini leader della corrente socialista “rivoluzionaria”, lei della corrente di Turati “meno dogmatica”, per comunicargli di  volersi dimettere dal “Popolo d’Italia: “Durante il colloquio scocca l’attrazione reciproca che sfocerà nel loro lungo rapporto ufficialmente segreto, in realtà noto a tutti”. 

Medardo Rosso, “Ecce Puer”, 1906

E’ al suo fianco nel marzo 2019, quando a San Sepolcro lui fonda i fasci, nell’ottobre 1922 dopo la marcia su Roma, nel giugno 1924 dopo l’assassinio Matteotti, e lo sostiene nella sua rivendicazione del gennaio 1925, nel dramamtico 1924 ne pubblica la biografia in Inghilterra; dal 1935 invece è con lui Claretta Petacci, lei nel 1938 è costretta dalle leggi razziali del “suo” Mussolini a lasciare l’Italia per Montevideo dove il figlio Amedeo era espatriato per quel motivo. Nel corso della permanenza in Sudamerica pubblica “My Fault”, un memoriale sulla sua “colpa” di essere stata con Mussolini. Torna in Italia nel 1947, non citerà mai in pubblico il suo passato; muore nell’ottobre 1961 a Como.

Dopo  questi accenni, non intendiamo ripercorrerne la vita in senso biografico, pur essendo  ricca di motivi di  interesse storico e di costume, data la sua forte personalità e la posizione che ha occupato nella società in un periodo così particolare della nostra storia nazionale. Ma ci limitiamo  a qualche spunto del percorso che l’ha portata alla ricca collezione da cui è alimentata  la mostra di opere di artisti che commenteremo quando entreranno nella sua vita nel corso della sua indiscussa  affermazione nella critica d’arte e nel mondo artistico e culturale di cui fu protagonista.

Umberto Boccioni, “Periferia” , 1909

Nella sua formazione, in una colta famiglia borghese veneziana,  ebbe maestri d’eccezione, lo storico Oddi, il letterato Molmenti, il critico  Fradeletto, parla 4 lingue oltre quella materna, gia nell’adolescenza legge oltre a Carducci e Pascoli, Schopenauer e Nietzsche, Ruskin, Byron e Shelley, e  sposa la causa socialista. A 18 anni si sposa veramente contro il volere dei genitori per la differenza di età,  nel 1900 comincia una fitta collaborazione sulla stampa socialista, in materia politica e con impegno femminista nella rivista “Unione femminile”  per l’emancipazione della donna.

Negli anni successivi si concentra  essenzialmente  sulle Biennali di Venezia del 1901 – 03 – 05, il suo maestro Fradeletto, fondatore ne era il dominus. Collabora al “Popolo d‘Italia” dal 1917 e nel 1922 partecipa alla fondazione di “Gerarchia”, di cui diviene condirettore con Mussolini nel 1925,  dopo la direzione per 3 anni di Arnaldo Mussolini, della rivista sono esposti  degli “Studi di copertina”  del 1928 di  Mario Sironi a cui fu legata da un “duraturo e appassionato rapporto, anche umano e privato, intimo”, come lo definisce Benzi.

Mario Sironi, “Paesaggio urbano”, 1908

Gli  interessi artistici resteranno al centro della sua attività,  estesi anche all’arte internazionale, le sue preferenze vanno agli artisti più moderni.  Tra loro Alberto Martini e  Auguste Rodin, Gaetano Previati, è in mostra il suo “Fanciulli con cesti di fritta” 1916,  e  Romolo Romani con “Figura femminile”  1908. Inoltre Medardo Rosso,  del quale vediamo esposte 3 sculture “Innamorati sotto il lampione” 1883, una straordinaria anticipazione di “Lilì Marlene”,  ”Femme à la voilette (Impression  de boulevard, Dama della veletta)”, un bronzo che sembra uscire dal marmo, e soprattutto “Ecce puer”  1906, una straordinaria scultura “impressionista” con il dissolversi della forma tipico dello scultore.

Di Boccioni  fu amica, tanto che lui le dipinse il “Ritratto della figlia Fiammetta”,  lei lo aveva insieme ad “Antigrazioso”, Benzi ricorda di aver visto questi due dipinti esposti nella sua casa roomana. Nell’attuale mostra sono esposti, sempre di Umberto Boccioni,  “Periferia” 1909 e  Busto di donna – Ritratto di Nerina Paggio” 1916: entrambi speculari a due quadri di Sironi di quegli stessi anni, Paesaggio urbano” del 1908 con la desolazione e la solitudine,  “Margherita Sarfatti” del 1916-17 con il ritratto elegante.

