Pietracamela, il Borgo in Arte e gli “Aquilotti del Gran Sasso”

di Romano Maria Levante 

Si è svolta, subito dopo il ferragosto 2018, a Pietracamela, il borgo montano in provincia di Teramo alle falde del Gran Sasso, l’annuale festa di fine estate “Borgo in Arte”, organizzata dalla Pro Loco, presidente Paolo di Giosia, in collaborazione con “Weekend’Arte”, il giorno 17 venerdì, con inizio alle ore 17, quasi a voler scrollare di dosso dai “montanari” i luoghi comuni sulle superstizioni.. Grande partecipazione popolare, sembrava che il numero dei residenti, pur molto ridotto, dei nativi locali tornati in paese per le vacanze e dei turisti si fosse moltiplicato, al punto da affollare lo svolgimento contemporaneo dei vari momenti in luoghi diversi:  nei due Belvedere, “Guido Montauti”, “Bruno Bartolomei”, e nella chiesa di San Rocco collegati dalle stradine del centro storico dove si svolgeva altresì la “street art” di dipinti esposti a cielo aperto con la dimostrazione di lavori tradizionali pretaroli e l’esposizione di prodotti artigianali. Con gli “Aquilotti del Gran Sasso”  al centro della festa.   

I pionieri degli “Aquilotti del Gran Sasso“, gruppo fondato nel 1923, al centro Ernesto Sivitilli

Anche quest’anno la festa di fine estate di Pietracamela ha riservato una sorpresa. Lo scorso anno c’è stata la cerimonia di consegna delle targhe ai Vigili del Fuoco di Bellinzona per ringraziarli dell’aiuto fornito per superare l’emergenza della grande nevicata dell’inverno 2016; quest’anno la cerimonia di rilancio dello storico gruppo di scalatori locali, gli “Aquilotti del Gran Sasso”.

La festa del Borgo in Arte

Sia nell’agosto 2017 che nell’agosto 2018 questi due momenti particolari sono stati incastonati in una festa con delle belle sorprese al suo interno. La “performance” di una ballerina  rimasta negli occhi di tutti lo scorso anno;  quella dei “Clerici vagantes” nei “Carmina burana” di quest’anno, il cui canto, anche se profano, si attagliava alla disadorna chiesetta di San Rocco, per opera di un complesso con strumenti d’epoca, che ci ha ricordato gli “Avion Travel”, ma portati al Medioevo.  

La “Locandina” degli eventi a Pietracamela dell’estate 2018,
fino alla festa che chiude la stagione.

E poi il moderno complesso musicale “Le Galassie” nel Belvedere Guido Montauti  e la Mostra d’arte nelle stradine del centro storico,  illuminate in modo suggestivo e con  nastri rossi  cui sono state appese fotografie dei luoghi,  dell’ambiente montano e non solo. Perchè, sorpresa nella sorpresa, ci sono state due gallerie fotografiche in più rispetto allo scorso anno.

La prima con la straordinanza sequenza ripresa quarant’anni  fa del paesano Aligi Bonaduce al pittore Guido Montauti, la gloria del paese di cui. in questa stessa intensa estate “pretarola” viene celebrato il centenario della nascita con delle mostre nella provincia e il recupero delle pitture rupestri di Pietracamela  sopravvissute al crollo del 2011 del Grottone nel quale l’artista fu ritratto allora.

La mappa con i luoghi delle esibizioni

Proseguendo sulla stessa stradina, un’altra preziosa galleria di immagini che ricostruiscono la storia degli “Aquilotti del Gran Sasso” nei suoi componenti dalla fondazione nel 1923 alle generazioni successive attraverso Antonio Panza e Bruno Marsilii, fino a Claudio Intini cui l’ultimo alfiere, Lino D’Angelo, consegnò il gagliardetto nella cerimonia del 18 agosto 2013 alla presenza del sindaco di Pietracamela Antonio Di Giustino e del presidente del C.A:I. dell’Aquila Salvatore Perinetti, in occasione della presentazione della ristampa del  libro di Ernesto Sivitilli “Il Corno piccolo”.  

Ricordiamo che si è trattato del gagliardetto donato dalla madre dell’alpinista romano Cambi –  morto con il compagno Cichetti durante una bufera di neve in occasione di una loro escursione alpinistica invernale sul Gran Sasso – a D’Angelo 40 anni dopo la tragedia, e da lui conservato gelosamente per  42 anni fino a passare a Intini tale  “testimone”  carico di valori e di simboli.  

Un momento del Concerto “Carmina burana” dei “Clerici vagantes” nella chiesa di San Rocco;

 E’ la storia degli “Aquilotti”  che vogliamo rievocare, non prima di aver dato il merito al presidente della Pro Loco di Pietracamela, Paolo di Giosia, di tenere alto, in queste annuali manifestazioni di fine estate, il livello culturale, differenziandosi  dalle sagre paesane basate esclusivamente sulle tradizioni enogastronomiche.

Non è che la gastronomia sia assente – i panini con la porchetta non sono mancati neppure quest’anno –  ma il centro dell’attenzione sono sempre momenti di alta qualità culturale, come le pitture esposte , e le foto di testimonianza e artistiche, disseminate per le stradine del centro storico in una coinvolgente “street art” .

Il pittore Guido Montauti nel “Grottone”, dalla galleria fotografica di Aligi Bonaduce di 40 anni fa

La galleria a cielo aperto  è culminata nelle memorie dello storico gruppo in una prospettiva di rilancio, nella cui celebrazione ci sono state letture, da parte di Francesco Bernabei e di Aureliana Mazzarella,  di brani particolarmente significativi del libro sugli “Aquilotti”, con le memorie che risalgono ai pionieri, fino alle toccanti espressioni di amore per la montagna tratte dal  “vecchio zaino di ricordi”, il libro di uno degli ultimi alfieri del gruppo, il compianto Clorindo Narducci, Angelino, detto “pijtte”.

Bernabei, che mette cuore  e maestria comunicativa nelle sue letture da consumato “performer” come nelle sue poesie, nell’accommiatarsi dall’uditorio ha affermato che dalla sua Montorio guarda Pietracamela svettare dall’alto come espressione di un livello superiore, un’attestazione di stima per il borgo, da sottolineare al pari della sua passione, perché inconsueta nel campanilismo imperante. 

La prima, con a fianco l’autore, delle 8 opere pittoriche che seguono,
in rappresentanza delle opere eposte nelle stradine del centro storico

Il livello culturale nella festa di chiusura dell’estate è ancora più encomiabile considerando le altre manifestazioni che l’hanno preceduta, dalla presentazione del recupero delle Pitture rupestri di Guido Montauti, al libro di Carla Tarquini sul dottor Dionisi, alla conversazione sul turismo sostenibile seguita dalla performance musicale di una brava solista cui si è aggiunto lo stesso conferenziere in un magistrale assolo al sassofono.   

Anche la festa di San Rocco, del 16 agosto, è stata celebrata con contorno spettacolare, i tamburi della tradizione, musica, gastronomia. Paolo di Giosia, al centro dell’organizzazione di queste manifestazioni, rende onore con il suo impegno nell’ideazione e organizzazione della festa  – nel cartellone di quest’anno sono  indicati  circa 40 nomi di artisti, artigiani e operatori impegnati – alla caratura di un paese che dal 2005 è nel Club dell’Anci “I borghi più belli d’Italia”, è stato “Borgo dell’anno” 2007  con il livello di eccellenza delle  “5 stelle alpine”. la festa è intitolata significativamente “Borgo in Arte” con due parole unite simbolicamente, Borgo ed Arte. 

Con “Borgo” si evocano le tradizioni,  rappresentate nella festa con l’esibizione di antichi mestieri, come la cardatura e la filatura, e con l’esposizione di delicati manufatti artigianali; con “Arte”  ci si riferisce a quella cultura che è nel DNA della comunità locale, lo testimoniano i numerosi libri nei campi più diversi, oltre che in quello alpinistico, scritti dai suoi componenti, nel passato e nel presente, e i dipinti dei pittori locali oltre alla gloria del paese Guido Montauti. Si potrebbe valorizzare in modo adeguato tale patrimonio culturale proseguendo nella linea positivamente tracciata dal “Borgo in Arte”..  

Pietracamela è Il borgo cui Gabriele d’Annunzio  intitolò la sua novella “Come la marchesa di Pietracamela  donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola”, nella quale descrive un  pittore nell’atto di completare un  quadro con “le belle mani della marchesa di Pietracamela” presa a modella. Nel reiterare la “Street Art”  dei dipinti sparsi nelle stradine si rende omaggio anche a questa memoria dannunziana e chissà se sarà possibile vederla rappresentata dai bravi “artisti di strada” che ogni estate si esibiscono all’aperto in un festoso repertorio teatrale legato alla tradizione e alla cultura.

Ma è il momento di dare conto della storia del primo gruppo organizzato di scalatori sorto in Italia, del resto è “Via degli Aquilotti del Gran Sasso” la stradina dove è stata creata la galleria fotografica  che abbiamo ricordato e dov’è il “Belvedere Bruno Bartolomei”  dove si è svolta la celebrazione.

Il rilancio degli “Aquilotti del Gran Sasso”

Si può  già chiamare storia, ha compiuto 90 anni che non sono molti considerando che la prima ascensione del Gran Sasso risale al XVI secolo, ad opera di Francesco De Marchi. Ci si potrebbe chiedere, anzi, come mai si è atteso tanto tempo a costituire un gruppo alpinistico. ma sarebbe una domanda inappropriata, tanto più che gli “Aquilotti del Gran Sasso” è stato il primo gruppo italiano: gli “Scoiattoli di Cortina” sono nati nel 1939, i “Ragni di Lecco” nel 1946, rispettivamente 16 e 23 anni dopo l’offerta di Sivitilli a Dionisi della presidenza onoraria degli “Aquilotti” di Pietracamela.  E allora, come si spiega tale ritardo non solo negli Appennini, ma anche, e soprattutto, nelle Alpi? 

Forse con il fatto che  i locali facevano da accompagnatori a forestieri, spesso dal nome illustre e altolocati o comunque benestanti, i quali nelle arrampicate in montagna chiedevano l’assistenza di esperti del luogo, almeno nell’avvicinamento. Pensiamo, “mutatis mutandis”, agli sherpa himalayani, che non vanno mai da soli, per l’alpinismo sportivo non c’è tempo quando si lotta per la sopravvivenza in ambienti  particolarmente difficili, come i luoghi di montagna a tutte le latitudini.  

Ma anche a chi non era “accompagnatore”  non sfuggivano i turisti scalatori che affrontavano Il Gran Sasso, e questo suscitava dei sentimenti espressi così, nel 1926, da un “Aquilotto”, Marino Trinetti: “Ogni volta che apprendevo qualche audacia di essi verificatasi su detto monte, mi sentivo prendere da un sentimento di temerarietà unito a un non so che di emulazione”. E non solo, tanto che confessa: “Mi sentivo un poco umiliato, perché mai fino allora nessuno di noi Pietracamelesi, che siamo quasi alle falde del Gran Sasso, s’era distinto, com’era dovere, in ardimenti”. 

Così scattò  la molla dell’alpinismo “in proprio”, ma ci voleva un’occasione, e la racconta Stanislao Pietrostefani nelle sue note di storia alpinistica: “L’impresa di Bonacossa nell’inverno del 1923 e quelle con Iannetta avevano suscitato stupore e ammirazione nel piccolo centro montano, sospeso tra le rocce, privo di strada, cinto dalla grande solitudine della montagna”.

l piccolo centro montano è Pietracamela, del quale un Aquilotto della prima generazione, Berardino Giardetti, detto “Kid”,  e uno della penultima generazione, Clorindo Nsrducci, Angelino, detto “Pijtte”, hanno cercato di ricostruire la storia tra tante leggende.  

“Sospeso tra le rocce”, scriveva Pietrostefani, “nido d’aquile”  secondo la definizione del vescovo mons. Pensa nei ricordi di Giardetti che ne riporta l’impressione avuta in una visita pastorale: “Dopo un estenuante percorso in automobile, attraverso strade sconnesse e polverose, si arriva a Ponte Arno , dove  la rotabile finisce e bisogna montare in sella ad un asino, e su su per una ripida ed interminabile mulattiera”. 

Con questa conclusione: “Ma ecco, ad un certo punto, dopo una svolta, uno scenario meraviglioso: il Monte Corno, che incombe su una verdeggiante vallata  e, addossato a uno sperone roccioso, il paesino di Pietracamela: un nido d’aquile!”.  

Come si poteva pensare all’alpinismo sportivo in tale situazione?  Ma, scattata la molla, per emulazione e orgoglio paesano  fu costituito il gruppo alpinistico le cui  finalità sono state così ricordate da Lino D’Angelo, l’ultimo alfiere del gruppo prima dell’attuale iniziativa di rilancio: “Sivitilli aspirava a diffondere l’alpinismo sportivo in tutte le sue manifestazioni spirituali e fisiche  tra i giovani valligiani e dare ad essi il primato delle più ardue arrampicate sulle montagne natie”.   

Il fondatore del gruppo, Ernesto Sivitilli, aveva una visione lungimirante, dunque, e l’ha espressa in modo suggestivo nel libro che dedicò a Corno Piccolo, nel Gran Sasso d’Italia. La molla scattò nell’estate del 1923, dopo l’ascensione di Bonacossa nell’inverno dello stesso anno, come risulta dalla lettera del 13 agosto con cui Antonio Dionisi, altro medico condotto del paese, accettava l’offerta della Presidenza onoraria del gruppo in via di formazione;  l’attuale portabandiera del gruppo, Claudio Intini, tiene a sottolineare questo anticipo di due anni, documentato con certezza, rispetto alla data più nota del 1925, evidentemente frutto di un antico  errore di trascrizione dell’anno di costituzione.   

E, dato che abbiamo citato Claudio Intini, dalla storia passiamo alla cronaca della serata in cui il “Borgo nell’Arte” ha festeggiato il ritorno degli “Aquilotti”  con un programma che lui stesso ha esposto alla  comunità  riunita nel “Belvedere Bruno Bartolomei”, tra gli ingrandimenti fotografici delle imprese degli “Aquilotti” e lo straordinario scenario naturale aperto sull’orizzonte. 

Non è facile rilanciare il gruppo alpinistico, considerando  lo spopolamento della montagna che ha colpito in modo particolare  Pietracamela, come del resto la gran parte dei borghi montani. Gli “Stati generali della Montagna” annunciati di recente dal Ministro degli  affari regionali e della coesione territoriale dovranno affrontare soprattutto questo annoso  problema, senza limitarsi alle enunciazioni non seguite da misure adeguate. Il 2017 venne proclamato “Anno dei borghi” e si sperava in misure concrete, così non è stato, tutto si è risolto in un mese di presenze essenzialmente folcloristiche alle “Terme di Diocleziano” di Roma con un fondale recante  il profilo di borghi, peraltro rinascimentali e non montani, e poco più.

Esibizione degli antichi lavori, la filatura, seminascosta a sinistra avviene la cardaturaq;

Un”occasione perduta, ci si deve mobilitare per la nuova occasione, finalmente specifica per la montagna e non più generica per i borghi. E il gruppo degli “Aquilotti del Gran Sasso” , con le sue guide e accompagnatori, è uno dei “servizi pubblici” da garantire  nel borgo a rischio di estinzione se non si sostengono adeguatamente le strutture essenziali per la permanenza dei locali e per l’accoglienza dei turisti e non si promuovono con adeguate facilitazioni le iniziative in grado di animare la vita in località con tante bellezze naturali ma poca popolazione.    

Anche gli “Aquilotti del Gran Sasso”  vanno considerati un presidio della montagna, insieme alle pochissime unità  locali di carattere familiare o individuale, la cui presenza è vitale per la comunità  residente e per i turisti. E quanto più lo spopolamento riduce le possibilità reddituali di queste unità economiche, tanto più diventa indispensabile la loro utilizzazione prioritaria “in loco”, se competitive e a parità di capacità operativa. Gli “Stati generali della Montagna” saranno l’occasione per definire gli interventi necessari e le eventuali modifiche di regole inadeguate, per l’obiettivo primario di preservare i servizi essenziali, considerandolo interesse delle istituzioni, soprattutto locali e anche nazionali.   

Belvedere Bruno Bartolomei, parla Claudio Intini, presidente degli “Aquilotti”, a sin. davanti al leggio

Il programma che  Claudio Intini sta elaborando per il rilancio del Gruppo formando un nuovo nucleo di “Aquilotti del Gran Sasso”  inizia con le incombenze formali a partire dallo Statuto che verrà proposto in linea con lo statuto precedente ma con la possibile apertura ad alpinisti appassionati anche esterni alla comunità locale, non solo per la naturale carenza di giovani per lo spopolamento, ma anche per estendere il raggio di interesse in proporzione diretta con il  valore alpinistico, oltre che paesaggistico della montagna appenninica con spiccati caratteri  dolomitici. 

D’altra parte gli “Aquilotti” si sono segnalati anche per le loro ascensioni nelle Alpi – Lino D’Angelo ha ricordato le sue sul Monte Bianco e sul Cervino – mentre Bruno Marsilii ha fatto parte delle spedizioni himalayane.  Per ricordare  gli “Aquilotti” del passato, Intini sta pensando a una manifestazione annuale viva e vitale in loro memoria, nello spirito originario del gruppo sorto anche per suscitare l’interesse dei giovani alla montagna e a far penetrare in loro i suoi alti valori: una giornata nel mese di agosto in cui gli “Aquilotto” attuali  potranno guidare i giovani appassionati di alpinismo nell’ascensione a Corno Piccolo, su percorsi adeguati, così il ricordo dei pionieri avrò una proiezione nel futuro perpetuandone le imprese ardimentose. 

Francesco Bernabei legge alcuni passi degli antichi pionieri del Gran Sasso;

Sarebbe presuntuoso pensare di ricostruirne i successi alpinistici, ci limitiamo a qualche flash sulle primissime ascensioni  delle quali sono state date testimonianza quanto mai efficaci, alcune delle quali rievocate nella manifestazione al “Belvedere Bruno Bartolomei”  dalle letture ispirate di Aureliana Mazzarella, professoressa di lettere colta e sensibile, e   Francesco Bernabei, il poeta e “performer” citato all’inizio, che già  lo scorso anno si era esibito in letture coinvolgenti. 

La testimonianza iniziale che riportiamo è di Bruno Marsilii, anch’egli medico del paese come il fondatore Ernesto Sivitilli e Antonio Dionisi – da lui insignito della presidenza onoraria – come Antonio Panza, detto “Pallino”, pure del primo nucleo di “Aquilotti”; con loro, i maestri di scuola Osvaldo Trinetti e Berardino Giardetti, che diventerà Direttore didattico, Venturino Franchi, che sarà Ispettore del lavoro e altri di varia estrazione, accomunati dall’amore per la montagna e per l’avventura alpinistica: tra loro si segnalarono, per essere stati protagonisti delle prime ascensioni, Marino Trinetti e Armando Trentini, Antonio Giancola, Terigi Gizzoni e Angelantonio Giancola, detto “Gingitto”.  

Lo storico “Regolamento” degli “Aquilotti del Gran Sasso”

Marsilii raccontò della “prima vera arrampicata su roccia degli Aquilotti del Gran Sasso” allorché dubitavano che qualcuno li avesse preceduti sulla vetta di Corno Piccolo: “Delusione; un cumulo di pietre accatastate l’una sull’altra, un ometto, segnava la punta estrema. Febbrilmente le togliemmo e sotto di esse apparve un barattolo  entro il quale erano i biglietti dei primi salitori”. La delusione passò subito: “Fu ugualmente per noi una indimenticabile giornata, eravamo i primi del nostro paese a raggiungere quella cima con una vera arrampicata sfatando l’antica credenza che la montagna non lasciava tanto facilmente tornare chi osava violarla”. 

Il fondatore del gruppo “Aquilotti del Gran Sasso”, Ernesto Sivitilli

E pensare che Marsilii, nel segnalare l’insufficienza dell'”equipaggiamento primordiale”, afferma che “in compenso ci erano di grande aiuto i ‘paponi’ scarpe in panno trapunto dalle nostre madri, che aderivano perfettamente anche alle più impercettibili rugosità della roccia”. Ebbene, parecchi decenni dopo, nella copertina di  un “Bollettino del CAI, Club Alpino Italiano”, c’era l’immagine in primo piano di un “papone” di Marsilii attaccato alla roccia nel corso di una sua arrampicata nell’epoca eroica.  

Del resto, l'”Inno degli Aquilotti del Gran Sasso di Pietracamela”, le cui parole furono coniate dal fondatore Sivitilli – autore anche di sonetti sul tema –  fa capire quanto fossero primitivi i mezzi e quanto forte la passione e il coraggio: “Spingendoci sui picchi/ con animo e fierezza/ la nostra giovinezza/ sorride e freme in cor/…   Con l’ugne e con la corda/ pareti fascinose/ o balze paurose/ noi vi conquisterem”. 

Scuola per guide e portatori, 1954, in fondo Clorindo Narducci e Lino D’Angelo,
foto di Bruno Marsili
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Sivitilli, oltre ai puntuali resoconti sulle vie aperte con minuziosa indicazione dei singoli passaggi, ha lasciato un racconto esilarante: l’inaugurazione del Picco Pio XI il giorno di ferragosto 1929, con un  “concerto asinino” e non solo. Altri quadrupedi “risposero ai primi ragli, quasi a gara, e in breve, con un crescendo rossiniano, la valle fu sommersa da un’onda sonora di tale intensità che il Vescovo dovette far pausa al suo dire”; finché. quando “finalmente l’euforia asinina si calmò completamente, con gran sollievo di tutti”, il Vescovo “potè riprendere il suo dire esordendo: ‘Anch’essi, in questo giorno solenne, hanno unito la loro voce alla nostra per lodare il Signore!”.

Un anno dopo, il 19 agosto 1930, lo stesso Sivitilli descriverà la prima ascensione su Corno grande, Vetta Orientale, con Antonio Giancola e Armando Trentini, concludendo così: “Dopo breve riposo scendiamo nel ghiacciaio e con cuore di innamorati salutiamo queste vette a cui ci legano ricordi incancellabili di lotte e di vittorie. Verso le ore 22 rientriamo nella nostra Pietracamela”.   

In vetta, a dx Bruno Marsilii, il precursore dopo Sivitilli,
a sin. Clorindo Narducci, “Angelino”, detto “Pijtte

Di Bruno Marsilii questa descrizione delle difficoltà della scalata nella prima ascensione al Torrione Mario Cambi dalla parete Nord, sembra di rivivere quei momenti: “Un verticalissimo camino solca nel suo mezzo l’imponente parete. L’attacco è sbarrato da massi franosi. cerco di evitarli seguendo verso destra una stretta fessura  ma sono costretto ad indietreggiare perché anche qui gli appigli cedono sotto il peso e le gambe annaspano invano e penosamente nel vuoto… Ancora salti con massi sbarranti, per superare i quali il corpo pende paurosamente nel vuoto e ci si arrampica puntellandosi con le braccia  o strisciando sulla roccia e mantenendosi col solo attrito delle mani su superficiali sporgenze”.  

In vetta, Clorindo Narducci e a dx Lino D’Angelo, succeduto a Marsilii,
compagno fisso di cordata nell’apertura di nuove vie

Un salto nel tempo, siamo al 7 novembre 1956, Lino D’Angelo sulla parete est di Corno Piccolo. Ricorda quando “gli ‘Aquilotti’ studiavano il Gran Sasso da ogni parte, aprivano vie su ogni parete, e per loro esisteva solo la arrampicata libera, senza uso di chiodi e salivano con i ‘paponi’, proprio perché al contrario, mai come quel giorno avevo avuto tanta roba attaccata a dosso: cordini, staffe, chiodi e due corde”:  la utilizza nella difficile scalata fino all’ “ultima tirata e, poco dopo, io baciavo al Madonnina cementata tra le rocce della vetta e mi sembrò di riavere tra le braccia la mia figlioletta Annamaria lì ove due mesi prima l’avevo baciata”.

Il passaggio del “testimone” a Claudio Intini, in piedi a sin. con la consegna a lui da parte di Lino D’Angelo, in piedi a dx,del gagliardetto con piccozza simbolo del gruppo,  seduti l’allora sindaco di Pietracamela Antonio Di Giustino, al centro, il presidente del C.A.I. dell’Aquila Salvatore Perinetti a dx

Sentimenti anche nelle parole di Clorindo Narducci, il Gran Sasso ha ispirato due libri, “Un vecchio zaino di ricordi” e “Pietracamela tra storia e leggenda”: sulla prima ascensione alle “Fiamme di Pietra”  premette che “l’onore più grande, per un alpinista, è quello di legare il proprio nome ad una via, un passo, una parete, una piccola parte di quell’infinito che con tutto se stesso ama e nel quale s’immerge.. E’ un invincibile atto di fede ed amore con la montagna, con la natura, che per la prima volta ci svela qualcosa mai visto prima da altri, come la sposa che per la prima volta ci schiude il suo cuore”.  Ecco come si condivide l’emozione della scalata con il compagno: “Due uomini legati da una corda, ma in verità stretti da un ben più saldo legame, una specie di cordone ombelicale nel quale scorreva il fluido della vera amicizia, salivano. Non un’esitazione, non un cedimento: un caparbio orgoglio che l’entusiasmo giovanile può dare, non valgono gli spasimi, solo la vista della vetta può cancellare dai nostri volti la fatica. Eccola, che brilla nel sole: un abbraccio, una stretta di mano, una foto e via, in discesa, dalla via ‘D’Angelo-Narducci’ verso Pietracamela a raccontare e a progettare nuove salite”.  

Il complesso “Le Galassie” nell’intrattenimento musicale della serata al Belvedere Guido Montauti

Uno dei “due uomini legati da una corda” è Lino D’Angelo, di cui così ha scritto Enrico De Luca, la guida alpina “Aquilotto” della generazione di Intini, da poco scomparso prematuramente: “Ricordo che noi ragazzi pieni di passione ed entusiasmo, ma all’oscuro di qualsiasi tecnica, ci arrampicavamo lungo le rocce che sovrastano Pietracamela. Lino ci vide e da allora ci seguì con amore ed entusiasmo; ci insegnò a rispettare la montagna e portandoci passo dopo passo, consiglio dopo consiglio, a essere dei veri alpinisti. Con l’aiuto di Lino realizzammo, sempre a Pietracamela, una palestra di roccia, dove oggi le nuove leve dell’alpinismo locale muovono i primi passi”. E proseguiva: “Scopo degli ‘Aquilotti’ è di portare a conoscenza dei giovani il fascino, la bellezza e la tecnica della montagna e dell’alpinismo”.

Non sono affermazioni astratte: “Con questo spirito Lino, Dario Nibid ed io abbiamo chiamato ‘Aquilotti del Gran Sasso’ la nuova via aperta sul monolito di Corno Piccolo”. Scriveva queste parole nel 1976, è lo stesso spirito che animava Enrico Sivitilli nel 1923 e lo spinse a fondare il gruppo, è lo spirito che anima Claudio Intini nell’impegnarsi a rilanciare gli “Aquilotti del Gran Sasso” nel 2018. C’è tutto l’amore per la montagna con i suoi valori e i sentimenti che suscita. Perciò merita di essere seguita con grande attanzione, e di essere accompagnata dagli auspici e dagli auguri più sinceri, la rifondazione del  gruppo degli “Aquilotti del Gran Sasso”, che terranno alto un nome onorato così degnamente dai protagonisti di imprese indimenticabili.  Abbiamo voluto ricordarli con un excursus rapido ma espressivo delle migliori qualità e tradizioni dell’Abruzzo “forte  e gentile”.

Corno grande, la vetta

Info  

La manifestazione si è svolta nel centro storico del borgo, tra largo Cola di Rienzo e Via V. Veneto con il Belvedere Guido Montauti, Via Roma e Via Aquilotti del Gran Sasso, il  Belvedere Bruno Bartolomei, fino alla chiesa di San Rocco. Le citazioni sul primo gruppo alpinistico italiano nato a Pietracamela in fase di rilancio sono state tratte:  dal libro  “Aquilotti del Gran Sasso” , Pietracamela 1925-75, edito dalla Pro Loco nel 50° anniversario, pp. 142; volendo limitarci ai pionieri e immediati epigoni ci siamo riferiti all’originale del 1975, nel 2006 è stata pubblicata la “ristampa anastatica con integrazioni” di pp. 176, a cura di Lino D’Angelo e Filippo Di Donato; Lino D’Angelo è autore di “Le alte vie di una vita”,  Verdone Editore, 2009, pp. 160; le citazioni sulla montana sono state tratte dal libro di Clorindo Narducci, “Un vecchio zaino di ricordi“, Andromeda Editrice, 2008, pp. 212, autore anche di “Pietracamela, tra storia e leggenda” , Damian Editore, 2014, pp. 80: su questi due libri v. i nostri articoli in questo sito il 3 e 7 luglio 2016. Cfr. inoltre i nostri articoli: per le precedenti feste di fine stagione estiva a Pietracamela, “Borgo in Arte”, in questo sito il 25 settembre e 1° ottobre 2017, in “cultura.inabruzzo.it” il 9 settembre 2013; per  i riferimenti al pittore Guido Montauti, in questo sito  sulla celebrazione del centenario il 13, 23  e 29 luglio, l’8, 11 e 19 agosto 2018, in “abruzzo.world it”  gli articoli sulla mostra fotografica con l’artista nel “Grottone”  in relazione alle sue pitture rupestri il  3 e 14 settembre 2012, sullo stesso tema in “guidaconsumatore.fotografia.it” il 10 settembre 2012. Altri articoli su Pietracamela: in questo sito 2, 4, 9 settembre, 14 agosto, 14 e 17 luglio 2014, 9 e 27 agosto 2013; in “abruzzo.world.it”  22 giugno, 8 gennaio 2009. (i siti dove sino usciti, “cultura.in abruzzo.it”, “abruzzo.world.it” e “guidaconsumatore.fotografia.com” non sono più raggiungibili, gli articoli sono trasferiti su questo sito, con le immagini saltate, ma disponiamo degli articoli completi di immagini in un hard disk esterno).  

