Bandiera, 1. 90 artisti italiani interpretano la nostra bandiera

Ripubblichiamo i due articoli usciti in www.arteculturaoggi.com il 14 e 15 gennaio 2014 collegandoli alla recensione alle mostre “Eyedentity” e “Flags”, anch’essa ripubblicata nel giorno dell'”Independence day”, in omaggio ai valori identitari che nella bandiera trovano l’espressione nazionale: un ponte ideale tra i nostri due mondi con una dedica speciale al prof. Steven E. Ostrow, una vita di insegnamento al Massachusetts Institute of Technology, il mitico MIT nel quale ha diffuso – e continua a farlo – la sua cultura classica di innamorato dell’Italia.

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, nel “Sacrario delle Bandiere”,  la mostra “Novanta artisti per una Bandiera”  espone dal  22 novembre 2013  al 31 gennaio 2014  le interpretazioni della bandiera assegnata a ciascuno degli artisti che le hanno donate per un’iniziativa benefica: la costruzione dell’Ospedale della Donna e del Bambino a Reggio Emilia, la patria della Bandiera italiana, nelle cui strade sono state esposte 86 bandiere per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità nazionale nel 2011.

Antonio Segui

L’arte al servizio della storia e anche della solidarietà, una bella combinazione. L’iniziativa è promossa dall’Associazione CuraRE Onlus con lo Stato Maggiore della Difesa e il Comune  di Reggio Emilia, a cura di Sandro Parmiggian, che l’ha realizzata a partire dalla ricerca degli artisti, e ha curato anche il Catalogo di Corsiero Editore con le 90 opere e le esaurienti schede biografiche.

Non è la prima mostra, tra quelle  di cui ci siamo occupati,  che riunisce un certo numero di artisti su un tema preordinato. Ricordiamo le mostre del 2009 “Mitografie” al Museo Carlo Billotti con una serie di artisti operanti a Roma ai quali fu chiesto di interpretare il tema del mito, e “Contemplazioni”, a Rimini sul tema della bellezza, con una scelta di opere già esistenti.

Eugenio Carmi

Le particolarità di una mostra “unica” e irripetibile

Questa mostra è diversa in quanto gli artisti sono stati invitati a un’opera originale non su un tema ma su un “oggetto”, come avvenuto per un’altra mostra che ci piace ricordare, quella evocativa del ruolo dell’Ente comunale di Consumo di Roma sulla base della carta oleata che avvolgeva il  burro.

Nel caso attuale l'”oggetto” dato agli artisti per trarne ispirazione è la massima icona laica che si possa concepire, la Bandiera;  gli esemplari consegnati tutti diversi, perché tante sono le incarnazioni della bandiera, compresi gli Stati preunitari e i vessilli di occasioni particolari. La mobilitazione non poteva che essere massiccia, ben 90 artisti con altrettante opere, con nomi importanti, e la sede espositiva quanto mai prestigiosa, il “Sacrario delle Bandiere” al Vittoriano, l’Altare della Patria.

Ma c’è un’altra particolarità che rende unica la mostra: non è fine a se stessa, e già sarebbe un evento data l’importanza del tema e la qualità delle opere, ma è finalizzata alla costruzione di un Ospedale della Donna e del Bambino a Reggio Emilia, dove è nato il Tricolore. A tale intento meritorio  sono destinati i  proventi dalla vendita delle opere, anche se l’importanza sul piano artistico è tale che al motivo umanitario si associa, nelle parole degli organizzatori, “l’obiettivo tuttavia di preservare l’integrità della rassegna e farne una sorta di raccolta permanente”.

Il Sindaco di Roma Ignazio Marino  ha collegato il tricolore alla finalità  per la donna e il bambino: “Un’unione rappresentata da quel verde, bianco e rosso simboli di rivoluzione, sovranità e libertà del popolo e simbolo di speranza. Di così tanta intensità è l’amore che lega una madre a un figlio. Infinito, sconfinato, unico,  profondo, viscerale. Un amore che va tutelato e protetto. E’ questo che si propone CuraRE Onlus con il suo ‘Ospedale dedicato alla Donna e al Bambino”. 

E la presidente di CuraRE Onlus Deanna Ferretti Veroni lo ha confermato sottolineando che la struttura si prenderà cura della donna e del bambino “integrando accoglienza, familiarità, confort, sapere, professionalità e tecnologia”,  per l'”impegno artistico, sociale, umanitario” degli artisti.

Mentre il Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, tra i valori e principi comuni evocati dal Tricolore, simbolo dell’unità nazionale, ha citato, oltre a libertà e a democrazia, la giustizia sociale e la solidarietà.

Walter Valentini

E’ un ospedale  a più piani di oltre 12.000 metri quadrati, quello che si intende realizzare, con le tecnologie e competenze più avanzate, le specialità cliniche dalla Ginecologia e ostetricia, compresa la Procreazione medicalmente assistita, alla Neonatologia, Pediatria e Neuropsichiatria infantile, con il relativo Blocco operatorio.

Perché ciò avvenga,  il sostegno degli artisti è decisivo ma non si manifesta con la pur generosa cessione di un’opera esistente, bensì con l’impegno a crearne una apposita ispirata non al Tricolore in generale, ma alla particolare bandiera  consegnata a ciascuno, con gli specifici colori e simboli.

Fuori dalla torre d’avorio nella quale viene spesso isolata la figura degli artisti, li vediamo  impegnati solidalmente nella soluzione di un problema sociale pressante come l’assistenza alla donna e al bambino. L’immersione nella realtà viva e pulsante non è limitata a questa partecipazione,  perché le bandiere consegnate loro per la traduzione artistica sono state esposte nel 2011, come accennato, nelle strade di Reggio Emilia, dove il tricolore è nato il 7 gennaio 1797,  per celebrare il 150° dell’Unità d’Italia che ha visto un gran  numero di manifestazioni in tutto il Paese.

Si tratta delle bandiere degli Stati preunitari, giacobine e napoleoniche, dei moti e  insurrezioni popolari del Risorgimento, dell’Unità e del Regno d’Italia, fino ai diversi vessilli della Repubblica e a quelli utilizzati per obiettivi di valore civile e sociale, come nelle manifestazioni antimafia.

Tutte queste bandiere, dopo il bagno popolare di un anno nelle “Strade della bandiera” di Reggio Emilia – la manifestazione inaugurata dal presidente Giorgio Napolitano il 7 gennaio 2011 – sono finite negli studi dei 90 artisti.

Di qui la trasposizione, anzi la trasfigurazione artistica, qualcosa di straordinario che non ha precedenti, e ha visto gli artisti ispirarsi liberamente alla bandiera assegnata e ai suoi colori.

Umberto Mariani

La partecipazione degli artisti al progetto benefico e patriottico

Ma prima di fare un excursus sulle opere realizzate, intendiamo soffermarci sulle riflessioni  nate nella complessa organizzazione dell’evento che ha richiesto la ricerca preliminare degli artisti disposti a partecipare a un’iniziativa fuori del comune.

Ne parla l’artefice dell’iniziativa, Sandro Parmiggiani,   partendo dalla considerazione che “gli artisti vivono con particolare fastidio, e con molte ragioni, la consuetudine di andare a bussare alle loro porte per chiedere un’opera da destinare a un qualche scopo benefico”. Tanto più in questo caso in cui si trattava di un tema predeterminato e di un’opera da realizzare appositamente e non da scegliere tra quelle disponibili e inutilizzate.

Se in passato il ruolo rivestito dall’artista era coerente con le richieste di partecipare ad eventi benefici con la sua autorevolezza, in seguito la sua figura è andata mutando, anche per la crescente mercificazione dell’arte in cui l’aspetto economico ha prevaricato quello artistico per cui le richieste di partecipare  a iniziative benefiche hanno privilegiato il primo aspetto scadendo di livello ed esponendosi a frequenti rifiuti; mentre l’artista per sua stessa natura  è aperto alla società e sensibile alle esigenze dettate dalla solidarietà e dalla partecipazione  alle iniziative comuni.

L’iniziativa legata alle Bandiere ha potuto ristabilire un rapporto fecondo con gli artisti coinvolgendoli in un progetto che alla valenza civile e umanitaria ha unito un forte contenuto artistico, per di più riferito a uno dei valori più nobili dell’identità nazionale, quello legato alla Bandiera. E non a una sola bandiera, ma alle 86 bandiere che riflettono una lunga storia di aspirazioni e di lotte, di vittorie e di sconfitte, approdata alla fine nel Tricolore nazionale.

Lucio del Pezzo

Con la lunga esposizione agli agenti atmosferici nelle strade di Reggio Emilia hanno assunto lo stesso aspetto delle bandiere segnate dai campi di battaglia, in quelle date agli artisti c’era il segno del “vissuto”. La “street exibition” –  ha scritto Alberto Melloni   ha trasformato la città in “un museo a cielo aperto di grandi bandiere, messe come fitte quinte delle strade principali, a marcare le tappe e gli apporti che confluiscono nella bandiera nazionale in un percorso storicamente rigoroso”. 

Ha poi dato l’interpretazione della molteplicità di vessilli esposti che si è tradotta in una corrispondente  molteplicità delle opere d’arte a loro ispirate: “Un racconto muto che partendo dal tricolore francese dicesse le varianti di una metamorfosi nella quale non fosse il mito carducciano del ‘primo’ tricolore a costituire l’asse del discorso, ma al contrario il molteplice rifrangersi di un simbolo civile che, dopo la campagna napoleonica, si iscrive nella storia italiana, dalle bandiere degli Stati dell’Italia disunita”, fino alla Costituzione che ha posto “il tricolore come ultimo dei principi fondamentali”.  Al quale si sono aggiunti i vessilli del Quirinale, dell’UE e dell’ONU. 

Non sono stati posti vincoli alla personale interpretazione della specifica bandiera loro consegnata – scrive Parmiggiani –  da considerare solo “come un  punto di partenza da cui inoltrarsi nel loro cammino,  verso la realizzazione di un’opera che comunque recasse il segno della loro lingua, del loro stile”;  sono stati stimolati “a inoltrarsi su strade inesplorate, esperienze che, depositatesi nella memoria, fermenteranno nell’immaginario e saranno foriere di innovazioni nella loro opera”.

Ed ecco come gli artisti hanno risposto: “Alcuni sono intervenuti sulla bandiera stessa o su una sua parte, dipingendovi sopra o utilizzandola per creare un’opera-oggetto; altri ne hanno utilizzato frammenti per inserirli, attraverso il collage, nei loro lavori; altri ancora hanno creato un lavoro del tutto autonomo: la bandiera loro assegnata è diventata  fonte diretta di ispirazione per i possibili riferimenti di colori, di scritte, di forme disegnate”.

Gabrilla Benedini

Esposizioni delle opere e giudizi autorevoli

Le 90 opere sono state già esposte – “noblesse oblige” – a Reggio Emilia nei Chiostri di San Domenico, in una mostra inaugurata il 13 marzo 2013; poi sono state presentate il 2 giugno, nella festa della Repubblica,  alla sede dell’Accademia militare di Modena,  il cui legame con la bandiera è evidente.

Ma l’approdo al Vittoriano, l’Altare della patria, nel “Sacrario delle Bandiere”, è il culmine che l’iniziativa meritava di raggiungere: “Era un luogo cui appariva impensabile solo pensare, se non  come uno di quei ‘sogni’  che, parafrasando il testo teatrale di Indro Montanelli, ‘muoiono all’alba’”, scrive Parmiggiani, confidando sinceramente  come fosse inattesa l’apoteosi finale.