Giacomo Balla, “Belfiore-Petunie”, 1924

All’opposto dello stretto rapporto personale con  Sironi,  che fece parte dei Futuristi in modo atipico, verso Marinetti l’atteggiamento sembra “non fosse di istintiva simpatia”, date le posizioni maschiliste del pioniere del Futurismo rispetto a una femminista “ante litteram” com’era lei; ciò non toglie che collaborasse con lui nella mostra del 1919 al  Palazzo Cova in cui espose anche un ritratto che Sironi le aveva fatto.

Verso il Futurismo ebbe una posizione distaccata mostrando predilezione per le “Nuove tendenze” di artisti che se ne discostavano,  a parte la comune  spinta verso la modernità. Il suo non allinearsi alla corrente  che dopo il “Manifesto” di Marinetti del 1909 aveva fatto irruzione nel mondo dell’arte e nel costume non derivava certo dalla scarsa simpatia verso il suo fondatore, ma dalla  ricerca di  qualcosa di più ambizioso che si tradusse in iniziative concrete. 

Pippo Rizzo, “Canottieri”, 1929

Se questo è vero, va sottolineato che al distacco non corrisponde un’assenza dei Futuristi dalla sua collezione, com’era avvenuto invece per Renato Guttuso nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea per l’ostilità, se così la si può definire, della direttrice Bucarelli nella sua foga innovatrice; fino alla donazione da parte dell’artista e la “riparazione”  con due recenti mostre affiancate di Renato Guttuso e Palma Bucarelli come collezionista.

Troviamo, in mostra, oltre alle 2 opere di Boccioni già citate e alle 13 di Sironi di cui parleremo,  Lorenzo Balla con 2 opere (“S’è rotto l’incanto” 1922 e  “Balfiore- Petunie” 1924) “ e  Carlo Erba con 4 (“Studio di figura maschile” 1910-11 e “Soggetto eroico” 1911-12, “Casolari” 1912 e “Donna che cuce” 1914; Gino Severini con “Un ritratto (Autoritratto)”  1905, ed Enrico Prampolini  con  “Danzatrice” 1916 dalle forme cubiste.

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Enrico Pampolini, “Danzatrice”, 1929

Già nel novembre 1922, subito dopo la marcia su Roma, lei fonda  a Milano il gruppo “Sette Pittori del Novecento” con Sironi – su cui torneremo – Funi, Bucci e Marussig, Dudreville,  Malerba e Oppi. Di Achille Funi sono esposte 3 opere: “Famiglia a tavola” 1915, “Marina” 1921-22, e “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta”  1930, quando lei era caduta in disgrazia con Mussolini e il mondo artistico; di  Anselmo Bucci vediamo  “Olga Lapidos”,  di Piero Marussig “Case  e tetti” 1928, e “Nudo” 1930.

Con questa iniziativa  mostrò  la volontà di  superare la posizione di pur apprezzata critica d’arte per “sostenere, al di là delle teorie estetiche specifiche (orientate sul ‘ritorno all’ordine’), un suo ruolo determinante non solo di organizzatrice, ma di esclusiva enunciatrice di un’arte di Stato” , forte della sua vicinanza a Mussolini.  Vi si impegnò talmente da allontanarsi dal giovane scultore Arturo Martini,  vicino ai Futuristi e alla “Secessione” –  che prima prediligeva e aveva fatto ospitare a Ravenna  con Funi da un amico – perché aveva aderito al gruppo romano di “Valori plastici” che sentiva come concorrente.  

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Achille Funi, “Famiglia a tavola”, 1915

Se fosse riuscita o meno nell’intento ambizioso di promuovere un’Arte di Stato”, cioè di regime, è un tema che va oltre la sua figura, investe  l’arte italiana in un periodo storico con manifestazioni artistiche di notevole rilievo liquidate superficialmente quanto erroneamente nella “damnatio memoriae”  che ha accomunato oltre agli artisti anche poeti e letterati, primo tra tutti Gabriele d’Annunzio.