Corno Piccolo, le Fiamme di Pietra

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Pietracamela alla festa di fine stagione estiva (a parte la quart’ultima scattata nella Sala comunale nel 2014), tranne la n. 5 di Aligi Bonaduce e le n. 20, 21, 22 tratte dal libro di Clorindo Narducci citato, le 17, 18, 19 di repertorio., le ultime due consuete. Le prime 13 immagini sono sulla manifestazione in generale e la sua parte artistica; le successive 9 sulla parte relativa agli “Aquilotti del Gran Sasso”; le ultime 3 sull’orchestra all’aperto, il Corno Piccolo e Pietracamela alle falde del Gran Sasso. Per le immagini sulla parte in generale e artistica: in apertura, I pionieri degli “Aquilotti del Gran Sasso“, gruppo fondato nel 1923, al centro Ernesto Sivitilli, seguono La “locandina” degli eventi a Pietracamela dell’estate 2018, fino alla festa che chiude la stagione. e  La mappa con i luoghi delle esibizioni; poi, un momento del Concerto “Carmina burana” dei “Clerici vagantes” nella chiesa di San Rocco, e Il pittore Guido Montauti nel “Grottone”, dalla galleria fotografica di Aligi Bonaduce di 40 anni fa; quindi, 8 opere pittoriche, la prima ccon a fianco l’autore, in rappresentanza delle opere eposte nelle stradine del centro storico, ed infine Esibizione degli antichi lavori, la filatura, seminascosta a sinistra avviene la cardaturaq. Per le immagini sulla parte degli “Aquilotti del Gran Sasso”; si inizia nel Belvedere Bruno Bartolomei, parla Claudio Intini, il presidente degli “Aquilotti” a sin. davanti al leggio, segue Francesco Bernabei legge alcuni passi degli antichi pionieri del Gran Sasso; quindi, Il “Regolamento” degli “Aquilotti del Gran Sasso” , e Il fondatore del gruppo “Aquilotti del Gran Sasso”, Ernesto Sivitilli ; inoltre, 4 foto più recenti ma altrettanto evocative di tre “pionieri” del gruppo, la prima con la Scuola per guide e portatori, 1954, in fondo Clorindo Narducci e Lino D’Angelo, foto di Bruno Marsilii, la seconda, In vetta, a dx Bruno Marsilii, il precursore dopo Sivitilli, a sin. Clorindo Narducci, “Angelino” detto “Pijtte”, la terza, In vetta, con a sin. Clorindo Narducci e a dx Lino D’Angelo, succeduto a Marsilii, compagno fisso di cordata nell’apertura di nuove vie; ancora, la foto 8 agosto 2013, Il passaggio del “testimone” a Claudio Intini, in piedi a sin. con la consegna a lui da parte di Lino D’Angelo, in piedi a dx,del gagliardetto con piccozza simbolo del gruppo,  seduti l’allora sindaco di Pietracamela Antonio Di Giustino, al centro, e il presidente del C.A.I. dell’Aquila Salvatore Perinetti, a dx, e Il complesso “Le Galassie” nell’intrattenimento musicale della serata al Belvedere Guido Montauti; infine, Corno grande, la vetta, e Corno Piccolo, le Fiamme di Pietra; in chiusura, Pietracamela, il “nido d’aquile” incastonato nel verde alle falde del Gran Sasso.

Pietracamela, il “nido d’aquile” incastonato nel verde alle falde del Gran Sasso

Morlacchi. le facciate di Roma in un artistico cromatismo calligrafico

di Romano Maria Levante

Nella chiesa di Santa Rita vicino Piazza Campitelli a Roma come in un cortile di Piazza di Spagna, si è potuto  ammirare, di “Marcella Morlacchi il colore della città”, attraverso le sue riproduzioni minuziose  delle facciate dei palazzi su strade e piazze soprattutto di Roma ma non solo. Come nelle  miniature riproduce con precisione microscopica i particolari più minuti, comprese ringhiere e lampioni, pur in fogli di grandi dimensioni,  in uno stile calligrafico illuminato  da stesure cromatiche fedeli  e nel contempo suggestive. Nel  bel Catalogo troviamo  la sfilata delle splendide facciate romane e di altre sue opere  con saggi descrittivi sull’arte dell’autrice.

“Ogni volta che mi capita i trovarmi  di fronte a un disegno di Marcella Morlacchi, a quei fogli smisurati  sui quali riesce a rappresentare le facciate delle palazzate delle strade del centro storico di Roma, o addirittura lo spaccato dell’isola intera di Ponza, ogni volta mi chiedo: ‘Ma come farà s realizzare un disegno così? Qual è la prima cosa che fa, qual è il primo segno di matita, , e quando comincerà a precisare forma e proporzioni? E il colore? Quando stenderà la prima pennellata e come? Che matita usa, quale tipo di pennello, che qualità di carta?”.

Sono parole di Gaspare De Fiore, ma le facciamo nostre perché ci sono venuti spontanei gli stessi interrogativi,   colpiti dalla straordinarietà delle sue opere, nelle quali le facciate degli edifici  assumono una identità e una personalità come esseri viventi, l’identità è nel colore, la personalità è nei particolari architettonici resi con una precisione microscopica che non si traduce in freddezza topografica, tutt’altro.

L’aspetto architettonico e il livello artistico

Da ciò che scrive l’autrice sembra che non si renda conto dall’alto livello artistico raggiunto, interessata soprattutto all’aspetto architettonico, alla missione di tutelare l’immagine cromatica di Roma, “quel colore ambientale che conferisce ad ogni Centro Storico la sua particolare e irripetibile fisionomia”, come premette lei stessa.

E’ sorprendente come l’esigenza planimetrica abbia portato alla precisione millimetrica che rappresenta uno dei grandi pregi della sua opera, insieme con la resa coloristica che rappresenta l’altro elemento caratterizzante le sue riproduzioni  della realtà. Una realtà che , fissata con tanta precisione e accuratezza, diventa paradossalmente irreale, quasi fossero castelli fantastici e non gli edifici  che si incontrano girando per la capitale, magari senza guardarli,  con la superficialità indotta dalla vita quotidiana.

Al contrario l’autrice ne fa l‘oggetto di una ricerca quasi da laboratorio, servendosi di aerofotogrammetrie e di centinaia di immagini fotografiche  che riprende lei stessa e spiega che lo fa ” per realizzare l’effetto della profondità nello spazio e quindi della lontananza”‘.

Ecco come descrive il processo realizzativo: “Si parte dalle planimetrie aeree, le piante delle strade viste dall’alto. Attraverso un sistema di ingrandimenti  vengono  aggiornate ad una ad una, grazie alle centinaia di fotografie che scatta  per ogni edificio da un punto di vista privilegiato: i tetti”. Poi sul  lavoro artistico vero e proprio poche parole: “Poi la costruzione viene riportata in scala, disegnata nei minimi particolari  e infine colorata ad acquerello” .

Sul rilievo fotografico è straordinaria la cura nel procedere a foto ravvicinate, per ogni edificio, dal piano terra ai piani superiori fino alle coperture. E nel darne conto non manca di accennare alle difficoltà incontrate: “Per questa operazione di rilevamento fotografico è emersa- notevolissima . la difficoltà di accedere al piano di copertura dei vari edifici: accesso necessario e inderogabile , peraltro, per ‘vedere’ (e fotografare quindi) lo stato di fatto , per poi rappresentarlo graficamente”.

Il procedimento seguito nel disegno prospettico e nel cromatismo

A  questo riguardo ci viene da sottolineare l’indicazione “disegnata nei  minimi particolari” , che porta l’attenzione su questa fase del procedimento; sono due parole, “minimi particolari” che sottendono un lavoro di precisione che ha dell’incredibile per la miriade di .particolari ripresi   e fedelmente riprodotti. “Il diavolo si annida nei particolari” è il ben noto avvertimento, qui  dai particolari nasce l’incredibile visione  offerta all’osservatore. l'”infine viene colorata ad acquerello” evoca, con lo stesso tono minimalista, l’operazione principale, come dice l’artista: “Ma il mio interesse principale è indirizzato particolarmente al colore della città che dà vita e significato ai disegni”.

Un colore che non si è accontentata di cogliere soltanto attraverso le fotografie, per la consapevolezza che i contrasti di  luce possono falsarlo: “Quindi ho operato direttamente sul posto, controllando via via il colore di base, e curando in particolare di segnalare sul disegno  il posizionamento di macchie di muffa, scrostature, colature, etc., riportando, il più fedelmente possibile, lo stato di fatto”.E per meglio rendere la resa cromatica delle facciate a quarzo plastico alquanto diffuse,  ha associato la tempera all’acquerello: “L’acrilico  infatti impedisce l’effetto trasparente dei colori ad acqua, e pertanto la tempera si abbina perfettamente all’acquerello, per la resa opaca e omogenea del colore”.

Un impegno costante per la tutela dell’immagine urbana

L’autrice non pensa all’arte ma alla tecnica, del resto si muove in un campo professionale. E’ architetto e docente universitaria che fin dal 1984 ha svolto, nel Dipartimento di Rappresentazione e Rilievo della Facoltà di Architettura di Roma, uno studio sul colore della città per la salvaguardia del valore cromatico e ambientale delle strade e delle piazze  del centro storico di Roma, attraverso il rilievo delle cortine edilizie.

E’ seguita la redazione del Piano del Colore dell’isola di Ponza nel 2000, il “Piano di Tutela dell’Immagine dell’area urbana del Municipio II del Comune di Roma: Piano del Colore e Piano dell’Arredo urbano” tra il 2004 e il 2006, è stato approvato nel 2008, poi dopo Ponza viene Ventotene, con il Piano del Colore nel 2006. 

Tornando a Roma, la vediamo incaricata di rendere l’immagine della città vista dall’alto del Vittoriano, risultato, 4 vedute panoramiche di 2,40 m x 0,80 collocate nella terrazza del Vittoriano vicino ai grandi cannocchiali. 

Per il 150° dell’Unità d’Italia, una delle 4 vedute è divenuta un francobollo commemorativo. E poi altri lavori come il rilievo grafico cromatico  della Rocca di Vignola, i suoi acquerelli sono stati proiettati sulle pareti della Rocca nel 2015. Molteplici e le sue pubblicazioni in materia di architettura soprattutto  sul tema del colore rispetto  alla città e alla tutela dell’immagine urbana.

Perché abbiamo riportato questi particolari professionali della biografia dell’autrice?  Perché ci intriga la correlazione tra tecnica e arte, che in misura larvata esiste anche negli artisti senza specializzazioni professionali, per il fatto stesso di utilizzare materiali dai quali trarre gli effetti voluti, nell’escalation dell’atte di Van Gogh ha avuto un ruolo anche la scoperta di colori particolarmente brillanti, e così per tanti grandi artisti. Ma qui il discorso è diverso, una grande professionista riesce a sorprenderci sul piano artistico mentre opera a livello professionale.

L’acquerello, tecnica difficile dai risultati incomparabili

E la spiegazione è semplice, le sue non sono planimetrie tecniche, ma disegni ad acquerello che, come afferma Mario Docci, “con le sue vibrazioni e le sue trasparenze, consente di ricreare atmosfere difficilmente raggiungibili con altre tecniche pittoriche”. Tanto che, dopo aver lamentato l’esclusione dell’acquerello dal piano di studi universitari sull’onda iconoclasta della contestazione del ’68, si sfoga così: “A partire dagli anni ottanta, mi sono posto più volte questo problema  senza trovare una soluzione, finché un giorno, vedendo alcuni disegni di Marcella Morlacchi, capii che lei poteva riprendere il dialogo con l’acquerello”.

E non è poco,dato che l’acquerello è una tecnica che presenta particolari difficoltà “e può essere utilizzata solo da chi ne è in possesso”. Difficoltà che nascono da una serie di peculiarità, così descritte da Docci: “Com’è noto l’acquerella non consente ripensamenti, come altre tecniche pittoriche; infatti occorre che l’artista, dopo aver tracciato con la matita l’impianto della rappresentazione, proceda senza esitazione, stendendo prima le velature delle zone più chiare e poi quelle delle zone più scure fino agli ultimi rapidi tocchi finali , ma avendo cura di lasciare intatto, fin dall’inizio, con accorta perizia, il bianco della carta per ottenere i punti di massima luminosità”.

Viene citato il legame tra la scuola romana e quella inglese dell’acquerello nella seconda metà dell’800, con gli artisti del “grand tour”  romano, con i loro epigoni quali Mariano Fortuny, Enrico Coleman e soprattutto Ettore Franz  con le sue vedute della Roma ottocentesca, Non viene citato Turner che non ha riferimenti con i “grand tour” ma nell’acquerello è un maestro insuperabile.

Il collegamento con la Morlacchi viene trovato nella figura di Angelo Marinucci come “continuatore ideale” dell’opera  Franz ma con una variante decisiva, Roma vista non con “l’occhio romantico del viaggiatore” alla ricerca di scene bucoliche ma  con l’occhio dell’architetto che “‘legge’ la struttura della città”. E Marinucci è stato a lungo docente  nella facoltà di architettura alla quale appartiene la Morlacchi.

La sua impronta tecnica si vede nella perfezione delle proporzioni architettoniche e nel “dialogo” tra gli edifici che delimitano strade e piazze, l’impronta artistica nello stile calligrafico e nel magistrale cromatismo. Così conclude Docci: “I suoi fronti stradali di alcune storiche vie di Roma , costituiscono oggi un punto di riferimento  e materiale di base per tutti coloro che si occupano dello studio del colore di Roma, ma anche la rappresentazione di alcuni spazi straordinari, come Piazza Navona, o prospetti di edifici come Villa Giulia, che a mio avviso costituisce un pezzo di straordinaria bravura, dimostrano il livello qualitativo raggiunto dalle sue ricerche sul colore attraverso l’impiego dell’acquerello”. Del resto è stata premiata dall’Unione italiana per il disegno.

L’arte unita alla tecnica con l’apporto del colore

Consideriamo quelle che vengono definite “icone della città” attraverso la sua “architettura del colore” sulla base del giudizio di Elio Mercuri che ha coniato queste definizioni per l’opera della Morlacchi della quale dice: “Scienza e arte – scuola e professione. E’ vero che figure così autonome e originali, toccate dalla creatività poetica, strutturate dal rigore della scienza, impegnate nella scuola come formazione e ricerca, si saldino, come in Marcella Morlacchi, in una grande erica professionale”.

E, ancora più direttamente: “Ha così elaborato una metodologia e una tecnica del rilievo cromatico come strumento di memoria e di conoscenza, di un rigore assoluto di scienza, là dove la scienza nella sua creatività sconfina e si incarna nell’arte, che poi costituisce l’esperienza artistica, la forma più alta e compiuta di conoscenza…”.Non l’ha solo elaborata, l’ha anche adottata con quella che Gianfranco Ferroni ha definito una monumentale indagine scientifica, sul territorio, analizzando, edificio per edificio, le cromie che caratterizzano il panorama architettonico capitolino… Tanti piccoli e grandi segreti vengono svelati con un rigore che ricorda i fasti dell’Illuminismo”. Così ci offre , secondo la definizione di Ludovico Pratesi, “una strada ‘al taglio'”, con tutto il resto..

La Morlacchi non fa mai il minimo riferimento all’aspetto artistico, è troppo impegnata nella difesa attiva dell’immagine urbana attraverso la tutela  del suo  colore  minacciato  dai restauri cromatici degli edifici volti a “ringiovanirli tramite una nuova tinta”  e non a “ripristinarli in modo corretto restituendoli semplicemente alla primitiva immagine cromatica”, come ritiene sia doveroso.

I suoi prospetti dal cromatismo particolarmente curato si basano su un’analisi approfondita delle componenti strutturali delle facciate, individuati nel travertino – con la “cortina valadieriana” ottocentesca-   e nel laterizio, con aggiunta in casi particolari del peperino grigio-azzurro”in una sapiente tricomia”. Sono materiali pregiati che nelle parti non visibili dei maggiori edifici  e nell’edilizia povera vengono imitati con intonaco o stucco “sui quali un magistrale velo di scialbatura annulla del tutto la differenza tra vero e simulato”. La compresenza del  bianco dorato del travertino e del rosso mattone del laterizio fa dare  l’appellativo di “Roma, città rosa”, mentre sono episodici e legati al ‘700 il “dolce color d’oriental zaffiro” e il “color aria” (“gris de line” o “pavoncello”) .

“L’effetto illusionistico ottenuto permetteva così di realizzare, per questa edilizia, una architettura di apparenza prestigiosa… Oggi, negli edifici ‘restaurati’, viene negata in tutti i modi la presenza  di quegli ordini architettonici in travertino e di quei fondi in laterizio; l’armoniosa biocromia scompare…”.

E la Morlacchi spiega in modo estremamente dettagliato  con tutti i particolari tecnici,  come questo si stia verificando in pratica. “Ma noi non abbiamo alcun diritto di cambiare i valori cromatici degli ordini in rapporto ai piani di fondo, perché una superficie architettonica non è come un abito intercambiabile secondo la moda o il gusto”.

Proprio questo è l’oggetto della sua contrapposizione a questo inaccettabile degrado, che non si limita alla denuncia, ma rassicura affermando che “non è poi tanto difficile curare con amore e sapienza,  ed eliminare quindi – le piaghe che stanno distruggendo la pelle dei suoi edifici”. E fornisce l’uovo di Colombo risolutivo: “E’ un procedimento elementare , che evita o rende minimo qualsiasi errore interpretativo ed inoltre di semplice attuazione: si tratta infatti solo di restituire al materiale di superficie (vero o simulato che sia) il suo tono originari”. Ma occorre “amore e sapienza”, e la Morlacchi ne dispone certamente, non sappiamo quanti altri ce ne siano come lei.

I “luoghi iconici”  nei prospetti grafico-cromatici della Morlacchi

E‘ giunto il momento di una rapida rassegna delle sue opere, riferiti a luoghi celebri a tutti noti, ma visti in modo diverso, più penetrante e rivelatore.

Si inizia con i “rilievi grafico-cromatici di strade e piazze storiche”, con i prospetti degli edifici prospicienti i due lati delle “Strade”, la prima sezione della nostra rassegna: Via Giulia e Via dei Coronari, Via del Corso, Via del Babuino e Via di Ripetta,  passando per il Lungotevere, Piazza delle Cinque Lune e Piazza dei Coronari, fino a Piazza Venezia e a Piazza del Popolo. E’ un’impressionante sfilata di edifici miniaturizzati in modo magistrale, opera realizzata tra il 1988 e il 1991, a suo tempo pubblicata dalla rivista “Roma Ieri Oggi Domani”, e presentato dall’autrice come base per il Piano del Colore della Città Storica.

Ci si avvicina ancora dio più ai palazzi con la serie delle “Piazze”, ancora più spettacolare per i primi piani che ne valorizzano la monumentalità, con le straordinarie teorie di finestre, anche  con trabeazioni, cupole c scorci paesaggistici, da Piazza Navona a a Piazza del Popolo, con le sue chiese gemelle e la terrazza del Pincio, Piazza Colonna con i colonnati della storica omonima galleria intestata ad Alberto Sordi, Piazza san Silvestro e l’artistica facciata delel poste centrali, Piazza Sallustio con la sezione pittorica degli Orti Sallustiani.

E il poker d’assi finale: Piazza di Spagna nei diversi fronti,con le guglie, l’obelisco e i pini, nella sezione verso il Quirinale il profilo della celebra scalinata con la straordinaria sovrapposizione di un primo piano con intenso cromatismo e nello sfondo, peraltro ravvicinato, il palazzo della Presidenza della Repubblica su cui svetta il tricolore, artisticamente velato,. Piazza San Pietro con l’eccezionale rilievo prospettico della Basilica, la cupola, il colonnato e la teoria di statue  mirabilmente cesellate; Piazza Montecitorio con il fronte del Parlamento e il prospetto verso l’Obelisco, questa volta una teoria di palazzi con l’Obelisco e la cupola sullo sfondo. 

Al culmine le “vedute a volo d’uccello”  dal Vittoriano, Roma vista dalle Quadriglie con straordinari scorci panoramici, dal Teatro di Marcello al Pantheon, da Montecitorio al Quirinale,  dal Quirinale al Colosseo,  dal Colosseo al Campidoglio al Tevere, uno spettacolo che i visitatori possono ammirare dalla terrazza dell’Altare della Patria.

La Morlacchi non si ferma qui, ed è già tanto. i suoi prospetti artistici si estendono alle Ville e ai Casali, ai Complessi architettonici e alle Isole. E qui entra in campo maggiormente l’ambiente con la vegetazione. Vediamo i casali del conte Vaselli con il colore di cotto nel verde degli alberi e della campagna.

Dai casali alle Ville panoramiche, da alcune terrazze del centro di Roma si dispiega un panorama punteggiato del verde che a Roma è abbastanza diffuso.

Uscendo da Roma, a Grottaferrata  l’Abbazia di San Nilo, il profilo B è schermato dal filare di alberi. Visione spettacolare di tipo diverso quella delle isole, da Ventotene a Ponza,  i colori mediterranei nei propetti non più di edifici allineati come per Roma, ma di aggregati urbani  che si arrampicano, soprattutto per Ponza, in queste opere ha un ruolo importante l’evidenza del rilievo.

L’inesauribile vena della Morlacchi la fa interessare anche alle stampe storiche, in particolare per il Centenario di Roma Capitale ha fornito l’interpretazione cromatica ad acquerello e tempera di una celebre incisione ottocentesca sulla Repubblica romana, come di stampe d’epoca e soprattutto del Prospetto dell’Alma città di Roma di Giuseppe Vasi del 1765, un pannello lungo 3 metri per 1,20 di straordinario interesse artistico che si aggiunge al valore storico della stampa originaria.

Finora abbiamo citato serie di opere importanti per la loro origine e la loro destinazione, l’origine è la volontà di documentare un aspetto urbano primario, “i colori” della città, la destinazione la tutela dell’immagine cromatica della città con appositi piani di intervento e procedimenti.

L’intimità raccolta degli schizzi prospettici

Ora ci piace concludere questa rassegna con opere più personali, diremmo intime, nelle quali la Morlacchi – che nelle opere descritte finora ha espresso la sua maestria dall’indubbia caratura artistica – rivela la propria sensibilità: sono i suoi “Schizzi prospettici”, non più miniature di grandi dimensioni, e non è una contraddizione,  di edifici visti da lontano, ma primi piani di luoghi visti da vicino e resi con l’immediatezza dell’attimo fuggente al posto della precisione documentaria.

Ed ecco le piazze,come Piazza San Giovanni della Malva, ripresa nel 1979  con la pavimentazione in sanpietrini e due auto in sosta, il cromatismo delicato nell’atmosfera raccolta;  e Piazza Campo de’ Fiori, non si vede il monumento a Giordano Bruno “lì dove il rogo arse”,  non è un’immagine da cartolina, ma uno scorcio”la domenica dopo il mercato”, in primo piano un carretto con i rottami di una bancarella, delle auto in sosta; sullo sfondo la cupola di Sant’Andrea della Valle; alla chiesa di “Tosca” dedica un apposito scorcio non della facciata monumentale, ma del retro seminascosto da un edificio, è come se la scoprisse all’improvviso.

Come per  il “Lungotevere verso Tor di Nona”, con l’albero scheletrico che protende i rami spogli sulla sinistra, il parapetto di fronte, come in una passeggiata solitaria. Anche Ponte Sant’Angelo, del 1976, e San Giorgio al Velabro sono visti nel modo che abbiamo definito intimo e raccolto: il primo luogo è ripreso dalla strada con la coda di un’auto che passa rendendo il dinamismo della città, sulla sinistra la grande statua dell’Angelo sotto la quale in una magistrale contrapposizione siede quasi accasciato un minuscolo vecchietto; il secondo luogo, la facciata inquadrata sotto un arco, evidenziato che si tratta di un passaggio  pedonale.  

Pure l’ inquadratura dell’Isola Tiberina – incorniciata dai rami nella visione  spettacolare della lingua di terra con il grande edificio dell’Ospedale Fatebenefratelli e il ponte che la collega alal città nello sfondo a sinistra – la sentiamo vicina, sembra di poter entrare nell’acqua. 

Ma poi soprattutto i vicoli, vicolo Sforza Cesarini e vicolo del Cedro, vicolo del Gallo e vicolo del Paradiso, con le auto in sosta o i sanpietrini fanno sentire una partecipazione emotiva coinvolgente e contagiosa.

Per questo i suoi schizzi prospettici vengono definiti da Elio Mercuri “fedeli documenti di una realtà e al tempo stesso rinvii  sa qualcosa che è stato d’animo e segreto desiderio di ritrovamento di uno spazio e di luoghi, soprattutto  di un modo di vivere, di essere in rapporto alla città…” Ma non intende  perpetuare una “Roma sparita”, bensì “le forme e la presenza di un  proprio sentimento, di un  proprio bisogno  di ritrovamento e di memoria; di un proprio atteggiamento”, quello che tutti vorremmo avere. Perché “sono aspetti e tracce del nostro desiderio di vivere, in un mondo, che è storia e natura, così come divengono architettura e città, ma soprattutto paesaggio e visione dell’animo”.

Una visione che per l’artista ritroviamo oltre agli schizzi prospettici intimi e raccolti, nei rilievi grafico-cromatici delle immagini della città e nelle vedute dall’alto a volo d’uccello. C’è alla base un grande amore per Roma, il desiderio di viverla da vicino e insieme di ammirarla da lontano. Chapeau!

Info

Catalogo: Marcella Morlacchi, “Il colore della città. Il rilievo cromatico per la tutela della bellezza urbana”,  Gangemi Editore, ottobre 2015, pp.80, formato  22 x 24,  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

Foto al femminile 1965-2018, “l’altro sguardo” al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La mostra ““L’altro sguardo. Fotografie italiane 1965-2018”  presenta, dall’8 giugno al 2 settembre 2018, al Palazzo Esposizioni, circa 200 immagini scattate da fotografe donne raccolte da Donata Pizzi –  che ha lavorato da sempre in questo campo ed è fotografa essa stessa – in una collezione che va dai fotoreportage di inchiesta e denuncia  fino all’astrazione fotografica. La mostra, promossa dall’Assessorato alla crescita culturale del Comune di Roma, e organizzata dall’Azienda Speciale Palexpo, è a  cura di Raffaella Perna che ha curato anche il Catalogo  della Silvana Editoriale.

Sono  diversi i motivi di interesse per una mostra d’arte inconsueta, non perché sia fotografica – la fotografia è e entrata da tempo nel novero delle arti – ma perché è declinata al femminile e imperniata sulla collezione che Donata Pizzi ha raccolto con cura a partire dagli  anni ’60.

La Pizzi è una valida professionista, fotografa anch’essa, autrice di libri fotografici che ha lavorato anche all’estero in primarie agenzie fotografiche, e questo è una garanzia per la qualità delle sue scelte sotto il profilo tecnico. Ma  qual è il criterio seguito nella selezione, e  soprattutto la molla che l’ha spinta a iniziare la raccolta?

E’ lei stessa a spiegarlo in un’intervista alla curatrice  Raffaella Perna dopo aver detto di essersi accorta del fatto che la fotografia italiana era rimasta isolata rispetto all’evoluzione del mercato europeo sulla scia di quello americano sebbene alcuni nostri fotografi fossero affermati sul piano internazionale: “Ho pensato quindi di dimostrare attraverso la mia collezione  che una fotografia italiana esiste, e che è doveroso prenderne atto e promuoverne le specificità e il valore “.

Ma non si è fermata a questo: “Ho pensato inoltre di limitare l’ambito della collezione alle fotografe perché sono state le più penalizzate dai ritardi  del sistema, nonostante abbiano saputo individuare linee di ricerca nuove e inattese, a cui mi sento affine e che condivido”. Sulla eventuale differenza tra lo “sguardo” della fotografa femminile  e quello maschile, dopo aver citato l’espressione di Lucy Lippard, “l’arte non ha sesso, ma l’artista sì”, afferma: “Nelle opere che ho acquisito ritrovo, pur con declinazioni diverse, un inedito desiderio di sfidare le convenzioni sociali, visive e linguistiche e uno sguardo coinvolto e partecipe, capace di comprendere a fondo storie e passioni umane”.  

Originale anche il criterio adottato, non si è limitata a raccogliere le opere fotografiche, ma è entrata in contatto con le fotografe per seguirne l’attività, e la stessa selezione delle opere nell’ambito della loro produzione da inserire nella collezione è stata fatta con la loro collaborazione  per individuare quelle più significative. E’ stata formata  così “una rete all’interno della quale  si è delineato un percorso cronologico” della durata di 50 anni, nei quali sono stati documentati i grandi cambiamenti nella società. Il tema dell’identità, comunque, si ritrova sia nelle opere degli anni ’60 sia in quelle più recenti, è una costante. 

Il ritardo delle donne nell’accedere a questo settore professionale, come a tanti altri, è cessato con l’apertura sempre più ampia, come una diga che è crollata e ha consentito di esprimere i talenti prima repressi delle fotografe, subito attirate dalle grandi questioni sociali e politiche, in certi periodi dei veri drammi nazionali,  sulle quali si è riversata la loro sensibilità, “l’altro sguardo”.

D’altro canto, nella prima parte del ‘900.quando le donne non erano ancora emancipate, i fotografi  maschi snobbavano le istantanee che miravano soltanto a coglievano l’evento,  dato che avevano pretese artistiche, cercando di imitare i pittori, di qui il cosiddetto “pittorialismo” fotografico. uindi lasciavano uno spazio che fu colto con lungimiranza anticipando tendenze attuali, FCederica Muzzarelli, a proposito della “donna e la fotografia”  sottolinea che “questo atteggiamento anticipatorio  e rivelativo della  concettualità fotografica poteva concentrarsi e trovare definizione attorno ai due nuclei tematici del corpo e dell’azione” come avviene anche oggi.

La collezione presenta le principali protagoniste di questa rivoluzione femminile in campo fotografico esplosa mentre al fotoreporter   veniva data la qualifica di giornalista e l’attenzione verso la realtà viva del paese cresceva dinanzi alle lotte politiche e sociali, il terrorismo  e la strategia della tensione, le radicali trasformazioni nel tessuto economico e sociale del paese con l’emigrazione interna e l’urbanesimo, la condizione degli emarginati di ogni categoria.