Nel “Sacrario delle Bandiere” la vastità dell’ambiente e la spettacolarità dei vessilli storici nelle  teche di vetro tutt’intorno fa sì che le opere degli artisti siano discrete, come a non voler turbare l’atmosfera quasi religiosa che vi si respira, una religione civile altrettanto coinvolgente. Ma proprio questa discrezione le fa inserire nello spazio centrale compenetrandole  nello spirito del luogo.

Il Catalogo riporta in elegante veste grafica per ogni artista l’opera realizzata a piena pagina e in aggiunta, riprodotta in piccolo, la bandiera assegnatagli cui si è ispirato; inoltre  una biografia esauriente che, riguardando 90 autori, concorre a formare una inedita, preziosa documentazione, come è preziosa la descrizione degli 86 vessilli, per ognuno dei quali si riassume la storia.

Graziano Pompili

E’ un accurato lavoro di ricerca che rappresenta un ulteriore valore aggiunto del progetto, ma non basta: “Se l’Italia fosse un paese molto diverso – scrive ancora Melloni – chi compra queste opere potrebbe essere tentato di ridonarle alla  città, perché diventino subito patrimonio di tutti”, prospettiva auspicabile ma non certa, per cui aggiunge: “Se non fosse così, se non sarà così, un catalogo dirà cosa questa città avrebbe potuto dire di se stessa a valle di una celebrazione che l’ha vista partecipe con le sue strade e la sua gente”.

Un orgoglio cittadino espresso anche dal sindaco Graziano Delrio: “Ci piace pensare che il tricolore italiano, con il suo impulso alla solidarietà, libertà, convivenza, non potesse nascere in un luogo qualsiasi. Proprio questo luogo non qualsiasi, Reggio Emilia, ha accolto il 150esimo dell’Unità d’Italia” con le strade imbandierate e ne è nata  l’iniziativa benefica. Un orgoglio che Sonia Masini, presidente della Provincia di Reggio Emilia, ha espresso sottolineando il contributo significativo della sua terra nel “far germogliare le radici democratiche della nazione, a radicare i valori della libertà, dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica”.  E  Vasco Errani, presidente della Regione Emilia-Romagna, ha sottolineato che Reggio Emilia “deve la sua fama, a livello nazionale e internazionale, anche alla cura e all’attenzione dell’universo materno-infantile”,  associando così il richiamo al motivo benefico alla matrice civile patriottica.

Hidetoshi Nagasawa

Le diverse interpretazioni del  tema-oggetto “bandiera”

Dal confronto tra l’opera e la relativa bandiera si può ripercorrere idealmente l’itinerario dell’ispirazione artistica, vedere come il soggetto proposto è stato recepito e trasfigurato.  In una ampia serie di opere la bandiera di base è riconoscibile, o nella forma e struttura complessiva dell’opera oppure nei soli colori, nell’intero dipinto oppure in una consistente parte di esso.

Altre opere ne danno un’interpretazione molto più libera fino a rendere del tutto irriconoscibile la fonte originaria di ispirazione. In qualche caso viene dichiarato espressamente il diverso contenuto, ma si sente sempre che la sensibilità civile e umana è stata sollecitata per cui il nuovo riferimento è altrettanto meritevole. Pensiamo ai valori insiti in  “Imagine” di Lennon, come a quelli sottesi in altre fonti di ispirazioni liberamente associate alla bandiera in una riflessione a raggio più vasto.

E’  uno spaccato di arte contemporanea quello che viene presentato, la cui “lettura” è facilitata dal Catalogo che nell’ampia biografia di ognuno dei 90 artisti inserisce i caratteri salienti del loro stile pittorico, rappresentando una guida preziosa per la mostra oltre che un’istruttiva antologia.

A questo punto visitiamo la mostra, nell’atmosfera magica del “Sacrario delle bandiere”, consapevoli che, dato il gran numero di artisti e delle rispettive opere, dovremo limitarci a una rassegna forzatamente rapida senza poterci soffermare ma dando qualche sommario accenno su ciascun artista, senza omissioni, per una testimonianza completa.  Ne daremo conto prossimamente.

Piergiorgio Colomara

Info

Complesso del Vittoriano, Sacrario delle  Bandiere (ingresso laterale del complesso). Tutti i giorni ore 9.30-15,30, lunedì chiuso. Ingresso libero. Tel- 02.36755700, http://www.ciponline.it/. Catalogo: “Novanta artisti per una Bandiera”, a cura di Sandro Parmiggiani, Corsiero Editore, marzo 2013, pp. 198, formato 24 x 28, euro 20,00; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà pubblicato in questo sito il 15 gennaio 2014.  Per le mostre citate cfr. i nostri articoli:  in questo sito, “43 artisti, la vecchia carta oleata ispira la modernità” 1° agosto 2013; in “cultura.inabruzzo.it”, “Mitografie al Museo Carlo Bilotti di Roma” 16 giugno 2009, e “Contemplazioni, bellezza e tradizione nella pittura italiana contemporanea” 4 agosto 2009.

Foto

Le immagini sono state fornite dagli organizzatori della mostra che si ringraziano con i titolari dei diritti. In apertura, la bandiera di Antonio Segui, seguono  quelle di Eugenio Carmi e Walter Valentini; poi di Umberto Mariani e Lucio del Pezzo;  quindi di Gabrilla Benedini Graziano Pompili, inoltre di Hidetoshi Nagasawa e Piergiorgio Colomara; in chiusura,  la bandiera di Antonio Marras.

Antonio Marras

 

Arcimboldo, le “teste composte” e le “pitture ridicole” a Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante 

Ripubblichiamo la recensione uscita con poche immagini in www.arteculturaoggi.com il 18 aprile 2018.

La mostra presenta a Palazzo Barberini,, dal 20 ottobre 2017  all’11 febbraio 2018, per la prima volta a Roma, le opere altamente evocative dell’artista milanese vissuto per un quarto di secolo come pittore di corte nelle sedi imperiali absburgiche di  Vienna e Praga. Oltre alle 20 celebri opere di Arcimboldo, sono esposte circa 80 opere collegate perché espressione del mondo in cui l’artista ha potuto manifestare una creatività così insolita. Organizzata dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica  e da MondoMostre Skira, a cura di Sylvia Ferino-Pagden che ha diretto la Pinacoteca del Kunsthistorisches Museum di Vienna ed è una delle maggiori studiose di Arcimboldo. Ha curato anche il catalogo Skira Editore.  

Giovanni Arciboldo, “Autoritratto cartaceo”, 1587

Un grande inizio, quello con Arcimboldo, del  programma  espositivo  negli spazi dedicati alle mostre temporanee delle Gallerie Nazionali di Arte Antica. Mentre le collezioni permanenti  nell’interminabile teoria di sale del palazzo offrono  un’immersione totale nell’arte al visitatore estasiato da una così vasta esposizione di opere  di valore incalcolabile, che culmina nel capolavoro caravaggesco  “Giuditta e  Oloferne”  e nella “Fornarina” di Raffaello. Ma la nuova direttrice Flaminia Gennari Sartori, disdegna la visione “iconica” basata sulle grandi attrazioni, per la visione “aniconica” che valorizza l’intera collezione. Si tratta comunque di un’opportunità aggiuntiva, un’opzione che accresce l’interesse per la visita alla mostra.

Arcimboldo, “Pannelli di vetrata”, “Santa Caterina, condotta al carcere e decapitata

Il valore della mostra

Perché abbiamo definito la mostra di Arcmiboldo un “grande inizio”?  Per l’eccezionalità dell’evento, dato che è molto difficile avere a disposizione le sue opere sparse tra musei che se ne privano con difficoltà, data la loro forza attrattiva. Si è colta l’occasione della mostra “Arcimboldo nature of Art” al National Museum of Western Art di Tokyo, che ha favorito la disponibilità degli 11 prestatori, europei e americani –  solo 3 in Italia a Firenze, Milano, Genova – che hanno fornito   le  20  principali opere  esposte dell’artista, cui se ne sono  aggiunte altre 80 per inquadrarle nel contesto storico, culturale e artistico in cui sono state create.  

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Giovanni Paolo Lomazzo, “Autoritratto
come abate dell’Acacdemia della Val di Blenio”, 1568

Così è stato possibile presentare Arcimboldo e il suo tempo  per la prima volta a Roma come inizio di un percorso con questo obiettivo, secondo le parole della direttrice Gennari Sartori: “Invitare il nostro pubblico a guardare diversamente, a giocare seriamente, a scoprire l’arte del passato con gli occhi di oggi”. Vedremo come si snoderà questo percorso nelle mostre successive,   intanto ecco come introduce questa mostra: “In uno dei suoi saggi Roland Barthes nel 1978 definì Arcimboldo ‘rhétoriqueur et magicien” mettendo  in luce come il maestro milanese con i suoi ritratti compositi ingaggiasse con lo spettatore un gioco, una sequenza di indovinelli visivi e mentali che ci tengono all’era mutando sottilmente  e profondamente il nostro modo di guardare le opere d’arte”.  

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Arcimboldo, cartone per arazzo “Dormitio Virginis” , con Giovanni Karcher;

Ci accingiamo a “guardare diversamente, giocare seriamente”, dunque. Immergendoci nel mondo di Arcimboldo, ricostruito con le 80 opere di contorno al nucleo delle 20 dell’artista, un mondo affascinante che si  estende da Milano alle corti imperiali dell’Europa centrale  della seconda metà del ‘500, e consente, sono sempre parole della Gennari Sartori, di “immergersi in una cultura che metteva al centro la curiosità, la combinazione  di osservazione minuziosa e scientifica con il gioco, la meraviglia e l’ironia”.  

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Arcinboldo, “Ritratto a mezzo busto di una figlia di Ferdinado I (arciduchessa Elena o Barbara)”, 1563

Il percorso artistico e personale di Arcimboldo 

Arcimboldo aveva la “forma mentis” adatta a valorizzare gli stimoli che riceveva da quella cultura così aperta e coinvolgente. Oltre che pittore era anche poeta e filosofo, si formò nella bottega del padre  Biagio,  pittore di orientamento leonardesco;  a 23 anni, nel 1549,  fece dei disegni per le vetrate del Duomo di Milano,  risultano pagamenti a tale titolo fino al 1557.  Poi, dal 1558 al 1560, cartone per un arazzo del Duomo di Como e affresco per il Duomo di Monza.  Dal 1562 cambia tutto, si trasferisce alla corte dell’imperatore Massmiliano d’Asburgo , dove viene definito “pittore di sua maestà reale”.

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Martino Rota, “L’imperatore Rodolfo II”,” s.d.

 

Come sia passato  dagli austeri  ritratti della famiglia imperiale alle  “Quattro stagioni”  in forma quasi “grottesca” sarebbe incomprensibile se non si tenesse conto che  era impegnato anche  nell’organizzazione di feste e tornei imperiali,  fornendo disegni per costumi e ornamenti, e in questo contesto  era normale lo sbizzarrirsi della fantasia, secondo il clima dell’epoca.  Torna definitivamente a Milano nel 1587, dopo ben 25 anni, ma l’imperatore non lo dimentica: nel 1592, l’anno prima della morte, Rodolfo II  gli conferisce un’ambita onorificenza nominandolo Conte Palatino. 

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Ottavio Miseroni, “Coppa in forma di conchiglia” , 1610-22

La fantasia, dunque, come base dell’ispirazione artistica, che troviamo teorizzata nel “Dialogo di Comanini il Figino overo il fine della pittura” definita come imitazione  nelle due forme di “imitazione icastica”, con la riproduzione di un oggetto reale,  e “imitazione fantastica”   con la rappresentazione di un oggetto immaginario, come nelle “grottesche”, le pitture delle grotte romane.  Secondo Comanini  la fantasia entra anche nella rappresentazione della realtà, cosa che di recente è stata riconosciuta ad Arcimboldo riconoscendo che le sue “teste fantastiche”  sono basate su accurati studi scientifici del mondo animale e vegetale, realtà alla quale applica un metodo fantastico nella composizione immaginifica dei soggetti. 