Benzi prende di petto questo problema definendo “fondamentalmente falsa nella sostanza”  la vulgata diffusa nel dopoguerra  in cui ”si è parlato con superficialità e francamente con  semplicismo di ‘arte fascista’ come del prodotto evidente, necessario e scontato della politica di uno stato totalitario, cui faceva  da eventuale (ma non verificato) controcanto  minoritario un’arte di fronda, antifascista” soprattutto nei giovani artisti degli anni ’30 e ’40.  Ci viene in mente al riguardo il “Realismo socialista”, l’”arte di Stato” dei regimi comunisti  che doveva incarnare i valori dell’ideologia totalizzante con l’”uomo nuovo” e quanto costruito intorno a lui, e per questo agli artisti restava soltanto il ristretto spazio “privato” per esprimere in incognito la libera creatività; tra i suoi massimi esponenti Deineka, però, sentiva quei valori come propri.

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Piero Marussig, “Nudo”, 1930

Invece Mussolini fece una scelta ben diversa, forse per effetto dell’iniziativa prima ricordata messa in campo dalla  Sarfatti dopo la marcia su Roma, che aveva suscitato “una fronda assai diffusa tra  gli artisti e i critici di tutt’Italia” nel timore che, dati i suoi stretti rapporti con Mussolini, lei volesse divenire “il deus ex machina del fascismo nel campo delle belle arti, incarnando col suo nuovo movimento  l’arte ufficiale del nuovo regime”;  con la conseguenza di  “un inevitabile privilegio riservato  ai ‘suoi’ artisti milanesi a discapito di altre situazioni e personalità nazionali”.  Visto che artisti e critici temevano questo, Mussolini ne tenne conto e mise subito in chiaro la sua posizione di contrasto netto senza possibilità di equivoci.

Lo fece addirittura nella mostra  dei “Sette Pittori del Novecento”  organizzata dalla Sarfatti  nel marzo 1923, a soli quattro mesi dalla creazione del gruppo. Vi intervenne con un discorso in cui, dopo aver sottolineato che “non si può governare ignorando l’arte e gli artisti” affermò: “E’ lungi da me l’idea di incoraggiare qualcosa che possa assomigliare all’arte di Stato”; e aggiunse che “l’arte è una manifestazione essenziale dello spirito umano… lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale”, in tal modo il governo è “un amico sincero dell’arte e degli artisti”. Commenta Benzi  che “queste parole, probabilmente inattese da parte della Sarfatti, dovettero cadere come un macigno  sul progetto egemonico sarfattiano”, l’arte di Stato.

Virgilio Guidi, “Donna che cammina”, 1918

A questo riguardo si potrebbe dire che se per lei fu una doccia fredda, poteva riscontrare come era invece riuscita nel suo intento di fare da “Pigmalione” a Mussolini, operando da vera femminista alla rovescia, trasformandolo “da ruvido provinciale in un avvertito politico e statista”. In quanto tale,  “da sensibile animale politico” aveva avvertito  dalle reazioni sopra citate una possibile perdita di consenso e ne aveva tratto le conseguenze fermando sul nascere ciò che poteva creargli dei problemi indesiderati e scomodi.

Siamo nel marzo 1923, il fascismo muove i primi passi, la Sarfatti gli resta vicino, e lo abbiamo già ricordato; nel 1924 pubblica in Inghilterra “Life of Mussolini” che esce in Italia nel 1926 come ”Dux”, tradotta in oltre 18 lingue, un successo internazionale. Ma non demorde dalla sua iniziativa  di promuovere un’arte “diversa” dal Futurismo, nel 1926  organizza la “I mostra del Novecento italiano” sempre a Milano, sulla scia della mostra del 1923 ma il cui titolo, ben più ambizioso, rivela l’intento di farla diventare “arte di Stato”. Mussolini non lancia un nuovo “macigno”, del resto è uscito “Dux”, ma le lodi alle “qualità” e alla “modernità” degli artisti, e non alla rispondenza delle opere all’ideologia fascista, mostrano la sua volontà di lasciarne libera la creatività, secondo il pensiero di Cipriano Efisio Oppo, suo amico  personale e fascista antemarcia cui saranno affidate importanti  iniziative pubbliche in campo artistico. 