Nella mostra ritroviamo l’espressione visiva di tutto questo con la galleria di opere di circa 60 artiste con 200 scatti,  ognuna presenta diverse immagini, un piccolo “reportage”.. Sono presentate in 4 sezioni tematiche, nelle quali dalla testimonianza e dalla denuncia di “Dentro le storie” si passa alla  “provocazione” insita in “Cosa ne pensi tu dei femminismo”, poi all’orgogliosa riaffermazione di “Identità e relazione” fino all’evoluzione artistica verso l’astrattismo di “Vediamo oltre”. Diamo un rapido sguardo a ciascuna sezione, per incrociare “L’altro sguardo” delle fotografe espositrici.

Dentro le storie

Scorriamo la 1^ sezione con circa 70 foto, cominciando con Lisetta Carmi, per sottolineare la ricerca dell’emarginazione e della violenza da denunciare, dalle favelas venezuelane ai sotterranei parigini. Dal 1965 si interessa degli emarginati dalla famiglia e dalla società, a partire dai travestiti,  e non si limita a fotografarli nei suoi toccanti reportage  ma li va a trovare con lo psicanalista Elvio Facchinelli intrattenendo con loro un rapporto molto umano. Sono esposte 6 immagini riprese tra il 1966 e il 1970, pubblicate con le altre scattate in quel periodo, nel volume “I travestiti”, in bianco-nero e a colori  con figure femminili riprese in una intimità che sottolinea la prodonda solitudine.

Tutt’altro per le foto di Elisabetta Catalano, Maria Mulas e  Chiara Samugheo che invece documentano incontri con persone celebri, da Talitha Getty con Giosetta Fioroni, a Peggy Guggenheim e Valentina Cortese.

Anche Carla Cerati  presenta scene di società gaudente, con  Umberto Eco e Inge Feltrinelli all’inaugurazione di M.A.R.C.O. e Willy Rizzo con Nucci Valsecchi all’inaugurazione del loro negozio, tutti ridono beati. ma in parallelo la stessa fotografa mostra l’altra faccia della luna, quella nascosta, con 3 immagini scattate nell’ospedale psichiatrico di Gorizia,le espressioni starvolte e sofferenti dei malati  stringono il cuore.

Gli “stati psicopatologici” sono l’oggetto del “reportage” di Lori Aammartino, 8 immagini con le espressioni più diverse del volto accompagnate dalle mani  in tante posiziobi,  geniale!

Si va sul politico con Elisa Magri,  da “Nigger” a “Kennedy”, da Cuba” al “Vietnam”; e ancora di  più con Augusta Conchiglia, con 8 immagini sulla guerriglia in Angola, che vanno dagli aspetti militari con le giovani reclute armate e le perlustrazioni  a quelli civili come la campagna di alfabetizzazione e la distribuzione di medicine.

Torniamo all’emarginazione con Paola Agosti, ma di tutt’altra natura, è quella delle aree economicamente depresse, siamo nelle Langhe, dal  1977 al 1990 ,scene  di squallore di una famiglia, fanno parte della serie “Immagini del ‘mondo dei vinti'”, libro fotografico pubblicato nel 1977 dopo che nel 1977 Nuto Revelli pubblicò “Il mondo dei vinti”,con racconti sulla povertà delle campagne del Nord, un mondo in via di sparizione che la Agosti, colpita da quelle storie, volle subito esplorare; fino a seguire 20 anni dopo le famiglie piemontesi emigrate in Argentina e darne conto nella serie “El Paraiso: entrada provvisoria”,pure alcune di queste immagini sono in mostra.

Dall’emarginazione alla violenza politica  riflessa nelle fotografie di  Giovanna Borghese sulle ragazze di Prima linea dietro le sbarre e su  Sindona che prende un caffè, non quello che lo uccise in carcere ma il riferimento è evidente, sul primo terrorista pentito Patrizio Peci in tribunale e la banda Cutolo ammanettata,  gli anni di piombo e la delinquenza camorristica in evidenza.  Violenza questa volta ripresa direttamente e non solo riflessa negli scatti di Letizia Battaglia: rivediamo  la tremenda scena dell’omicidio di Piersanti Mattarella con il fratello Sergio, l’attuale Presidente della Repubblica che lo prende in braccio portandolo fuori dall’auto dove è stato colpito a morte, e il triplice omicidio a Palermo, questa volta in un interno con tre corpi riversi o a terra, mentre un manifesto gioioso alla parete crea un contrasto drammatico. “La bambina e il buio” è un’immagine simbolica che accompagna  queste scene, il buio della ragione con i mostri generati e l’innocenza.

Nei primi anni ’90  troviamo le immagini sorridenti  della serie Piedras Negras di Lina Pallotta,mentre nella seconda metà del decennio  Isabella Balena nella serie “Questa guerra non è mia” presenta i muri colpiti dai proiettile a Mostar, poi salta al 2011 e 2013 con i profughi di Lampedusa e non solo.  ad altri profughi.  Mentre Francesca Volpi documenta nel 2016 la guerra in Ucraina con due immagini forti, un morto coperto da un telo e una famiglia nel rifugio antiaereo-

Ritratti in posa veri e propri con Elena Givone, Michela Palermo e Serena Ghizzoni,dal 2007 al 2016,  a colori e molto curati, c’è anche un fiore, quasi un ritorno al pittorialismo. Sbrigative, invece, le foto di Allegra martin, una quotidianità  “Senza titolo”. 

Cosa pensare del femminismo

Intrigante a partire dal titolo la 2^ sezione, nella quale, in 35 foto,  si esprime – osserva  la curatrice Raffaella Perna –  “l’uso militante e politico della fotografia, concepita come strumento per raccontare la realtà attraverso l’assunzione di uno sguardo sessuato  che esplora le differenze di genere”. E come fanno questo?  “Per queste autrici la fotografia è un mezzo per costruire  relazioni, scambi e nuove strategie di espressione del femminile” , ed è usato oltre che per smontare gli stereotipi di genere, “sia per esplorare i nessi tra corpo e identità femminile, sia per rivendicare le istanze del vissuto a partire dalla consapevolezza che ‘il personale è politico’”, uno slogan del ’68.

Guardiamo come questo si traduce nelle fotografie esposte, cominciando da quella che ha dato il titolo alla sezione, “Cosa ne pensi del movimento femminista”, la foto del 1974  di Paola Mattioli che ritrae una scatola di cipria con l’immagine di un raduno femminista e in fondo uno specchietto nel quale, secondo l’autrice, il padre, cui era destinata, avrebbe vista riflesso il proprio volto e quello delle femministe del raduno  “ricambiandone lo sguardo”, in modo da essere portato a meditare sulla propria posizione verso il femminismo.

Da questa elucubrazione alquanto criptica  alle plateali rivendicazioni tra il 1970 e il 1973, di Agnese di Donato che in “Donne non si nasce, si diventa” presenta l’immagine in primo piano della giovane donna realizzata e sicura di sé che avanza gridando con il pugno alzato mentre dietro lei nella foto da bambina timorosa; e in “Chi era costui?” mostra l’uomo-oggetto  con il corpo nudo o con la pelliccia dato in pasto alla pubblicità come avviene  purtroppo sistematicamente per il corpo delle donne. Mentre il “New feminism” di Marinella Senatore, del 2016, mostra una “majorette” su un panno giallo-rosso, con altre piccole figure e un bambino, l’effetto cromatico è assicurato.

Liliana Bianchesi documenta le manifestazioni femministe ma al contempo nella serie  “Le casalinghe” riprende  il lavoro domestico con immagini di tutt’altro segno. Anche Nicole Gravier  , nella serie “Miti e cicli, fotoromanzi” entra in modo allusivo nella quotidianità della donna.

Dalle immagini tradizionali sull’amore di Tomaso Binga a quelle da decifrare di Lucia Marcucci, un grande disco telefonico tra le mani con un bel sorriso da un lato, un disco  con la celebre istantanea di Kennedy e a lato Jacqueline nell’abito rosa sull’auto dell’attentato e la scritta a mano “felici e contenti” preceduta da “vissero” cancellato con un tratto di penna. Terribile !!

Meno angosciosa, il che è tutto dire, la serie “Le streghe” di Libera Mmazzoleni con “Il bacio” e “Il volo” in cui la figura femminile fotografata è tra figure disegnate come nelle xilografie.

Lineare  “L’invenzione del femminile” di Marcella Capagnano, con  tre espressioni di “regalità Line”, e “Fiore rosso” di Verita Monselles, c’è il fiore con  un bel corpo nudo e un drappo rosso.

Abbiamo iniziato a commentare la sezione citando Paola Mattioli  e concludiamo con la stessa autrice, come fondatrice del gruppo “Ci vediamo mercoledì’‘, una sorta di collettivo fotografico le cui componenti operavano sia individualmente che in coppia, e comunque si avvalevano di esperienze comuni,  incontrandosi nel giorno fissato per  confrontare i rispettivi lavori e discuterne. Ne venne il volume “Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo” dal quale sono tratte le immagini esposte, della Mattioli, Diane Bond, Silvia Truppi, e Bundi Alberti. Adriana Monti e Mecedes Cuman, Ci sono strisce quasi da pellicola cinematografica,  con figure efemminili e ombre, visi e figure.

Identità e relazione

La 3^ sezione è alquanto “concettuale”, per così dire, con 35 foto e una serie di altre 33. E imperniata sui temi legati all’identità e al corpo in un’attenzione alla “storia familiare, il quotidiano, l’affettività e la memoria individuale, concepita, quest’ultima, come momento cruciale per entrare in relazione con l’altro ne con la storia collettiva”, sono parole della curatrice Perna.  Non ci si preoccupa della resa estetica dell’immagine, quanto della resa emotiva ed evocatrice.  

Il diapason lo tocca Moira Ricci  che nella serie  “20.12.53. 10.08.04” e simili, inserisce la propria immagine in vecchie foto di famiglia con la madre, quasi a voler rendere attuale il  passato, si inserisce anche tra i genitori in viaggio di nozze, commovente come guarda la madre mentre stira.

Interni moderni riferiti anch’essi al passato nelle immagini di Alessandra Spranzi, mentre Daniela Esposito esprime il sentimento filiale con una collana  i cui capi sono stretti   tra i denti suoi e della madre, Bruna Ginammi in “Ritratto di mia madre” si ritrae quasi distesa sulle sue ginocchia, e Anna di Prospero un autoritratto con la madre che scherza con lei chiudendole gli occhi.  Giada Ripa, invece,   presenta due figure tatuate, un nativo e un bel nudo di giovane donna.

Volti da Giulia Caira e Malena Mazza  e negli scatti di Polaroid di Irene Ferrara con “Ho preso le distanze”,  sono 33, i visi in primo piano sono metà, le altre foto con figure in campo lungo. ma i volti sono coperti da un rettangolo bianco da Marina Bacigalupo, in realtà mancano perché tagliati dalla figura per essere usati come foto tessera dato che la macchinetta per questo servizio ne faceva 4 e i clienti per risparmiare chiedevano una foto sola di cui veniva preso il volto in un fototessera più economica, l’autrice li ha trovati nel più antico studio fotografico di Gulu  nel nord dell’Uganda. Risultato? Senza il volto l’attenzione è presa maggiormente dai particolari della figura che in “Dittici” di Paola Petri passa quasi inosservata nella sua normalità, cappotto e mani in tasca. . La figura si nota, eccome nelle 3 immagini di Betty Lee, ritraggono una fanciulla discinta e procace. 

Vedere oltre

L’ultima sezione “va oltre”  con 30 foto più una serie di 15, nel senso di superare anche i limiti del mezzo fotografico per aprirsi ai video e ad altre forme, siamo in tempi in cui non  si cerca più di accreditarsi come forma d’arte pittorica;  d’altra parte la pittura e le altre arti figurative tradizionali sono sconvolte dall’irrompere delle installazioni, e dall’arte concettuale in merito ai contenuti.

Particolarmente significativa a questo riguardo l0opera “Lucciole” di Paola Di Bello, non si tratta di una fotografia con la fotocamera, la lastra fotografica è impressionata direttamente dalla luce di  25 lucciole prese in campagna e fatte strisciare sulla pellicola in bianco e nero; l’immagine si forma nel contatto con la realtà senza intermediazione e nella realtà ci sono gli esseri di cui Pasolini aveva lamentato la scomparsa e l’autrice vuole forse certificare non solo l’esistenza ma la resistenza.

Altra opera che viene evidenziata è quella di Rà Di Martino, un video realizzato intorno a una foto d’archivio che risale alla Grande Guerra, dei civili che guardano un finto carro armato, di quelli usati come deterrente verso il nemico, il video al finto carro ne fa seguire uno vero che passa per le vie di Bolzano. La mente ci torna al “dummy tank” dei nostalgici leghisti veneti irredentisti della “Serenissima” che per un trattore trasformato in carro armatosi sono fatti anni di carcere, la finzione è stata presa per realtà e hanno subito la pena prevista per i veri movimenti insurrezionali.

Le opere esposte di Marialba Russo e Silvia Camporesi sono immagini  oniriche, come “L’incanto” e sfumate come “L’isola di San Michele”, anche “Pompei” di Cristina Omenetto è una visionemolto particolareDi Sara Rossi a3 immagini di edifici, mentre di Ga Casolaro un interno buio con una finestra che si affaccia su un parcheggio fitto di auto in sosta. E poi 3 volti che si dipanano da un corpo di Monica Carocci, suo anche uno scheletro appeso, di Francesca Catastini “Medusa”, un corpo femminile di profilo visto in controluce con l’animale marino nello stomaco.

Per il resto gli  oggetti  di Claudia Petraroli, Francesca Rivetti , Bruna Esposito e Raffaella Mariniello, e le astrazioni geometriche di Marzia Migliora e Luisa Lambri, Vittoria Gerardi e Grazia Todaro. La mente è tornata alla fotografia astratta, anche più sofisticata, di De Antonis.

La curatrice spiega così  queste visioni così diverse e sorprendenti: “La natura apparentemente oggettiva e ‘fredda’ della fotografia viene usata per rappresentare storie, percezioni e ambienti con un forte tasso di coinvolgimento personale”.  E usata per questo scopo “la fotografia non è autoreferenziale e fine a se stessa, ma è un modo per porsi in diverso rapporto con il mondo, adottando un punto di vista nuovo e uni sguardo altro”. La fotografia astratta è stata considerata perfino maggiormente aderente alla realtà di quella figurativa che fissa artificiosamente l’attimo mentre poi tutto cambia e viene espresso con l’astrazione meno che mai con l’istantanea,  Anche queste riflessioni nascono da una mostra  “sui generis”,  ma quanto mai attuale e coinvolgente.

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

Cina, la pittura a olio dell’Occidente nella “Risonanza cinese”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra “Risonanza cinese. Esposizione Itinerante Internazionale della Pittura a Olio Cinese”,  fa tappa in prima assoluta in Italia, al Vittoriano, ala Brasini,dal 19 luglio al 9 settembre 2018,  con oltre 150 opere di 62 artisti, dopo le esposizioni in Cina al Museo dell’Accademia delle Belle Arti Hangzhou e a Parigi al Palais Brongniart. E’ a cura di Claudio Strinati, Nicolina Bianchi e Zhang Zuying, direttore dell’Istituto di pittura a olio dell’Accademia Nazionale Cinese di Pittura e artista espositore, realizzata da tale istituto e  organizzata dall’Accademia Nazionale Cinese di Pittura con il supporto delle Accademie di Belle Arti di Roma e di Firenze, gestione Arthemisia.

La mostra propone un produzione artistica cinese insolita, ma proprio per questo particolarmente significativa. Il suo significato va oltre il pur rilevante aspetto artistico  per investire il rapporto tra culture e civiltà diverse, i loro  reciprochi influssi  e le contaminazioni che superano ogni distanza.

Del resto, la Via della Seta che dall’Occidente portava in Cina era il luogo  degli incontri tra viaggiatori per i motivi più diversi – dai commerci ai pellegrinaggi fino alle esplorazioni geografiche – e negli incontri si incrociavano e quindi si avvicinavano  le rispettive culture.

La mostra sulla pittura a olio nell’incontro tra culture

Con la pittura ad olio cinese si dà conto dell’influenza che ha avuto l’arte occidentale al punto di far lasciare la  penna e l‘inchiostro di china di una tradizione millenaria per adottare il pennello tipico della.  pittura occidentale. Ma  non è tutto, il titolo stesso testimonia che c’è dell’altro, “Risonanza cinese” vuol dire diffondere nel modo più ampio possibile questa apertura all’Occidente per averne effetti positivi nei campi più diversi, al di là di quello artistico. Ne è prova la vasta mobilitazione di Enti ed istituti di arte e cultura cinesi, oltre all’Ambasciata, nell’organizzazione di questa mostra. 

La  Cina è impegnata nell’ambizioso programma della “Nuova Via della Seta”  con colossali investimenti nelle infrastrutture che moltiplicano le possibilità di collegamenti veloci e diretti per avvicinarsi al nostro continente superando una distanza che, seppure sconfinata, nemmeno più di mezzo millennio fa era riuscita a isolare le grandi civiltà cinese ed europea.

C’è stata sempre una forza irresistibile che ha spinto oltre le colonne d’Ercole, verso nuove frontiere:  la sete di conoscenza;  lo spirito di Ulisse ha portato i più audaci a fare “ali al folle volo” affrontando odissee di ogni tipo. Oggi non occorre più il coraggio degli esploratori, di Marco Polo e di Matteo Ricci,  la Cina non è più un altro mondo, ma la mostra ce la fa avvicinare maggiormente perché la presenta con le fattezze occidentali, per così dire, dei dipinti a olio della nostra tradizione.  

Particolarmente importante per l’Italia il fatto che la pittura ad olio cinese è stata influenzata soprattutto dal  Rinascimento, oltre che dal Romanticismo pittorico dell’800 europeo, con l’innesto dei motivi tipici dei nostri grandi maestri sul ceppo tradizionale mediante la meritoria azione delle Accademie  della Cina, che si sono mosse attivamente in questa direzione  sin dagli inizi del XX secolo. Hanno operato secondo i principi delle  Accademie italiane del ‘500 e del ‘600: basati  non sulla mera conservazione che toglie creatività, ma sullo stimolo a migliorare le capacità espressive.

Questa contaminazione virtuosa suscitata dall’interesse per l’Occidente non è stata solo un fatto di stile né tanto meno limitato ai materiali e ai supporti dell’arte pittorica, pur se il salto dalla china all’olio non è stato facile, accompagnato da una diversa visione dei contenuti stessi della pittura.

Anche l’Occidente, ha mostrato vivo interesse per il mondo cinese, nell’arte e nel costume, nel ‘700  le cosiddette “cineserie”, come i mobili laccati con personaggi e scene di vita cinese, hanno attirato grande attenzione, ma sin dal ‘300 i viaggiatori riportavano sete e tessuti molto ricercati.

Le radici comuni  delle civiltà e l’influsso sull’arte

L’aspetto che interessa ora approfondire, dinanzi a questo incontro di culture, testimoniato ulteriormente dalla pittura a olio cinese, è  su quali temi e modi vi sono  sintonia e contaminazioni.

Claudio Strinati, curatore della mostra, osserva che il pensiero confuciano alla base della cultura cinese  incontra le fondamenta  stesse del pensiero occidentale risalenti a Platone e all’antica Grecia, avvicinando quindi le rispettive culture e civiltà  all’insegna di radici comuni. In particolare:”L’amore per il sapere, per la scienza, per la tecnica, per la politica e l’amministrazione dello Stato, e per le Belle Arti, l’amore stesso per la vita, per una vita più ricca e feconda di esperienze, tutto sembrava unire due mondi così apparentemente diversi e lontani”.  Di qui l’interesse per gli artisti del Rinascimento: “Una  caratteristica del Rinascimento è stata sempre quella della unione, immediata e spontanea, ma nata da una  severa mediazione, tra arte e scienza”.

L’altra curatrice, Nicolina Bianchi, parla del ” nesso problematico,  proprio per questo speculativamente fecondo, tra filosofia e arte, che è come dire fra arte e bellezza”, anch’esso legato al riferimento al Rinascimento oltre che al Romanticismo pittorico ottocentesco. E lo stesso Strinati citando il Rinascimento in relazione alla bellezza raggiungibile da tutti coloro che sono partecipi della società in cui vivono “e interessati ai valori sociali e culturali che la società stessa esprime”; vede l’arte come “ricerca dell’essenza”; e precisa che “questa può essere rintracciata, e sovente lo è, proprio ai confini dell’invisibile e dell’inconoscibile”. Negli artisti cinesi si riflette “la storia, il pensiero, l’anima lo ‘Yin’ e lo ‘Yang’, infinito equilibrio poetico della natura e del mondo, del bianco e del nero, della luce e del buio, del giorno e della notte, del sole e della luna”.

Nella tradizione cinese l’arte si è  cimentata  “sul senso ultimo della vita e sul significato dell’esistenza in sé e per sé”, come l’arte occidentale ma con la differenza che nell’Occidente  questo è stato “sempre mescolato ad altri aspetti e forme di espressione”.  Con la pittura a olio ciò avviene  anche per i cinesi, ma la proiezione degli stati d’animo, sempre presente, è temperata da un  realismo di tipo occidentale: “Il tema del realismo – spiega Strinati – è profondamente vissuto da molti artisti e in molti la qualità intrinseca della stesura pittorica  e del conseguente dominio della tecnica a olio è invero incomparabile. Molto interessante è dunque l’implicito confronto che molti pittori cinesi di questa mostra istituiscono con le tradizioni occidentali”. Viene evidenziata, sempre da Strinati, “l’attenzione acutissima verso il dettaglio minuzioso, verso l’impercettibile, verso ciò che nella vita quotidiana passa per  lo più inosservato e che costituisce invece il nucleo più profondo della sensibilità umana”. 

Mentre Nicolina Bianchi sottolinea  la “strategia del colore” degli artisti, che consiste nella “trasformazione cromatica. Metamorfosi lungo un percorso che va dall’incolore al colore…”: l’immagine è come riflessa sui colori, per cui “attraverso il ‘negativo cromatico’ si può analizzare e comprendere il ‘positivo’ del dipinto, la sua struttura, i collegamenti tra le immagini  che vengono raccolte e sistemate nelle diverse variazioni della tavolozza”.

Sugli stili  nella pittura  a olio, per Strinati  gli artisti vanno “da un naturalismo estremamente accentuato con punte di virtuosismo mimetico degno del più potente iperrealismo degli anni settanta e ottanta del Novecento nell’area statunitense, ad accenti simbolisti, astratti, persino pop”;  mentre l’antica tradizione calligrafica non viene abbandonata,  ms “si incunea nelle strutture, solide e naturalistiche, del realismo occidentale” . Per la Bianchi “si muovono nel superamento sia della centenaria tradizione calligrafica, sia nella rivisitazione dell’iperrealismo dei primi anni sessanta verso un realismo più aderente alla realtà contemporanea”; è una “rivitalizzazione che interessa entrambe le anime della rinascita pittorica cinese, sia quella di recupero tradizionalista che attinge all’iconografia tradizionale, sia quella di tipo sperimentale”.

Le opere dei maggiori esponenti della pittura a olio cinese

Vediamo ora come questo si può riscontrare  nella galleria della mostra, un vasto affresco pittorico con oltre 150 opere, in tre sezioni dedicate al “Significato della vita”al “Pensiero umanistico” e alla “Terra dell’anima”: scene di vita quotidiana, ritratti caratteristici, paesaggi e vedute pittoriche.

Gli artisti sono ben 62, noi citeremo ora quelli più autorevoli per le posizioni di rilievo occupate  nel mondo artistico cinese, e con loro quelli in qualche riconducibili a loro per stile o contenuti.

Il presidente onorario dell’Associazione artisti cinesi Jin Shangyi è presente con due ritratti accomunati dalla precisione quasi fotografica, ma  molto diversi nei soggetti e nel cromatismo: in “Huang  Bihong al crepuscolo della sua vita”, 1996, il vecchio saggio è ripreso in un colore uniforme e neutro, invece in “Gallerista”, 2016,  la giovane ha la gonna rosso brillante, il resto dell’abito semplice e moderno, non tradizionale, è nero, il divano su cui siede è marrone ed è giallo lo sfondo. Colore pastoso e scuro nel primo, venti anni dopo squarci di luce illuminano la scena nel secondo, per la Bianchi il punto focale è “l’occhio del quadro”.

L’ambiente è il soggetto dei 2 dipinti di Zhan Jianjun, Direttore dell’Accademia di pittura a olio e dell’Accademia nazionale della pittura della Cina, e “chairman” della Chinese Oil Painter’s Society, una vera autorità nel mondo artistico cinese e in particolare nella pittura a olio. Anche per lui la luce ha un ruolo fondamentale,  come si vede in  “Pini sui monti innevati”, 1998, con i rami coperti di neve piegati dal vento,  e  “Altopiano del Tibet”, 2006, entrambi hanno una forte componente bianca, nel secondo la cavallerizza dalla giubba bianca come le nuvole si incorpora nella natura in una plasticità scultorea, diversa dalla linearità pittorica dei ritratti  dell’artista precedente.   

Ai “monti innevati” accostiamo “Sinfonia blu, bianca e nera” di Wen Lipeng, 2007, dove la massa bianca centrale della vetta è prevalente, mentre “Neve in abbondanza” di Hong Ling, 2000, non rende onore al  titolo, la neve copre solo in parte, ci sono alberi, arbusti e terra scuri.  Analogamente  per “Villaggio di montagna innevato” di Shen Xinggong, 2012, la neve copre la pianura e i piccoli tetti delle case sparse, mentre gli alberi e la collina sono scuri, come in “Fumo dal camino” di Bai Yuping, 2008. “La brezza serale sul vasto deserto” di  Wang Keju, 2011, presenza la stessa caratteristica, una macchia bianca tra le formazioni verdi e scure del terreno. Invece in  “Zona residenziale di Huitougou” di Zhao Kaikun, 2013, la neve copre tutto.

Del Vicepreside del Dipartimento pittura a olio dell’Accademia di Belle Arti di Guangzhou, uno dei pittori cinesi più celebri, Guo Runwen, “La bambina e la marionetta”, 2015, il corpo semidisteso, proteso in avanti nella penombra, il viso pensieroso appoggiato alla mano: un ritratto veramente suggestivo con una luce quasi caravaggesca che si staglia nell’ombra, ma più chiaroscurale e soffusa, tipicamente occidentale; mentre è propriamente cinese la cura dei dettagli e la precisione curata nelle parti luminose senza che il gioco di ombre lo impedisca.  

In tutt’altra posizione il “Giovane ragazzo”, 2003, di  Chao Ge, in piedi con il braccio destro levato in alto.  L’autore è professore all’Accademia di Belle Arti di Pechino, originario della Mongolia, una realtà per quanto virtuale cui è rimasto legato artisticamente nei paesaggi i cui toni azzurri richiamano il cielo della sua terra come le distese dei monti. L’opera citata è, invece, un ritratto che ci ricorda i due giovani ripresi in piedi da Renato Guttuso in un quadro emblematico del ’68. 

Due ritratti del 2007 di Quan Shanshi ci riportano a Jin Shangyi perché rappresentano un altro vecchio saggio il primo,  intitolato “Mamat, centenario uiguro”, e una donna giovane il secondo “Ayigul, giovane gonna tagika splendidamente agghindata”, questa volta in abito tradizionale; e  perché il centenario ha tinte morbide e neutre, la giovane è in un  rosso rutilante.  L’autore è decano dell’Accademia Belle Arti di Hangzhou e dirige il Quan Shanshi Museum di Hangzhou dove sono esposte opere di Tiziano e Rubens, Van Dick e Corot, e anche dei nostri De Chirico e Guttuso, c’è introspezione psicologica nei soggetti rappresentati.

Una scena ambientale molto suggestiva l’opera di Zhong Han, “Barca in navigazione e barca in abbandono n. 2”, 2009, straordinari il cromatismo scuro e insieme vivido nella rappresentazione delle due barche distanti in tutti i sensi, in quella in navigazione c’è l’uomo nel confronto con la natura, quella abbandonata rende l’assenza di vita e di scopo in mancanza dell’uomo. L’autore  è professore all’Accademia di Belle Arti della Cina e viene considerato tra quelli che padroneggiano meglio il colore tra gli espositori.

Ricorda il cromatismo appena descritto il colore neutro del “Campo di girasoli in dodici scenari – Il levarsi del vento autunnale”, 2005, di Xu Jiang, Presidente, professore e consigliere della China Academy of Art. Ma è ancora più monocromatico, quasi volesse esprimere l’estensione nello spazio e appellarsi alla memoria. I girasoli sono ben diversi da quelli di Van Gogh, scolpiti dalla luce nel loro giallo squillante, qui si è dinanzi a un mare vegetale in cui predomina il marrone del terreno e della grande corolla del fiore, con il giallo dei petali soverchiato da una sorta di bruma umbratile.

Al “campo di girasoli” accostiamo il precedente “Bonificare” di Chen Shudong, 2003, stesso monocromatismo, invece dei girasoli tante lavoratori curvi nel lavoro di bonifica.  E, pur nel soggetto e ambiente diverso, gli accostiamo “Fiume giallo” di Duan Zhengqu, sempre monocromatico e del 2003, e “Loto e fango” di Yan Zhenduo, 2010.      

Le altre opere che ci hanno particolarmente colpito  

Gli artisti fin qui citati hanno unito la ricerca del dettaglio e il senso dell’atmosfera della tradizione cinese con la plasticità e il senso dello spazio dell’arte occidentale. Una netta cesura segnano altri artisti  cui la Bianchi riferisce “il progetto di un nuovo linguaggio: quello di elaborare un’arte nuova per la nuova società. Il focus della nuova pittura non è più rappresentare la realtà secondo un unico punto di vista, ma di restituirne molteplici aspetti e sfaccettature secondo una pluralità di prospettive”. Siamo vicini all’arte concettuale, la forma viene meno, cede il passo al colore.  

Dopo la pioggia splende il sole 4″  di Qi Haiping, 2015, mostra una grossa onda blu in alto, dei frammenti in basso, una macchia bianca a sinistra, che non giustificano il titolo. Così in “Complementarietà 12.11″,  2017, di Zhou Changjiang, ectoplasmi fluttuanti bianco e arancio; mentre Jin Tian con “Serie di dipinti ‘Eco’ 8”, 2015, allinea in campo bianco elementi stilizzati in un figurativo quasi evanescente: una figura e una stoffa, una sedia e un vaso di fiori con tre vette bianche sullo sfondo, quasi dolomitiche. Vette analoghe, ma in primo piano, le vediamo in “Il piano di Dong Gichang-3″ di Shang Yang, 2006, sono come dei blocchi in parte bianchi e in parte con il colore della roccia, rivolti verso l’alto.  