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Arcimboldo, “Allegoria delle Quattro Stagioni: Primavera-Estate, Autunno-Inverno”, 1700

Il suo metodo compositivo ha radici antiche, in Persia, nell’India, in Giappone,  addirittura si risale al Vecchio Testamento e alla poesia antica. In cosa consiste tale metodo “fantastico” che però combina elementi della “realtà” in modo insolito,  apparentemente paradossale?  Risiede nel comporre le teste  con elementi attinenti al significato attribuito al soggetto, se un individuo con elementi della sua attività, se una stagione con elementi  caratteristici della natura. Così abbiamo teste fatte di fogli e libri per il “Giurista” e il “Bibliotecario”, di fiori e frutti, pesci e uccelli a seconda della “Stagione”  o dei “4 elementi” naturali.  

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Arcimboldo, “La Primavera”, 1555-60

Per questa sua vistosa  “irrazionalità”,  è stato considerato dai dadaisti e surrealisti un loro precursore, e Oskar Kokoschka lo ha definito “il patriarca del surrealismo”  affermando che i suoi ritratti di teste “sono composti da un’accozzaglia di cose riunite  per una coincidenza priva di senso”. Abbiamo detto che questo è solo apparente, mentre vi è un preciso significato nella composizione di elementi nel soggetto raffigurato. 

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Arcimboldo, “La Primavera”, “Prrticolare”

Qual è il risultato? La curatrice Sylvia Ferino- Pagden  lo vede così: “Ognuno di questi oggetti, accuratamente scelti, si intreccia e si sovrappone, gareggiando con gli altri per ottenere un ruolo preciso all’interno del dipinto e accentuarne l’impatto complessivo”.  E per il visitatore? “La raffigurazione mimetica della natura crea un effetto oltremodo divertente, che affascina lo spettatore suscitando in lui un piacere intellettuale. Con la sua buona dose di spirito  e ironia, il gioco arcimboldiano non poteva che costituire fonte di ispirazione per la creazione di altri generi, come ad esempio la caricatura”.

Non resta che visitare la mostra per verificare direttamente il fascino surreale dell’artista immergendoci nel mondo in cui si è potuta sviluppare una  visione così inusitata, innovativa e indubbiamente spiazzante l’ortodossia artistica. 

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Arciboldo, “L’Estate”, 1572

L’ambiente milanese e le  opere di Arcimboldo prima della corte absburgica

Nelle prime due sale ci si prepara all’incontro con Arcimboldo, il “clou” della mostra,  inserendo il visitatore nell’ambiente milanese,  con una delle figure più seguite, Giovanni Paolo Lomazzo, di cui viene presentato l’“Autoritratto” come abate”, 1560-70, oltre al libro d’epoca, che abbiamo citato,  di Gregorio Comanini, Il Figino overo del fine della pittura“, 1591. Ma c’è soprattutto l’ “Autoritratto cartaceo” di Giuseppe Arcimboldo, a matita, inchiostro e acquerello, del 1587, a 61 anni, come un  dignitario, austero, con un alto collare dell’abito. 

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Arcimboldo, “L’Estate”, “Particolare”

Siamo a metà del ‘500, con il forte influsso leonardesco, sono esposti dipinti di artisti legati a Leonardo, di Cesare de Sesto,   “Madonna dell’Albero”, 1515-20,  di Martino Piazza da Lodi, “Madonna  con Bambino, san Giovannino e santa Elisabetta”, 1510-20.  E poi caricature a penna, “Due teste”  attribuite  a Francesco Melzi  che portò a Milano i codici e i disegni di Leonardo, divenuti subito oggetto di studio,  e “Quattro teste” di un Seguace di Leonardo. 

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Arcimboldo, “L’Autunno”, 1572

Ma non è tutto, l’inquadramento milanese è completato da una serie di Monete , tra il 1552 e il 1575, di Leone Leoni  e Annibale Fontana, Antonio Abondio e Francesco di Sangallo, che celebrano artisti impegnati nella produzione di oggetti artistici di lusso con materiali preziosi – Girolamo Cardano, Paolo Giovio e Giovanni Paolo Lomazzzo –  di cui sono esposti degli esemplari, alcune Coppe in cristallo e oro,  fino all’elmo in acciaio di un’armatura, “Borgognotta”.  Questi oggetti di lusso prodotti nel milanese erano conosciuti e  apprezzati  dai collezionisti europei, e in particolare dalla corte imperiale degli Absburgo, cui sono dedicate anche altre Monete, su Carlo V e Massimiliano II,  esposte insieme a quelle sugli artisti.  Si può capire  come potè avvenire che Arcimboldo fosse chiamato alla corte absburgica  dove restò 25 anni. 

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Arcimboldo, “L’Inverno” , 1563

Prima di seguirlo a Vienna, come factotum delle feste imperiali,  e pittore di corte, vediamo esposte alcune opere di Arcimboldo,  2  pannelli di vetrata per il Duomo di Milano, “Santa  Caterina viene mandata in carcere” e “Santa Caterina viene decapitata”, 1556, quando aveva trent’anni, e  l’arazzo realizzato  dal celebre tessitore  Giovanni Kircher per il  Duomo di Como, su cartone di Arcimboldo, “Dormitio Virginis”, del 1561-62, l’anno del trasferimento alla corte imperiale. 

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Arcimboldo, “L’acqua”, 1566

L’inquadramento preparatorio finalmente ci presenta opere di Arcimboldo in carattere con la sua assoluta peculiarità  che lo ha qualificato in modo così prestigioso nel mondo. Sono  celebri teste composte che risalgono al 1555-60, diversi anni prima di trasferirsi a ‘Vienna, “L’ Estate” e “L’inverno”, con la combinazione di una serie di elementi in carattere con tali stagioni.  

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Arcimboldo, “L’Acqua”, “Particolare”, 1566

Dopo questo “assaggio” , torniamo alla cronaca, lo abbiamo lascito con il cartone per il Duomo di Como, prima della partenza per Vienna. Ora lo troviamo a Vienna, non più le opere religiose e le prime teste composte, bensì vediamo tre severi ritratti, a lui attribuiti, “L’arciduchessa Anna, figlia dell’imperatore Massimiliano II”,  “Una figlia di Ferdinando I (arciduchessa Elena o Barbara)” e un “Ritratto di arciduchessa (Margherita?)”.

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Arcimboldo, “L’Aria”, post 1566

Sono tutti del 1563, l’anno dopo il suo arrivo alla corte imperiale, quando viene nominato “pittore di Sua maestà reale” alle dirette dipendenze  dell’arciduca Massimiliano che succederà molto presto al padre  sul trono imperiale,  nel 1664. Muore dopo 12 anni di impero  e gli succede  il figlio di 24 anni Rodolfo II, che essendo un collezionista stima Arcimboldo, lo tiene nella corte a Vienna, e lo porta con sé a Praga allorchè vi trasferisce la corte nel 1583: lo vediamo in un ritratto di Martino Rota 1576-80.   

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Arcimboldo, “L’Aria”, Particolare

Per renderne l’ambiente mediante oggetti artistici,   sono esposte  4 Coppe di Ottavio Miseroni, realizzate tra il 1610 e il 1530, tra esse “Coppa in forma di conchiglia” 1610-22 , e una  “Bacinella in quarzo” della prima metà del ‘600.  Anche lui è un artiusta milanese presente a Vienna, Arcimboldo ci entra in contatto.

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Arcimboldo, “La Terra”

Il “sancta sanctorum” della mostra, le “Quattro stagioni e i Quattro elementi 

Ma ora entriamo in una sorta di “sancta sanctorum”, il cuore della mostra, una rotonda al centro dell’area espositiva con le più celebrate “teste composte” di Arcimboldo, sono 8, il ciclo delle Quattro stagioni, 1555-1572, “La Primavera” e  “L’Estate”,  “L’Autunno” e “L’Inverno”, e il ciclo dei Quattro elementi, intorno al 1566, “L’Acqua” e “L’Aria”, “”La Terra” e “Il Fuoco” .  Ci piace ittrodurle con le “Allegorie delle Quattro Stagioni: Promavera-Estate, Autunno-Inverno”, acqueforti in inchiostro rosso riprese dalle sue opere nel 1700, un secolo dopo la sua morte del 1596, perchè ne rendono in modo schematico le linee compositive.

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Arcimboldo, “La Terra”, “Particolare”

E’ una bella sorpresa che invita a “giocare seriamente”,  secondo l’intento della direttrice,   con le opere singolari che circondano il visitatore e sembra che lo guardino. E il “gioco” consiste nell’identificare le componenti di queste teste: sia  nelle Quattro  stagioni che nei Quattro elementi  evocano gli aspetti  caratteristici del periodo, dai fiori e frutti di stagione agli animali in carattere con la stagione o l’elemento considerato. Il tutto con una maestria compositiva che amalgama  componenti così eterogenee non solo creando un effetto  del tutto particolare.  

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Arcimboldo, “Il Fuoco”, post 1566

A noi sono sembrati esseri silvani, elfi che emergono dai più riposti recessi naturali, creature che, come avviene nelle fiabe, hanno un che di misterioso e di inquietante. La Ferino-Pagden definisce così  l’impatto sul visitatore : ” Le teste composte di Arcimboldo  racchiudono una molteplicità di punti di vista:  guardando la testa da lontano – che sia raffigurata di profilo, di fronte o di tre quarti – l’osservatore ne coglie la forma complessiva, spesso mostruosa, ma solo dopo essersi avvicinato inizia a notare  la resa accurata dei singoli oggetti che la compongono”.

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Arcimboldo, “Il Fuoco”, “Particolare”

E non è soltanto  una constatazione estetica: “Ognuno di essi – fiori, frutti, pesci, animali vari, ferri per caminetto, segnalibri, fasci di fiori, cannoni e molto altro ancora – contribuisce al significato della rappresentazione, sia che si tratti della caricatura di un individuo o di un mestiere. Di una stagione, di un elemento naturale, di un’allegoria, di una testa reversibile o di una natura morta”. 

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Libro d’epoca con disegni di animali

Nel “sancta  sanctorum” della mostra abbiamo fatto la conoscenza con le Quattro stagioni e i Quattro elementi,  più avanti troveremo la “caricatura di un individuo o di un mestiere”, e anche di “una testa reversibile o di una natura morta”. Prima di queste ultime  trovate particolarmente intriganti, vogliamo citare opere di Arcimboldo più che sessantenne, molto successive alle “teste composite” ora descritte, rientranti però nella più assoluta normalità; riguardano disegni  per le feste di corte, come “Donna in costume con merletto”, “Costume per armigero” e “Costume per la figura allegorica della Musica”, “Slitta con satiri” e “Tre uomini su una slitta“, tutte del 1585,  trent’anni dopo “Le Quattro stagioni”, vent’anni dopo i “Quattro elementi”. Ma non è che la vena  irridente e surreale si fosse esaurita,  e lo vedremo. 

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Hans Hoffmann, “La lepre”, 1585

Due intermezzi, studi naturalistici e “stanza delle meraviglie”  

Prima, però, la mostra presenta  due intermezzi, importanti per meglio comprendere il contesto storico, culturale e di costume nel quale è stato possibile  che la creatività di Arcimboldo prendesse una direttrice così inusitata.  Il primo riguarda gli studi naturalistici in voga nel periodo alimentati dallo sviluppo dei commerci  con l’Estremo Oriente, che portavano i prodotti esotici sconosciuti e tali da susscitare curiosità e interesse, soprattutto verso ciò che era diverso e stravagante.