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Francesco Trombadori, “Natura morta”, 1924

Lei va avanti nel suo proposito, con la morte del marito nel 1924 non ha più vincoli, si trasferisce a Roma e intende rendere annuale la mostra nella capitale come esposizione ufficiale del regime, spera nell’appoggio di Mussolini cui è più vicina anche fisicamente. Perciò vuole ripeterla nel 1927, ma scattano subito le contromisure per rassicurare l’ambiente romano, sono  orchestrate da Oppo, che suggerisce di prendere tempo:  il 26 settembre del 1926 Mussolini le scrive di  rinviarla al 1929 con un doppio motivo, evitare che coincidesse con la Biennale e per “creare del nuovo”, avendo tre anni invece di pochi mesi a disposizione.

Sarà o no una contromossa, lei nello stesso 1927, alla mostra  degli “Amatori e Cultori” presenta una collettiva di “Dieci artisti del Novecento”, tutti romani, e acquista loro opere di cui vediamo in mostra una selezione: di  Gino Severini è esposto “Maternità” 1916, e di  Virgilio Guidi Donna che cammina” 1918, di Francesco Trombadori” “Natura morta” 1924, e di Alberto SaliettiNatura morta” 1926, di  Ardengo Soffici  “Cabine”  1927, di  Pasquarosa “Pappagallo” , e di Quirino Ruggeri   il  bronzo “Ritratto di Margherita Sarfatti” , entrambi del 1928.

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Mario Tozzi, “La père Lenoir (Contadino di Borgogna)”, 1920

 Commenta Benzi: “La manovra seduttiva non riesce e la tensione fra Margherita Sarfatti e Oppo – portavoce del gruppo romano – traspare chiaramente in una minuta di lettera di Oppo alla Sarfatti”. Forse perché, sia pure con artisti romani, aveva aggirato proprio nel 1927 il blocco alla  mostra del Novecento impostole da Mussolini.  “Un altro smacco per la Sarfatti fu alla Biennale veneziana del 1928, della quale Oppo era consigliere, le fu negata una sala per i suoi artisti del “Novecento”.  

E quando finalmente tenne la “II mostra del Novecento italiano” nel 1929, rispettando il rinvio richiesto da Mussolini nella sua lettera, dovette organizzarla  a Milano non essendo stato possibile farlo a Roma; ma lei, tetragona, intendeva proporla come “arte fascista”, secondo il suo disegno ambizioso. Però non aveva fatto i conti con il raffreddamento del suo “rapporto personale e affettivo” con Mussolini il quale non solo non andò all’inaugurazione costringendola a rifare il comunicato stampa che prevedeva la sua presenza; ma le mandò una lettera ufficiale su carta intestata “Il capo del Governo”  in cui le si rivolgeva con ostentato distacco chiamandola “gentilissima Signora” e le intimava perentoriamente di non parlare di  “arte fascista”.

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Gisberto Ceccherini, “Alla fontana”, 1928

In particolare, dopo averle detto  di “disapprovare nella maniera più energica ” che lei tesseva “l’apologia  del cosiddetto ‘900 , facendosi alibi del fascismo” e di lui stesso,  arrivava ad affermare addirittura: “Questo tentativo di far credere che la proiezione artistica del fascismo fu il vostro ‘900 è ormai inutile ed è un trucco”; fino a rifiutare “la solita sviolinata nei miei riguardi”. La conclusione è l’avvertimento – poiché lei non sente “ancora  l’elementare pudore  di non mescolare il mio nome di uomo politico alle vostre  invenzioni artistiche o sedicenti tali” – che lui stesso avrebbe provveduto a rendere esplicita al più presto la posizione sua e del Fascismo “di fronte al cosiddetto ‘Novecento’ o quel che resta del fu ‘Novecento’”.

Lascia sconcertato tale atteggiamento verso una critica d’arte e soprattutto una donna che – pur se sono passati più di sei anni – nella lettera del 1° gennaio 1923 lo chiamava “Benito, mio amore, mio amante, mio adorato! Sono, mi proclamo, mi glorio di essere appassionatamente, interamente, devotamente, perdutamente Tua, ora, per tutto il 1923 e, se , perché mi ami come io ti amo, per sempre Tua”. Un amore corrisposto finché  quella che è stata chiamata “l’altra donna del Duce” – espressione corretta da Benzi in quella speculare riferita  a Mussolini “l’altro uomo di Margherita” – viene in sostanza allontanata, anche per l’intransigenza di Rachele; e perdette ogni influenza su di lui e sul mondo artistico nazionale.