I ritratti esposti riguardano sia persone anziane, sia giovani uomini e donne in pose particolari. Tra le persone anziane  citiamo “Anziano in uniforme mimetica” di Cao Xinlin, 2013, e “Comandante dell’imbarcazione in tarda età” di Wu Yunhua, 2014,  “In casa, l’anziana madre” di Guo Beiping, 2007, e “Chen Zizhou” di Yang Canjun, 2013; altri con gli oggetti del titolo  in primo piano,  come “Paralume” di Wang Yuping, 2006, e “Il suo legno odorifero” di Shen Ling, 2011.

Nei ritratti delle giovani donne  colpisce lo sguardo sognante di “Donna tibetana della prefettura autonoma di Gannan”, di Yang Feiyun, 2007  e della giovane con una lunga tunica rossa e una borsa nella neve, “Il sole mi segue dovunque vada” è il titolo dell’opera di Wang Yidong, 2006; molto diversa l’espressione allarmata della donna seduta alla finestra che si gira per guardare fuori avendo sentito un “Tuono lontano”, è di Ma Lin, 1994, una delle opere più lontane nel tempo.  

Vediamo la donna nelle più diverse posizioni: “Donna sul divano n. 2” di Pang Maokun, 2009, seduta con le mani dietro la testa e guarda in alto, in “Istantanea di ritratto – Xiao Jiang” di Leng Jun, 2011,  in piedi con le mani sui fianchi e guarda in basso, fino a “Hong Er” di Liu Xiaodong, 2007, sdraiata bocconi su un grande telo fiorito in cui è quasi  incorporata fino alla parte superiore della schiena che resta scoperta. E’ vista  al lavoro in “Raggi di sole – Spiaggia . Alghe” di Yang Songlin, 2015,  in primo piano con il grembiale e le braccia aperte guarda l’osservatore, quasi sorpresa sul momento da un’istantanea; e in “Donna alla trattura della seta”di Lin Yongkang, 1994, seduta al telaio,  guarda con espressione sicura, un’opera  indietro nel tempo; in “Sandrup al Lago sacro”  di Han Yuchen, 2011, sorride mentre avanza con un secchio d’acqua nella destra.  

E gli uomini? Citiamo due opere con la componente verde, “ll pastore del fiume Dulong” di Xie Dongming, 2007, con la casacca di quel colore  e “Ideazione dell’immagine” di Xin Dongwang, 2010,in cui verde è la sciarpa che pende sul petto, come i capelli sulla fronte.  E due atteggiamenti  ben diversi, “Amir, fabbro uiguro” di Zhang Zuying, 2006, sosta appoggiato davanti al forno, nelle mani i guanti, pronto a riprendere il lavoro, in “Venerdì nero” di Fan Bo, 1997, l’espressione dell’uomo in piedi con la mano sugli occhi  piangenti è scura come la giacca e fa onore al titolo..  

Figure maschili in “Lo scenario sul ponte”di He Hongzhou, 2014, in giacca, cappotto e soprabito, mentre in “Nuoto” di Wei Ershen, 2017, tra le opere più recenti, la figura in acqua è sfumata e senza volto, al contrario di “Isola” di Liu Renijhe, 20013, lineare e calligrafica con l’uomo seduto con un modello di veliero e la donna di schiena in primo piano. In “Serie di controllo – Solstizio d’estate” di Yu Hong, 2003,   l’uomo si protende guardando la giovane molto da vicino con uno strumento. 

Due figure  in “Soffione” di Luo Zhongli, 2015, e in “Abbandonare la sorgente dei fiori di pesco”di Yan Ping, 2013, molto diverse, le prime in un abbandono quasi onirico,  le seconde in un abbraccio quasi violento; e due scene collettive, “Tenue chiarore dell’alba – Stagione di pesca a nord” di Liu Daming, 2013, e “Lunga permanenza in territori sconosciuti – Ma Eryang”  di Zhao Peizhi, 2013, assimilabili, pur nella diversità dei soggetti,  nello stile compositivo e nel cromatismo.

“Interno della camera-Letto” di Yin Qi, 2004, e “Incenso n. 4” di Huang Ming, 3023, mostrano il primo un grande letto candido, nessun punto di contatto con quello della “cameretta” di Van Gogh, il secondo, dei libri allineati su un aorta di mensola. Non  mancano esterni speciali, come “Antica via-Tempo”  di Zhang Zuying, nel buio rischiarato dalla  luna addirittura uno scorcio che sembra della Grande Muraglia Cinese, e “Ponte a diciassette archi”di Chen Wenji, 2003; e 2 paesaggi evocativi: “Vita fluttuante-Crepuscolo sulla sponda del corso d’acqua” di Ren Chuanwen e “Sinuoso corridoio durante il periodo della Rugiada fredda” di Zhang Xinquan, 2013..

Le ultime nostre citazioni riguardano  opere molto diverse da quelle fin qui descritte, che sono tutte figurative. Ora si va verso l’astrazione, con un cromatismo intenso e  variegato:. Due paesaggi, entrambi di Chen Junde, Serie monti, foreste, nuvole e corsi d’acqua-Verde smeraldo incapsulato nella fievole luce riflessa in mezzo alla foschia”,2009, e “Montagne immerse nelle nuvole, costellate di edifici”, 2015, i titoli dicono tutto meno la forte vivacità cromatica nelle forme sfuggenti; così “Seguendo la marea, alla ricerca dei frutti di mare” di Zhang Liping, 2014.

“Vino 2” di Wang Huaiqing, 2013, e “Traces No. 4”, di Lei Bo, 2015,  il primo con virgole sospese sul bianco, il secondo con motivi scuri sul rosso intenso sono un salto nel futuro, nella loro netta diversità; ma vogliamo concludere con due opere altrettanto diverse che ci riportano al passato, “La vittoria di madre e figlio-Edizione viola” di Gu Liming, 2011, calligrafica e stilizzata come ne1l’antica tradizione cinese, non sembra a olio; e “Pastorale” di Dai Shine, 2017, una stupenda cavalcata con due figure e un cavallo accomunati da un cromatismo caldo che si stagliano sul verde, quasi un’immagine mitica. Ci sembra il miglio modo di chiudere la nostra galleria.   

Conclusioni

Della visione delle opere esposte abbiamo dato qualche particolare, di un insieme spettacolare. Una sfilata di personaggi e di situazioni ambientali, con la combinazione della persona nell’ambiente. Conosciamo un mondo diverso da quello stilizzato e calligrafico dell’arte cinese tradizionale, la pittura a olio ha fatto emergere quanto di corposo e di plastico c’è nella creatività dei nuovi autori. 

Si attagliano alle sensazioni provate nel visitare la mostra  le parole di Strinati: “E’ commovente pensare come questi grandi maestri stanno vivendo una fase della storia dell’arte universale in cui alcuni valori fondamentali dello spirito umano transitano con apparente facilità e immediatezza da una tradizione  a un’altra, senza mai perdere nulla dei significati originari da cui sono scaturiti, ma arricchendosi di aspetti inattesi e insperati”.  Per concludere: “Questa mostra, quindi, è una sorta di epopea, una grandiosa immagine di una cultura individuata nei suoi valori più significativi, valori che la portano a uno scambio intenso e profondo con il mondo occidentale, non più visto come lontano  e mal comprensibile, ma vicino e condivisibile per molti aspetti, senza per questo in nulla rinunciare alle proprie radici più vere e profonde. E’ una questione di integrazione e dialogo, non di sottomissione o imitazione”.

Proprio questo è il senso della mostra e forse anche il senso della vita.

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Le immagini saranno inserite prossimamente

Martellotti e Fava, Bosco magico e Libri d’Artista alla Casina delle Civette

di Romano Maria Levante

Due mostre che si chiudono entrambe il 30 settembre 2018 animano la Casina delle Civette  di Villa Torlonia a Roma: “Bosco magico, gli alberi sciamanici di Paolo Martellotti” , aperta il 9 giugno, espone 30 sculture lignee  di parti di alberi veri con effetti cromatici e 25 dipinti,  inseriti nell’ambiente naturale; “Libri d’Artista di Vittorio Fava”, aperta il 21 giugno, presenta circa 20 opere che compongono un’ideale quanto immaginaria Biblioteca del Principe, inserite nelle diverse stanze creando per altri versi un clima magico all’interno, come il Bosco magico lo crea all’esterno. Promosse da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale, realizzate con Zètema progetto Cultura, curate da Maria Grazia Massafra, la prima con Tiziana Gazzini, la seconda con Stefania Severi, Per “Bosco magico” un Catalogo con i saggi delle due curatrici. 

Vittorio Fava con un suo “libro d’artista” 

L’attività espositiva alla “Casina delle Civette”  prosegue sfornando sempre nuove sorprese coerenti con la sua caratteristica, dove l’arte nella forma più congeniale si associa alla magia: negli interni, una fuga di sale e salette, anditi e pianerottoli , scale e scalette con le straordinarie vetrate liberty, nel parco che si trasforma come nelle favole  in giardino incantato quando vengono esposte le installazioni.  Lo abbiamo verificato con le Civette, con le speciali porcellane della Amedeo e le altrettanto speciali creazioni luminose di Gentili per gli interni, con le sculture favolistiche di Wal per il  giardino dove erano collocate le grandi figure presenti in piccole dimensioni all’interno.

Si ripropone questa doppia magia nelle due mostre aperte da giugno al 30 settembre 2018, l’una che ha popolato il giardino  di alberi sciamanici evocando il bosco incantato e la sala espositiva di piccoli modelli, l’altra che ha impreziosito le salette e gli anditi di “Libri d’artista” creati per un’immaginaria “Biblioteca del principe”.


Inizia una selezione di “Alberi sciamanici” di Paolo Martellotti

Paolo Martellotti e i suoi “alberi sciamatici”

Iniziamo dalla mostra aperta per prima, “Bosco Magico. Gli alberi sciamanici di Paolo Martellotti” “, 30 installazioni per lo più all’esterno e 25 dipinti più modelli lignei nella “dependance”, ben inseriti nell’ambiente, come in tutte le mostre nella “Casina”, collimanti per i motivi più diversi, ma sempre nuove e sorprendenti. 

L’autore è artista e insieme architetto, e le due qualifiche, insieme a una specializzazione museale, concorrono  in questa sfida  appassionante che utilizza un elemento  come il legno nella sua essenza naturale di albero per creare un ambiente magico nel quale si sente la maestria architettonica.

La direttrice della “Casina” Maria Grazia Massafra, curatrice della mostra  insieme a Tiziana Grazzini, ne approfondisce come il solito l’oggetto,  come fece per le Civette spiegandone significati reconditi e credenze antiche. Questa volta è il legno e l’albero al centro della sua analisi colta che ne illustra il valore ideale a pratico.

Nelle mitologie l’albero  viene visto come collegamento tra il sottosuolo,  dove affondano lee radici, l’aria con la chioma che cerca la luce, la terra con il fusto ben piantato, quindi si va dagli inferi al cielo passando per la  realtà presente; mentre nella psicologia  le radici rappresentano l’inconscio, il fusto la coscienza in cui risiede la personalità, la chioma la parte spirituale che si eleva  spinta dall’energia vitale. Negli alberi, come tramite tra  la terra e il cielo, veniva visto il passare del tempo, inciso nei cerchi concentrici del tronco.  Gli antichi sacerdoti invocavano la divinità vicino agli alberi secolari dove si riteneva convergessero linee di forza soprannaturali, e il bosco era il luogo di culto dove si riunivano le tribù:  “radici, tronco,  chioma  raffiguravano le tre dimensioni del sacro, strettamente connesse e complementari tra oro”.

A queste credenze si aggiungono qualità straordinarie: “Il legno è il grande dono che gli alberi hanno fatto all’uomo: è fuoco che illumina e riscalda, è fumo odoroso che sale verso il cielo, ma anche materia prima per l’artigiano/artista, che lo lavora con perizia teorica e pratica”. utilizzandolo nella scultura e nell’architettura sin dai tempi più antichi.  

E qui la Massafra compie un excursus colto, citando “De Architectura” di Vitruvio,  “Naturalis Historia” di Plinio,  “Historia Plantarum” di Teofrasto , e poi la “Vita di Baccio d’Agnolo” di Vasari  il quale, riferendosi alla storia del legnaiolo vissuto tra la metà del ‘400 e la metà del ‘500, afferma che coloro i quali lavorano il legno per realizzare colonne e ornamenti “diventano in spazio di tempo architetti”. Vasari considera i vari tipi di legno  e, oltre a vantare le peculiarità del tiglio, “perché egli ha i pori uguali per ogni lato, ed ubbidisce più agevolmente alla lima e allo scalpello”,   ricorda che “si sono vedute ancora opere di bossolo lodatissime ed ornamenti di noce bellissimi; i quali, quando sono di bel noce, appariscono quasi di bronzo”.

Anche Leon Battista Alberti fa l’elogio del tiglio, e cita altri legni – il pioppo e il salice, il carpine e il sorbo, il sambuco e il fico – come “meravigliosamente docili e facili sotto  lo strumento dello scultore per esprimere tutti i modi delle forme”. 

Come per l’arte della pittura, per l’artigianato  del legno fiorivano botteghe nelle quali oltre ai normali utilizzi venivano fatte sculture, intagli e intarsi, a Firenze, nel ‘400, c’erano più di 80 botteghe artigiane; in Abruzzo l’impiego del legno nell’arte ha raggiunto il culmine con le straordinarie Madonne lignee, che si possono ammirare nel Museo dell’Aquila.

L’opera di Martellotti ha, dunque, antiche radici – è il caso di usare questa parola – inoltre utilizza tronchi e rami che trova nei boschi, in una sorta di riutilizzo che restituisce la vita a un materiale di per sé vivo, ma condannato all’irrimediabile  deterioramento quando viene abbandonato. E’ un’operazione analoga, pur nella evidente diversità, a quella di Louise Nevelson, l’artista americana che utilizza i mobili e le parti lignee dei comuni arredamenti dismessi e da lei reperiti casualmente per trasformare in installazioni spettacolari; per non parlare di Alessio Deli, anche lui scultore con materiale di recupero, soprattutto ferro preso nelle discariche e fatto rivivere al tocco dell’arte, e di Wak Wak, che utilizza reperti bellici della guerra di Libia.   

Cosa fa il nostro artista? Reperisce nei boschi gli “alberi” a cui dà “una seconda vita, realizzando sculture sacre e musicali”: sacre perché sembrano “totem di area tribale”, musicali perché in molte di esse inserisce corde e cordini come fossero strumenti da cui trarre dei suoni, “che ci ricordano le mitiche arpe celtiche, attributo del Dio del Fuoco, il quale con il loro suono governava lo scorrere delle stagioni”, è la precisazione colta della Massafra.  In pratica, “utilizza la materia legno ricollegandosi a una tradizione antica, pur rielaborandola in chiave contemporanea… con il rinnovamento dei linguaggi della scultura figurativa”.

L’altra curatrice, Tiziana Grazzini, introduce la visita alle singole opere affermando che, come “artista e architetto dotato di sapienza letteraria e umanistica” con una formazione  legata all’arte antica, Martelletti supera gli schemi consueti,  è “primitivo e contemporaneo, antico e nuovissimo”.

Poi, partendo da una identificazione antropomorfa del volto con l’albero in cui è raffigurato, semplifica questa duplicità vitale nella forma binaria più antica, quella della vita, e più moderna, quella dei computer; per la studiosa allo 0 e 1 corrisponde la luce e il buio, la luce e l’ombra che rendono binarie le sue opere nel bosco incantato: “Per comprendere la sacralità di questo Bosco non basta un solo giro di visita. L’ombra porta con sé delle variabili. Prima di tutto il tempo che deve trascorrere almeno un po’ prima di dedicarsi a un secondo giro. Solo allora si vedranno cose nuove”. Ecco come vengono rivelate: “Le ombre appartengono agli oggetti animati o inanimati che le proiettano,  cambiano direzione, si allungano, si dilatano”. E non è semplicemente un fenomeno visivo, fa riflettere “sulla transitorietà del reale e sul tempo. Sono tutte meridiane le sculture en plein air di Martellotti alla Casina delle Civette”. 

Inizia una selezione di “Libri d’artista” di Vittorio Fava 

Ma come nel binario 0 e 1 coesistono gli opposti in una compresenza vitale, così nel gioco d’ombre dell’artista  si consuma un’altra contrapposizione  che diventa compresenza altrettanto vitale: “E’ un restitutore, Martellotti. Restituisce le ombre  col suo Bosco magico… mentre realizza una mostra che esalta l’ombra, crea le condizioni per cui le ombre vengano nuovamente rubate”.  In questo modo: “Regolarmente, quotidianamente, quando il sole è allo zenit le ombre scompaiono, rientrano negli oggetti che le hanno prodotte”. 

La Gazzini vi trova  anche un profondo significato filosofico – “è l’estetica del divenire che supera il pensiero statico dell’essere”-  affermando che “l’arte di Paolo Martellotti si trova ai margini delle discipline che frequenta: architettura, scultura, pittura, scrittura teorica e narartiva, museografia, ma anche matematica, musica, filosofia”.

Sbaglierebbe chi pensasse a qualcosa di cerebrale e intellettualistico, del resto  lo stesso Martellotti sostiene che “un artista non fa teoremi e non dimostra nulla”, non nasconde ma rivela: “Solo l’arte, il gesto creativo affrontano gli enigmi, ne prendono atto e li trasformano. Ci sono sculture di Martellotti che li risolvono, se solo questa possibilità fosse contemplabile”.

Ed ora, dopo averne esplorato genesi  e significato, consideriamo queste sculture lignee, fatte di parti di albero declinate in tanti modi diversi, che evocano un mondo favolistico creando il “Bosco magico”.

Alcuni  tronchi sono tal quale con aggiunte cromatiche, altri recano fili, i titoli sono evocativi. Vediamo “Il cavaliere inesistente” con “Il pensiero” del 2013, interamente in rosso con i fili  da arpa,  e “L’armatura”,  senza fili e senza cromatismo artificiale,  del 2018; altrettanto recentissimo “Domani  nella battaglia” con “Il cavaliere” che svetta in verticale tra i fili sottesi, e “La bestia” invece costituito da due “mozzoni quasi “nature” con sottolineature rosse.  Il rosso copre interamente due dei tronchi iconici di  “Tre del coro” del 2016-17,  il terzo è blu, con i titoli “Il piccolo blu”, “La rossa”, “Il piccolo arancione”.  Il blu a sua volta è totalitario in “Lontano dal conflitto” con “La madre”, 2017, e “Il piccolo blu”, 2018. 

Quanto più ci immergiamo nel “Bosco magico”  tanto più procede la simbiosi albero-colore, il primo naturale, il secondo artificiale che si incorpora nel primo: esplode il “Fuoco rosso”, poi è  la volta del verde in “Il cuore resinoso dell’uomo”, soprattutto il secondo  chiaramente antropomorfo, mentre con “L’uomo” torna la forma totemica in un rosso squillante con sfondi sul blu, sono tutte del 2017.

Tornando tre anni indietro nel tempo, nel 2014 abbiamo “Opera in nero”, la stessa forma totemica con dei fili aggrovigliati a rete, e un fondo verde, poi “Il guerriero infelice”, del 2015, nero, verde e viola abbinati.

Arricchisce la galleria cromatica “La torre dei tre colori”, del 2015, in effetti vede la forte prevalenza del verde brillante senza fili  mentre altre composizioni riportano il rosso e l’aggiunta di fili che diventano corde, così “Il dio del vento” e “La mano dell’architetto” del 2016, “La pietra rossa”,  e “Paesaggio” del 2017, anno nel quale ha realizzaro anche “Le tre lame rosse”  e “Il castello rosso”, un gruppo arboreo senza fili, mentre “Paesaggio 1” mostra una compatta massa lignea appoggiata a un inconsueto telaio azzurro e “Il compagno senza nome” è in legno naturale senza coloritura. 


Altrettanto in legno naturale, e nella forma dell’albero che termina nei rami verso l’alto “La notte bianca”, del 2015, e “Il castello bianco” del 2017, quando ha realizzato anche “L’arpa rossa”, con i caratteristici fili dello strumento musicale e  la parte rossa limitata allo spacco centrale, il resto  è in legno naturale; al pari dell’antropomorfo “La compagna” – almeno riguardo al volto, un cerchio nero bordato all’interno di rosso – e un fusto ligneo naturale, mentre “La notte bianca” dello stesso 2015 ci riporta all’albero  naturale come colore del legno

Dunque cavalieri e battaglie, divinità e castelli, evocazioni mitiche, prendono vita nel parco della Casina delle civette animando quel “Bosco magico”  trasfigurato nelle ore del giorno alle variazioni della luce naturale con  significati al di là della mera apparenza.

Ma non abbiamo soltanto sculture, nella “dependance” una serie di pitture  in tempera, acrilico o tecnica mista con immagini figurative o astratte è come se cercassero di interpretare i messaggi che vengono dal “Bosco magico” per disvelarli a chi osserva, anche nei dipinti risalta il cromatismo dai toni accesi. la “Materia”, la “Luce”, la “Scena”, sono visti “In movimento”  in una serie di opere recentissime, del 2018. 

L’excursus tra le opere esposte, con  alcune sculture anche negli interni, fa immergere in un mondo fiabesco che nel contempo è quanto mai reale,  e si riflette magicamente nelle vetrate liberty della “Casina”  creando echi e assonanze altamente spettacolari.

Per questo,  quanto mai appropriate ci appaiono le parole con cui la Massafra conclude la propria presentazione della mostra: “L’artista/sciamano Paolo Martellotti, attraverso la sapienza del ‘fare’, mette in comunicazione l’uomo/spettatore con il mondo dell’inconscio nascosto nei suoi stessi alberi /totem, attraverso l’antico gioco del rispecchiamento”.

I  libri d’Artista di Vittorio Fava.

Un clima di magia all’interno viene parimenti diffuso dai “Libri d’Artista di Vittorio Fava”, considerati come una ideale ricostruzione della Biblioteca, di cui non si hanno notizie, idealmente attribuita al Principe abitante della Casina e costituita verosimilmente da libri alchemici e naturalistici, sulla botanica e sul mondo animale. L’idea è nata dal successo avuto dal “Codice della civetta diurna” posto su un leggìo all’ingresso della mostra delle Civette, questa volta i libri d’artista sono posti nelle sale e salette più evocative, delle quali sottolineano i lati più caratteristici.

Così il “Codice della civetta diurna” è posto nella Sala delle Civette, e il “Grande libro della Musica” nel Fumoir;  il libro dedicato a Cambellotti nella Sala del Chiododov’è  la preziosa vetrata dell’artista che ne ha realizzato altre sempre per la Casina; Il “Grande Libro dell’Alchimia” e “Cleopatra alchimista” nella Camera da letto del Principe, essendo ispirati alla sua passione per le arti  esoteriche e magiche, il “Libro delle Streghe” nella Stanza delle  Fate, il “Libro della Ceramica” nel Bagno del Principe, con un residuo dell’antico rivestimento ceramico. E poi il “Libro del S. Spirito” e il “Libro di Pompei”, il “Libro sarcofago” e il “Libro delle 4 religioni”, bastano i titoli per evocarne la straordinaria ricchezza di contenuti.

C’è un altro elemento in comune con l’altra mostra, oltre al clima magico che si crea, si tratta dell’utilizzazione di materiali di recupero, nel Bosco incantato alberi e rami sparsi non più eretti ma destinati alla dissoluzione, nei Libri d’artista una miriade di oggetti della natura più diversa che impreziosiscono con la loro presenza le pagine realizzate a loro volta con vecchie pergamene e simili, dalle conchiglie alle medaglie, dalle monete ai frammenti di ceramica e legno, dai merletti ad antichi reperti di ogni tipo, cartacei o di materiali duri e pesanti. Sono grandi pagine sfogliabili per un ‘improbabile consultazione, ognuna una sorpresa per l’inventiva unita alla passione che esprime. Tutti i libri forniti di leggìo anch’esso d’artista, come il resto con materiale riciclato e assemblato.

L’artista, diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Roma ha anche altre forme di espressione, cosa che ci fa pensare all’altrettanto multiforme visione di Martellotti; Vittorio Fava, nella creazione di oggetti impreziositi dalla sua ricerca ineffabile di reperti o di segnali d’altro tipo, si diletta anche di pittura e incisione, mobili scolpiti e film dipinti. Ha esposto alla Biennale di Venezia del 150° dell’Unità d‘Italia curata da Vittorio Sgarbi, precisamente al Padiglione della Regione Lazio con sede a Palazzo Venezia, ha vinto nel 2012 il Premio per la scultura alla VI Biennale Internazionale d’Arte sacra di Lecec, e la Menzione Speciale al Premio Internazionale LimenArte di Vibo Valenia.


Le opere esposte nella mostra nella Casina delle Civette sono tutt’altro che un’improvvisazione, ha presentato i suoi Libri d’Artista in molte mostre collettive in Italia e all’estero, Europa e Stati Uniti,  sin dal 1968, e le sue opere si trovano in vari musei, in Italia nel Museo delle Generazioni di Pieve di Cento, negli Stati Uniti nell’Archivio Sackner di Miami,  in Francia nel Museo del Libro d’Artista di Caroline Corre a Verderonne.  

I Libri d’artista della mostra sono iconici, li ha illustrati in modo appassionato rivelandone i segreti, sono vere e proprie sculture sfogliabili, non è possibile descriverle nella loro intensità, anzi densità  materica, e nei loro contenuti aderenti al tema e altamente simbolici senza alcun cedimento.

Sono state previste visite guidate  con l’artista che legge propri testi, nella prima fase di apertura in giugno e domenica 2 settembre, e un’intervista pubblica l’8 settembre. Nel “finissage” , il 29 settembre  saranno letti i commenti più interessanti  scritti dai visitatori sul “Libro dell’Ospite” e premiati i tre ritenuti migliori da  una giuria con l’artista e le curatrici Massafra e Stefania Severi, al primo un piccolo libro d’artista, al secondo e terzo due “biglietti d’artista”, fatti di merletti e dei reperti materici più disparati.  Questa opportunità offerta ai visitatori ci ricorda il “Beauty Contest” alla Galleria nazionale d’Arte Moderna per il quale venivano chiamati a scegliere la Miss e il Mister tra i ritratti d’autore selezionati per il concorso di “bellezza”, qui sono i giudizi dei visitatori a confronto, una bella iniziativa. Che fa avvicinare il pubblico ancora di più all’arte coinvolgendolo direttamente non solo come osservatore passivo, ma come protagonista attico con i suoi sentimenti ed emozioni. 

Info

Museo di Villa Torlonia, Casina delle Civette, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso alla Casina delle Civette intero euro 5,00, ridotto euro 4,00, per i residenti a Roma Capitale  1 euro in meno e ingresso gratuito la prima domenica del mese. Info 060608, 347.8285211 Catalogo  “Bosco magico, gli alberi sciamanici di Paolo Martellotti”, a cura di Tiziana Gozzini e Maria Grazia Massafra, giugno 2018, pp. 80, formato 20 x 20; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli in questo sito: sulle precedenti mostre alla Casina delle Civette, nel 2017, per la collettiva sulle  “Civette” il 15 narzo,  per le personali dei “putti” di Wal il 14 luglio e delle “sinestesie” di Annalia Amedeo il 30 novembre; nel 2018 per la personale di Piero Gentili, “Soglie di luce” l’8 marzo; sulla mostra curata dalla Severi alla Biblioteca Angelica. “Dio si nasconde”, di  Yano con le poesie di Simoncini, 2 febbraio 2018;  per gli altri artisti citati nel testo, sulle mostre di Louise Nevelson 25 maggio 2013, di Alessio Deli, 26 aprile 2013 personale, 5 luglio 2013, 10 dicembre e 21 novembre 2012 collettive, di Wak Wak 27 gennaio 2013.

Info

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione delle due mostre alla Casina delle Civette, si ringrazia la direzione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, Vittorio Fava  con un  suo “libro d’artista”; segue una selezione di 6 immagini del “Bosco magico” di Paolo Martellotti; poi una selezione di immagini di “libri d’artista” di Vittorio Fava.  

Guido Montauti, nel centenario, 6. Il recupero delle “Pitture rupestri”

di Romano Maria Levante

A Pietracamela, nella chiesa di San Rocco, il 10 agosto 2018 alle 16,30 è stato presentato “Il  recupero delle ‘Pitture rupestri‘ ” che non furono travolte dalla frana del 2011 ma erano state deteriorate dagli agenti atmosferici e in parte sommerse dai detriti; la frana aveva distrutto l’accesso attrezzato, ora ripristinato con un intervento ad opera del  Comune di Pietracamela.  Sono i dipinti aulle rocce della “Grotte di Segaturo” opera del “Pastore bianco” creato da Guido Montauti. Tra gli intervenuti all’incontro, Paola Di Felice, direttrice della Pinacoteca di Teramo, l’Assessore al turismo della Regione Abruzzo Giorgio d’Ignazio e il sindaco di Pietracamela, Michele Petraccia, il presidente dell’Associazione Ambasciatori del Centro Italia Paolo Antonetti e  il restauratore Corrado Anelli, oltre al presidente della Pro-loco di Pietracamela  Maurizio Di Giosa. Ospiti d’onore e attivi partecipanti alla realizzazione del progetto i figli dell’artista Giorgio e Pierluigi Montauti. 

La locandina della manifestazione

Il programma del centenario della nascita e le Pitture rupestri

Il  recupero delle pitture rupestri”  ha segnato il coronamento delle iniziative dell’estate 2018 per il centenario della nascita a Pietracamela del pittore Guido Montauti, che hanno visto il 6 giugno l’inaugurazione a Roseto degli Abruzzi della mostra antologica dell’intera produzione,  “Guido Montauti. ‘Un percorso di creatività'”,  seguita, a staffetta, da tre mostre sui  singoli cicli artistici, dai più recenti a quelli inziali: il 7 luglio “L’esperienza de ‘Il Pastore  bianco’ e il tempo dell’isolamento, opere degli anni ’60 e’70″”, sempre a Roseto, il 13 luglio  “Le opere in mostra a Venezia, Milano e Parigi negli anni ’40-‘50” a Ripattoni, il  29 luglio ” “Gli Esordi,  opere degli anni ’30-’40” a Fano Adriano; e il 5 agosto il “XXIII Premio di pittura estemporanea ‘Gran Sasso d’Italia Guido Montauti'” , sempre a Fano Adriano.