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Anonimo, “Enrico Gonzales, figlio del peloso Pedro Gonzales”, post 1580

Vediamo questa tendenza nei  4 volumi di “Ornitologia” illustrati da Ulisse Aldrovandi tra il 1599 e il 1603, e in più “De Piscibus…” illustrato dallo stesso nel  1613; anche Arcimboldo illustrò libri naturalistici promossi dallo studioso bolognese. Oltre ai libri di Aldrovandi,  quelli  sugli “Animali” di Leonhart Fuchs, Conrad Genser, e Andrea Mattioli, tra il 1551 e il 1568, e quelli sui “Pesci” di Pierre Belon e Ippolito Salviani. del 1553-54.  Del’ 600,  spettacolari “Tavole di animali” anonime.   Il dipinto di Hans Hoffmann, “La lepre” 1565 è un’espressione pittorica di questo interesse per gli animali negli studi naturalistici.

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Ottavio Miseroni, “Coppa in forma di conchiglia” , 1610-22

Non solo illustrazioni, i collezionisti si orientavano verso oggetti che si inserivano in questa tendenza,  venivano creati ispirandosi a reperti scientifici con cui erano raffrontati, nasce così la Wunderkammer”, “Stanza delle meraviglie”,  Vediamo esposti alcuni di questi oggetti, “La lepre” e “Due lucertole”, il “Serpente”  e la “Rana”,  fino al “Granciporro”; e anche lampade a olio di forma particolare, come la “Testa di satiro” o il “Volto che fa una smorfia”.  

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Bartolomeo/Bartolo Bossi, “Testa composta di uomo”, s. d.

Ma c’è dell’altro, in questa “stanza delle meraviglie” entrano elementi naturali che diventano vere icone per la lavorazione con materiali preziosi: vediamo esposti la “Noce di cocco”  e un “Corallo bianco” con montature in argento, così il “Corno di rinoceronte” bianco in un calice  e una coppetta,  le “Zanne di tricheco”, il “Rostro di pesce sega”  e la “Mandibola di squalo”, come dei totem,  sono tutti del ‘600, appartengono alla collezione Koelliker.

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Bartolomeo/Bartolo Bossi, “Testa composta di uomo”, “Partiolare”

L’interesse  si acuiva dinanzi a fenomeni  patologici insoliti,  come in “Enrico Gonzales, figlio del peloso Pedro Gonzales”, e “Ritratto di Antonietta Gonzales” di Lavinia Fontana, tra il 1580 e il 1595, famiglia colpita da una malattia che creava  una crescita abnorme di peli, all’epoca gli “irsuti” venivano mostrati nelle corti come attrazione per l’aspetto stravagante, spesso repellente.  

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Bartolomeo/Bartolo Bossi, “Testa composta di donna”, s. d.

Le nature morte con le teste reversibili  

Usciamo dall’immersione nel clima di allora tornando al mondo fantastico e insieme realistico di Arcimboldo, presentato nelle ultime 3 sale della mostra,  in un allestimento che abbiamo trovato magistrale. Ed è come se tornassimo nella rotonda con le Quattro stagioni e i Quattro elementi,  ma cronologicamente si è andati molto avanti, l’artista  è rientrato dopo 25 anni a Milano, dove lo accolgono Giovanni Ambrogio Figino e Vincenzo Campi.

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Seguace di Arcimboldo, “Ritratto femminile composto di frutta (Alla donna di buon gusto)”, tardo 16° sec.

Sono gli anni della formazione di Caravaggio, le  opere  di Arcimboldo sono molto apprezzate per la sensibilità che emerge nella rappresentazione della realtà, piuttosto che per la bizzarria, e questo va inquadrato nella tendenza  verso i significati allegorici e i simbolismi anche in senso morale, che troviamo nel Figino e altri; tra il ‘500 e il ‘600 le rigogliose “Nature morte” , quanto mai “vive”, di Fede Galizia.  

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Arcimboldo, “L’Inverno”, 1572

La prima sorpresa è un altro “Inverno” di Arcimboldo, 1572, sempre la testa arborea, con lievi significative differenze riptto al 1563, mentre un “Ritratto femminile composto di frutta (Alla donna di buon gusto” è di un seguace del tardo ‘500, composizione meno ricca di elementi, anche se la tecnica compositiva è la stessa.  Analogamente, la  “Testa composta di uomo” e la “Testa composta di donna” di Bartolomo/Bartolo Bossi.  

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Arcimboldo, “Il Cuoco / Piatto di arrosto”, 1590-93

La sala con “Il bel composto”  presenta anche opere in  maiolica,  “Piatto con testa composta di falli”, 1536, attribuito a Francesco Urbani, e in bronzo,  “Medaglia con testa composta raffigurante un satiro (recto)“, e “… con testa composta di falli (verso)“, del XVI sec.,  riferimenti sessuali secondo la moda di rendere greve l’allusione satirica e il riferimento caricaturale;   2 xilografie, di Hans Meyer e Wenceslaus Hollr  con “Paesaggio antropomorfo” , tra il 1560 e il 1660, e 2 acqueforti in inchiostro rosso, “Allegorie delle Quattro Stagioni (da Arcimboldo)”, con due teste ciascuna, ” Primavera-Estate” e “Autunno-Inverno”

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Arcimboldo, “L’Ortolano / Ciotola di verdure”, 1590-93

Siamo alla “natura morta” di  cui Arcimboldo ci dà una versione acrobatica  nelle due teste reversibili, “”Il Cuoco/ Piatto di arrosto”, e L’Ortolano (Priapo)/ Ciotola di verdure”, 1590-93: ha più di 65 anni, il suo spirito creativo resta molto attivo, l’inventiva non  è attenuata; muore nel 1596. Non sappiamo se conosceva la “Figura da capovolgere” di Giovanni Andrea Maglioli, esposta in due versioni, maschile e femminile,  capovolta mostra un’immagine animalesca; ma  il mimetismo rovesciato di Arcimboldo va ben oltre,  e l’allestimento della mostra consente al visitatore di cogliere l’effetto sorprendente delle due teste reversibili. 

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Vincenzo Ciampi, ““I mangiaricotta”, 1585

Conclusione del viaggio famtastico, le “pitture ridicole” 

 Le “pitture ridicole” sono l’ultima sorpresa,  prendono avvio addirittura dalle “teste caricate” di Leonardo,  con i lineamenti deformati, delle quali le “teste composte” sono l’evoluzione  estrema.  Vediamo  tre opere   emblematiche a questo fine, in chiave di reazione sarcastica al severo manierismo accademico:   “Homo ridiculo” di Anonimo lombardo, intorno al 1550, con uno straripante riso ironico,  l’“Autoritratto come abate dell’Accademia della Val di Blenio”, forse 1568, di Giovanni Paolo Lomazzo, citato all’inizio, ricorda come il pittore divenuto trattatista con la cecità fondò una associazione di artisti finti “facchini” di quella remota vallata all’insegna della semplicità contro le sofisticazioni,  e  “I mangiaricotta” 1585, “I pescivendoli” 1588-91, di Vincenzo Ciampi , con l’esaltazione delle figure  popolaresche contro quelle paludate.  

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Vincenzo Ciampi, “I pescivendoli” 1588-91

Arcimboldo, dopo  le “Quattro stagioni” e i “Quattro  elementi” , dove  il simbolismo prevale trattandosi di figure che richiamano fenomeni naturali realizza “Il Bibliotecario” e “Il Giurista”, il secondo datato 1566, 4 anni dopo il trasferimento alla corte imperiale, dove l’aspetto caricaturale è evidente, quindi rientrano a buon diritto nelle “pitture ridicole”. Non sono solo teste, ma figure a mezzo busto, il  primo ha i capelli formati da pagine aperte di un libro e il corpo da volumi accatastati, il secondo ha il volto formato dai capponi di Renzo, quindi il termine “giurista” sta ironicamente per “Azzeccagarbugli “.  

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Arcimboldo, “Il Bibliotacario”

E’ un bel commiato, colmo di ironia, da un artista che, pur nella sua eccentricità oltre ogni dire, ha avuto un’elevata valutazione non solo ai suoi tempi – e il quarto di secolo trascorso alla corte imperiale ne è un segno evidente – ma anche dopo.  “Si pensi che dopo una  mostra a Parigi nel 2007 – ricorda la curatrice Ferino-Pagden –   le Stagioni nel Louvre sarebbero diventati i dipinti più famosi dopo la Gioconda”.   

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Arcimboldo, ” Il Giurista”,1566

E, tornando alla mostra di  Palazzo Barberini, non è certo un caso che troviamo al termine  la “Testa composta, con elementi utilizzati nell’atelier Capucci”, è una gustosa realizzazione di  Roberto Capucci, nella contemporaneità più stringente, del 2017, per la mostra. Meglio di così non si poteva concludere il viaggio nel mondo fantasioso di Arcibmboldo, in un realismo naturalistico esasperato fiuno al paradosso. 

Vetrina con disegni di animali

Info

Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13. Da martedì a domenica, ore 9,00-19,00, lunedì chiuso. Ingresso, audio guida inclusa:  intero euro 15,  ridotto euro 13 per le categorie aventi diritto, gratuito under 18, invalidi, soci ICOM, guide turistiche, dipendenti MiBACT; con il biglietto di ingresso al Museo, intero euro 12, ridotto euro 6, l’ingresso alla mostra è ridotto a euro 10.. Tel 06.4824184, prenotazioni 06 81100257. www.barberinicorsini.org, www.arcimboldoroma.it; E mail: Gan-aar@beniculturali.it.   Catalogo “Arcimboldo”, a cura di Sylvia Ferino-Pagden,  Skira Editore 2017, pp. 176, formato 28 x 24.  

Fede Galizia, “Natura morta” fine 16° sec. , inizi 17° sec.

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Barberini alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, le Gallerie Nazionali di Arte Antica, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  Sono inserite in ordine di citazione nel testo. In apertura, Giovanni Arciboldo, “Autoritratto cartaceo” 1587, seguono due “Pannelli di vetrata”, “Santa Caterina, condotta al carcere e decapitata“; poi, Giovanni Paolo Lomazzo, “Autoritratto come abate dell’Acacdemia della Val di Blenio” 1568, e Arcimboldo, cartone per arazzo “Dormitio Virginis” , con Giovanni Karcher; quindi, Arcinboldo, “Ritratto a mezzo busto di una figlia di Ferdinado I (arciduchessa Elena o Barbara” 1563, e Martino Rota, “L’imperatore Rodolfo II”” s.d.e ; inoltre, Ottavio Miseroni, “Coppa in forma di conchiglia” 1610-22, e da Arcimboldo, “Allegoria delle Quattro Stagioni: Primavera-Estate, Autunno-Inverno” 1700; si entra nel cuore delle “Quattro stagioni”, “La Primavera” 1555-60 e suo “Prrticolare”, “L’Estate” 1572 e suo “Particolare”, “L’Autunno” 1572 e suo “Particolare” , “L’Inverno” 1563 e suo “Particolare”; poi nel cuore dei “Quattro elementi”, “L’Aria” post 1566 e suo “Particolare”, “L’acqua” 1566 e suo “Particolare”, “”Il Fuoco” post 1566 e suo “Particolare” , La Terra” 1566 e suo “Particolare” ; quindi, Libro d’epoca con disegni di animali e il dipinto di Hans Hoffmann, “La lepre” 1585; inoltre, Anonimo, “Enrico Gonzales, figlio del peloso Pedro Gonzales” post 1580, e Ottavio Miseroni, “Coppa in forma di conchiglia” 1610-22; ancora, Bartolomeo/Bartolo Bossi, “Testa composta di uomo” e suo “Partiolare” , “Testa composta di donna”; continua, Seguace di Arcimboldo, “Ritratto femminile composto di frutta (Alla donna di buon gusto” tardo 16° sec., e Arcimboldo, “L’Inverno” 15ì72; prosegue, Arcimboldo, “Il Cuoco / Piatto di arrosto”, e “L’Ortolano / Ciotola di verdure” 1590-93; poi, Vincenzo Ciampi, ““I mangiaricotta” 1585 e ““I pescivendoli” 1588-91; quindi, Arcimboldo, “Il Bibliotecario” e “Il Giurista” 1566; infine, Vetrina con disegni di animali e Fede Galizia, “Natura morta” fine 16° sec., inizi 17° sec.; in chiusura, Roberto Capucci, “Testa composta, con elementi utilizzati nell’atelier Capucci” 2017.