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Filippo de Pisis, “Vaso di fiori”, 1928

Ma non si diede per vinta, “Margherita non ebbe difficoltà a  riproporsi con rinnovato entusiasmo  in una veste nuova, di organizzatrice delle mostre del ‘Novecento’  all’estero anziché in Italia, dove i suoi margini di manovra si erano nevralgicamente ridotti”. Del resto, la sua visione artistica aveva avuto sempre un raggio più vasto di quello nazionale, a 18 anni in viaggio di nozze a Parigi acquistò litografie di Toulouse Lautrec. In seguito prese opere di Modigliani e Utrillo, Rouault e Kokoschka, Jean Cocteau e Picasso, Diego Rivera e Raoul Dufy. Oltre a questi, opere di artisti di cui ne vediamo alcune esposte: di Aristide Maillol il bronzo di fine ‘800 “Nu debut se coffant (Baigneuse aux  bras levés)” 1898, di André Derain  un dipinto, “Natura morta con caffettiera” 1911, e tre disegni di nudi femminili degli anni ’30, un “Nudo sdraiato”  e 2 “Nudi in piedi”.

Aveva  iniziato l’attività all’estero nel 1926 presentando a Parigi gli artisti del Novecento italiano,  seguirono mostre tra il 1927 e il 1932 nell’Europa del Nord e nell’America del Sud.  Intanto , nel declinare del “ritorno all’ordine” dell’arte,  dal 1928 si interessa  ai giovani artisti, dagli esponenti della “Scuola romana” come  Mario Mafai,  Corrado Cagli di cui è esposto “Paesaggio” , e Fausto Pirandello del quale vediamo  “Natura morta”  1926-27;  ai “Nuovi Futuristi” come Pippo Rizza, di cui è esposto “Canottieri” 1929, agli espressionisti come Lorenzo Viani, in mostra  “Maternità” 1920) . 

Quirino Ruggeri, “Ritratto di Fiammetta Sarfatti”, 1928

Nel 1931  Giorgio de Chirico le dedica due opere del 1927, una “Testa di Gladiatore” e  un  “Ritratto”  come “omaggio alla gentilissima signora”, qui esposto, le si rivolge  come aveva fatto Mussolini nel 1929, ma  questo distacco era giustificato, da quando  nell’intervista dl 1927 alla rivista francese “Comoedia” il grande metafisico aveva dichiarato che “non c’è in Italia alcun movimento d’arte moderna… la pittura italiana non esiste” – tranne  se stesso e Modigliani che come lui considerava “francese” – e per questo lei lo aveva ignorato.  Poi le dediche e gli “omaggi”e lei acquistò da De Chirico “Cavalli in riva al mare”, dell’inizio degli anni ’30. Per associazione di idee vi colleghiamo il carboncino “Figure” 1920 e l’acquerello e china “Figure sedute”  1924 di Gino Rossi per le teste a uovo che richiamano l’arte metafisica anche se su un corpo tozzo non da manichino.

Nel 1931 la“Quadriennale d’arte” di Roma ha rafforzato la posizione, a lei contrapposta,  di Oppo, che dirigerà anche le tre Quadriennali successive, nel 1935, 1939, 1943. Lei – che nel 1930 era stata segnalata dalla polizia politica come “agente dell’internazionale ebraica” – ormai caduta in disgrazia, non è ammessa all’inaugurazione della Mostra del decennale della Rivoluzione Fascista nel 1932, con una scenata sulla scalinata del Palazzo delle Esposizioni.

Corrado Cagli, “Paesaggio”, 1915

Poi l’ostracismo si aggravò con il razzismo antisemita che creò una barriera invalicabile tra lei e Mussolini, fino al suo espatrio dopo quello del figlio a seguito  delle leggi razziali del 1938, con tappa in Svizzera e a Parigi e destinazione Uruguay, precisamente Montevideo, come si è accennato all’inizio.  Negli anni precedenti aveva scritto e collaborato a giornali ed editori stranieri.

Del ritorno in Italia a guerra finita  nel 1947 citiamo una coincidenza intrigante. Dimora all’Hotel Ambasciatori in Via Veneto dove il pittore Guido Cadorin raffigura lei e la figlia Fiammetta, Piacentini e Giò Ponti negli affreschi  dipinti nel salone. Intrigante perchè  è il pittore degli affreschi nel soffitto della “Stanza del lebbroso” al Vittoriale  di Gabriele d’Annunzio, che lei aveva conosciuto negli anni ruggenti.  “Circondata dai suoi quadri – commenta Benzi –  mi fa pensare a Sunset boulevard”, ma senza il dramma finale, serenamente “muore nella sua villa del Soldo,  che aveva visto centinaia di ospiti illustri, italiani e internazionali, tra le sue mura, nel 1961”.