Il sindaco di Pietracamela, Michele Petraccia, nel suo intervento,
con alla dx Paola Di Felice, direttrice della Pinacoteca di Teramo

I comuni interessati, Roseto, Ripattoni, Fano Adriano, sono in provincia di Teramo, dal mare alla montagna, dove si trova Pietracamela, il “nido delle aquile” alle falde del Gran Sasso d’Italia, a ridosso della vetta più alta degli Appennini, Corno Grande di 2.914 metri i che sovrasta il borgo nella catena montuosa dall’aspetto antropomorfo del “gigante che dorme”.  A Pietracamela, in questo  ambiente naturale, si è svolto il recupero di tre delle pitture rupestri  realizzate da Guido Montauti con il “Pastore bianco ” gruppo in cui riunì intorno a sè  tre giovani pittori e un pastore come reazione a certe degenerazioni moderniste verso il recupero della figura umana nell’arte.

Abbiamo già ricordato quell’esaltante stagione in cui ha dato l’esempio con grandi tele esposte al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1964, tra cui il “Giudizio Universale” di 25 metri quadri, e ha compiuto atti eclatanti come la denuncia alla Biennale di Venezia per violazione dello Statuto e il “Manifesto della Rinascenza” rivolto agli artisti di tutto il mondo.

L’assessore al Turismo della Regione Abruzzo, Giorgio D’Ignazio, nei suo intervento,
con alla dx Paola Di Felice, direttrice della Pinacoteca di Teramo

Ripetiamo che in tale contesto  il gruppo realizzò le  “Pitture rupestri” a Pietracamela  nell’ambiente particolarmente raccolto  delle “Grotte di Segaturo”, quasi per fissare concretamente la simbiosi tra figure umane e rocce in cui si esprimeva la sua prima svolta pittorica con la quale trovò una  inconfondibile cifra stilistica dal forte impatto plastico. Non si fermò  nella sua inesausta ricerca pittorica, seguiranno altri cicli, ma ne abbiamo già parlato e ci torneremo al termine.

Come abbiamo accennato, il recupero si è reso necessario dopo  la frana rovinosa che nel 2011 precipitò sulle composizioni di figure assorte e in attesa del “quarto stato montanaro”,  ne sono rimaste tre per  la loro posizione che attenuò l’impatto, di cui una fu in parte coperta dai detriti mentre in quella più spettacolare, intatta, i dipinti erano stati compromessi dagli eventi atmosferici. Inoltre fu così dissestato il territorio da rendere impraticabili le vie di accesso anche alle tre sopravvissute.  

Il figlio dell’artista Giorgio Montauti, nel suo intervento,
con alla dx Corrado Anelli, il restauratore delle pitture rupestri

La presentazione del recupero delle tre Pitture rupestri

La chiesa di San Rocco a Pietracamela, dove si è svolto l’incontro  per illustrare l’opera di recupero ai residenti e ai turisti, è ai margini del paese nell’itinerario che porta alle Pitture rupestri  dopo una scalinata e l’immissione nell’area circostante.

Paola Di Felice, direttrice della Pinacoteca di Teramo, è stata la brillante conduttrice che ha introdotto i singoli interventi e ha illuminato l’uditorio con il proprio giudizio critico espresso anche nel primo dei contributi di presentazione nel  Catalogo della mostra antologica di Roseto che ha iniziato il “percorso di creatività” nel centenario della nascita dell’artista. Di questo percorso, ha sottolineato, il recupero delle pitture è un “punto focale”  in quanto rappresentano “una fase fondamentale della ricerca continua dell’artista rispetto a forme e colori”. Una ricerca che non ha  ceduto alle lusinghe dell’astrattismo e delle avanguardie moderniste, ma ha ribadito “l’importanza di un figurativismo che non è imitazione della natura ma l’utilizzo della pietra, della roccia, sulla quale questi colori, a mo’ di antichissime pitture rupestri, imprimono il proprio messaggio”. 

L’altro figlio dell’artista, Pierluigi Montauti, nel suo intervento,
davanti a lui, seduto, Paolo Antonetti. dell’Associazione Ambasciatori del Centro Italia

 Il  sindaco Petraccia ha manifestato tutta la sua soddisfazione per il recupero di “un patrimonio artistico dal valore inestimabile” che costituisce “uno dei primi esempi di arte ambientale in contesto paesaggistico”, ed è un’ importante attrattiva, tanto che prima della frana era una delle principali mete di turismo culturale del Parco, ed ora “torna pienamente fruibile e viene restituito alla comunità e al territorio ai quali Montauti era molto legato”. 

L’assessore D’Ignazio, che con la sua stessa presenza ha testimoniato l’interesse della Regione, ha inquadrato l’iniziativa nell’importanza attribuita ai valori culturali e ai pregi ambientali, in cui eccelle la “regione verde d’Europa”, che nelle pitture rupestri si trovano felicemente abbinati per la bellezza delle opere e dei luoghi in cui sono incastonate.  

L’inizio del percorso attrezzato verso le tre pitture rupestri restaurate

Si è sentita anche la voce della comunità locale attraverso l’intervento del presidente della Pro loco, Maurizio Di Giosa, sempre molto attivo nelle iniziative di valorizzazione, ideastore e organizzatore ogni anno della festa di fine estate dall”impostazione meritoramente culturale, nel titolo “Borgo in Arte” e nel contenuto, con una mostra pittorica e fotografica nei vicoli del centro storico, nonchè l’esibizione dei lavori artigianali delle antiche tradizioni e tanta musica..  

Oltre agli interventi, per così dire istituzionali, protagonisti  sono stati Antonetti,  presidente dell’associazione che ha collaborato all’iniziativa, il quale ha illustrato le motivazioni del suo vivo interesse, e soprattutto il restauratore Anelli che ha svolto il difficile lavoro di recupero e ne ha descritto i momenti, dal difficile accesso per la natura impervia dei luoghi, al  complesso ripristino del cromatismo figurativo, nella fedeltà più assoluta ai colori originali anche se poco distinguibili, ricostruiti attraverso le immagini fotografiche disponibili  unite all’approfondimento della tecnica coloristica dell’artista.  

La parte superiore del percorso attrezzato,
prima della discesa verso le tre pitture rupestri restaurate

 Tutto questo con la difficoltà aggiuntiva data dal fatto che la roccia su cui è stato operato il restauro non è neutrale come la tela o la tavola, ma è una materia viva che ha accompagnato e spesso determinato la composizione pittorica; anche se si è tradotta in un aiuto quando la conformazione rocciosa rappresentava una scelta obbligata. Il restauratore si è espresso in modo appassionato ricordando la sua immedesimazione nell’opera dell’artista alle prese con la roccia, da lui tanto amata avendola rappresentata in simbiosi con le figure quasi umanizzandola, fino a farle accogliere nella sua materia viva, lo ripetiamo, la trasposizione artistica dell’ispirazione che ne traeva.

I figli dell’artista, Giorgio e Pierluigi Montauti, hanno portato la loro testimonianza di come hanno vissuto questo centenario, e soprattutto come hanno operato perché le idee proposte per celebrarlo si concretizzassero. E’ stata costituita una squadra, sono state sensibilizzate le istituzioni, si è riusciti a realizzare un programma che tiene alta la memoria di un artista che onora la nostra terra non solo ricordandone l’opera con le quattro mostre ricordate all’inizio,  ma anche restituiendo visibilità, cioè vita, alle tre pitture rupestri che è stato possibile recuperare. 

La maggiore pittura rupestre restaurata vista dall’alto,
con davanti il restauratore Corrado Anelli

Per parte nostra, parlando del tema del giorno, le Pitture rupestri,  abbiamo ricordato la straordinaria mostra fotografica  del 2012 imperniata su una serie di immagini scattate all’artista da un paesano amico appassionato di fotografia, Aligi Bonaduce, nel luogo da lui scelto, il Grottone, quasi in una premonizione perché si tratta del contrafforte roccioso crollato 35 anni dopo sulla vallata con le sue Pitture rupestri travolgendo tutto quanto incontrato dalla frana rovinosa tranne le tre superstiti e ora recuperate. le immagini mostrano l’artista mentre arriva nella grotta, nella sua sosta in diverse istantanee, e quando la lascia. Ce n’è una in cui la sua figura spicca all’interno della grotta ora scomparsa come un nume tutelare.   

Nella nostra interpretazione, con la distruzione le sue Pitture rupestri si sono integrate intimamente nell’humus montano in una compenetrazione inscindibile che fa pensare a una reincarnazione. Una tesi ardita, forse, come può sembrare ardita l’altra da noi evocata, che riguarda l’ultima opera realizzata dall’artista sull’orlo della vita, nel 1978, poco prima della morte avvenuta il 14 marzo 1979.  

Alcuni partecipanti davanti alla maggiore pittura rupestre restaurata, il sindaco Michele Petraccia, i figli dell’artista Giorgio e Pierluigi Montauti, il restauratore Corrado Anelli

Ebbene, quest’opera si pone al culmine del “Periodo bianco” – nel quale ha raggiunto il massimo della rarefazione, dopo essere passato dalle sagome e rocce del “quarto stato montanaro”,  espresso anche dalle Pitture rupestri, ai “cespugli” e alle “bande oblique” –  e per noi segna il raggiungimento dell’ “Empireo”. Abbiamo anche riferito il “segno”,  quasi soprannaturale e comunque fuori dall’ordinario, che ci ha portato a tale convinzione, un’illuminazione avuta nel 2002 alla mostra di Firenze dell’artista, rievocata nella nostra analisi dell’ultimo periodo nel suo lungo itinerario artistico troncato dalla prematura scomparsa. Due brani del  Vangelo della messa domenicale a Firenze il giorno della nostra visita alla mostra, iscritto sulle lapidi dei nostri genitori in cui c’è il firmamento con i corpi celesti nel cimitero di Pietracamela dov’è anche la  tomba dell’artista, ci ha portato a un’identificazione che nella nostra visione lo ha fatto ascendere nell’Empireo iperuranio. Tutto molto ardito, per non dire visionario? Se lo è tale interpretazione,  lo è altrettanto, se non di più, quella che abbiamo dato a quanto si è verificato mentre si svolgeva l’incontro nella chiesa di San Rocco. Intanto, per concludere il resoconto, aggiungiamo che al termine degli interventi sono stati proiettati due filmati, uno sulla vita e sull’arte di Guido Montauti, l’altro sul lavoro di recupero.

Corrado Anelli  indica un particolare della  pittura rupestre da lui restaurata

 I due filmati sull’uomo e l’artista, nonché sull’operazione di recupero

Il primo filmato è stato illuminante, ne riassume la vita sin dall’infanzia con le immagini che lo vedono sottotenente sulla nave verso l’Albania, poi a cavallo, seguite da altre sulla prigionia, impressionante la distesa di baracche, le stesse dei lager nazisti dello sterminio degli ebrei, ma l’arte preme con le foto che riprendono le gallerie delle sue mostre a Parigi, Milano, Venezia, la sua figura distinta, l’espressione distaccata davanti alle opere in vista nello studio.

Tutto ciò intervallato da una selezione accurata delle sue opere, dalle primissime come quella che ritrae delle uova fritte in padella, ad altre di chiara ispirazione da maestri che conosceva e apprezzava, ma non ne traeva influssi permanenti, solo transitori; poi le sagome e rocce del “quarto stato montanaro” e il Pastore bianco con i grandi dipinti e le Pitture rupestri; quindi  i “cespugli” e le “bande oblique”, fino alla rarefazione e al “Periodo bianco” con l’ultima opera rivelatrice. Non è mancata la documentazione della frana e della messa in sicurezza della zona .Il commento di Nerio Rosa, lo storico critico e intellettuale molto vicino all’artista, e di Paola Di Felice hanno concluso il filmato.  

Le operazioni di restauro sono state documentate nel secondo filmato, con il commento di Giorgio Montauti – che ha rievocato i momenti dell’organizzazione dell’intervento, citando anche il generoso contributo di chi ha offerto gratuitamente i colori – e del restauratore Corrado Anelli che ha parlato delle difficoltà incontrate e delle scelte compiute mentre le immagini facevano seguire il suo lavoro nelle condizioni acrobatiche con scale e corde di sicurezza.

La scala di legno per accedere alle due pitture rupestri sottostanti,
all’inizio della scala il sindaco Michele Petraccia, al termine il restauratore Corrado Anelli

 Mentre nella chiesa di san Rocco avveniva tutto questo, la natura montana mostrava tutti i suoi volti, dopo l’addensarsi dei nembi carichi di pioggia prima dell’inizio della manifestazione, c’è stata la pioggia torrenziale nel corso dell’incontro, con tuoni che sembravano marcarne i singoli momenti, quasi nel segno della partecipazione cosmica alla celebrazione del centenario. 

Il maltempo con i segni quanto mai visibili, anzi pressanti, di presenza della natura, che sembrava poter impedire irrimediabilmente di passare al clou della manifestazione – la visita alle Pitture rupestri recuperate – si è protratto fino al termine del rinfresco seguito agli interventi celebrativi. Una fase di pioggia scrosciante associata a un sole incredibilmente luminoso ha preceduto la fine della meteorologia inclemente con l’azzurro tornato nel cielo inondato dai raggi solari. 

La scala in legno per l’accesso alle altre due pitture rupestri
vista dal basso

A questo punto la visita alle Pitture rupestri  recuperate è stata agevole, allietata da una  natura splendidamente  amica.  E’ come se un nume protettore avesse partecipato assicurando il pieno successo, e chi potrebbe essere se non chi è riuscito a identificarsi con la natura incontenibile della sua montagna?  Quest’esclamazione ci viene spontanea.

La visita alle Pitture rupestri recuperate

Dalla chiesa di San Rocco ci si è spostati a Sopratore, fino a raggiungere il nuovo itinerario attrezzato con transenne perfettamente inserite nell’ambiente che conduce alla maggiore Pittura rupestre restaurata, una delle più grandi e spettacolari; una piattaforma, anch’essa lignea, consente un’agevole sosta per la prolungata visione frontale.

Il restauro ci regala un cromatismo intenso con i forti contrasti tra figure rosse e bianche, nere e blu, in una composizione molto particolare con le terga di un cavallo mentre un altro cavallo con cavaliere è visto di profilo, inquadratura non consueta nell’iconografia di Montauti. Molto apprezzabile, nell’opera di restauro, la particolare cura dei contorni delle figure, sfumati in modo che affiori la roccia nuda, che concorre anche a formare essa stessa delle figure, l’effetto è spettacolare.

La seconda pittura rupestre restaurata, nell’anfratto roccioso

 Ma le sorprese non sono finite, subito dopo la piattaforma in legno davanti alla grande roccia dipinta, è stata realizzata una scaletta, particolarmente lunga e molto ripida, anzi quasi verticale, ma ciononostante comoda e sicura, che dà accesso alle altre due Pitture rupestri superstiti recuperate, al di sotto di quella più grande.

Una pittura più semplice con poche figure è su una roccia posta sulla sinistra, l’altra spicca in una anfratto sulla destra che ha richiesto anche un lavoro di eliminazione dei detriti da cui era sommersa. E’ un’altra visione spettacolare, diversa da quella della  pittura soprastante, perché il gruppo di figure non è schierato come in parata, ma rincantucciato nel cavo della roccia.

Altrettanto spettacolare il fatto che ai margini di questa scena con tante figure che sembrano rifugiarsi nell’accogliente incavo della roccia, c’è  il  “bello orrido” degli scenari montani, un precipizio tra rocce e vegetazione, con la protezione di una solida transenna in legno.

In questo ambiente evocativo di fiabe silvane, con gli elfi e le magiche presenze, è stato bello vedere, insieme ai figli dell’artista, i bambini loro nipoti, che si nascondevano nelle aperture della  roccia dietro alla Pittura rupestre nell’anfratto: era la vita che tornava intorno a figure che con il restauro sono tornate esse stesse alla vita,  nelle generazioni più giovani cui passa il testimone di Guido Montauti, la cui figura e la cui memoria restano fortemente radicate nella sua terra, mentre hanno varcato anche i confini regionali e nazionali con l’unanime  apprezzamento  ricevuto. 

La terza pittura rupestre restaurata, a dx della scala in legno

La pittura rupestre di Jorg Grunert del premio Guido Montauti 2014

Un seguito significativo c’è stato sulla via del ritorno dopo questa suggestiva ed emozionante escursione: una breve deviazione per visitare la pittura rupestre realizzata nel 2014 da Jorg Grunert  vincitore del “1^ Premio Internazionale di Pitture Rupestri ‘Guido Montauti'” di  PIetracamela,  con il restauratore delle tre Pitture rupestri del Pastore bianco Anelli che, tra l’altro, è stato suo compagno di corso all’Accademia.

Questa nuova pittura rupestre è nella stessa vallata, più in basso, con una continuità ideale, in un ambiente naturale immerso nel verde, dove ci sono due antichi ruderi:  l’antica chiesetta della Madonna di Collemolino  – nei cui sotterranei venivano conservate le salme dei deceduti –  diroccata e inaccessibile per l’assalto della vegetazione, di cui si vede il riquadro monumentale dell’abside, e il vecchio mulino le cui macine erano azionate dal salto dell’acqua del Rio d’Arno, ridotto alle due arcate, mentre sulla spianata sulle rive del torrente è stata realizzata una piccola cavea per show teatrali o musicali.

La maggiore pittura rupestre dopo il restauro, davanti il restauratore Corrado Anelli

Anche questo è importante sottolineare nel momento della celebrazione del recupero di opere prestigiose nel centenario della nascita di Guido Montauti: la gloria del paese entrato nel 2005 nel Club dell’Anci dei “Borghi più belli d’Italia”, nel 2007 “Borgo dell’anno”, e insignito delle Cinque stelle alpine di eccellenza.

E’ un borgo che merita di essere rilanciato per gli  straordinari pregi ambientali e la sua struttura urbana arroccata in una suggestiva  composizione panoramica nello scenario incomparabile del Gran Sasso.

Al suo rilancio potranno concorrere le Pitture rupestri recuperate, sarà un altro contributo del grande artista al  paese natale da cui ha tratto ispirazione la sua arte, e da lui tanto amato. 

La maggiore pittura rupestre prima del restauro

Info

Questo articolo conclude il nostro servizio sul centenario in questo sito in 6 articoli, con 13 immagini in ognuno dei 4 articoli centrali di commento alla mostra, più 22 immagini nel 1°  articolo. I primi cinque articoli del servizio sono usciti:  il 1° il 13 luglio “Montauti”, nel centenario: 1. Ricordo dell’uomo”, il 2° il 22 luglio “Montauti, nel centenario. 2. L”uomo e l’artista”, il 3° il 29 luglio “Montauti nel centenario: 3. Dagli esordi alla svolta plastica”, il 4° il 3 agosto  “Montauti, nel centenario: 4. Dal periodo parigino alle Pitture rupestri”;  il 5° l’11 agosto “Montauti, nel centenario, 5. “Dal Pastore bianco all’Empireo” .  Inoltre nostri articoli sono usciti nel 2012 sulla mostra con la seguenza fotografica dell’artista ripresa da Aligi Bonaduce e sul crollo del “Grottone” e le sue Pitture rupestri in  “abruzzo.world.it” il 3 e 14 settembre  2012 e in “fotografia.guidaconsumatore” il 9 settembre 2012 (tali siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). Sul “Premio Internazionale Puttura Rupestre Guido Montauti”  e sul vincitore Jorg Gunert, cfr. i nostri articoli usciti in questo sito il  14 luglio, 2 e 9 settembre 2014 e sul già citato “abruzzo.world.it” l’8 luglio 2014.           .

Foto

Le immagini della manifestazione e delle Pitture rupestri recuperate (compresa quella della maggiore Pittura rupestre prima del restauro), sono state riprese da Romano Maria Levante nel corso dell’incontro e della visita (attuale e precedente) al luogo dell’intervento; l’immagine di chiusura  è di Aligi Bonaduce, che si ringrazia per la foto fornita. In apertura, La locandina della manifestazione; seguono, Il sindaco di Pietracamela Michele Petraccia, e L’assessore al Turismo della Regione Abruzzo Giorgio D’Ignazio, nei loro interventi, con alla dx Paola Di Felice, direttrice della Pinacoteca di Teramo, poi, I due figli dell’artista Giorgio e Pierluigi Montauti nei loro interventi, alla dx del primo Corrado Anelli il restauratore delle pitture rupestri, seduto davanti al secondo Paolo Antonetti dell’Associazione Ambasciatori del Centro Italia; quindi, L’inizio del percorso attrezzato verso le tre pitture rupestri restaurate, e La parte superiore del percorso attrezzato, prima della discesa verso le tre pitture rupestri restaurate; quindi, La maggiore pittura rupestre restaurata vista dall’alto, con davanti il restauratore Corrado Anelli, e Alcuni  partecipanti davanti alla maggiore pittura rupestre restaurata, il sindaco Michele Petraccia, i figli dell’artista Giorgio e Pierluigi Montauti, il restauratore Corrado Anelli; inoltre, Corrado Anelli  indica un particolare della  pittura rupestre da lui restaurata , e  La scala di legno per accedere alle due pitture rupetsri sottostanti, all’inizio della scala il sindaco Michele Petraccia, al termine il restauratore Corrado Anelli; ancora, La scala in legno per l’accesso alle altre due pitture rupestri vista dal basso, e La seconda pittura rupestre restaurata, nell’anfratto roccioso; continua, La terza pittura rupestre restaurata, a dx della scala in legno, e  La maggiore pittura rupestre dopo il restauro, davanti il restauratore Corrado Anelli; infine, La maggiore pittura rupestre prima del restauro e, in chiusura, Una delle altre pitture rupestri distrutte dalla frana del 2010 irrimediabilmente perdute.

Una delle altre pitture rupestri distrutte dalla frana del 2010 irrimediabilmente perdute

 

“Bric-a-brac”, l’arte contemporanea nei paesi emergenti, alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

Dal 17 luglio al 14 ottobre 2018 alla Galleria Nazionale la mostra “Bric-à-brac, Jumble of Growth,  L’alternativa”, offre un panorama di espressioni artistiche sulla creatività nei paesi emergenti,  ispirate allo sconvolgimento prodotto dalla globalizzazione nel suo impatto con il localismo nei paesi di nuovo impetuoso sviluppo, come i Brics, diverso da quello  capitalistico di marca occidentale, fenomeno epocale che ha impatto anche nell’arte come manifestazione spontanea dei conseguenti  fermenti. La mostra, realizzata dalla Galleria Nazionale in collaborazione con il Today Art Museum di Pechino,  è a cura del cinese  Huang Du e del cubano Gerardo Mosquera, che hanno curato anche il Catalogo.

Le opere  esposte sono state selezionate  nell’ottica del superamento del tradizionale rapporto tra Oriente e Occidente per i nuovi assetti continuamente mutevoli come espressione delle  potenti energie in un mondo in continuo divenire che vede alla ribalta sempre nuovi protagonisti, tra gravi crisi e forti riprese.

I Paesi del Sud del mondo, la nuova geografia dello sviluppo

Con la mostra sono stati approfonditi questi fenomeni  resi ancora più complessi dalal variabilità del contesto economico internazionale nel quale sono radicalmente mutati i tradizionali equilibri tra l’Occidente del G7 e i paesi  sottosviluppati, passati allo stadio di  “in fase di sviluppo”, fino all’emergere dei BRIC, gruppo costituito da Brasile, Russia, India, Cina, con oltre il 30%del PIL mondiale, come i paesi del G7, una popolazione del 40% e una dinamica di sviluppo molto più rapida di quella dei paesi avanzati. ma i BRIC non esauriscono i cambiamenti epocali nel contesto economico mondiale, ci sono anche i MINK e i MINT, che vedono con il Messico  l’Indonesia e la Nigeria, la Corea del Sud e la Turchia.

L’ascesa di queste economie ha portato al parziale superamento della globalizzazione capitalistica perché ha dovuto fare i conti con il localismo legato alle tradizioni e alle situazioni di paesi di antichissima civiltà. ma questo ha creato nuovi problemi, tra cui l’accrescersi delle disparità economiche tra i ceti  favoriti dalla forte crescita economica e quelli emarginati che, anche visivamente, nell’irrefrenabile urbanesimo sono stati confinati nelle  favelas e nelle bidonville ai margini delle megalopoli asiatiche.  ù

Si sono incrociate le diverse culture creando anche delle contaminazioni  che hanno superato in parte  la tradizionale dominanza della cultura occidentale che veniva imposta dall’alto del  maggiore livello delle economie dei paesi avanzati. Nel nuovo ciclo economico i BRIC, divenuti  BRICS con l’aggiunta del Sudafrica, hanno tassi di crescita del PIL  perfino tripli di quelli dei paesi del G7 e un livello tecnologico all’altezza dell’impetuoso sviluppo.

Il curatore Huand Du riassume così la complessità della situazione: “Alternando dinamiche di reciproca collisione e fusione, la globalizzazione e la localizzazione si stanno rigenerando attraverso scissioni e riavvicinamenti continui del settore politico ed economico, intensificando, in questo modo, la formazione e l’emergere di nuove zone culturali”. 

E’ un processo in cui gli equilibri momentaneamente raggiunti  lasciano il posto a nuove situazioni di instabilità soprattutto quando si manifestano crisi economiche in una o nell’altra area economica: “C’è un nuovo braccio di forza – prosegue Huand Du – tra i paesi occidentali rappresentati dal capitalismo diffuso (Europa e America) e quelli impoveriti ed emarginati, le cui prospettive politico-economiche presentano un nuovo tipo di modernità”. Per non parlare del braccio di ferro con i BRICS, su basi diverse e in parte opposte, non essendo né impoveriti né emarginati, anzi con la prospettiva di superare i paesi  del G7.

Le antiche definizioni sui paesi non avanzati, incentrate sullo sviluppo, da sottosviluppati a in via di sviluppo, come anche quella di “Terzo mondo”,  vengono sostituite dal “Sud del mondo”, senza qualifiche, anche se non sembra applicabile ai paesi del BRICS perché esprime sempre una condizione di subalternità rispetto all’egemonia occidentale. 

Il vero  Sud del mondo è costituito dai paesi che oltre a non avere alcune condizioni primarie per lo sviluppo, come imprese dinamiche e competitive,  sono anche  fuori dalle reti di cooperazione e non sembrano in grado di crearle restando  isolate nel loro sottosviluppo.

Lo sottolinea l’altro curatore, Gerardo Mosquera, che in modo speculare aggiunge, : “Le  nuove potenti economie di mercato emergono da situazioni critiche di sottosviluppo”, Come? “Sperimentano crescita economica velocissima, industrializzazione ed espansione del mercato interno, accompagnate da modernizzazione ne costituisce inevitabilmente una parte. Tuttavia, il mondo dell’arte comprende anche fattori, funzioni, agenti, obiettivi e prodotti ad esso propri  e che risultano relativamente autonomi”. Al riguardo cita ,  azioni rapide e diseguali, in moli casi nel pieno di una società ancora fortemente tradizionale”. 

Al riguardo non valgono le categorie del pensiero economico p occidentale, da Marx  ai liberisti: “Questo processo di sviluppo è stato piuttosto irregolare e sbilanciato, pieno di contrasti di ogni tipo. Molte di queste sono società post-coloniali che hanno già sperimentato disuguaglianze, segregazioni, ambiguità e ibridazioni dovute proprio a questa condizione”.ù

Ed è proprio il coesistere di queste e altre contraddizioni, la compresenza di opposti,  che spiega il titolo dato alla mostra: “Un bric-à-brac di situazioni e processi disparati  caratterizza le società di questi Paesi che attraversano cambiamenti rapidi e talvolta disordinati. In particolare, velocità e scala dei fenomeni rappresentano  i due fattori maggiori caratterizzanti l’economia dei BRIC e il relativo capitalismo selvaggio dei mercatio in espansione che implica processi di sviluppo spesso deregolamentati e disordinati, basati sulla quantità più che sulla qualità e sulla coerenza sociale”. L’urbanesimo altrettanto selvaggio, che soprattutto in Cina cresce in modo esponenziale, è uno degli effetti più vistosi di tale processo.

Jonathan Harris  descrive le conseguenze a livello globale dell’indebolimento economico degli Stati Uniti e dell’Europa  e afferma: “Se il nostro ordine/disordine mondiale costituisce un sistema – vale a dire una totalità funzionale, che sa essere organizzativa e produttiva  tanto quanto caotica e distruttiva come ampiamente dimostrato dalla crisi finanziaria del 2008 e dalle sue conseguenze – allora il mondo dell’arte contemporanea ne rappresenta inevitabilmente una parte”.  Ecco come vede  questo sistema: “Modernità e contemporaneità socioculturale (intendendo con ‘contemporaneità’ la condizione e l’esperienza di ‘essere contemporanei’) sono implicate nello sviluppo del mondo dell’arte globale”. Più in particolare: “Queto processo èp stato trainato nnegli anni 2000 da un mercato mondiale redditizio e in rapida espansione, dominato da case d’asta occidentali e gallerie commerciali, dove si realizzano concretamente le vendite, con sedi a New York, Londra, Hong Kong, Pechino e, ora., in molti altri centri asiatici”.

Un altro studioso, Shao Yiyang, parte dal concetto che la globalizzazione dopo la fine della guerra fredda “può essere percepita come una forma di ‘occidentalizzazione’, di capitalismo o ‘americanizzazione'” diffondendo i modelli culturali degli Stati Uniti, dallo stile di vita all’istruzione, dal cinema alla musica, dalla moda ai centri commerciali. Per lui, “rispetto al mondo dell’arte la globalizzazione costituisce un guazzabuglio. Alle Biennali internazionali d’arte contemporanea e alle rassegne sono stati ammessi un numero crescente di Paesi e molteplici mezzi di espressione artistica . Nuove prospettive sono state introdotte nei processi creativi dell’arte contemporanea”.

Riferendosi direttamente alla mostra attuale, afferma: “L’esposizione prende ad esempio l’arte visiva dei paesi  BRIC per indagare il tema della simbiosi  pluralistica all’interno della globalizzazione e della localizzazione”. 