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Roberto Capucci, “Testa composta, con elementi
utilizzati nell’atelier Capucci”, 2017

16^ Quadriennale di Roma, 4. Le ultime 6 sezioni, con Pasolini

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra “Altri tempi altri miti” della 16^ Quadriennale di Roma, al  Palazzo Esposizioni, dal  13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, che torna dopo otto anni con 150 opere di 99  artisti  italiani contemporanei selezionati da 11 curatori, esposte in 10  sezioni sui temi intorno ai quali i curatori le hanno raggruppate spiegandone ampiamente le motivazioni. E’ stata organizzata dalla Fondazione della Quadriennale  presieduta da Franco Bernabè e dalla Azienda speciale Palaexpo cui fa capo il Palazzo Esposizioni con il commissario Innocenzo Cipolletta, istituzioni che hanno curato anche il Catalogo, e fornito la copertura finanziaria con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. L’ENI è “main partner”della mostra, c’è una sua apposita installazione, mentre la BMW è “partner” con un’opera celebrativa, la “BMW Art Car” di Sandro Chia. .  

Altre 3 sezioni,  “Orestiade italiana”, “Ad occhi chiusi ma aperti”, “De rerun rurale”,

Abbiamo già descritto le prime 4 sezioni della mostra, l’ultima delle quali ispirata a Tocqueville, e abbiamo anticipato  che un altro ispiratore  è Pier Paolo  Pasolini, nella sezione “Orestiade italiana”. Il curatore Simone Frangi si ispira  ai suoi  “Appunti per un’Orestiade africana”, analizzati per “recuperare il carattere propedeutico, ipotetico, di ricognizione e di risveglio politico”.  Di qui la scelta di artisti su temi come “studio dei conflitti latenti e della stasi europea; dinamiche turbo capitaliste e accelerazioniste; micro fascismi, normalizzazioni sociali; legami ambivalenti tra approccio documentario e orientalismo culturale e multiculturale in prassi antropologiche ed etnologiche” e altri sul colonialismo, fino ai “fenomeni migratori trans-continentali intereuropei”, al “sincretismo religioso”, alla “resistenza politica e simbolica”. 

Non abbiamo la velleità di individuare  le opere riferite ai temi specifici così enunciati, citiamo  per prima la spettacolare immagine di una sorta di “cave” moderna, “Helicotrema, veduta di una sessione d’ascolto al festival dell’audio registrato”, di Blauer Hase e Giulia Morucchio; poi la foto di epoca coloniale sovrastata dalla grande scritta “Has the ‘new man’ moved on to colonise our memory?”, di Alessandra Ferrini, dal titolo “Negotiating Amnesia”, e “Il Baro”,  di Diego Tonus, altra immagine coloniale. Tra le altre ritroviamo Nicolò Degeorgis, con le immagini “Hidden Islam”Vincenzo Latronico e Armin Linkeo con foto in bianco e nero di un viaggio in Etiopia, Danilo Correale e Blauer Hase il primo con un “libro d’artista”, il secondo con la pubblicazione  “Paesaggio”. Per il resto filmati e video, da Riccardo Arena a Invernomuto, Maria Iorio e Raphael Cuomo, Giulio Squillacciotti e Camilla Insom, Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli;  

E’ un‘Orestiade che si avvale di tutti i mezzi  per approfondire lo sguardo. In questo tourbillon video e sonoro spicca l’efficacia cartesiana dei 4 diagrammi ” dai titoli intriganti, “Analogia senza rimpatrio” e “Allegoria senza malinconia”, “Etica generica senza identità” e “Via d’uscita”  nel segno dell’innocenza e della fiducia, un finale positivo, dunque.

Il personaggio, cui si ispira Luca Lo Pinto,  curatore della sezione “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti”, è Emilio Villa, che nel 1941 emise un giudizio sulla storia antitetico alla vulgata comune che “Historia est magistra vitae”, per lui “la Storia è uno sbaglio continuo che non si ferma e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedersi, di ricredersi, di affermare oggi, per rimangiarsi tutto domani”. E non si è limitato ad affermarlo, ha cercato di cancellare ogni riferimento temporale nelle sue opere per impedirne la storicizzazione, ed evitare ad ogni costo di entrare nella storia facendo di tale atteggiamento un valore esistenziale.

Questa premessa per inquadrare la sezione,  imperniata sull’esigenza di non farsi mistificare da ciò che si vede, come avviene con i fatti storici,  ma di aprirsi, chiudendo gli occhi, al sogno e alla meditazione che portano a percezioni fuori dell’ordinario e rimuovono ogni contraddizione. In questo senso l’anima è nelle cose, e gli artisti nelle loro opere che ne sono espressione  rivelano “un modo personale di guardare al mondo, insieme singolare e universale”. Di qui una sezione “archeologica”, che parte da un frammento di vetro dipinto con l’immagine di una vergine e una scritta a pennarello di Villa, in un greco indecifrabile.  L’esposizione è concepita “come un dispositivo di visione in cui tutte le opere, chiuse come ricci, possano vedere lentamente la luce e guardare negli occhi chi le osserva”, in una speciale dimensione temporale. Per Giorgio Andreotta Calò questa dimensione è quella della clessidra, l’immagine fotografica nella doppia versione dello scatto e nella sua trasposizione  si specchia su se stessa rivelando una doppia identità, mettendo in relazione “il sensibile e l’intelligibile”, sono 4 località in dissolvenza.

Se questo appare criptico non lo è da meno il “Poggiaschiena” di Martino Gamper, “Back to Front Chair (Single)”, e così le tre opere “Senza Titolo” in gomma e altro materiale di Nicola Martini, e il totem “Pazuzu” di Roberto Cuoghi. Mentre “Le storie esistono solo nelle storie” di Rà di Martino è un documento vivo e animato, che dall’archeologia riporta alla realtà presente.

Le restanti 4 sezioni entrano  ancora di più nell’attualità, a dispetto dell’erraticità e irrazionalità della creatività ontemporanea: si va dai mutamenti dell’ambiente alla cibernetica passando per il riciclo e le periferie,  una rassegna dei disagi e delle opportunità dell’attuale fase storica. Ciò vale per le enunciazioni e le motivazioni dei curatori, e lo abbiamo già visto nella presentazione del 6 giugno, mentre per le interpretazioni degli artisti siamo sempre nell’indeterminato e inconoscibile.

“De Rerum rurale” non si riferisce al mondo agricolo, come potrebbe sembrare, Matteo Lucchetti vi ricomprende quelle aree sempre più vaste in cui si perdono i confini tra città e campagna, come i centri commerciali e le villette con il verde ai margini delle città, le valli e i terreni di discarica, e quant’altro di urbanizzato al di fuori dei centri e in contatto con la campagna. Il terreno agricolo  è stato decimato dal consumo di suolo connesso alla cementificazione urbana, fino ad esporre il territorio ai rischi del dissesto, un “rurale continuo” che si sottrae ad ogni regola di protezione. 

La sezione ispirata  al “De rerum natura” di Lucrezio interpreta la natura in chiave rurale: “Come ambiente in crisi e biisognoso di nuove narrazioni, come luogo abitato da comunità in conflitto tra loro o, ancora, come spazio ibrido, in divenire, dove la metamorfosi tra stati è generativa di scenari inediti e trasformativi”. Ben 14 artisti sono mobilitati  intorno a questo tema, distribuiti in tre spazi nei quali l’allestimento passa dall’ordine all’accumulo e all’entropia, cioè dalla disciplina alla frenesia, seguendo Lucrezio secondo cui la natura prima crea e alimenta, poi accresce, infine distrugge.  Oltre agli oggetti semplici e ordinati di Anna Scafi Eghenter, tra cui una serie di righelli sagomati, le “Matrici irregolari”, e un contenitore di “acque internazionali”, “Res communis omnium”, vediamo evocati gli abusi delle multinazionali e le minacce al paesaggio. Di Adelina Husni-Bej, che ritroviamo nella sua terza sezione, un  manifesto recante una ideale convenzione sull’uso dello spazio con tante annotazioni colorate, frutto di approfondimenti del tema, cui accostiamo il racconto di due viaggi molto speciali  di Rossella Biscotti.  

Molto diverse  le opere di Valentina Vetturi sugli hacker,  installazione luminosa e “coro a cadenza casuale”, e di  Danilo Correale, che con il titolo “The Great Sleeper” presenta la figura di Edison addormentato tra strumenti di misura del riposo nello sfruttamento capitalistico del lavoro. Da un ordine così inquietante si passa alla formazione di comunità come difesa collettiva, che gli artisti presentano con  installazioni e performance, così Marzia Migliorai visualizza l’assenza con le pannocchie abbandonate,Elena Pugliese fa rivivere la storia estrema dell’imprenditore Isidoro Danza, rapinatore  per pagare i suoi operai, cui segue la storia  di Simone Pianetti che uccise i simboli del potere e divenne mito degli anarchici, nell’installazione di Riccardo Giacconi e Andrea Morbio. Più pacifiche le storie comunitarie di Beatrice Catanzaro, su un’associazione di donne per donne, e di Marinella Senatore, con i suoi strumenti  per stimolare la partecipazione, foto, collage, ecc.

Lo spazio del disordine entropico cerca di rendere i turbinosi cambiamenti nel mondo agricolo con riferimento anche alle antiche mitologie rurali. Queste sono evocate da Moira Ricci, in “Da buio a buio”, museo immaginario di immagini in bianco e nero dei contadini maremmani, mentre l’installazione di Leone Contini  celebra con vivace cromatismo “Un popolo di trasmigratori”. La varietà delle forme artistiche comprende il busto di un agronomo giapponese intitolato alla sua  “Rivoluzione del filo di paglia” con immagini di “Riso amaro”, di Michelangelo Consani, e un film di Nico Angiuli sulla “Cerignola di ieri dentro quella di oggi”, con lo sfruttamento dei migranti che cancella le lotte vittoriose del passato. Ai migranti si riferisce anche l’opera di Luigi Coppola, “Dopo un’epoca di riposo”, che documenta , con video e stendardi, la riqualificazione di aree degradate a discarica convertite con culture miste, “scelte dal terreno”  più che dall’agronomo, in un’integrazione naturale metafora di quella con i migranti.

Le ultime tre sezioni,  “Periferiche”, “La seconda volta” e “Cyphoria”

Dal rurale inteso anche come estensione abnorme dell’urbano alle “Periferiche”,  un tema che in passato ha interessato pittori come Mario Sironi il quale ha evocato le “periferie”  con intensi dipinti nei quali si sente la solitudine. La curatrice Doris Viva afferma che occorre sfatare l’illusione di una loro vitalità data da un policentrismo positivo, la globalizzazione schiaccia ogni cultura localizzabile e quindi identitaria. “Periferia, in una geografia ormai delocalizzata e interconnessa, non può che ritenersi quel luogo incapace di attrarre investimenti, privo di grande valore strategico e soggetto a fenomeni sociali, demografici e culturali tutt’altro che dinamici”; perciò si apre una “fase di riconfigurazione della quale è impossibile allo stato attuale prevedere il destino”.  Tutto questo si riflette anche sugli artisti, che vedono smarrire la loro identità nell’omologazione globale, ma possono anche “documentare o criticare tali processi, sollecitare discorsi di consapevolezza e di coscienza politica, oppure, a partire dalla scala della propria singolarità, tentare vie di mobilità e di emancipazione”. 