Giorgio de Chirico, Ritratto”, 1927 con dedica

E come collezionista? Benzi la definisce “una Guggenheim italiana, potremmo dire”, e parlando degli artisti da lei avvicinati ricorda: “Si innamora di loro e della loro arte, collezionando molte centinaia, migliaia di opere: un catalogo completo della sua collezione non è stato mai fatto. Essa fu smembrata già lei in vita per permetterle di vivere in esilio”,  fino alle divisioni ereditarie.

Abbiamo già citato una serie di artisti di cui acquistava le opere, indicandone alcune  esposte in questa mostra. Aggiungiamo gli altri artisti con le opere in esposizione: Mario Tozzi con “Le pére Lenoir (Contadino di Borgogna)” 1920  e Gianfilippo Usellini con  “Ritratto dell’alpinista. Ritratto di Vittorio Ponti” 1927,  Gisberto Cerracchini con “Alla fontana” Filippo de Pisis conVaso di fiori”  entrambi 1928, Ferruccio Ferrazzi con “Maremma” 1930. 

Adolfo Wildt, “L’anima e la sua veste”,1922

Un rilievo particolare spetta allo scultore della “secessione” Adolfo Wildt del quale sono esposte 11 opere, le sue sono forme gotiche in chiave simbolica, senso plastico nel marno estremamente levigato. Scolpì una serie di busti di Mussolini, uno dei quali per il primo anniversario della Marcia su Roma, un altro distrutto dalla frenesia iconoclasta dei simboli del regime nei giorni della Liberazione.

Non sono esposti quei busti, ma 5 teste scultoree, “L’anima  e la sua veste” 1916 in gesso, 1922 in bronzo e l’altorielevo in marmo con il profilo reclinato della “Mater purissima”  1918, ben diverso dal profilo aggressivo nel bronzo “Vittoria” 1919. Non solo gesso, bronzo e marmo per le statue, anche pergamena per i 2 disegni quasi naif “Casa di Gesù” 1919 e “Mi dolgon, fanciullo, le pene che più non mi dai” 1921, e bronzo per le medaglie “Humanitas – Cave canem”” 1918, “Il Risparmio” 1921, l’albero con i suoi frutti.

Adolfo Wildt, “Vittoria”, 1919

Infine siamo giunti a Mario Sironi, nell’ambito della  mostra c’è una “piccola personale” con 18 opere, a testimonianza del rapporto quanto mai stretto con la Sarfatti “tra avanguardia e moderno classicismo”, come lo definisce Raffaele Ferrario che ne rievoca aspetti e momenti. Il primo incontro nel 1915, con entrambi a Milano –  anche se l’amicizia con Boccioni, già comune amico da cinque anni, anticipa la conoscenza virtuale al 1910 –   fece scattare  una intesa straordinaria e la morte di Boccioni l’anno dopo nell’agosto 2016 li avvicinò ulteriormente, e la loro condivisione non fu turbata dalel vicende politiche.

“Il loro rapporto si fonda  sulla condivisione di ideali comuni e dello stesso modo di  percepire il presente attraverso l’arte, il segno, la parola”.  Tanto che – sottolinea Ferrario – “alcuni dettagli della sua pittura corrispondono al ritmo sintetico e sincopato della  scrittura di Margherita Sarfatti, che pone l’accento sui tratti ‘tipografici’ di Sironi nella composizione”.

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Adolfo Wildt “La Vergine”,1924

Sul piano personale il rapporto viene rafforzato dalla tragedia della prima guerra mondiale, il primogenito della Sarfatti Roberto ucciso da una mina sull’Altipiano di Asiago nel 1919, lui disegna la copertina di “I vivi  e l’ombra”, il racconto disperato della madre e figure simboliche definite “anti monumentali”. “La sintesi essenziale delle forme che Sironi usa negli anni venti nelle opere e per gli interventi sulle copertine e soprattutto negli studi preparatori ha molto in comune con l’incisività  delle parole  della sintassi ritmata e sintetica che la Sarfatti  usa nel 1925 in Dux per descrivere la scrittura di Mussolini”  definita “breve, apodittica”, come lo stile di Sironi “rude, apodittico fino alla brutalità”.