Siamo entrati così nel terreno proprio della mostra, dopo aver inquadrato il contesto ben più vasto e complesso, nei suoi risvolti economico-sociali, politico-culturali, sul quale i due curatori, e i due studiosi citati,  si diffondono con una analisi molto approfondita contenuta nel Catalogo  denso di contenuti.

Il contenuto della mostra e i 4 nuclei tematici

Il titolo della mostra evoca nel contempo l’acronimo dei BRIC, che l’economista Jim O’Neil creò nel 2001, e la dizione francese che con “Bric-à-brac” definisce un’accozzaglia confusa di oggetti eterogenei, mentre la dizione inglese si riferisce al “Guazzabuglio dello sviluppo” e quella cinese a “L’alternativa”, evidentemente all’egemonia occidentale  della prima globalizzazione.

Huang Du spiega: “Questa mostra attinge ai BRICS come a un punto di partenza per esplorare il cambiamento di ruolo dei Paesi in via di sviluppo e il loro impatto sull’economia locale e internazionale. In questo processo l’arte riflette, alla sua maniera, questa forza economica” . E, in modo ancora più preciso: “Quindi, il tema fondamentale su cui questa mostra si focalizza riguarda le modalità in cui l’arte contrasta e incarna i mutamenti sociali e come questi ultimi si manifestino e prendano sempre maggiore spazio nelle narrazioni della vita culturale e dei singoli”.

Sono 4  i nuclei tematici della mostra,  alla base della selezione delle opere,  dal guazzabuglio e dal caos alla narrazione discorsiva e singola.

Nel 1° nucleo. sul “guazzabuglio della crescita”, da un lato l’influenza del localismo, con le culture locali che esprimono tradizioni e credenze religiose cui non può sottrarsi l’ispirazione dell’artista; in senso opposto i cambiamenti culturali indotti dalla globalizzazione che alimentando fortemente gli scambi tra le nazioni mette in contatto con altre civiltà “favorendo così l’influenza delle diverse sfere espressive l’una sull’altra”, come afferma Huang Du, in una prospettiva globale.

Con il 2° nucleo, “spazio caotico” si entra nei problemi creati negli spazi urbani, pubblici, privati  e virtuali, dalle trasformazioni sociali.

il lato artistico viene affrontato direttamente nel 3° nucleo, “Pratica del discorso”, nel quale gli artisti rappresentano le loro posizioni sui temi più sentiti e dibattuti al loro modo, con forme critiche personali e soggettive.

Mentre il 4° e ultimo nucleo, “Narrativa individuale e corpi microscopici”, esprime la condizione individuale  nella società globalizzata vista come un corpo di minime dimensioni che lotta per la sopravvivenza non nell’isolamento ma inserito in una rete di relazioni sociali, un corpo con diversi connotati – corpo  naturale, sociale, scientifico e artistico – che trascendono  la sua stessa entità.

Le opere esposte nella mostra sono molto recenti, la maggior parte realizzate dopo il 2010,  gli autori appartengono non solo ai paesi del BRIC, Brasile, Russia, India, Cina, con in più il Sudafrica che configura il BRICS –  ma anche a paesi emergenti del “Sud del mondo”, –Corea del Sud e Messico, ed altri come Marocco e Panama, Kurdistan iracheno e Cuba, fino ai paesi europei  Belgio e Repubblica Ceca, Spagna e Italia i cui artisti  interpretano le stesse problematiche.

La rassegna delle opere esposte, dipint, video e fotografie

Un segno di eclatante contemporaneità è dato dal fatto che sono pochissime le opere pittoriche esposte rispetto  ad altre forme espressive, come le installazioni, i video e le fotografie.

Sono dipinti ad acquerello su carta fatta a mano quelli, realizzati dal 2005 al 2011, dell’italiano Francesco Clemente, definito “un vero nomade, soprattutto ritratti come “Winter Women IV e “Androgyne Selfportrait III”,  “Eye and I Selfportrait V -“Selfportrait VII” e “Ritratto di Alba”Nei suoi acquerelli l’artista inserisce di solito frammenti di immagini correlate ma contraddittorie ,prese dalla quotidianità locale in un assemblaggio casuale lontano dalla razionalità e da una vera identità.

E’ realizzata con “ruggine su carta” la serie  di “Wretched of the Earth”, 2016, del sudafricano Kendell Geers, l'”infelicità della terra” espressa da un’immagine fantasmatica centrale con la ruggine tutt’intorno. in un’altra opera, “Prayer Wheeel (Left over people”” utilizza un barile di petrolio,  .

Tra i video spicca “The Feast of Trimalcio”, 2010, del collettivo russo AES+ F, esposto alla 53^ Biennale di Venezia, ispirato al banchetto del Satyricon del poeta latino Petronio, al pari della dissolutezza e della decadenza del tempo di Nerone c’è quella del consumismo sfrenato, cui partecipano tutti i ceti senza più distinzioni, finché questo paradiso illusorio della globalizzazione crolla miseramente.

Del curdo iracheno Jamal Penjweny il documentario “Another Life”, 2010, in cui “un’altra vita” sostituisce quella precedente che viene rappresentata in immagini di miseria ed emarginazione.

Recentissima, del 2018,  “Samsung significa venire” la coreana  Young-hae Chang Heavy Industries gioca sul nome, sfilano delle scritte in un video di quasi 10’dando ironicamente alla grande multinazionale un ruolo umano, anche nell’amore.

Un video più breve, meno di 4′, dell’autore indiano Shilpa Gupta, con “Hand drawn Maps of India”, 2007-08, la riaffermazione identitaria con contorni di mappe del continente indiano.

Due i video dei panamesi Donan Conlon & Jonathan Harker,  “Game # 1”, 2008, e  “Domino Effect”, 2013, mattoncini forati come tessere di un mosaico il primo, blocchetti che cadono l’uno sull’altro in una sequenza da domino il secondo.

La fotografia dopo i video, non si tratta di fotogrammi di sequenze filmate, è un’arte del tutto autonoma che è sempre più diffusa.

Vediamo per  prime una serie di scritte stampata su un tabellone, sono del 2018. le “Grand Phrases # 2” di Cristina Lucas. , in parallelo con il video sulla “Samsung” hanno un esplicito  riferimento a messaggi di grandi compagnie, da “The happiest place on earth” a “It’s everywhere you want to be”.

Squallore nella serie fotografica “The link 01-05”, 1995 – una delle opere in mostra più indietro nel tempo – del marocchino MounirFatmi, squallidi particolari di fili elettrici e antenne. Anche squallore in “O Cosmopolita”, 2011, della brasiliana Cinthia Marcelle, un lavoratore che raduna delle sottili aste di ferro davanti a una misera casupola.

Al contrario, di “Babel-world”,  Carnevale” e “The Nap”, 2010, del cinese Du Zhenjun, mostrano due immagini scioccanti dell’accozzaglia umana intorno al grande edificio ultramoderno. Altrettanta folla, ma ordinata e ripresa mentre  assiste a uno spettacolo musicale all’aperto, nella foto di Wang Guofeng , altro cinese, dal titolo ammonitore ed enigmatico: “It is neither the past, nor the present, nor the future”.

 Si torna nella dimensione raccolta, quasi personale, con le 20 fotografie di modeste abitazioni in “Materia en Reposo II”, 2004,del messicano “Damièn Ortega”che nel 2003 aveva creato l’opera, anch’essa esposta, “Materia en Repiso I” costituita da 1700 mattoni accumulati. Non né un’opera fotografica con la quale passiamo alle installazioni che, come questa, presentano oggetti e altro.

E’ un’installazione, non più fotografica ma materiale, con la quale passiamo all’ultima categoria di opere esposte, dopo i dipinti, i video e le fotografie.

Installazioni molto diverse, fino alle scritte al neon

Le più appariscenti installazioni sono di due cinesi,  la grande gabbia avvolgente che occupa la prima sala, “Consume”, 2014,con cui Geo Weigang sembra evocare la costrizione consumistica, e “A…O!, 2014-15, di Tian Longyu, una grande belva a due facce, da un lato la testa di tigre come il pellame, dall’altro testa e corpo  di elefante con zanne e proboscide, pur se dal pellame tigrato.

Altrettanto spettacolari “Two.Subjecters”, 2009, dello svizzero Thomas Hirschorn,  manichini a grandezza naturale di due mannequin vestite con lunghi abiti coperti di piccole fotografie da famiglia; mentre “Terracota Army”, 2016, dello spagnolo Fernando Sànchez Castillo, un gran numero di figure di guerrieri, a peidi, alcuni a cavallo, richiama la celebre Armata cinese. Minuscolo, ma chiaramente allusivo, “Globe of the World”, del cubano Wilfredo Prieto, che dipinge simbolicamente il planisfero sulla superficie sferica di un cece  di mezzo centimetro.

La piccola valigia “Cloaca Travel Kit” 2009-10.evoca la celebre installazione con cui il belga Wim Delvoye,ha ricostruito il processo di digestione, fino alla produzione  di rifiuti simil-feci, raccolti nel kit esposto,, il pensiero torna alla “Merda d’artista” con cui Piero Manzoni diede scandalo.

Mentre quattro artisti cinesi presentano opere in diversi materiali e forme espressive: Wan Liyun,conPut the cabinet in its drawer:2″, 2005, un mobile composto di strisce lignee sconnesse, e Yang Xinguang, 2018, con “Shiny metallic skin” un grande disco metallico dalla superficie variegata su un telaio leggero; gli altri due, delle scritte al neon,  Wang Guangyi  con “Study for Putanzhixia Mofeiwangtu“, 2016, oltre alla scritta, video e fotografie, Lu Zhengyuan con “Nirvana”, la scritta sopra un tubo che evoca il fumo.

Sempre un cinese conclude la nostra rassegna, lo citiamo al termine perché evoca l’azione dei  media e della pubblicità,di Lu Lei,  “Pretending Egomania“, 2015, con il megafono che si illumina sulla bocca dell’animale, visione che, insieme al titolo, è quanto mai eloquente.

Del resto, il megafono portato dalla globalizzazione è quanto mai pervasivo, ed è meritorio ch questa mostra ce lo ricordi all’interno del campionario di opere di artisti di diversi paesi impegnati  a far sentire la voce della loro arte per interpretare il guazzabuglio e il caos,ed esprimere la consapevolezza a livello  individuale e collettivo.

Guido Montauti, nel centenario: 5. Dal Pastore bianco all’Empireo

di Romano Maria Levante

Si conclude la visita alla mostra, promossa dai comuni teramani di  Bellante, Fano Adriano, Pietracamela e Roseto degli Abruzzi, “Guido Montauti. ‘Un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita” a Roseto degli Abruzzi (Te) dal 6 giugno al 6 luglio 2018, a partire dalla rievocazione del “Pastore bianco” per passare alle fasi tendenti all’astrazione, dai “cespugli” alle “bande oblique” fino alla rarefazione del “Periodo bianco” che culmina nell’“Empireo” dell’ultima opera, dopo un toccante testamento pittorico, fase cui è dedicata la mostra successiva a Roseto dall’8 al 31 agosto  (ricordiamo che oltre a tutte le opere esposte nella mostra attuale evidenziate in corsivo grassetto,  citiamo anche opere delle mostre precedenti in semplice corsivo).  

Giudizio Universale (studio)” , 1964

Nei due articoli precedenti sono illustrate le fasi artistiche prima di queste conclusive, in particolare la fase con la tipica plasticità della simbiosi tra sagome umane e rocce del “quarto stato montanaro” e la fase degli “esordi” fino alla Liberazione; questi articoli seguono i due iniziali sulla figura di uomo e di artista  nei giudizi della critica più recente e sulla sua qualità umana nei nostri ricordi personali. Seguirà l’ultimo articolo sul recupero delle pitture rupestri. Catalogo EditPress srl di Castellalto (Te) per l’Associazione Ambasciatori del Centro Italia. 

Abbiamo introdotto l “avventura” del “Pastore bianco” commentando le “Pitture rupestri” che sono state la creazione più spettacolare  e altamente simbolica, nell’ambiente caratteristico delle “Grotte di Segaturo” dove la plasticità delle sagome umane senza volto ha trovato nelle rocce la sua collocazione naturale in una sorta di adunata assorta e in attesa, in un clima magico e suggestivo.

Ora evochiamo la parte più tradizionale della sua produzione artistica e quella più sorprendente della sua clamorosa sfida per la difesa dell’arte dalle degenerazioni degli eccessi modernisti.

Soltanto un anno dopo la  sua costituzione, nel 1964, “Il Pastore bianco” espone 10 grandi tele e il monumentale “Giudizio Universale”, di ben 25 metri quadrati, al Palazzo delle Esposizioni di Roma; nel 1966 l’esposizione diventa itinerante nei tre principali capoluoghi dell’Abruzzo, la terra dei componenti del Gruppo e la fonte dell’ispirazione artistica, a Teramo nell’Istituto magistrale “G. Milli”, a Pescara nella “Galleria Verrocchio”, a L’Aquila nel “Palazzo Cappelli”. 

“Prato con figura seduta”, 1960 

Nel “Giudizio Universale (studio)”  – ricordiamo che il grandissimo dipinto originale è collocato in permanenza in cima allo scalone del Municipio di Teramo in Piazza Orsini – tra massi celesti le caratteristiche sagome umane, molte filiformi, isolate o raggruppate, in attesa o già giudicate, in quiete o mentre gridano, alcune nell’atteggiamento dell'”Uomo che urla”, tra le trombe del Giudizio, mentre un angelo incombe con le grandi ali aperte volteggiando su di loro.

E’ esposta anche “Processione” radicalmente diversa dalla gigantesca composizione dallo stesso titolo dell’altro grande abruzzese De Michetti – 5 grandi vessilli sventolano su un agglomerato di sagome umane tra rocce altrettanto stilizzate, in un cromatismo omogeneo armonizzato, sulla stessa linea ideale e stilistica del “Giudizio Universale”.

Ma sono due eccezioni, notevoli per il loro valore evocativo, alla produzione del gruppo avviata nel 1964 con opere aventi per soggetto i pastori. Vediamo 3 composizioni, “Pastori sulle rocce”, di colore ocra, 9 ai piedi di grandi massi grigi, e 7 sulla sommità, “L’attesa dei pastori”,con le consuete sagome assorte in un forte contrasto tra figure rosse e nere, c’è anche un piccolo cane ma senza rocce, come “Gruppo di pastori”, nel contrasto tra sagome nere e bianche su sfondo rosso.

Esclusivamente in bianco le 2 sagome umane e i grandi massi di “Uomo e donna seduti tra le rocce”, del 1966, e il gruppo movimentato con un cavallo di “Pastori”, del 1967, è significativo il ritorno dell’insolito cromatismo che abbiamo visto già in opere del 1949-50 e vedremo ancora in un contesto informale e rarefatto verso l’astrazione sette anni dopo, nel cosiddetto “Periodo bianco”. Lo stesso titolo “Pastori” a un piccolo cartone con 9 figure scure insolitamente sfumate e allungate.

Ma all’artista non basta dare l’esempio del ritorno alla figura con i dipinti del gruppo creato a questo fine,  nel 1966 cita in giudizio la Biennale Internazionale d’Arte di Venezia per violazione dello Statuto e lancia una sfida clamorosa all’insegna dell'”Avanguardia della Rinascenza”. Finché  nel 1967, con la dichiarazione “I giovani artisti di tutti i paesi del mondo hanno raccolto il messaggio del Pastore bianco”, si conclude l’azione dirompente del gruppo, missione compiuta! 

“Tre pastori seduti”, 1962 

La “Figura disegnata” al Liceo Artistico

Sono passati soltanto due anni dalla conclusione dell'”avventura” del “Pastore bianco”, l’artista ha compiuto cinquant’anni nei quali ha rinunziato ad ogni altra attività per dedicarsi esclusivamente alla pittura, tutto fa pensare che non verrà mai meno a questa scelta di vita. Invece accetta la cattedra di “Figura disegnata” al Liceo Artistico Statale di Teramo, offertagli da Nerio Rosa, il critico d’arte e intellettuale teramano che, nominato Direttore dell’Istituto,  intendeva rilanciarlo affidando la docenza alla sua forte personalità di riconosciuto prestigio nel mondo dell’arte. 

Le iniziali incertezze furono superate con una nomina provvisoria di un mese nel corso del quale riuscì a stabilire un ottimo rapporto con studenti e famiglie; ma soprattutto, crediamo,  ebbe la consapevolezza che in quel modo avrebbe potuto trasmettere ai giovani i frutti della sua esperienza e visione artistica, una sorta di passaggio del testimone.

Questo non significa che faceva pesare la sua caratura di grande artista, tutt’altro, lo ha ricordato una commossa testimonianza di Nerio Rosa. Per nove anni, fino alla scomparsa, portò avanti il suo insegnamento rispettando la personalità degli allievi e prodigandosi anche nei rapporti con le famiglie, superando le remore insite nel suo carattere schivo e riservato. La memoria di questa lunga e appassionata stagione didattica resta nella mente e nel cuore di coloro che l’hanno vissuta ed è stata fissata nel  nome dell’Istituto,  a lui intitolato, si chiama ora “Liceo Artistico Statale Guido Montauti”.

Gli anni ’70 e la nuova svolta, i “cespugli” e le “bande oblique”

La sua produzione pittorica prosegue con nuovi sviluppi, mentre si conclude la sua visibilità nel panorama artistico con due mostre nel 1970 alla “Galleria d’Arte Le Muse” di Bologna e alla “Galleria d’Arte Moderna” di Teramo: sono le ultime occasioni in cui presenta le sue opere in pubblico, sono passati tre anni dal clamore con cui si è conclusa l’avventura del “Pastore bianco”, ora viene meno la sua presenza, per una scelta ben precisa e consapevole quanto coraggiosa.

Il pittore che è riuscito a scuotere il mondo parigino all’inizio degli anni ’50, a movimentare la scena nazionale all’inizio degli anni ’60 con “Il Pastore bianco”, all’inizio degli anni ’70 si raccoglie di nuovo in se stesso, in un isolamento con il quale non solo mantiene “chiusa la porta a mercanti e compratori” – sono le sue parole – ma dà alla pittura contenuti nuovi, alla ricerca di un’inedita immagine dell’uomo e della natura, in un’evoluzione verso livelli sempre più alti.

Anche nei periodi precedenti, pur nell’apparente continuità, non mancava di approfondire la sua ricerca e darne conto nelle opere. Ora, raggiunto con  il “quarto stato montanaro” e “Il Pastore bianco” un ulteriore livello nella cifra stilistica e nel contenuto, con l’aggiunta del clamoroso messaggio  per la “rinascenza” dell’arte, non ha voluto fermarsi nè riposare sugli allori. E per trovare una nuova ispirazione occorreva un profondo ripiegamento interiore: di qui l’isolamento, la solitudine, la ricerca di qualcosa di cui prima non sentiva il bisogno, ma ora si faceva sentire.

La trova in quelli che sono stati definiti “quadri gestuali”, perché per  lui “il gesto è libertà, ma non dalla materia”, lo ricorda Nerio Rosa aggiungendo che “per materia intendeva qualcosa che facesse parte della pittura, una pittura però che sapeva evolversi senza repentini cambiamenti di rotta”, come abbiamo visto e vedremo ancora. 

“Pastori fra le rocce”, 1968

 Proseguono le composizioni “monstre” dei gruppi di figure assorte quasi in posa come nelle foto  dell’album di famiglia davanti o a lato della grande roccia. Del 1970 citiamo “Pastori tra le rocce” e “Famiglia di pastori”, come sempre schierati frontalmente, in un cromatismo delicato, arancio-pastello sfumato, dopo che il “Pastore bianco” nel 1964 li aveva ritratti in un insolito candore. Nello stesso anno abbiamo “Bagnanti tra le rocce”,  ispirato agli specchi d’acqua del Rio d’Arno a Pietracamela,  le cosiddette “caldaie” dove avveniva di bagnarsi di regola nudi come nel dipinto, si è cimentato in un soggetto affrontato dai grandi pittori ai quali dedicava molta attenzione, vediamo tre figure femminili nude, due in piedi e una seduta tra due piccole rocce celesti.  

Ma  i ritratti sono del tutto assenti in questa fase avanzata del suo percorso artistico dopo gli “Autoritratti” e le altre figure singole che abbiamo visto tra le opere degli “Esordi”?  Assolutamente no, la mostra ne espone 7, una piccola galleria. dal 1970 al 1977, non sono le solite sagome senza volto, i visi hanno una fisionomia che nella sua fissità porta lontano, a un arcaismo quasi totemico.

Due sono fumatori, “Uomo che fuma”, 1970, e “Uomo che fuma la pipa”,1972, il primo nella posa a lui abituale, come si vede da sue fotografie in cui con la mano sinistra stringe la sigaretta, qui è nella mano destra; il secondo fumatore insolitamente con cappello e cravatta, in entrambi le due mani sono protese verso il volto. Ha dipinto anche “Donna seduta che fuma”, 1970, con la testa appoggiata sulla mano destra.

Quasi gemelli “Il ‘Giocondo'”, 1973, e “Donna con collana ed orecchini”, 1974, . mentre sono nettamente diversi nel cromatismo “Donna di Pietracamela”, 1969, un corpo appena sagomato con un vezzoso quanto improbabile colletto al collo, e “Uomo seduto con cappello”, 1972, nero e rosso a differenza del precedente chiaro con sfumature  gialle appena accennate. 

“Pastori accanto alle rocce”, 1968 

Altrettanto diversi “Uomo che urla”, 1973, che sembra appartenere alla fase iniziale in cui si ispirava ai grandi del passato, è quasi un “d’aprés”  di Munch, e “Pastore e vegetazione bianca”,1977, dal contorno marcato del busto e del viso in un mare di biancore con la forma sferica che evoca la roccia, e sarà il sigillo immancabile dell’ultima fase, il “Periodo bianco”.

Ed ecco che in questi anni un nuovo elemento si immette nelle sue composizioni, dopo la pianta  e i fiori del 1967 e 1968, sono  i “cespugli”, sempre più pervasivi. Nel 1970 il loro ingresso lo vediamo quasi annunciato  in “Donna con bambino tra le rocce”,  immagine tenera con le due figure tra due rocce e una sorta di fiammata vegetale dietro di loro, poi le sagome scompaiono in “Prato con rocce e cespugli”.  

Ci sono ancora le sagome umane e le rocce nel 1971 in “Due figure tra rocce e cespugli”, poi spariscono in “Rocce e cespugli”, 1971, e “Paesaggio con rocce e cespugli”, 1972, mentre restano solo le piante in “Uliveto”, 1971, e “Paesaggio di cespugli”, 1974. In quest’ultimo, a differenza dei precedenti, i cespugli invadono il dipinto coprendo l’intera superficie, non sono più sostanzialmente monocromatici, ma affastellati in quattro tinte pastello, giallo e verde, celeste e viola, come fossero onde. E quel che più conta, per marcare il notevole salto evolutivo, è il fatto che la composizione  non ha più nulla della raffigurazione, è un informale che entra nel campo dell’astrazione, vi troviamo una lontana assonanza con il segno  caratteristico di Capogrossi.

Addirittura in due opere del 1973, “Rocce” e “Terreno con cespuglio e roccia”,il terreno è reso da grossi colpi di spatola, nel primo nei colori rosso e giallo, bianco, nero e blu,  mentre le rocce diventano delle sfere candide, quasi un’anticipazione del “Periodo bianco”.  

Due figure tra rocce e cespugli”, 1971 

Nel 1974, dopo l’astratto “Paesaggio di cespugli” sopra citato, viene abbandonato anche questo riferimento divenuto sempre più labile, ed eccoil “Paesaggio con vegetazione policroma” , dal quale si passa al“Paesaggio con trasversalità materica”, e al “Paesaggio con complessità trasversale”, nel titolo il richiamo ambientale è dato soltanto dal “paesaggio”, né “cespugli” né “vegetazione”. Sono bande cromatiche affiancate obliquamente, diverse dalle matasse dei cespugli, in un forte cromatismo soprattutto arancione con innesti rossi, blu e soprattutto bianchi.

Paola Di Felice vede nel suo nuovo linguaggio pittorico lo “spazio sincopato della natura” che “un tempo aveva accomunato e identificato la roccia con l’essere umano, l’uomo, la donna, l’animale e che adesso si trasforma in un fiorire di colori e non-colori, liberi, solari, moncromi”; tutto questo “in una sorta di horror vacui dall’intensa armonia musicale che l’occhio sa percepire e amare”.

E’ stato abbandonato, dunque, ogni riferimento all’archetipo ambientale nel quale non mancava mai la roccia? No, resta un sigillo immancabile, forme sferiche bianche che ritroveremo sempre.

L’ultimo quinquennio, il “Periodo bianco” e la rarefazione eterea

Sempre nel 1974, si va ancora oltre nel cromatismo, il bianco diventa prevalente nelle bande oblique, da “Costruzione paesaggistica” a due opere dal titolo  “Paesaggio con roccia e vegetazione a bande oblique”, che evoca elementi naturali senza rappresentarli, perché la roccia è una presenza come mero sigillo; le  bande bianche nel secondo tendono a fondersi.   

“Paesaggio di cespugli”, 1977

In due dipinti del 1975, “Vegetazione bianca” e “Paesaggio a bande orizzontali”, si va sempre più verso l’astrazione pur con l’immancabile presenza del sigillo sferico, simbolo delle sue rocce.  Inizia il “Periodo bianco”, nel quale l’evoluzione diventa incalzante, sono gli ultimi anni del suo lungo itinerario artistico, mentre il percorso di vita si arresta prematuramente.

Lo vediamo in“Due rocce su vegetazione a tratteggio ritmico trasversale”, 1976, con bande oblique molto sottili e intensamente colorate su fondo bianco, e in “Paesaggio modulare”, 1975-78, dove le bande bianche sembrano moltiplicarsi spezzate richiamando i “cespugli”, ma soprattutto evocando parole scritte in sequenza; fino al “Paesaggio con  tratteggio ritmico trasversale”,1977, non vi sono più le bande, bensì un fondo bianco con piccole macchie cromatiche ed elementi filiformi in volo obliquo, si sente una forte tensione verso l’alto, sono evanescenti ma il sigillo della roccia non manca.

Anticipato da “Gruppo di pastori”, 1973, con figure dai volti ben delineati le une sulle altre, fa  storia a sé “Uomini di Pietracamela”,1977: non è più il “quarto stato montanaro” assorto e in attesa, con lo schieramento di  sagome senza volto ma con una forte identità, ora ci sono i volti con le rispettive individualità, bianchi su fondo nero, quasi per un ultimo saluto rivolto a ciascuno, non più al collettivo indistinto. Un estremo ritorno al figurativo delle origini quando la sua pittura ha superato anche le semplificazioni del plasticismo per una rarefazione spinta fino all’astrazione.  

“Paesaggio con complessità trasversale”, 1974

E siamo al 1978, l’ultimo anno della sua vita, il bianco è sempre più protagonista, in “Lettera” grossi caratteri candidi su fondo nero, come in “Uomini di Pietracamela” c’erano i volti nello stesso contrasto bianco-nero: due composizioni parallele che fanno pensare a un imperscrutabile quanto toccante testamento pittorico. Questa “lettera” è come su un foglio verticale, mentre nella mostra di Firenze fu presentata un’altra “Lettera”, dello stesso anno, “scritta”  invece in un foglio orizzontale, con in più tre cerchi bianchi che sono il suo sigillo “roccioso”. In entrambe le versioni  si intravedono effettivamente dei caratteri allineati in parole che sembrano comporre delle frasi, in modo più evidente che nel già citato “Paesaggio modulare” dove si aveva la sensazione pur se molto vaga di uno scritto, anche se tutto resta indecifrabile; ma si avverte chiaramente l’anelito di una ricerca interiore sempre più ansiosa, come se volesse trasmettere ai compaesani un estremo messaggio.

La sublimazione finale, l’ “Empireo”

Siamo alla sublimazione finale, in “Paesaggio con complessità ritmiche” del 1978, non più bande che si assottigliano fino a dissolversi in un fondale bianco nel quale fluttuano ridotte a punti e tratti  cromatici in ascesa verso l’alto, ma un pulviscolo bianco ancora più rarefatto, che fa pensare al raggiungimento dell’essenza: la materia lascia il posto a un elemento immateriale di natura spirituale, anzi soprannaturale, come nell’Empireo dantesco.. In tale elevazione, l’immancabile sigillo dell’amata roccia assume il carattere altrettanto immateriale della memoria.

Nel “Ricordo di Guido Montauti” – con cui abbiamo aperto la nostra rievocazione dell’uomo e dell’artista – abbiamo confidato  che questa interpretazione ci è stata ispirata da “fatti che è eufemistico definire non comuni”, per questo li abbiamo tenuti per noi. A questo punto ci sembra giusto rivelarli, per come si sono manifestati nella nostra visita alla mostra di Firenze del 2002.  

Paesaggio con rocce e vegetazione a bande oblique”, 1974

Era una domenica e dopo la visita alla mostra abbiamo sentito il richiamo della Santa Messa, cosa inconsueta in tutti i nostri viaggi domenicali; al Vangelo il brano di Giovanni “Voi adesso avete tristezza ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà… io non vi lascerò orfani, ritornerò a voi, e nessuno avrà il potere di rapire la vostra gioia”. Un tuffo al cuore, sono le due iscrizioni che scegliemmo per le lapidi dei nostri genitori nel cimitero di Pietracamela, dal Vangelo che la nostra madre usava leggere. Ma le lapidi rappresentano un cielo punteggiato da corpi celesti, l’Empireo…  Di corsa di nuovo alla mostra, l’ultima opera dell’artista sull’orlo della vita si associava al messaggio imperscrutabile giunto a noi nel modo riferito, così il “Paesaggio con complessità ritmiche” assumeva un valore superiore, nella nostra visione diventava “L’Empireo”. Lo abbiamo scritto allora nel registro dei visitatori della mostra, attoniti e increduli, presi nell’intimo da quanto accaduto che non potevamo reprimere.

Questa sua ultima opera è del 1978, un male inesorabile lo porterà via il 14 marzo 1979, ne era consapevole e con il testamento spirituale della “Lettera”, anch’essa del 1978, affidata agli “Uomini di Pietracamela”, del 1977, ci fa salire nella dimensione più alta, all'”Empireo” del suo approdo iperuranio artistico e umano.