Gli 8 artisti prescelti hanno deciso di operare in periferia per ripararsi dalla globalizzazione e sentire la linfa della  loro eterogeneità, senza però ostentare questa posizione “dislocativa” che pure li alimenta.  Hanno in comune “la rivendicazione di un tempo più biologico e meditato” e “una forma di più radicale attenzione a un’antropologia del quotidiano, a un’umanità poco dinamica”,  la “vocazione della loro ricerca per la reiterazione”,  e “l’assoluta indifferenza per l’evoluzione tecnologica”.

Colpisce  la lunga cassa coperta di riquadri ad uncinetto colorati, “coperta di lana e zucchero”, intitolata Sim Sala Bim”, di Giulia Pisciatelli,  e la catasta di travi di Michele Spanghero, “Listening is Making Sense”, la colonna piramidale in gesso di Paolo Icaro, “Pile Up”, e il trittico “Paesaggi” di Maria Elisabetta Novello.  Poi il bianco e nero “Volti dell’anonimo” di Paolo Gioli, che espone anche “Luminescenze”, fino al “Massimo Ritratto” e agli “Affreschi su Impressione” di Emanuele Becheri“Parte della superficie terrestre” di Carlo Guaita è una borsa sul pavimento, come se fosse smarrita o dismessa.

E così dalle “Periferiche” passiamo alla sezione “La seconda volta”, che essendo ispirata al riuso dei materiali scartati, in un certo senso si associa al senso di marginalità attribuito al periferico. Ma come le periferie diventano fondamentali in una visione equilibrata della città, così il riuso acquista un ruolo centrale nel riequilibrare gli eccessi del consumismo che distrugge risorse non sempre riproducibili. Gli scarti sono stati definiti “la faccia tragica del consumismo” e hanno attirato anche gli artisti nel riciclo e assemblaggio, tra loro  ricordiamo i legni abbandonati dell’americana Louise Nevelson,  i residui bellici del libico Wak Wak, i rifiuti da discaricadell”italiano Alessio Deli; ben prima, il riuso con finalità artistiche ha fatto nascere il collage, sin dai Futuristi,  e il “ready made”, Marcel Duchamp avanti a tutti. Ma a parte quest’ultimo, che ha nobilitato oggetti di uso comune, i materiali di recupero sono stati impiegati al servizio dell’arte soprattutto scultorea al posto  di quelli tradizionali. Invece,  i  5 artisti presentati nella sezione curata da Cristiana Perrella, non scolpiscono né dipingono, si avvicina al “ready made” Martino Gamper con le sue “100 sedie in 100 giorni” , “trovate, smontate e riconfigurate”; mentre un riuso originale di una statua classica, traducendo il marmo imperiale in poliuretano, lo troviamo in Francesco Vezzoli, che in “Metamorfosi (Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia)”,  ha sostituito con il calco del proprio volto il viso dell’Apollo del Belvedere mantenendo intatto il resto della statua. 

L’opposto fa Lara Favaretto che punta sulla cancellazione di un’opera, più che sulla reiterazione,  in forme transitorie  che ne fanno trasparire qualche traccia per farla riemergere in un ciclo reversibile, “Dipinti trovati, lana” sono tre tele rosse con dei contorni sottostanti appena delineati, come quelli di ripensamenti, ci tornano in mente il minimalismo con Rauschenberg e, in tutt’altro senso, le “cancellature”  di Isgrò. Mentre A1ek O. espone oggetti o materiali presi dalla quotidianità, in qualche caso anche personale o familiare, per dare loro una nuova vita che mantiene il retaggio di quella precedente con interventi minimali, spesso assemblaggi operati artigianalmente. Così nelle greche di “Tina” e in “E’ già mattino”, una parete derivata dai manifesti, foderata di celeste con applicazioni dai colori brillanti. Ma il più spettacolare, quanto più elementare, ci è sembrato  “Himalaya” di Marcello Maloberti, un giovane apollineo a torso nudo accovacciato a terra, vera scultura umana, intento a ritagliare dai libri d’arte le foto di sculture classiche, cosparse sul pavimento per essere calpestate e spostate dai visitatori: venendo mosse in modo casuale e continuo danno il senso dell’imprevedibilità della vita.

E siamo all’ultima sezione, nel nostro personale percorso non può che essere “Cyphoria”, dove il curatore Domenico Quaranta affronta il tema del futuro che è già iniziato. Quello della “disforia”, cioè il disagio  e l’insoddisfazione, applicata alla cibernetica, in particolare a Internet che ha stravolto tutti i campi e i momenti della vita diventando in molti casi quello che Gene McHugh ha definito “non un posto del mondo in cui rifugiarci, ma piuttosto quello stesso mondo da cui cercavamo rifugio”.  E’ stata così rapida e pervasiva la sua diffusione, anche con gli strumenti di comunicazione più avanzati che si sono moltiplicati, come i “social network”, che non si riesce a dominare un mondo virtuale dalle parvenze del reale né a decodificarne i linguaggi e a contenerne l’influenza.

Anche nell’arte questa nuova forma di espressione si è diffusa  come tecnologia innovativa; ma pochi, osserva il curatore, “realmente affrontano la questione di cosa significhi pensare, vedere e filtrare le emozioni attraverso il digitale”.  Tra loro, i 14 artisti  presenti in questa sezione della mostra, che esplorano la nuova sconvolgente condizione umana sotto diversi aspetti critici a livello pubblico e privato, passando dalle problematiche generali alle reazioni intime.

Sarebbe arduo cercare di descrivere le opere presentate, per lo più si tratta di video, film o di installazioni molto elaborate, ci limitiamo a citare dei titoli, in relazione ai temi esplorati. Eva e Franco Mattes con i video di “Befnoed”  parlano della “nuova schiavitù”  con lo sfruttamento del lavoro via Internet, tema trattato anche da Elisa Giardina Papa in “Technologies of Care”, un video sulle lavoratrici “on line”. Enrico Boccioletti in “Angelo Azzurro” entra, sempre con un video, nella disperazione generazionale, mentre della zona grigia tra arte e spazzatura mediale si occupa Roberto Fassone insieme a Valeria Mancinelli con l’archivio video “The Importance of Being Context”, al quale accostiamo il tema che il collettivo “Alterazione video” sviluppa con il turbo-film “Surfing With Satoshi” e l’installazione “Take Care of the One You Love”.  “Overexposed”, di Paolo Cirio e Giovanni Fredi, con i ritratti di membri della CIA viola il loro privato come l’agenzia di intelligence fa regolarmente nella sua attività spionistica, mentre Fredi presenta dei “selfi” che si moltiplicano sul web in “Everyone Has Something to Share”.

Un approccio visivo delicato quello di Simone Monsi con la serie “Transparent Word Banners” e di Kamilia Kard con “Betrayal”, mentre in “My Love is Religious – The Three Graces” esplora l’amore “on line”.  Mara Oscar Cassiani con l’installazione “Eden” si cimenta sulla ricerca del relax, la cura dell’acqua e la mercificazione della cura del corpo, e Natàlia Trejbalovà con il video “Relax” e un’installazione denuncia i rischi ambientali e climatici a cui reagire con piccoli sistemi eco-domestici. Vi colleghiamo Marco Strappato che indaga sui cambiamenti dell’immagine del paesaggio e sul modo in cui le arti plastiche reagiscono con la forma-schermo, e lo fa in una stampa e armadietti con schermi dal titolo “Apollo and Daphne e Laocoon”, tema che troviamo in evidenza nella scultura di Quayola, “Laocoon”,  un clone dell’originale di grandi dimensioni, rispettoso dell’antico, con effetti di digitalizzazione; è una presenza spettacolare di forte rilievo scultoreo, come di  forte rilievo pittorico sono i quadri del ciclo “The Brotherhood” di Federico Solmi,  video animazioni di figure di leader dalle maschere grottesche come i generali di Enrico Baj, che nella loro vistosa presenza  disvelano quanto la  finta  fratellanza sia fonte di caos e degenerazione.

La “centesima” opera esposta, la “BMW Art Car” di Sandro Chia, con cui si celebra il centenario del gruppo automobilistco  e il mezzo secolo della sua presenza in Italia, è il fuoco d’artificio finale di una mostra che fa sentire proiettati nel futuro. L’arte associata alla tecnologia conclude un percorso in cui non è mancato l’elemento umano: anche figure umane maschili  e femminili accoccolate la cui serietà e compostezza nella postura allontana ogni possibile associazione con l’irridente scena delle “Vacanze intelligenti” di Alberto Sordi, in cui la “sua signora” seduta viene scambiata per una scultura vivente. 

Del resto anche così  l’arte contemporanea, che nella rutilante esposizione abbiamo visto declinata in un tourbillon di manifestazioni con l’impiego dei materiali più diversi e delle forme espressive più varie, fa riflettere seriamente sul futuro.

Ed è questo il merito della  mostra  nella prospettiva del  rilancio permanente della Quadriennale romana negli spazi ristrutturati del settecentesco  Arsenale Pontificio.    

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni a studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it.  Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti, Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato   23,5 x 30,5;  dal Catalogo è tratta la gran parte delle notizie e citazioni del testo. Gli altri 2 articoli  sulla mostra sono usciti in questo sito il  24 e  27 ottobre,  l’ultimo articolo, sul confronto tra curatori, uscirà  il 29 novembre 2016; l’articolo di presentazione della mostra è uscito il  16 giugno 2016. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli.  in questo sito,  su Pasolini, 16 novembre 2012, 27 maggio e 15 giugno 2014, 27 ottobre 2015, su Duchamp gennaio 2014, Nevelson 25 maggio 2013, Wak Wak 27 gennaio 2013, Deli  21 novermbre 2012 e 5 luglio 2013, Isgrò 16 settembre 2013, Sironi, 1, 14, 29 dicembre 2012, 7 gennaio e 2 novembre 2015; in “fotografia.guidadel consumatore.it”, per Pasolini  4 maggio 201, tale sito non è più raggiungibile, gli  articoli aaranno ricollocati.

Foto   

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. Sono 2 immagini per ogni sezione, riportate nell’ordine in cui le sezioni sono commentate nel testo.In apertura,  Blauer Haase-Giulia Morucchio, “Helicotrema, Festival dell’audio registrato 2012-2016”, veduta di una sessione d’ascolto, Forte Marghera”  settembre 2015, seguito da Diego Tonus, “Il baro”, 2016; seguono, Emilio Villa “Testo manoscritto a pennarello su frammento di vetro dipinto”, s. d., e Roberto Cuoghi, “Pazuzu”, 2014; quindi, Danilo Correale, “The Great Sleeper”, e Beatrice Catanzaro, “Fatima’s Chronicles-Wara’ Dawali”, inoltre, Paolo Icaro, “Pile Up”, 2008 (1978), e Giulia Piscitelli, “Bim Sala Bim, 2013; ancora, Lara Favaretto, “032-2012”, 2015, e Francesco Vezzoli, “Metamorfosi (Autoritrtto come Apollo che uccide il satiro Marsia”, infine, Giovanna Fredi, “Untitled (Everyone Has Something to Share”, 2015, e Kamilia Kard, “My Love is So Religious. The Three Graces”, 2016; in chiusura, Marcello Maloberti, “Himalaya”, 2012. 