La condivisione biunivoca, se così si può dire, tra pensiero della Sarfatti ed espressione artistica di Sironi è evidente soprattutto nelle “periferie”: “Se Sironi la segue nella funzione sociale e narrativa dell’arte, lei sposa la sua proposta di una nuova estetica moderna e urbana”, e lo sostiene con acquisti personali e del Comune di Milano: “Entrambi hanno talento per il racconto epico e la capacità di creare una mitologia quotidiana”.  Ma  pur se Sironi aderisce al  mito futurista della velocità e del futuro, “la sua visione già avverte il dramma esistenziale dell’uomo moderno, l’angoscia, la solitudine, l’alienazione, ciò che sarà definito in seguito ‘il male di vivere’”. 

Mario Sironi, “La ballerina”, 1916

E’ dalla parte della Sarfatti nelle polemiche su “Novecento” e quando cade in disgrazia “Sironi resta fedele al loro sodalizio, tradirlo sarebbe come tradire un’utopia”. Lei gli scrive definendo i quadri che continua ad acquistare “ veramente splendidi”, considera “un capolavoro “Il bevitore”, dice che “Il ciclista” regge al tempo “in modo vittorioso”. Sironi, nel 1926 dirigente del Sindacato nazionale degli  artisti fascisti,  dall’interno dell’organizzazione le scrive che “il fascismo è nettamente a-artistico e le cose dell’arte sempre più dimenticate come superflue o intempestive”, per cui nell’azione del partito “l’arte non c’entra per niente”. L’opposto del “Realismo socialista” con l’arte strumento dell’ideologia con “l’uomo nuovo”  del comunismo bolscevico al centro della propaganda imposta, a parte il grande  Deineka interprete convinto. Era la pietra tombale su quella che era stata l’illusione e l’azione della Sarfatti; “l’arte di Stato”, di regime.  

Ed ecco la piccola personale di Sironi nella mostra alla Galliera Russo: il “Paesaggio” e “Paesaggio urbano” 1908, citati all’inizio, anticipano lo squallore delle Periferie, mentre il nuovo “Paesaggio urbano” del 1921 è monumentale, con il segno futurista dell’automobile; tra questi, del 2016, “La ballerina” e “Danzatrice” con una stilizzazione cubista, mentre il “Progetto di copertina per la rivista ‘Ardita’”, del 1919,  ha qualcosa del manichino metafisico  Il corpo femminile della “Figura con lo specchio” 1924 anticipa il “Nudo” di Marussig del 1930 ed è contemporaneo ai nudi della pittrice Tamara de Lempicka.

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Mario Sironi, “Paesaggio urbano”, 1921

Seguono due disegni del 1925-26 “Aratore e morte” e “Figure”,  3 “Studi di copertina per  ‘Gerarchia’”  del 1928 e 2 disegni “politici” del 1934, “La guardia” e “Pace europea” che fanno parte della sua attività di vignettista impegnato. E’ del 1930 “All’osteria – Fiaccheraio”, immagine della stanchezza e della solitudine. Chiudiamo la galleria espositiva con i 4 ritratti: andando indietro nel tempo i 3 disegni, del 1917-18 “Ritratto di compositore”  a matita, del 1916 a puntasecca “Ritratto di Cesare Sarfatti” e “Ritratto di Margherita Sarfatti”; infine, del 1916-17 la tempera-pastello su carta nella luminosità veramente solare che fa risaltare il sorriso coinvolgente della protagonista nel “Ritratto di Caterina Sarfatti” , l’abbiamo lasciato in chiusura come il commiato della “star” al termine dello spettacolo.

A questo punto non resta che concludere, e lo facciamo con le chiare parole di Benzi: “Nel contesto internazionale delle donne del XX secolo, che con la loro personalità  hanno contribuito a costruire il mondo moderno… Margherita Sarfatti spicca come un astro di prima grandezza”.  Questa sintesi della sua figura rende meritoria la rievocazione della  Galleria Russo nella mostra di opere della sua collezione, simboli dell’arte italianissima tra le due guerre ed espressione della sua sensibilità e impegno nell’arte.