Lo spirito dell’artista nel cuore della sua terra

Un altro evento straordinario, dopo questa elevazione fino all”Empireo, ci riporta al paese natio dove tornava sempre d’estate per immergersi nell’amato ambiente montano da cui aveva tratto l’ispirazione per la sua arte.

Abbiamo rievocato, sempre  nel “Ricordo di Guido Montauti”,  una mostra molto particolare svoltasi a Pietracamela nel 2012, che ha presentato le fotografie scattate all’artista circa 35 anni prima da Aligi Bonaduce nel “Grottone”, la grande caverna del contrafforte roccioso precipitato nel 2011 in una frana rovinosa sulla vallata sottostante distruggendo gran parte delle sue “Pitture rupestri”. E’ un magistrale servizio fotografico, con immagini dell’arrivo nella grotta, la sosta, il ritorno, quasi si volesse fissare un momento irripetibile. Ebbene, i negativi sono stati ritrovati casualmente dal figlio di Aligi, Flavio, dopo la frana, in una di quelle casualità e coincidenze che fanno pensare ai “segni” evocativi di qualcosa di “più alto e più oltre”, per citare l’espressione di D’Annunzio, un altro grande abruzzese, che dava molto valore ai “segni”.    

“Paesaggio con tratteggio ritmico trasversale”,  1976-77

“Più alto” ci siamo andati con l’interpretazione soprannaturale del “segno” di Firenze, “più oltre” andiamo adesso, tornati sulla terra, vedendo nella sua figura ripresa mentre dall’alto del “Grottone” – che più di 35 anni dopo sarebbe rovinato sulle sue pitture – domina la vallata come un nume tutelare. Che resta nella sua terra compenetrato in modo indissolubile attraverso le sue pitture sbriciolate e quindi fuse intimamente con l’humus montano, alimento primordiale della sua arte; così la sua impronta si è fissata come segno permanente in una ideale reincarnazione panica. 

Le tre “Pitture rupestri” sopravvissute alla frana sono state  restaurate e rese nuovamente accessibili – con la manifestazione del 10 agosto 2018 che si aggiunge alle altre iniziative celebrative del centenario – come testimonianza di questa presenza immanente nel corpo vivo della sua terra, e anche qui, come nel Liceo Artistico di Teramo, un ideale passaggio di testimone. Questa volta con la nuova “Pittura rupestre” di Jorg Grunert, vincitore nel 2014 della “1^ edizione del Premio Internazionale Pitture Rupestri ‘Guido Montauti'”, collocata molto più in basso nella vallata dove sono quelle superstiti.

Nel cuore della sua terra, tra la gente montanara e le rocce che ha rappresentato in una simbiosi vitale, l’artista è sempre presente, come lo è nel mondo dell’arte che ha saputo apprezzare il suo generoso impegno creativo in cui ha dato tutto se stesso nella ricerca inesausta di qualcosa che andasse, ci piace ripeterlo, “più alto e più oltre”. E lo ha trovato nel livello massimo, l’Empireo!  

“Uomini di Pietracamela”,  1977 

 E’ stato ricordato già nell’anno della morte nell’ambito del 33° Premio Michetti, nel luglio-agosto 1979, le sue opere sono state esposte nel marzo-aprile 1987 nella Rassegna Aquilana di “Alternative Attuali” al Forte spagnolo; nel 1992 in luglio a Castelbasso (Te) alla rassegna “Castellarte” e in luglio-settembre al XXVI Premio Vasto; nel 1995 al Castello di Nocciano; nel 2000, in maggio a Casauria (Aq) alla rassegna “Figura e Figurazioni” al Castello De Petris – Castiglione, in giugno a Francavilla al Mare (Pe) alla rassegna “900: Artisti ed Arte in Abruzzo” al Museo Michetti; nel 2001 in luglio-settembre mostra a Pietracamela, omaggio del paese natale, e nel 2002 mostra a Firenze nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio, promossa dal Comune di Teramo in collaborazione con il Comune di Firenze;  nel 2003, a Teramo, a marzo-giugno alla Pinacoteca, e nel 2006, a gennaio-febbraio alla Galleria Forlenza; nel 2013, in luglio-agosto a Bellante (Te), al Palazzo Aurelio Saliceti di Ripattone, e nel 2014 a Pietracamela “1^ edizione Premio Internazionale Pitture Rupestri ‘Guido Montauti'”; fino alle mostra attuale e alla altre celebrazioni del  centenario.

Scorrendo la sua Bibliografia abbiamo contato 110 scritti sulla sua opera di noti critici d’arte, dai francesi Pierre Descargues e Jean Albert Gauthier, Maximilen Daudet e Daniel Israel Meyer,  agli italiani Raffaele Carrieri e Virgilio Guidi,  Bruno Corà, Enrico Crispolti e il teramano Nerio Rosa con cui ha avuto un intenso rapporto anche sul piano umano, ben oltre la critica d’arte.

Tra le tante cose che sono state scritte su di lui, alle citazioni precedenti vogliamo aggiungere le parole con cui Paola Di Felice apre la presentazione della mostra del centenario, che poniamo a conclusione della nostra rievocazione:”Guido Montauti ha dipinto se stesso dentro e fuori e, anche quando ha dovuto rimpiangere veramente la mancanza di tempo, di spazio, di atmosfere giuste, ha continuato a farlo, ‘portatore’ di sentimenti, bisogni, attese, al pari di quella natura che egli elegge a protagonista del suo sentire”. Ci sembra un’immagine quanto mai fedele, dell’uomo e dell’artista visto nelle sua umanità come interprete appassionato di un mondo di cui con la  sua sensibilità ha saputo rendere l’essenza più autentica.  

“Lettera”, 1978

Info

Roseto degli Abruzzi (Te), Villa Paris. Catalogo  “Guido Montauti,’ un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita”, EditPress srl per conto dell’Associazione Ambasciatori  del Centro Italia, maggio 2018, pp. 136, formato 24 x 26. Nel Catalogo, contributi critici di Paola Di Felice “Guido Montauti, un maestro abruzzese del Novecento”, Nerio Rosa “Per Guido Montauti”, Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”, Romano Maria Levante “Ricordo di Guido Montauti”. Cataloghi delle due mostre precedenti:“Guido Montauti”, Omaggio all’artista del suo paese natale, luglio 2001, con Presentazione del sindaco di Pietracamela Giorgio Forti, “Ricordo di un amico” di Luigi Muzii, e contributi critici di Enrico Crispolti “Per una diversa collocazione della diversità di Guido Montauti” e Nerio Rosa “Attualità del percorso artistico di Guido Montauti”;“Guido Montauti”, catalogo delle Mostra nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio a Firenze e nella Pinacpteca Civica di Teramo, Comuni di Teramo e di Firenze, aprile 2002, contributi critici di Paola Di Felice “Per una doverosa riscoperta”, Nerio Rosa “La divina indifferenza delle immagini di Guido Montauti” e  Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”. Dai Cataloghi citati, e soprattutto da quello della mostra attuale, sono tratte le citazioni del testo.  Il nostro servizio sul centenario in questo sito è in 6 articoli, con 13 immagini in ognuno dei 4 articoli centrali di commento alla mostra, più 22 immagini nel 1° e 17 immagini nel 6° articolo. I primi quattro articoli del servizio sono usciti:  il 1° il 13 luglio “Montauti”, nel centenario: 1. Ricordo dell’uomo”, il 2° il 22 luglio “Montauti, nel centenario. 2. L”uomo e l’artista”, il 3° il 29 luglio “Montauti nel centenario: 3. Dagli esordi alla svolta plastica”, il 4° il 3 agosto  “Montauti, nel centenario: 4. Dal periodo parigino alle Pitture rupestri”;  il 6° e ultimo articolo uscirà il 19 agosto “Montauti, nel centenario, 6. Il recupero delle pitture rupestri”.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Villa Paris, Roseto degli Abruzzi,  tranne alcune (la 2^, 3^, 4^, 5^, 12^) tratte dal Catalogo, si ringraziano gli organizzatori e l’Editore, con i titolari dei diritti, in nodo particolare i figli dell’artista Giorgio e Pierluigi Montauti, per l’opportunità offerta. Si precisa che in questo articolo sono state commentate anche le ultime 6 opere riprodotte nell’articolo precedente. In apertura, “ Giudizio Universale (studio)” 1964; seguono, “Prato con figura seduta” 1960, e “Tre pastori seduti” 1962; poi, “Pastori fra le rocce” 1968, e “Pastori accanto alle rocce” 1968; quindi, “Due figure tra rocce e cespugli” 1971, e “Paesaggio di cespugli” 1977; inoltre, “Paesaggio con complessità trasversale” 1974, e “Paesaggio con rocce e vegetazione a bande oblique” 1974; ancora, “Paesaggio con tratteggio ritmico trasversale” 1976-77, e “Uomini di Pietracamela”  1977; infine, “Lettera” 1978 e, in chiusura, “Paesaggio con complessità ritmiche” 1978, per noi “L’Empireo”.

“Paesaggio con complessità ritmiche”,1978,
per noi “L’Empireo”

Guido Montauti, nel centenario, 4. Dal periodo parigino alle Pitture rupestri

di Romano Maria Levante

Prosegue la visita alla mostra, promossa dai comuni teramani di  Bellante, Fano Adriano, Pietracamela e Roseto degli Abruzzi, “Guido Montauti. ‘Un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita” a Roseto degli Abruzzi (Te) dal 6 giugno al 6 luglio 2018, passando al periodo parigino dell’inizio degli anni ’50 fino all’intero corso degli anni ‘60, con le “Pitture rupestri”  in cui si consolida la sua caratteristica cifra stilistica e di contenuto del “quarto stato montanaro”, fase oggetto della mostra successiva, sempre a Roseto, dall’8 al 31 agosto 2018. Abbiamo già rievocato nell’articolo precedente gli “esordi” fino alla Liberazione e al 1950 e, nei due primi articoli, la sua figura di uomo e di artista soprattutto nei commenti recenti di critici d’arte ela sua qualità umana nei nostri ricordi personali  (ricordiamo che oltre a tutte le opere esposte nella mostra attuale evidenziate in corsivo grassetto,  citiamo anche opere delle mostre precedenti in semplice corsivo). Nei prossimo articolo le ultime forme stilistiche, dal “Pastore bianco”  alle fasi verso l’astrazione, con i “cespugli” e le“bande oblique” fino alla rarefazione del “Periodo bianco”; nell’articolo finale, il recupero delle Pitture rupestri a Pietracamela. Catalogo EditPress srl di Castellalto (Te) per conto dell’Associazione Ambasciatori del Centro Italia.

Pastori”, 1967

Siamo arrivati così, nel percorso artistico e umano di Guido Montauti, agli anni vissuti a Parigi, particolarmente intensi tra il 1952 e il 1956, con un seguito di mostre e monografie fino al 1963.

Dimora a Montparnasse nel quartiere degli artisti e conosce Salvatore Di Giuseppe, di origine siciliana, amico di Boccioni, che diventa collezionista delle sue opere: dalla collezione Di Giuseppe provengono molte opere esposte nelle diverse mostre, sembra che ne possedesse oltre 200.

Rivela Nerio Rosa: “So che questo mecenate avrebbe voluto presentarlo come pittore di montagna, una sorta di Rousseau di Pietracamela. Ed a Pietracamela egli giunse, un’estate degli anni cinquanta a bordo di una grossa Cadillac”. Per riportare subito dopo il giudizio di Montauti: “Ma egli, pur senza dichiararlo esplicitamente, non si riconosceva nell’immagine quasi ‘naif’ che Parigi voleva cucirgli addosso. Infatti, di Rousseau non si stancava di ricordare a tutti, in quegli anni, le qualità culturali e i riflessi universali della pittura. ‘Il ‘doganiere’ non era affatto né un ingenuo né un semplice’ soleva ripetere Montauti”, e  commenta: “Sono certo che egli si riferisse tanto a Rousseau quanto a se stesso, non ignorando le implicazioni culturali del suo impegno”.   

“Pastori (studio)”, 1951

A Parigi espone  nel 1952 alla “Galerie Art Vivant”, che riunisce i pittori della “Section d’Or”, e gli offre un contratto dopo la presentazione di Jaques Olivier. Conosce Mirò e Villon, Lothe, Metzinger e Gleizes;  sempre in Francia, successivamente conoscerà Dubuffet, Matta, Pignon, ma è presente anche in Italia. 

Nel 1953, a maggio, espone al Circolo teramano, nel 1954, in gennaio, altra personale alla “Galerie Art Vivant” di Parigi, e in luglio conferenza del prof. Valerio Mariani al Circolo teramano sulla sua pittura nel contesto dell’arte contemporanea.

Altrettanto nel 1955, partecipazione a Nantes all'”Exposition des peintres italiens a Paris”, a Parigi al “Salon d’Art Libre” e, nel novembre-dicembre,  personale alla “Galleria Creuze”, presentato da Pierre Descargues che sarà un suo grande estimatore: in marzo-aprile personale a Milano alla “Galleria Cairoli”, dove conosce i pittori Fontana e Birolli, Moriotti, Migneco e Brindisi.

Si nota la compresenza di opere come “Paesaggio collinare” e “Due colline”, del 1954, “La guerra” e una nuova “Crocifissione”, del 1955, che risentono di influssi, finanche di Masaccio per il Crocifisso e di Goya, con altre opere in cui è evidente la svolta: l’isolamento plastico di ciò che lo colpisce visto come ingrandito e nelle sue linee essenziali, con il suo figurativo quasi informale. 

“Corteggiamento pastorale (studio)”, 1951

Lo vediamo in 3 opere del 1953 precedenti quelle appena citate,“Abbraccio coniugale”, “Zucche” e “Due pastori seduti”; e in opere contemporanee, da“Piccola chiesa sulle rocce” ai  vari dipinti sulla “Mucca”,del 1954, da “Figure sedute” e “Due ulivi” , a “Mucca tra le rocce” e “La colazione dei carbonai”, tutte del 1955.

Ma c’è un’altra svolta altrettanto basilare nella forma espressiva come nei contenuti delle sue opere: siamo nel 1956, la segna “Paesaggio”, per la scomparsa della vegetazione con l’irrompere delle rocce, vediamo il gigantesco masso che incombe su due casette minuscole con altri massi sparsi nella vasta superficie del quadro. Abbiamo opere molto espressive come  “Pastore e due cavalli”,con la figura umana dominante, mentre “Senarica”  rimanda al  borgo dei Monti della Laga che fu sede di un’antica repubblica. In tale anno partecipa alla Mostra Regionale Arti Figurative d’Abruzzo e Molise che si tiene all’Aquila in aprile-maggio, lo fa anche l’anno successivo quando la mostra si tiene a Teramo nel mese di giugno.  

Nel 1957 “Casa con rocce” e “Collina” confermano la compresenza di case e rocce con proporzioni invertite rispetto a “Paesaggio”, la grande casa e la grande collina con la piccola roccia. Questa sarà una presenza pressoché stabile fino a che diverrà un sigillo definitivo con forti radici interiori, ma lo vedremo. “La rocca” segna ulteriormente il “ritorno a casa”, si tratta di “Vena grande”, il masso considerato identitario del paese natale. L’artista non dimentica l’elemento umano, ma lo circoscrive a questo mondo che è il suo mondo, ed ecco  “L’incontro dei pastori”,le forme ormai sono squadrate e si preparano a diventare sagome senza volto e senza tempo. 

“Abbraccio coniugale”, 1953

 Ha quarant’anni, nel 1958 due mostre – in aprile a Roma alla “Galleria Schneider”, in ottobre a Teramo all’E.P.T. – segnano il distacco definitivo dalla capitale francese, dove tuttavia non sarà dimenticato: verranno pubblicate due monografie, una nel 1961 a cura di Maximilian Daudet sui suoi disegni, l’altra nel 1963 curata da Daniel Israel-Meyer sulla sua produzione artistica per la “Galerie Transposition”; nell’ottobre-novembre 1962 la “Galerie Espace” gli dedica una mostra personale  presentata da Jean Clausse.

E’ tornato per sempre in Italia nonostante in Francia abbia trovato critica favorevole, mecenate  e contratti nella sede più florida dell’arte contemporanea, oltre che fucina di artisti delle più diverse correnti. Ma forse proprio questo contesto apparentemente ideale non si confaceva al suo spirito libero da condizionamenti, ed erano tanti quelli che venivano dalle pressioni di un mercato peraltro così ambito e generoso. Neppure la vita parigina si confaceva al suo animo schivo e riservato, portato ad appartarsi. “Casa di Pietracamela”, del 1959, fa entrare ancora di più nel “natio borgo selvaggio” citato esplicitamente nel titolo, presenta una parete senza prospettiva con una porta senza finestre, più essenziale non si può. 

Nelle altre opere abbiamo visto una ricerca descrittiva che senza sfociare nel figurativo classico si nota nei particolari plastici dei volumi,  espressione dell’osservazione attenta della natura e dei soggetti prescelti.

Così si chiude un periodo di intensa produzione pittorica  in cui è incessante la ricerca di una propria formula di stile e di contenuto partendo dai modelli dei grandi maestri, fino alla magistrale “agnitio” che gli disvela quel mondo che ha visto con i suoi occhi e sentito con la sua sensibilità di uomo e di artista, ma soltanto ora ha la maturazione giusta per farne il protagonista assoluto della propria arte. 

“Zucche”, 1953

L’ “agnitio”  è avvenuta, come si è accennato, nel 1948, poi  ha preso sempre più forma, la sua stesura materica con forti pennellate e spatolate rimanda alle immagini della realtà ben conosciuta  e amata, compenetrata nel proprio essere: l’ambiente naturale della sua terra e la gente montanara che lo popola. 

E’ la premessa per quelle che saranno le figure tra le rocce,  quasi a testimoniare una presenza ancestrale  a guardia dei valori impersonati nella comunità che gli ha dato i natali lasciando in lui l’impronta indelebile espressa nella sua maturata e consapevole scelta artistica assolutamente personale: un “quarto stato montanaro” assorto e in attesa.

Sono senza una fisionomia che dia loro una precisa individualità,  ma hanno una propria identità, come osserva Bruno Corà: “L’assenza di fisionomia delle figure di Montauti non rinuncia all’identità, ma evoca e rivela la condivisione di una condizione. Nel cuore della montagna, nel guscio di Pietracamela, la realtà di uno è uguale a quella di tutti gli altri”. Con questo significato: “A un certo punto, nell’assidua osservazione, quando la riflessione del pittore coglie il nodo vitale delle cose, l’esistenza e le sue forme si manifestano e rivelano emblematicamente elementari, la realtà è messa a nudo. Ed è di quella ‘nudità’, ancorché rivestita da semplici panni o da un colore unico che la pittura di Montauti ha conquistato l’essenza”.

Gli anni ’60, il “quarto stato montanaro” tra le rocce del suo paese

Gli anni ’60 iniziano con l’interessamento di Giorgio Morandi alle sue grafiche e con la monografia di Maximilien Daudet sui suoi disegni scarni ed essenziali nel cogliere l’essenza della raffigurazione senza ombre né sbavature, sembrano loro stessi scolpiti, come i suoi dipinti. Il celebre critico scrisse nel volume su di lui: “Come può venirci dalla terra selvaggia  e dimenticata degli abruzzesi una voce tanto alta, disperata, nuova, chiara, sincera? Queste le domande che mi pongo subito di fronte ai disegni di Montauti e mi accade di sentirmi come uno di quei pastori da lui disegnati, grave, eterno, assorto, largo di spalle”.   

“Casa con roccia”, 1957

 Bruno Corà spiega ulteriormente la straordinaria efficacia dei suoi disegni: “L’esperienza ha insegnato al pittore che il profilo di una collina, quello di una casa, quello di una schiena umana o animale e perfino quello di una pietra sono percepiti dalla sua sensibilità con eguale emozione, perché manifestazioni del vivente e forme del suo stesso vissuto. Così, egli giunge a tracciare con una sola linea curva di matita ‘Colline’ (1960), un disegno che ha la forza di un taglio di Fontana!”. 

E’ morto il suo mecenate-collezionista Salvatore Di Giuseppe, è terminata  l’esperienza parigina che gli ha dato una dimensione internazionale e forti stimoli culturali e artistici riflessi nelle sue opere nelle quali sono evidenti i segni di un’evoluzione che prosegue e lo porterà sempre oltre.  La sintesi artistica rende meno visibili gli aspetti descrittivi ridotti all’essenziale, il “Quarto stato montanaro” impone la sua legge, le figure sono scarne ma possenti, mere sagome umane con una forte identità,  e forme animali anch’esse quanto mai icastiche, mentre le rocce sono componenti immancabili di composizioni statuarie che incutono rispetto, anche soggezione. Dunque l’ambiente naturale e urbano con i suoi abitanti. 

“L’incontro dei pastori”, 1957

 Così abbiamo nel 1960 “Prato con figura seduta”, una superficie monocromatica dominante rispetto alla piccola sagoma a destra e la piccola roccia a sinistra, “Rocce”, aggregate come un gruppo vivente, anche nel 1963; “Casa tra le rocce”, 1960-62, dove l’abitazione diventa roccia essa stessa tra grandi massi azzurro e ocra;  “Due colline”, 1961, e “Collina, case e covoni”, 1962, sono rari sconfinamenti, in questo periodo, dalla sua montagna. 

Per coloro che vivono nell’ambiente abbiamo, del 1960 “Pastori seduti”, del 1962Pastori seduti sulle rocce”, in due su rocce grigie, “Tre pastori seduti”, due di loro, uomo e donna, le braccia conserte, il corpo in grigio-celeste, l’altro con le gambe di quel colore mentre la mano in modo insolito è portata fino al viso, e “Pastori tra le rocce”,un raro amalgama tra rocce e figure collocate in modo inconsueto, non frontalmente ma di profilo e raggruppate in circolo.    

“Uomo e donna seduti tra le rocce“, 1966

Lo stesso titolo in un’opera del 1968 in cui sono schierate frontalmente, tra 4 grandi  rocce azzurre, circa 25 sagome, alcune femminili e infantili, sigillo del “quarto stato montanaro” assorto e in attesa. E’ l’anno delle rocce sul blu, in “Famiglia di Pietracamela” sono 4 rocce con sulla sinistra 4 sagome e dietro delle casette altrettanto stilizzate, in “Famiglia accanto alle rocce” l’azzurro si estende oltre alle 3 rocce e allo sfondo, anche sulle 8 sagome umane alla sinistra della composizione. Già nel 1963 con  “I pastori delle montagne azzurre”, si andava da un cromatismo dalla tinta sanguigna al delicato celeste, fino all’azzurro tendente al blu, mentre nel 1966 “Uomo e donna seduti tra le rocce” si segnala per la forma essenziale.

Torniamo al 1968 perché in due opere troviamo i segni dell’evoluzione successiva, in “Paesaggio con Pietracamela” riappare una forte valenza descrittiva, e in “Pastori accanto alle rocce”, invecedelle casette della “Famiglia di Pietracamela” vediamo un folto gruppo di cespugli dietro le due grandi rocce azzurre: la vegetazione era già comparsa nel 1967 in “Terreno con rocce e pianta”,  e nel 1968 la vediamo anche in “Fiori tra le rocce”. Precorrono i “cespugli” degli anni ’70. Nel dicembre 1967 al Circolo teramano si celebra “Montauti”, nel giugno 1968 viene pubblicata la raccolta di 40 disegni su “Pietracamela”. 

“Pastori tra le rocce”, 1970 

Con  “Il Pastore bianco”,  le “Pitture rupestri” 

Le opere appena citate costituiscono un insieme omogeneo, apparentemente senza soluzione di continuità, invece c’è stata nei primi anni del decennio una cesura non stilistica bensì personale ma sempre di tipo artistico: il pittore schivo e solitario, tornato a dipingere chiuso nel suo studio con la resa luminosa a lui più congeniale dopo l’ubriacatura parigina, cambia pelle.

Nel 1963 costituisce intorno a sé il gruppo che chiama Il Pastore bianco”, con tre giovani pittori, Alberto Chiarini, Diego Esposito, Pietro Marcattilii e il pastore Bruno Bartolomei in opposizione dichiarata agli eccessi dell’Astrattismo e della Pop Art, e si impegna  in un’intensa attività pittorica che riporta al centro dell’arte la figura resa nella forma essenziale di imponente sagoma umana tra le rocce dell’ambiente naturale. Così nascono, oltre a una serie di dipinti di grandi dimensioni, tra cui il “Giudizio Universale”, le monumentali “Pitture rupestri”  nelle “Grotte di Segaturo” – un’area costellata di rocce come tanti bivacchi appena fuori l’abitato di Pietracamela – ispirate dal ricordo dei graffiti preistorici visti in Francia in un celebre sito conosciuto negli anni giovanili allorché si trovò a combattere con i “maquis” nella resistenza francese antinazista.  

“Bagnanti” , 1970 

Anche nei periodi precedenti,  pur nell’apparente continuità, non mancava di approfondire la sua ricerca e darne conto nelle opere. Di questo nuovo ciclo parla così Bruno Corà: “La spazialità del ‘Pastore bianco’ è quella stessa dei grandi cicli della pittura primitiva e tre-quattrocentesca italiana, con giustapposizioni di figure di cavalli e cavalieri, a figure erette in posizione frontale o offrenti le terga, secondo andamenti prospettici e  alternanze cromatiche essenziali o ridotte a pochissimi colori. In particolare, il colore con cui le silhouettes umane si stagliano sul fondo comune roccioso naturale , è steso con varietà cromatiche assai relative che vanno dal bianco al nero,.al blu, al rosso”.

E ancora: “Nessuna figura appare delimitata da segni di contorno, al contrario, come nella concezione del ‘colore di posizione’ (Brandi) morandiano, le stesure sono una adiacente all’altra e definiscono le masse per semplice differenza di pregnanza cromatica individuale”. Prosegue così: “L’inserimento delle figure nel corpo della roccia, anziché snaturarne l’aspetto, la carica di epos e di una silente sacralità già suscitata dall’isolamento e dalla solitudine dei luoghi”. Per concludere: “Quella del ‘Pastore bianco’ appare ancora oggi come una pagina testamentaria poetica di valore sorgivo a cui sempre poter attingere”. La vicinanza delle varie composizioni rocciose in un “accampamento” primordiale nell’anfiteatro delle “Grotte di Segaturo” ne accresce la forza evocativa.    

“Famiglia di pastori”, 1970

Le figure, dunque, non hanno contorni marcati, il fondo roccioso nel quale sono incorporate le modula anche per la maestria nell’accostamento cromatico di pochi colori ben netti. Si ha la sensazione di presenze vive, anche al di là della scena teatrale, con il sapore inconfondibile della realtà vera.

Sono sopravvissute al crollo del “Grottone” tre di tali “Pitture rupestri”, una raccolta in un anfratto naturale con una diecina di  figure quasi rintanate, un’altra maestosa nella sua imponenza con l’adunata di una ventina di forme umane bianche e celesti, nere e rosse, un cavallo con cavaliere e un altro visto dalle terga. Invece sono state perdute le altre, per alcune delle quali l’impatto era accresciuto dalla posizione acrobatica su rocce sospese o da altre peculiarità.

Ci sono anche gli studi su tela per alcune di loro, abbiamo visto esposti quelli di due delle tre  sopravvissute – il cui recupero associato alla mostra descriveremo nell’ultimo articolo – lo spirito di “Novecento” si ritrova nei tratti dalle forme primitive in un contesto grandioso.  Ma il Pastore bianco ha lasciato il segno anche per le grandi tele e per una clamorosa iniziativa. Ne parleremo prossimamente, passando poi alle ulteriori fasi dell’evoluzione pittorica dell’artista, proiettate sempre più verso l’astrazione con i “cespugli” e le “bande oblique”, fino al “Periodo bianco” che culmina nelle toccanti ultime opere. 

“Uomo che fuma”, 1970

Info

Roseto degli Abruzzi (Te), Villa Paris. Catalogo  “Guido Montauti,’ un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita”, EditPress srl per conto dell’Associazione Ambasciatori  del Centro Italia, maggio 2018, pp. 136, formato 24 x 26. Nel Catalogo, contributi critici di Paola Di Felice “Guido Montauti, un maestro abruzzese del Novecento”, Nerio Rosa “Per Guido Montauti”, Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”, Romano Maria Levante “Ricordo di Guido Montauti”. Cataloghi delle due mostre precedenti:“Guido Montauti”, Omaggio all’artista del suo paese natale, luglio 2001, con Presentazione del sindaco di Pietracamela Giorgio Forti, “Ricordo di un amico” di Luigi Muzii, e contributi critici di Enrico Crispolti, “Per una diversa collocazione della diversità di Guido Montauti” e  Nerio Rosa “Attualità del percorso artistico di Guido Montauti“;“Guido Montauti”, catalogo delle Mostre nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio a Firenze e nella Pinacoteca Civica di Teramo, Comuni di Teramo e di Firenze, aprile 2002, contributi critici di Paola Di Felice “Per una doverosa riscoperta”, Nerio Rosa “La divina indifferenza delle immagini di Guido Montauti” e  Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”. Dai Cataloghi citati, e soprattutto da quello della mostra attuale, sono tratte le citazioni del testo.  Il nostro servizio sul centenario in questo sito è in 6 articoli, con 13 immagini in ognuno dei 4 articoli centrali di commento alla mostra, più 22 immagini nel 1° e 17 immagini nel 6° articolo. I primi tre articoli del servizio sono usciti: il 1° il 13 luglio “Montauti, nel centenario: 1. Ricordo dell’uomo”,  il 2° il 22  luglio “Montauti, nel centenario; 2. L’uomo e l’artista”, il 3° il 29 luglio “Montauti, nel centenario: 3. Dagli esordi alla svolta plastica”, gli ultimi due articoli usciranno, il 5°  l’11 agosto “Montauti, nel centenario: 5. Dal Pastore bianco all’Empireo” e il 6° il 19 agosto “Montauti, nel centenario. 6. Il recupero delle Pitture rupestri”.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Villa Paris, Roseto degli Abruzzi,  tranne una (la 6^) tratta dal Catalogo, si ringraziano gli organizzatori e l’Editore, con i titolari dei diritti, in nodo particolare i figli dell’artista Giorgio e Pierluigi Montauti, per l’opportunità offerta. Le ultime 6 opere saranno descritte nell’articolo successivo, n. 5. In apertura, “ Pastori” 1967; seguono, “Pastori (studio)” 1951, e “Corteggiamento pastorale (studio)” 1951; poi, “Abbraccio coniugale” e  “Zucche” , 1953; quindi,  “Casa con roccia” e  “L’incontro dei pastori”, 1957; inoltre, “Uomo e donna seduti tra le rocce” 1966, e “Pastori tra le rocce” 1970; ancora,  “Bagnanti” e “Famiglia di pastori”, 1970; infine, “Uomo che fuma”,1970 e, in chiusura,  “Gruppo di pastori” ,1964, firmato “Il Pastore bianco”.