Human, il futuro della specie umana, in mostra a Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Ripubblichiamo la recensione uscita senza immagini nel sito www.arteculturaoggi.com il 17 maggio 2018

Al  Palazzo Esposizioni, dal 27 febbraio al 1° luglio 2018,  la mostra “Human + Il futuro della nostra specie” ha presentato  una serie di evidenze sulle realizzazioni tecnologiche nelle direttrici scientifiche più avanzate riguardanti in particolare il potenziamento delle capacità umane e le prospettive dell’esistenza con tutte le implicazioni della rivoluzione già in  atto che anticipa il futuro. La mostra, realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo, con un Team curatoriale di 9 membri e un  Comitato consultivo con 46 componenti è stata a cura di Cathrine Kramer, che ha curato anche il catalogo bilingue.

La copertina del Catalogo della mostra

Il Palazzo Esposizioni prosegue nella sua meritoria attività di approfondimento e  divulgazione, di tematiche legate al mondo scientifico: da “Astri e particelle“, “Darwin”  e “Homo sapiens” del 2009-12 a “Dna” del 2017 attraverso  “Meteoriti”“Numeri” e “Cibo”  del 2014-15. La mostra del 2018, ““Human +“, proietta nel “futuro della nostra specie”, come recita il sottotitolo: futuro nelle riceche avveniristiche e nelle ardite sperimentazioni scientifiche  evocate con le evidenze progettuali  delle sofisticate tecnologie e di nuovi campi di applicazione, il tutto documentato nei pannelli illustrativi.

I traguardi raggiunti dalla scienza – come ha spiegato il Commissario del Palazzo Esposizioni Innocenzo Cipolletta – vengono presentati “in parallelo ad altri aspetti della cultura contemporanea”,  dato che “l’arte fa da ponte con la scienza dando  una diversa interpretazione della realtà, sollecitando interrogativi e un approccio dialettico”.  Vengono evidenziate le potenzialità umane, in gran parte inespresse, e la possibilità di mobilitarle  per “un futuro migliore con vantaggi che sino a poco tempo fa erano solo un’utopia”.

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Protesi

Il potenziamento delle facoltà umane al centro della mostra

Punto centrale di “Human +” è il potenziamento artificiale delle facoltà umane, realizzato anche attraverso protesi e interventi più o meno invasivi, che non deve essere visto come un fatto inedito connesso agli eccessi del modernismo, perché dalla scrittura, agli occhiali, alle lenti a contatto  si è sempre fatto così con le tecnologie esistenti al momento, che oggi  hanno moltiplicato la loro straordinaria potenza.  L’uso della tecnologia per progredire ha favorito la crescita della popolazione umana,  dai 200 milioni di 2000 anni fa agli attuali 7 miliardi, in condizioni di vita di gran lunga migliori.

D’altra parte, come ha ricordato la ricercatrice Juliana Adelman, intervistata dal curatore della mostra, “siamo una specie come un’altra che deve soddisfare esigenze specifiche per sopravvivere. Gli esseri umani si sono  dimostrati incredibilmente adattabili  e così hanno avuto un successo straordinario nel gioco della sopravvivenza”.  ma le difficoltà sono aumentate: “Oggi abbiamo di fronte un futuro che sembra mettere a repentaglio proprio questo successo”. Cita l’esplosione demografica e l’impoverimento, fino ai cambiamenti ambientali globali che “lasceranno tutti un segno indelebile sul futuro della nostra specie”. E si chiede: “L’ingegno umano riuscirà a trovare una via d’uscita dalla nostra situazione attuale?

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Protesi “indossate”

Secondo Mc  Luhan  “la tecnologia è la cosa più umana che abbiamo”, come estensione di noi stessi  tale da aumentare le nostre capacità ma anche da moltiplicare le nostre ansie perché  al cambiamento non corrisponde sempre un effettivo progresso. Ed è proprio questo un nodo cruciale che il titolo della mostra evoca aggiungendo un + ad “Human” nel senso di dare una direzione positiva all’azione della tecnologia.

Viene evocato il rischio che l’ampliamento artificiale di certe capacità può comportare la perdita delle abilità tradizionali, E sulle abilità si sottolinea che sono proprio i diversamente abili colpiti da minorazioni fisiche,  le avanguardie delle tecnologie di potenziamento effettivamente impiegate; al punto da ipotizzare delle Olimpiadi Extraspeciali riservate  a coloro che vengono dotati di superpoteri con protesi particolarmente avanzate; già nell’atletica abbiamo visto come le protesi a gambe di ghepardo sostitutive degli arti inferiori  fanno superare del tutto un handicap motorio apparentemente incolmabile.

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Protesi “gambe da ghepardo”

Oltre ai diversamente abili un importante campo di applicazione è quello militare soprattutto negli USA per i reduci dalle guerre, in particolare Iraq e Afghanistan  che hanno riportato gravi  mutilazioni per le quali vengono studiate protesi non soltanto meccaniche ma anche neurali controllate da un’interfaccia cervello-computer.

Le linee di sviluppo più esplorate sono quelle del trapianto degli organi, tanto che è stato istituito il “New Organ Prize” che si propone di assegnare 10 milioni di dollari a chi trapianterà un nuovo organo entro il 2020. Il movimento transumanista è impegnato per il prolungamento della vita e della giovinezza, anche attraverso le cellule staminali che permettono di creare parti del corpo da sostituire a quelle deteriorate con l’età ed i cloni, finora evocati nella letteratura fantascientifica ma che divengono realtà.

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“Un autoritratto al giorno” di Bryan Lewis Sanders, 4 immagini

Un’ipotesi suggestiva viene avanzata: che l’Homo sapiens sarà superato dall’Homo evolutus , in grado di controllare il proprio destino biologico. Lo preannunciano le conoscenze sul DNA e sulle possibilità di modificarlo, con le possibili conseguenze sul piano sociale, ecologico e ambientale che fanno ritenere utopiche le prospettive avveniristiche di prolungare la vita in modo indefinito con la medicina rigenerativa.

Se questo è vero,  non può essere nascosto neppure quello che viene definito “il rovescio della medaglia del principio di precauzione”,  cioè “i costi e l’etica dell’inazione” insita nella volontà autolesionista di  “non perseguire i miglioramenti del benessere umano nei modi desiderati da individui o gruppi, fatto sempre salvo, ovviamente, che questi miglioramenti non violino i diritti degli altri”.

Dilemma acuto nella fase attuale in cui le possibilità sono moltiplicate – come ha detto Charles Spillane,docente e ricercatore, intervistato dal curatore della mostra – “per via dei progressi tecnologici convergenti nel campo della robotica e delle nanotecnologie, dell’informatica, con l’intelligenza artificiale, delle scienze cognitive e delle biotecnologie”, considerando che “le tecnologie convergenti tendono a generare innovazioni rivoluzionarie” e offrono “entusiasmanti possibilità per il potenziamento umano”.

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“Un autoritratto al giorno” di Bryan Lewis Sanders, altre 2 immagini

La presentazione della mostra conclude così: “A metà tra un negozio di dolciumi e una farmacia, “Human+” ci propone un mondo di pillole, promesse e protesi alla Alice nel paese delle meraviglie. I progetti in mostra sottolineano la natura fragile  e imprevedibile dei possibili percorsi futuri, invitandoci a riflettere sui diversi aspetti , costi e conseguenze  inattese del potenziamento dell’essere umano”.

Vengono presentati progetti in fase avanzata di realizzazione che danno un’idea sulle prospettive concrete di potenziare le capacità umane e pongono al contempo l’accento sulle scelte che dovranno venire compiute; questo soprattutto a livello collettivo perché sul piano individuale le scelte già avvengono, se si considera il numero di coloro, peraltro sempre più ridotto, che rifiutano  computer  e posta elettronica  subendo in tal modo, più o meno consapevolmente,  limitazioni nella vita personale e professionale.

Inoltre, aspetto di particolare interesse, la rassegna tecnologica  è corredata da opere di  artisti, la cui importanza va oltre la testimonianza: la prospettiva “basata totalmente, o quasi, su una idea di progresso all’insegna dell’idea di miglioramento tecnologico” viene opportunamente integrata, se non corretta: “A ben guardare – afferma Valentino Catricalà di “Mondo digitale”– , una nuova rilettura di questa visione può partire proprio dagli artisti selezionati nella sezione italiana di questa mostra, il cui principio  di selezione si è basato soprattutto sul tentativo di dare uno sguardo nuovo, più contemporaneo, a questi fenomeni”.

Impianto del “terzo orecchio” di Sterlac

Protesi e interventi, strumenti e robot, macchine e cyborgismo

“Capacità aumentate”, la 1^ sezione della mostra, riguarda i metodi fisici, chimici e biologici che possono essere adottati per potenziare la mente  e il corpo.  Sono presentate diverse protesi, tra quelle realizzate alcune sostituiscono parti del corpo deficitarie, altre servono a potenziare le prestazioni della persona, fino al congegno che stimola emozioni particolari.

La prima protesi presentata è quella in fibre di carbonio modellata sulle Gambe del ghepardo per Aimee Mullins, nata senza peroni, con le gambe amputate sotto al ginocchio. Era destinata a una sedia a rotelle mentre ai giochi  paraolimpici del 1996 ha stabilito addirittura i record mondiali dei 100, 200  metri piani e salto in lungo, è sfilata sulle passerelle di moda e nel 2011 è diventata ambasciatrice globale per una grande casa di cosmetici, l’Oreal Paris, una icona positiva.

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“Casco deceleratore”

Sono esposte anche le Protesi a basso costo del programma FabLab, dell’House of Natural Fiber Sprint, in particolare regolabili per gli arti inferiori a un costo di produzione  addirittura inferiore a 50 dollari; in tal modo offrono la possibilità di far fronte a una domanda di protesi in forte crescita ostacolata dagli alti costi che così vengono abbattuti. Gli utenti finali sono coinvolti nel progetto realizzato con una rete globale di altre 400 FabLab, che va, MIT di Boston ad Amsterdam, da Nuova Delhi all’Indonesia.

Nello stesso campo incontriamo il “Progetto per arti alternativi” creato da una designer di protesi ortopediche, Sophie de Oliveira Barata su sollecitazione di una ragazza, Polyanna Hope, che ogni anno le chiedeva una protesi diversa, e di una cantautrice e modella, Vikatoria Modesta, che le commissionava protesi alternative per la gamba sinistra amputata in grado di cambiare la percezione della disabilità valorizzandola come bellezza, ha progettato anche un braccio bionico.

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Progetto di “impollinazione umana”

Sulla bellezza, “Tagliare lungo la linea” mostra la performance dell’artista Regina José Galindo, che ha fatto evidenziare con un pennarello da un famoso chirurgo plastico venezuelano, Billy Spence, le parti del corpo che avrebbe  modificato per raggiungere i canoni della bellezza, in tal modo il corpo viene paradossalmente decostruito in forme astratte su aspettative irrealistiche.

Impressionante la provocazione del performer anticonformista americano Bryan Lewis Sauders che dal 1995 dipinge “Un autoritratto al giorno”, ne ha realizzati 10.000 e intende proseguire ponendosi al centro delle raffigurazioni del mondo, e per meglio esplorare la percezione di se stesso lo ha fatto anche assumendo ogni giorno droga e .registrando i propri cambiamenti correndo gravi rischi.

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“Foraggeri”, con la biologia sintetica

In questa ricerca che va fino all’autolesionismo si inserisce l’Impianto a Los Angeles del terzo orecchio dell’artista Serlac”nel braccio sinistro per il progetto “Extra Ear” in una serie di grandi fotografie dell’australiana Lina Sellars della serie “Obliquo” che è “situata tra il teatro chirurgico e la teatralità del barocco”.