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Mario Sironi, “All’osteria-Fiaccheraio”,1930

 Info

Galleria Russo, Roma, via Alibert  20, Roma. Tranne nell’emergenza coronavirus, è aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiusa; ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com. Catalogo: “Margherita Sarfatti e l’arte in Italia tra le due guerre”, Silvana Editoriale, marzo 2020, pp. 130, formato 23 x 23; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e movimenti citati nel testo cfr. i nostri articoli di seguito indicati. In questo sito, 2019: Cagli 5, 7, 9 dicembre, De Chirico novembre mostra Milano 22, 24, 26; settembre mostra Torino 25, 27, 29, mostra Genova 18, 20, 22, libro Fabio Benzi 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15. Nel sito www.arteculturaoggi.com, i futuristi: nelle mostre alla Galleria Russo, 2018: Floreani per Boccioni 7 ottobre, Futuristi e moderni 7 marzo; 2017: Marchi 24 novembre, Thayhat 27 febbraio; 2015: Sironi 2 novembre, Tato 19 febbraio; 2014: Dottori 2 marzo; 2013: Erba 1° febbraio, Marinetti 2 marzo; l'”ultima futurista” Lina Passalacqua, 2018: 10 gennaio; 2015: 1° aprile; 2014: 28 maggio; 2013: 25 aprile. Altri artisti e movimenti citati nel testo: su De Chirico 2016: 17, 21 dicembre, 2015: 20, 26 giugno, 2013: 1° luglio; Picasso 2018: 6 gennaio, 2017: 5, 25 dicembre; Guttuso 2018: 14, 26, 30 luglio, 2017: 16 ottobre, 2016: 27 settembre, 2, 4 ottobre, 2013: 25, 30 gennaio; Bucarelli 2017: 22 ottobre, Sironi 2015: 2 dicembre, 2014: 1, 14, 29 dicembre, 7 gennaio; Secessione 2015: 12, 21 gennaio, Modigliani, Utrillo 2014: 22 febbraio, 5, 7 marzo, Cubisti 2013: 16 maggio, D’Annunzio 2013: marzo 14, 16, 18, 20, 22; Deineka 2012: 26 novembre, 1, 14 dicembre. Nel sito cultura.inabruzzo.it, Realismi socialisti 2011: 3 articoli 31 dicembre, De Chirico 2010: 8, 10, 11 luglio; 2009: 27 agosto, 23 novembre, 22 dicembre; Futuristi 2009: 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre; Picasso 4 febbraio (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, che saranno trasferiti su altro sito, sono disponibili), Sironi 26 gennaio. In “Metafisica”, rivista semestrale a stampa della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, articolo sulla mostra De Chirico e la natura 2013: ottobre, n. 11-13.

Achille Funi, “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta”, 1930

Photo

Le immagini sono tratte dal Catalogo fornito cortesemente dalla Galleria Russo, si ringrazia Fabrizio Russo, con l’Editore e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Mario Sironi, “Ritratto di Margherita Sarfatti” 1916-17; seguono, Medardo Rosso, “Ecce Puer” 1906, e Umberto Boccioni, “Periferia” 1909; poi, Mario Sironi, “Paesaggio urbano” 1908, e Giacomo Balla, “Belfiore-Petunie” 1924; quindi, Pippo Rizzo, “Canottieri” 1929, ed Enrico Pampolini, “Danzatrice” 1929; inoltre, Achille Funi, “Famiglia a tavola” 1915, e Piero Marussig, “Nudo” 1930; ancora, Virgilio Guidi, “Donna che cammina” 1918, e Francesco Trombadori, “Natura morta” 1924; continua, Mario Tozzi, “La père Lenoir (Contadino di Borgogna)” 1920, e Gisberto Ceccherini, “Alla fontana” 1928 , prosegue Filippo de Pisis, “Vaso di fiori” 1928, e Quirino Ruggeri, “Ritratto di Fiammetta Sarfatti” 1928; poi, Corrado Cagli, “Paesaggio” 1915, e Giorgio de Chirico, Ritratto” 1927 con dedica; quindi, Adolfo Wildt, “L’anima e la sua veste” 1922, “Vittoria” 1919, e “La Vergine” 1924; inoltre, Mario Sironi, “La ballerina” 1916, “Paesaggio urbano” 1921, e “All’osteria-Fiaccheraio” 1930; infine, Achille Funi, “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta” 1930 e, in chiusura, “Margherita Sarfatti al suo scrittoio, fotografia del 1930 circa.

“Margherita Sarfatti al suo scrittoio, fotografia del 1930