“Gruppo di pastori” ,1964, firmato “Il Pastore bianco”


Guttuso, 3. L’arte rivoluzionaria, dal 1960 al 1975, alla Gam di Torino

di Romano Maria Levante 

Si conclude il nostro racconto della mostra “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria  nel cinquantenario del ‘68”, aperta alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino  dal 23 febbraio al 24 giugno2018  con  esposti 35 dipinti e 32 disegni e acquerelli  realizzati dal 1936 al 1975, in un intenso realismo nella doppia visione dell’impegno politico e sociale e del  ripiegamento nel privato.  La mostra, organizzata con gli “Archivi Guttuso”, presidente Fabio Carapezza Guttuso,  è a cura di Pier Giovanni Castagnoli, e anche  il  catalogo della “Silvana Editoriale” è curato da Castagnoli con Carolyn Christiov-Bakargie direttore, e con Elena Volpato conservatore nella galleria.    

La mostra,  coerentemente con la sua impostazione, riporta, per gli anni ’60,  3  opere considerate tra le più  significative di un periodo miracolato dal “boom” economico con l’escalation consumistica e il diffondersi di nuovi costumi dopo  la faticosa quanto impetuosa ricostruzione, per questo la mostra del 2011 alla Fondazione Roma era intitolata “Gli irripetibili anni ‘60”. Non fu, tuttavia,  un periodo senza ombre, a livello economico la “congiuntura” del 1962 oscurò per  qualche tempo  la crescita, fino alla contestazione studentesca del 1968  seguita dall’autunno caldo operaio del 1969, e non furono semplicemente incidenti di percorso ma sommovimenti radicali.

Con gli anni ’60 non termina l’esibizione espositiva, degli anni ’70 sono esposte  3 opere: una del 1970,  una del 1975  – che fa pendant, per così dire, con un’opera del 1960 con cui si apre questo periodo – espressione del “Guttuso politico”, in aggiunta al “Guttuso rivoluzionario”  e al “Guttuso  privato”, anche se alla sua attività politica attribuiva un valore vicino a quello del suo ‘impegno  nell’arte, ne parleremo ancora. Ma soprattutto tra le due opere appena citate  c’è il grande dipinto del 1972  che sarebbe riduttivo  definire “politico”, per Fabio Belloni è “l’ultimo quadro di storia”.

Premesso ciò, dopo aver delineato in precedenza l’itinerario artistico e di vita di Guttuso e il suo personalissimo realismo, e averlo ripercorso con le opere esposte in mostra fino al 1960, passiamo alle opere realizzate negli anni successivi fino al 1975. Considerato che negli anni ’60, oltre alla situazione interna cui si è accennato, vi sono stati eventi tragici che hanno sconvolto  il mondo intero, l’assassinio di J. F. Kennedy  seguito da quello del fratello Robert e la devastante guerra del Vietnam che unì tutti i pacifisti contro il vituperato imperialismo americano. 

Anni ’60, dal Vietnam al ’68, la denuncia della guerra e l’appoggio alla contestazione  

A questa denuncia è dedicata un’opera inconsueta nell’artista perché si avvale di apporti fotografici e figurativi, con l’immagine simbolica dell’inerme alla mercé del superpotente che lo annichilisce, metafora del bombardamenti e delle sofferenze della popolazione tormentata da una guerra senza fine.  Si intitola “Documentario sul Vietnam”, 1965, molte mani ghermiscono il vietnamita seminudo, al centro di una scena con a sinistra il dolore espresso nel volto della Maddalena, sulla destra immagini di guerra: la modernità dell’artista e l’evoluzione della sua arte appaiono anche in queste incursioni d’avanguardia, da Pop Art. Il dipinto ha subito diverse trasformazioni con la riduzione a dimensioni minori rispetto a quelle dell’opera esposta alla sua personale di Berlino.

L’alternanza della denuncia con il “privato” si ripropone nello stesso anno attraverso il dipinto “Da Morandi”,  con in basso una serie delle caratteristiche “bottiglie”, peraltro molto piccole, di vari colori e affastellate, sovrastate da altri oggetti come un vaso con pianta grassa, immagini sullo sfondo e una sagoma sulla destra. E’ uno dei 12 dipinti  che realizzò sull’artista da lui molto stimato, Raffaele Carrieri definisce la sua incursione nel tranquillo e ordinato mondi morandiano “come se, nel silenzio di un crepuscolo, in un luogo remoto, fosse entrata  una motocicletta con lo scappamento aperto”, e lui stesso – alla presentazione romana delle opere nella Galleria “Nuova Pesa”, dopo quello milanese nel “Milione” – scrisse: “Vorrei che questi quadri fossero considerati pitture ‘dal vero’, un tentativo di presentazione degli oggetti quali essi sono  divenuti attraverso la scoperta fattane da Morandi. Nuovi oggetti rispetto alle bottiglie che gli servivano da modello; e, ho tentato, nuovi oggetti rispetto agli oggetti di Morandi”. Una chiara riproposizione del suo realismo, in cui la realtà non è quella oggettiva, ma è ben diversa nella visione personalissima dell’artista.  


Alla contestazione del ’68 dedica  la riproduzione – in un figurativo che fa pensare al fotorealismo  americano – dell’immagine diffusa dalla stampa con l’abbraccio in pubblico di una giovane coppia. L’artista dà due diverse raffigurazioni, entrambe esposte: quella che fa da testimonial alla mostra, “Gli addii di Francoforte” è un po’ diversa da “L’abbraccio”,più direttamente ispirato all’immagine  pubblicata da “Epoca” in un articolo sull’occupazione della Sorbona, l’università parigina: è a figura intera, le gambe della ragazza e le mani del dipinto sono pressoché coincidenti con quelle della fotografia, mentre negli “Addii di Francoforte”  la coppia è ritratta fino alle ginocchia, le mani in posizioni un po’ diverse; anche Michelangelo  Pistoletto in quel periodo realizzò un’opera della stessa ispirazione inserita nella sua ben nota superficie specchiata.  

Perché questa scelta dell’artista, nel crogiolo del 1968 così ricco di spunti ben più “rivoluzionari”? Non è dato sapere, “fate l’amore non fate la guerra”  era uno degli slogan più  diffusi, d’altra parte l’abbraccio pubblico fu la prima reazione al conformismo borghese che nascondeva i sentimenti  in un  perbenismo ipocrita;  la sfida giovanile iniziò con una sorta di libero amore, inteso come libertà dei sentimenti di manifestarsi, al pari delle altre libertà, “è vietato vietare” era  un altro degli slogan più comuni. La mostra celebrativa  “’68, è solo un inizio…” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, corredata da una inchiesta su ciò che resta del ’68 cinquant’anni dopo con la parola ai protagonisti di allora, ha mostrato le luci e ombre di un evento comunque epocale.

Abbiamo ricordato come il ’68 fu per Guttuso un momento esaltante perché sebbene fosse da un anno docente universitario, gli studenti che contestavano i “baroni” delle cattedre si rivolsero a lui per un “murale” in cui riprodusse la scena di una giovane donna con un  grappolo d’uva, simbolo della ribellione dionisiaca ai poter; Lui  ne perorò la  causa, garante delle loro istanze laddove  il Partito comunista era ostile al movimento libertario in ossequio alla propria natura dogmatica e centralista.

Scrisse infatti il 14 giugno 1968 a Giorgio Amendola che su “Rinascita” aveva condannato la contestazione studentesca che “è possibile parlare con gli studenti e perfino sentirsi rinascere  assieme a loro, è possibile un contatto diretto tra operai e studenti”.   E sulla divaricazione con Pasolini che vedeva negli studenti contestatori la deprecabile “classe borghese” e  nei poliziotti opposti a loro la prediletta “classe povera” aggiungeva: “Il problema è chi comanda la polizia? Chi la impiega? – E chi muove gli studenti? – Davvero solo gli agitatoti cinesi? Sarebbe un grosso errore ritenerlo”.  Perché in tal modo si condannerebbe alla sconfitta, “una sconfitta che sarebbe anche nostra e di cui noi stessi potremmo essere chiamati responsabili”. E non lo dice solo l’artista simpatizzante, anzi militante del Partito Comunista, ma un autorevole membro del Comitato  Centrale da 17 anni.  

Il  partito continuò comunque ad  appoggiare il suo realismo contro le avanguardie; analogamente alla difesa da parte del regime sovietico del “Realismo socialista” contro le visioni non appiattite sulla propaganda. La visita di Krushev a una celebre mostra di Mosca  con relativa condanna delle opere non conformiste  ebbe una replica nell’analoga reazione di Togliatti in una  mostra s Bologna.

Ricordiamo, per il 1968, alcune opere non esposte nella mostra, di cui la prima, celebrativa  dei valori e dei motivi sottesi al movimento studentesco, “Giornale murale maggio ‘68” realizzata ad Amburgo sotto l’effetto del maggio tedesco, quindi con respiro internazionale: ai bordi immagini evocative  delle nequizie americane .- uccisioni a sangue freddo ad opera degli alleati sudvietnamiti, dei razzisti del Ku Klux Kan, dei complici dell’eliminazione di Che Guevara –  al centro del quadro  la contrapposizione visiva tra la selva di bandiere rosse sulla destra rette da mani inermi spinte dagli ideali e la testuggine di scudi sulla sinistra senza volto, simbolo della repressione cieca del potere.

Un altro quadro del 1969 ci riporta all’interno del nostro paese, alla repressione giudiziaria dei giovani contestatori, “Il processo”, qui la contrapposizione è virtuale, ma indubbiamente intensa, in primo piano le sagome indistinte riprese di spalle di due agenti di custodia, di fronte quattro studenti arrestati con i pugni alzati, sulla destra un volto picassiamo alla “Guernica”. 

Questi dipinti confermano come Guttuso rifiutasse la contrapposizione tra figurativo e non figurativo vedendo diverse fasi e momenti intermedi da non potersi classificare. Contestare il realismo perché non rivoluzionava il linguaggio dell’arte anche se esprimeva contenuti rivoluzionari era visibilmente una visione estremistica ed infantile dei contestatori, anche perché la rivoluzione del linguaggio non trasmetteva contenuti percepibili dai destinatari dei messaggi che erano le classi lavoratrici di certo non aduse a certe forme espressive. Inoltre molti dei nuovi linguaggi d’avanguardia venivano dagli Stati Uniti che non eccellevano certo per sensibilità sociale e politica e spesso, come nella Pop Art, nel restare aderenti alle forme pubblicitarie e consumistiche non facevano altro che celebrarle piuttosto che contestarle.

Spunti Guttuso li trarrà anche da queste forme ma sempre con una rigorosa aderenza ai suoi contenuti permeati di una prorompente sensibilità sociale. 

Dal 1966 al 1970,  il risveglio politico con Mao a la “nuvola rossa”

E siamo al 1970  con “Lo scrittore Goffredo Parise visita a Pechino  la fabbrica dei libretti rossi, in effetti Parisi ne è sommerso, la superficie del quadro è quasi interamente occupata dai mucchietti di questi opuscoli per cui, secondo Massimo Onofri, “la sacralità di quel vangelo comunista è come annullata dall’anonima riproducibilità dei volumi che saturano il quadro, fino a sollevarlo entro una dimensione di assoluta irrealtà”. Crediamo tuttavia che l’artista ne abbia voluto esaltare la diffusione capillare nello sterminato continente cinese, per cui più che di “assoluta irrealtà” parleremmo di “simbolico iperrealismo”, tanto forte è l’evocazione della miriade di ricettori. Il libretto di Mao era invece presentato nella sua “sacralità” in quadri precedenti dove è raffigurato nelle mani di Lin Piao, lo ricordiamo in “Rivoluzione culturale”, non esposto, del 1969, strettoin mano come un breviario, ne seguiranno altri, fino alla citata  moltiplicazione dei  libretti rossi.,

Anche in “La nuvola rossa”, del 1966, il rosso è altrettanto invadente. Dietro un davanzale con poggiate cose eterogenee – dal fornellino con sopra la padella con l’uovo fritto e la mezza pagnotta di pane al  teschio bucranico di ariete con corna ricurve e alla pistola – ciascuna delle quali  è un simbolo evocativo, la grande onda color rosso fuoco, Werner Haftmann: ne parla così: “Figurativamente questa macchia rossa andrebbe letta come il riverbero del tramonto che nella serata romana entrava attraverso la finestra aperta. ma anche in questo caso il colore assume una qualità metaforica, diventa l’epifania di una nuvola associata alla bandiera rossa, ‘la bandiera della speranza e della libertà’, che porta il so messaggio rivoluzionario nella stanza e conquista alla propria causa anche quegli oggetti  banali. Tutto il quadro, perciò, sta a simboleggiare un risveglio politico”.  

I “Funerali di Togliatti”, dalla cronaca alla storia

Il risveglio avvertito con tale opera, due anni dopo  si è tradotto nell’esplosione politica dei  “Funerali di Togliatti”,  il dipinto monumentale del 1972 definito da Fabio Belloni “l’ultimo quadro di storia”. Lo studioso ne ha ricostruito la genesi, il significato e il valore, esponendo i risultati della sua accurata ricerca anche nella presentazione della mostra “Guttuso innamorato” alla Gnam, oltre che nel catalogo della mostra attuale su “Guttuso rivoluzionario”.

Dunque la genesi con gli interrogativi: come mai l’opera è stata realizzata ben otto anni dopo la scomparsa del leader comunista, avvenuta nel 1964,  quali circostanze o quali motivi hanno determinato ciò? Non ricorrenze particolari, si era già celebrato nell’anno precedente, il 1971,  il cinquantenario della fondazione del Partito comunista, e  l’anno successivo, il 1973, fu pubblicato  il libro di Giorgio Bocca su Togliatti che rinverdì l’interesse sulla sua figura suscitando polemiche.  

Nulla di tutto questo  nel 1972, ma intervennero altri eventi, quali l’elezione a segretario del partito di Enrico Berlinguer, succeduto a Luigi Longo, l’ultimo della generazione togliattiana, che segnava l’inizio di  un nuovo corso e poteva essere invitante celebrarlo con un’opera così evocativa;  tra l’altro questo è l’anno della morte di Giangiacomo Feltrinelli su un traliccio in Alto Adige,  non si seppe se in un maldestro tentativo di ripetere gli attentati altoatesini di quel periodo o se caduto in un’imboscata dell’estrema destra. Rispetto a Feltrinelli Guttuso, pur non condividendone le idee anarcoidi,  legato com’era all’ortodossia comunista, era fermo assertore del diritto a manifestare le proprie idee per quanto eretiche e non condivisibili esse fossero, così la figura dell’editore ebbe un posto nel “Funerali”, defilato e schivo come era sempre stato, e con lui Vittorini, altro “alieno” rispetto alla nomenclatura del partito, ai militanti più fedeli  e ai suoi più remoti ispiratori.  


Il mistero sulla realizzazione ritardata dell’opera è stato chiarito dallo stesso Guttuso che si è sottoposto di buon grado ai dibattiti popolari, oltre che alle interviste di prammatica,  in occasione delle esibizioni dell’opera alla platea dei compagni che, alla prima presentazione a Bologna, si incolonnarono in un a lunga e paziente coda lungo tutta Piazza Maggiore fino a Palazzo d’Accursio sede del Municipio: Guttuso stesso disse che i primissimi abbozzi su carta avvennero subito dopo l’evento, e il foglio nel quale vergava le sue intuizioni improvvise è rimasto per anni sul suo tavolo, sotto l’opera del momento;  fino a che, invece di continuare a ritoccare  il foglio per tradurlo poi in bozzetto, ha pensato di passare  all’opera definitiva, pur nelle sue enormi dimensioni, 5 per 4 metri, non sentendosi più di comprimere in uno spazio ristretto la sua visione che si andava allargando.

Nucleo iniziale della composizione fu il volto di Togliatti, che decise di riprodurre con i caratteristici occhiali per mantenere l‘immagine consueta al grande pubblico. Intorno al volto, un’infiorata come nei solenni funerali sovietici  e poi la folla con tante bandiere rosse.

Abbiamo detto di Feltrinelli e Vittorini come ospiti inattesi, per Lenin la soluzione fu di presentarlo tra la folla varie volte a dimostrazione della pervasività delle sue idee;  ovviamente ai primi posti davanti al volto contornato di fiori di Togliatti c’è l’establishment del partito, con Nilde Iotti e la figlia adottiva Marisa Malagoli.

Nulla è stato trascurato, i lavoratori con il pugno alzato su un’impalcatura di tubi Innocenti a dimostrazione della presenza viva del lavoro manuale, oltre ai numerosi intellettuali che, in omaggio all’ideologia gramsciana, erano il nucleo centrale del partito. 

Sono tutti volti grigi, come se una colata di grigiore fosse calata sulla folla traboccante,  un bianco-nero rotto solo dalle macchie fiammeggianti delle bandiere, se ne contano una quarantina, di un rosso sgargiante come è neutro il grigio delle figure, quasi una bicromia a marcare quel momento in cui la tristezza ingrigisce i visi mentre la fede politica continua a infiammare il partito e i  militanti.   Forse la definizione di “ultimo quadro di storia” è riduttiva, è ben diverso dalla “Battaglia del Ponte dell’Ammiraglio”, che  ha avuto anch’esso una utilizzazione nel partito. I  “Funerali”  sono entrati più profondamente nella vita  del PCI, a lungo nella sede di via delle Botteghe oscure, donati al partito da Guttuso con una lettera al segretario Berlinguer in cui auspicava la destinazione finale a Bologna, allora roccaforte comunista e sede di una istituenda nuova Galleria d’arte cui veniva data particolare importanza. 

A  Bologna, infatti,  il monumentale dipinto è pervenuto dopo le tante peregrinazioni nelle esibizioni in Italia, a Milano e Torino, Livotno,  Falcade e Acqui Terme,  e all’estero, Mosca e San Pietroburgo, Bucarest e Budapest, Praga e Darmstadt.   Perfino nel film di Francesco Rosi, “Cadaveri eccellenti”,  al quadro è affidato il messaggio finale, inquadrandolo al termine di una tumultuosa assemblea nella quale il partito ha messo in atto le sue tradizionali attitudini al compromesso accettando una manipolazione della realtà per ragion di Stato, divenuta ragion di partito dinanzi all’opposta conclusione possibile nella rivoluzione e nel colpo di Stato di un ipotetico delitto politico ai danni del segretario del partito.  

Se questi sono i contenuti, quale la resa pittorica? Anche qui un’innovazione, aderenza rigorosa alla linea fotografica dei volti, tanto che Belloni ha potuto ricostruire la fonte di tali ritratti in una serie di pubblicazioni, Come interpretare tale ricerca ben lontana dal  suo realismo impetuoso e coloristico, dato che nessuna di queste due caratteristiche si riscontra nella grande rappresentazione con i volti grigi delineati in forma calligrafica sul modello fotografico?   La risposta a questa domanda è nel fatto che si è trattato di un “quadro di storia” i cui committenti l’artista li identificava nei destinatari, la gente che voleva riconoscere e riconoscersi; mentre la storia, da parte sua, faceva valere le sue ragioni di tramandare l’evento nella sua realtà oggettiva, pur con tutti i suoi simboli. 

 Il ritratto-simbolo dei giovani artisti romani vicini al suo realismo controcorrente

Un altro quadro cui sono stati attribuiti  contenuti simbolici, questa volta al di là della sua semplice composizione, è il “Ritratto di Mario Schifano”, 1966,  commentato da Elena Volpato con una serie di riferimenti ad altre opere e alla situazione artistica del momento. Il volto dell’artista ha lo sguardo assorto, su uno sfondo bicolore bianco e azzurro come due “Autoritratti”  di Munch, e come “Suicidio I” dello stesso Schifano; altri riferimenti simbolici nel verde delle mani intrecciate e nel fatto che l’artista “lascia cadere sulla giacca bianca del giovane alcune gocce di colore azzurro”.

La Volpato vi vede “un inno all’onnivora forza di possesso della pittura: il rischio della divisione, della separazione tra soggetto e oggetto, viene esorcizzato nelle gocce di colore, che inglobano la figura di Schifano dentro la sua stessa tela, unendo autore e opera sullo stesso piano fisico di rappresentazione, quello della pittura di Guttuso”.   Per lui, infatti, “se vera pittura era, conteneva in sé l’unica possibile ricomposizione tra l’identità dell’autore, la sua verità di soggetto, e la materialità dell’opera”. 

Proprio Schifano come Angeli, Festa e altri pittori romani degli anni ’60  avvertivano questa stessa esigenza e al pari degli artisti della Pop Art, pur con i loro limiti, non ascoltavano le sirene dell’astrattismo e dell’esistenzialismo, la loro era “pittura del vero, con la sua materialità”, anche se su temi banali e consumistici.. Erano “nuovi realisti a cui Guttuso riconosceva la forza morale di non distogliere lo sguardo dalla strada, dalla loro contemporaneità”; inoltre sentivano “quel senso d’eternità che i reperti del presente  come quelli del passato diffondevano intorno a loro” per cui “i loro oggetti, le loro immagini, i loro simboli, seppur presentandosi in figure realistiche, andavano nuovamente raccontando l’enigma che era stato di Durer come della Metafisica”.   

Il dipinto di Franco Angeli, del 1969, “La stanza delle ideologie” sembra evocare il cinquecentesco “Melanconia I” di Durer, pur facendo prevalere “l’enigma dell’oggetto” perché “la verità del soggetto non è rappresentabile”, il suo volto è cancellato. Forse per questo Guttuso, pur giudicando “senza riporti culturali” il dipinto, ritrae a sua volta Angeli come sospeso nel vuoto, il viso terreo, gli occhi in basso, l’espressione cupa. Ma nel contempo, afferma la Volpato, “la Metafisica, la melanconia, i rischi di manierismo insiti nel loro lavoro, ancorché evidenti, non impedivano a Guttuso di riconoscere agli artisti di quella generazione il coraggio della realtà”. E non è poco con le avanguardie iconoclaste perché “un aspetto doveva essere importante più di tutto il resto: la loro determinazione ad abbracciare tutto con la pittura”.  Come Guttuso in tutta la sua vita artistica.

Le due opere ispirate alla militanza politica

Abbiamo lasciate per ultimi due dipinti agli estremi del periodo da noi ora considerato: “La discussione” del 1960 e “Comizio di quartiere” del 1975: quindici anni di differenza tra opere con la stessa motivazione politica, il suo impegno nel partito  e poi nelle istituzioni con la doppia elezione, prima al consiglio comunale di Palermo, e poi al Parlamento nazionale.

Nella “Discussione”  – una scena ambientata in una sezione del partito – ci sono  tutti gli ingredienti delle riunioni politiche interne, dai giornali sul tavolo, ai portacenere colmi di mozziconi di sigarette, nei visi accesi il fervore della lotta politica da lui vissuta a contatto con i “compagni”.  

Quindici anni dopo, “Comizio di quartiere”, dalla sezione alla piazza,  tra le case dalle cui finestre si affacciano i concittadini, l’espressione della democrazia partecipata come  è stata prima che la televisione allontanasse dal contatto diretto sostituendolo con quello virtuale. C’è un’umanità quanto mai pittoresca, come nella “Vucciria”, non mancano “citazioni” di Guernica  e di altre opere picassiane,  evidente il volto di Marylin Monroe della ben nota opera di Warhol, che fu colpita da un colpo di pistola di un fanatico, .

In questi due dipinti si riassume il  Guttuso politico che l’anno successivo verrà eletto in Parlamento, il “Comizio di quartiere”,  autobiografico, esprime il successo raggiunto in politica, da allora cessano anche le sue opere non solo politiche ma anche di ispirazione sociale e di denuncia.   

L’ultima fase di vita artistica e il messaggio nell’arte e nella politica

Condividiamo l’opinione secondo cui l’artista non ha avuto più bisogno di manifestare con l’arte il proprio impegno ideologico e politico avendo altre sedi in cui esprimerlo; in ciò avvalendosi appieno di quella libertà che, del resto, aveva sempre mantenuto affiancando il “privato” alla denuncia, i quadri con ritratti e nature morte a quelli sulle ingiustizie e le sopraffazioni.Nel fornire questa spiegazione, il curatore Castagnoli osserva come in tal modo “a pennelli e colori sia  assegnato il compito di produrre esclusivamente altri racconti, rispondere ad altri richiami, cedere ad altre seduzioni, consegnarsi ad altre fantasie; come sono quelle che, anno dopo anno, danno corpo e sostanza di poesia, nello studio del palazzo del Grillo, a quel sontuoso corteo di dipinti… “.E ne ricorda alcuni titoli, da “Caffè Greco” del 1976, a “Spes contra spem” del 1982.:

Dal 1975, dunque,  i suoi dipinti sono tutti inerenti al privato, in una scala di sensazioni e di emozioni che vanno dall’umore umbratile suggerito dai misteri della sua residenza monumentale all’esplosione di vitalità, anche nell’ultima parte della vita che vediamo nel rosso squillante di un’anguria, il rosso delle bandiere di partito nel frutto che è un’esplosione di vita e di speranza.

Morirà poco dopo quest’ultimo exploit affidato al rosso del frutto,  lasciando di sé un’immagine vitale e combattiva sui tanti fronti in cui si è svolta la sua vita che non definiamo inimitabile per non associarla a un personaggio anni luce lontano da lui, ma certamente inconfondibile e impagabile.

Questa mostra ce ne dà lo spaccato “rivoluzionario”, senza trascurare il “privato”, come le altre che abbiamo citato hanno reso altri spaccati  pur essi intensi e carismatici. La forte ripresa di interesse su Guttuso rende giustizia a troppe frettolose archiviazioni prima per un suo presunto conformismo tradizionalista con il realismo figurativo, o meglio “concezionale”, come lo ha definito Cesare Brandi, poi per  un certo oscuramento dovuto all’attenuarsi della presa del partito che poteva averne sostenuto l’ascesa, cosa non vera data la caratura personale e artistica di altissimo livello che non si è mai appoggiata al partito, al contrario  lo ha sostenuto con la sua autorevolezza.

Sia nei contenuti che nella forma le sue opere sono un compendio di storia civile e di evoluzione artistica all’interno del ridotto spazio tra figurativo e astrazione, non appartenendo a nessuno dei due campi ma avvalendosi degli apporti di queste due opposte visioni dell’espressione artistica, quella legata alla realtà e quella alla percezione dell’autore: ebbene,  in Guttuso la percezione è la propria realtà diversa dalla realtà “tout court”, quindi assolutamente personale quanto imprevedibile. E certe tendenze ultramoderne sembrano andare proprio in questa direzione.

Oltre alle sue opere, la sua intensa attività di uomo di cultura e di politico militante prima nel partito, poi anche nelle istituzioni. Al riguardo lui stesso poneva un problema etico scrivendo, nel 1984:: “Anche nel caso, in verità non frequente, ma che pure esiste, che il politico sia, per sua provenienza e per suo conto, uomo di cultura, non appena si presenta un contrasto tra la ragione politica e la ragione civile, il ‘politico’, dicevo, mette a tacere una parte di se stesso, si dimezza”.

Allora come oggi, è il caso di dire amaramente, per questo il curatore Castagnoli commenta: “Ecco, forse qui, in chiusura del suo articolo, mi piace pensare che Guttuso avrebbe potuto ancora aggiungere, ove non gli fosse bastato sottintenderlo: ma non l’artista, non io”. 

L’intera storia della sua vita con le tante  battaglie, artistiche e umane, civili e politiche, sta a dimostrarlo, e la mostra ha il grande merito di ricordarlo come simbolo dell'”arte rivoluzionaria”.    

Info

Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Via Magenta 31 – Torino. Da martedì a domenica ore 10,00-18,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12, ridotto euro 9 . Info tel. 011.0881178 e 011.4429518.. Catalogo “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ‘68”, a cura di Giovanni Castagnoli, Carolyn  Christov Bakargiev, Elena Volpato, marzo 2018, pp.270, formato 24 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il  14 e il 26 luglio u. s.  Per le mostre e gli artisti citati cfr. i nostri articoli:  in questo sito per le  mostre romane sull’artista, “Guttuso innamorato” 16 ottobre 2017, “Guttuso religioso”  27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, “Guttuso antologico” 25 e 30 gennaio 2013; “’68, è solo un inizio…”  21 ottobre 2017,  “cubisti” 16 maggio 2013,  “astrattisti italiani” 5 e 6 novembre 2012, “Deineka” 26 novembre, 1 .e 16 dicembre 2012;  in  cultura.inabruzzo.it sui “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011, gli “irripetibili anni ‘60”  3 articoli il 28 luglio 2011, in “guidaconsumatore.fotografia” su Mario Schifano 15 maggio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli verranno trasferiti su altro sito)..

Foto

Le immagini sono state tratte dal catalogo della “Silvana  Editoriale”, tranne la 7^ con il particolare centrale dei “Funerali di Toglietti” tratta dal sito “Levante News”, si ringraziano entrambi, con  titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.   Sono alternate immagini di opere di ispirazione “politica” con opere di ispirazione “privata”. In apertura, “Funerali di Togliatti” 1972; seguono, “Documentario sul Vietnam” 1965, e “Da Morandi” 1965; poi, “Gli addii di Francoforte” 1968, e “Lo scrittore Roberto Parise visita a Pechino la fabbrica dei libretti rossi” 1970; quindi, “La nuvola rossa” 1966, e particolare centrale dei “Funerali di Togliatti” 1972; inoltre, “Tetti a Velate d’inverno” 1957, e “Lenin” 1959; infine, “Nudo sdraiato” 1959, “Ritratto di Mario Schifano” 1966, e ““La discussione” 1959-60; in chiusura, “Comizio di quartiere” 1975.