Con il “Casco deceleratore”, di Lorenz Potthast, esposto in mostra, si ha una “percezione personalizzata” al rallentatore che muta il rapporto con il tempo nel divario verso la percezione temporale, nelle modalità “Auto” automatica, “Press” scelta autonoma, “Scroll” in sequenza scorrendo nel tempo.

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“Scultura di neonato” su cui si è intervenuti chirurgicamente

Si può indossare anche la “Macchina Avatar”, di Marc Owens, che trasmette scene di vita reale come fossero di una terza persona in una “visione extracorporea di se stesso in tempo reale”, mescolando spazi reali a spazi virtuali  che sono regolati da norme e comportamenti sociali diversi.

Ugualmente indossabili i prototipi della serie “Superpoteri animali”,di Chris Woebken e Kenichi Okada, con i quali si possono acquisire le capacità straordinarie, ad esempio, degli uccelli e delle formiche, a seconda dell’apparato scelto, migliorando così il proprio rapporto empatico con questi esseri.

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“Bambole scacciapensieri semoventi”, di ingegneria tissutale

Ci si avvicina così alla disumanizzazione tecnologica del Cyborgismo attraverso il “Braccio sismico e la testa sonocromatica” realizzati dalla Cybor Foundation applicando la cibernetica alla biologia. L’antenna installata nel cranio del fondatore, Neil Harbisson, gli fa percepire i colori visibili e invisibili come onde sonore anche provenienti da televisione, cellulari, Internet. e  i terremoti.

“No Body’s Perfect”, che conclude la sezione, è un documentario del regista tedesco  Niko Von Glasgow, sulla paradossale proposta a 11 colpiti dalle deformazioni del Talidomide di posare nude per un libro fotografico in grado di evocare curiosità, entusiasmo od orrore secondo le reazioni a tale proposta.

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“Nessun (corp)o è perfetto”

Relazioni umane e tecnologiche in ottica avveniristica

La 2^ sezione, “Incontrare gli altri”, è sull’invadenza nella vita dell’intelligenza artificiale, . e si apre con “Area V  5”, di Louis. Philippe Demers, ul dialogo con le macchine mediante gli occhi e il disagio creato dai robot.

Due Robot indisciplinati”, di Heidi Kumao, rovesciano il tradizionale concetto delle macchine perfette e ubbidienti  e si ribellano ad ogni indicazione comportandosi in modo del tutto incontrollabile.

Ma c’è anche il primo libro scritto da un computer, “True Love” una variante di Anna  Karenina in cui l’intelligenza artificiale ha cercato di rendere un vero amore basandosi su 17 classici smembrati e ricomposti nel 2008 in un’opera del tutto nuova dal caporedattore russo Alexander Prokopovic.

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Danza virtuale

Si torna agli animali e agli Avatar con “Tardigotchi”, un microrganismo vivente e un suo Avatar artificiale convivono in una sfera di ottone, ma hanno comportamenti differenti pur se  correlati, autori gli artisti Douglas Easterly e Matt Kenyon con il progettista Tiago Rorke.

Un “Dispositivo empatico improvvisato“, degli stessi autori,  traduce i dati del sito web sul numero di soldati americani uccisi in punture al braccio per mantenere viva l’attenzione ad ogni messaggio.

Impressionanti le immagini dei robot ritratti nei laboratori di ricerca dal francese Yves Gellie, sono denominati “Versione umana 2.0” per il loro aspetto umanoide non solo esteriore, entreranno nella vita quotidiana.

Un robot in costruzione

“Utopia  di chi?” è un video dell’artista multimediale cinese Cao Fei che mostra il contrasto tra aspirazioni dei lavoratori e vita quotidiana, in un sistema in cui le macchine sono dotate di intelligenza umana mentre gli uomini sono portati ad agire come macchine rinunciando alla propria creatività.

In un ambiente artistico è nata anche La macchina per essere un altro”, del  BeAnotherLab, che fa vivere esperienze altrui come le proprie mediante un visore con il quale si osserva il mondo “nei panni degli altri”.

E’ ispirata anch’essa alle relazioni sociali, questa volta molto strette,  la Teledildonica per relazioni a distanza”,della Kiiro di Amsterdam, vicina al quartiere a luci rosse: consente “rapporti sessuali tattili via computer”, assicura la Kiiro,  “potrai connetterti intimamente con chiunque, dovunque”.

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Un robot “domestico”

I rapporti con l’ambiente e la natura

Dal rapporti personali a quelli naturali, nella 3^ sezione, “Essere artefici del proprio ambiente”, il Progetto di impollinazione umana” dell’americana Laura Allcorn con il kit per l’impollinazione manuale fa sentire la responsabilità di sostituirsi alle api per assicurare la necessaria impollinazione.

E rispetto alla natura va fronteggiata la possibile carenza di cibo rispetto alla sovra popolazione, con “Foraggeri” dei britannici Anthony Dunne Fiona, dispositivi di biologia sintetica per realizzare “batteri dello stomaco” in grado di incrementare i valori nutritivi degli alimenti sempre più scarsi.

Sempre in campo alimentare “Il nostro pane quotidiano”,un film di Nikolaus Geyrhalter con cui vengono mostrati i sistemi e le tecnologie delle moderne aziende per massimizzare la produzione.

Componenti

Un altro film dello stesso autore presenta uno scenario sulla fragilità della vita umana con la fine dell’era industriale,  la disgregazione e desolazione del pianeta, si intitola “Homo sapiens”.

L’impatto dei progressi della scienza, e delle biotecnologie, con l’interazione tra cultura e natura è al centro della rassegna di “Organismi europei”,  per lo più geneticamente modificati, del Center for PostNatural History, che fa riflettere sulla loro diversità nella storia naturale  e postnaturale.

In “Nuova città: macchine di produzione umana e post-umana” il regista cinematografico australiano Liam Young presenta immagini urbane con le profondi distorsioni indotte dalle nuove tecnologie, una fabbrica sconfinata con schiere di robot e il corpo umano come una macchina.

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Altri componenti

La genetica del futuro, la durata della vita

Nella 4^ sezione, “La vita ai limiti”, ci si pone l’interrogativo sui limiti della manipolazione genetica negli organismi viventi, iniziando con le manipolazioni del corpo umano: nelle Trasfigurazioni” di Agatha Haines si vedono 5 sculture di neonati su cui si è intervenuti chirurgicamente per modificare il loro corpo positivamente, evidenti i problemi etici e non solo.

Dopo questa problematica,  quella dei “Futuri riproduttividi Zoe Papadopoulou e Anna Smajdor, esplora i mutamenti indotti dalle metodologie di procreazione assistita e dalle  tecniche genetiche, come i gameti artificiali da cellule staminali, da cellule somatiche incidenti sull’origine della vita.

Le Bambole scacciapensieri semiventi” sono sculture di ingegneria tissutale realizzate dal 2000  dal “Tissue Culture and Art Project”, si tratta dell’uso delle cellule  viventi per rigenerare tessuti e, potenzialmente, organi, le bambole sono il simbolo di una fase ancora carica di dubbi e di speranze.

Montagne russe eutanasiche”

Speranze che riguardano anche la possibilità di rallentare fino a invertire l’invecchiamento Il progetto di Jaeim Paik esplora le conseguenze familiari e sociali di Quando vivremo fino a 150 anni”, con sei generazioni che si troverebbero a vivere insieme e gli inevitabili modelli alternativi.

Abbiamo specularmente la problematica dell’interruzione anticipata della vita con le Montagne russe eutanasiche”, macchine che con accelerazioni e rallentamenti visualizzano i diversi effetti, dall’euforia al brivido nella “scultura cinetica” del “viaggio fatale”, autore Julijnas Urbonas.

L’eutanasia e anche la fine naturale dell’esistenza evocano “La vita dopo la morte”,  non sul piano religioso ma tecnologico, viene conservata in una batteria  a secco che raccoglie e mantiene il potenziale elettrico del corpo: in questo modo James Auger e Jimmi Loizeau hanno  reso possibile conservare la propria energia o quella dei propri cari se si vuole la certezza di mantenere la vita in un pur lontano futuro.

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Macchine che “si ribellano”

L’umanità nelle sculture cinetiche e digitali e nelle macchine

E siamo alla parte artistica della 4^ Sezione dal titolo “Umano, sovrumano”.  Inizia con “Ghostwriter”, del collettivo Aos di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, che scrive la nostra autobiografia a nostra insaputa con algoritmi che utilizzano i frammenti del nostro essere digitale attraverso le tracce che lasciamo  nei social network, e mail, carte di credito, ecc.

Questo evoca il controllo della nostra immagine sulla rete, cui è dedicata “Obscurity” del net-artist Paolo Sirio, che ha clonato i principali siti web per nascondere le informazioni su 15 milioni di arrestati negli Usa sfuocando le immagini all’insegna di un loro diritto alla “privacy”.

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“Il guerriero”, ispirato da Leonardo

Siamo invece nella “tortura programmata” della macchina informatica con “J3RR1”, del gruppo romano “None collective”, è sottoposta a stress continuo e cerca di migliorarsi senza sapere come.

Ed ecco la scultura cinetica Leonardo sogna le nuvole”, di Donato Piccolo, che riproduce il volto del “Guerriero” di Leonardo da Vinci, ritenuto il suo, muove le labbra ed espelle fumo, con un atteggiamento disteso in rapporto sereno con la macchina, e non potrebbe essere altrimenti.

Dello stesso autore Sebastiano (il Nottambulo)”, scultura ispirata al modello del ritratto ancora di Leonardo da Vinci, con la figura piegata e dei pennarelli che disegnano mossi da bracci robotici: diversisono i significati filosofici insieme al segno dell’accoglienza della tecnologia fino a scherzarci sopra.

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“Sebastano, Il nottambulo”, ispirato da Leonardo

Altri bracci robotici in “Equilibrium variant”, di Roberto Pugliese, questa volta c’è un microfono da un lato del braccio, con uno speaker in un rapporto uomo-macchina in cui si cerca di continuo un equilibrio sempre instabile attraverso due bracci robotici che si rincorrono incessantemente.

Si torna alla scultura, questa volta digitale, con “Matter”, dell’artista visivo londinese Quayola, un blocco di materia che muta continuamente, passando da varie forme all’informe, si tratta del “Pensatore” di Roden, definito “il corpo della tradizione scultorea occidentale”, e in quanto tale metafora di noi stessi e del sottile confine tra percezione razionale e visiva, formale e informale.

Abbiamo citato  le realizzazioni presentate in mostra in modo quanto mai coinvolgente, in una sorta di galleria tecnologica che apre gli occhi su quanto di avveniristico viene esplorato e fa anche riflettere sulle prospettive e insieme sulle incognite che si aprono in un futuro, peraltro già iniziato.

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Un pannello luminoso

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale, Roma, Catalogo “Human +. Il futuro della nostra specie”, a cura di Cathrine Kramer,  Azienda Speciale Palaexpo, Science Gallery at Trinity College of Dublin., pp- 160. formato 17 x 23, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le precedenti mostre nella stessa sede citate all’inizio, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, “Dna” 29 marzo 2017,   “Numeri” 23, 26 aprile 2015, “Cibo” 1° febbraio 2015, “Meteoriti” 5 ottobre 2014; in archeorivista.it “Homo sapiens” 7 gennaio 2012, in cultura.inabruzzo.it, “Astri e particelle” 12 febbraio 2010, “Darwin” 28 aprile 2009. Gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli, che sono disponibili, saranno trasferiti su altro sito.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra- meno le n. 1, 11-13, 15 e 19-20 – tratte dal Catalogo , si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, e l’Editore, per l’opportunità offerta. In apertura, La copertina del Catalogo della mostra ; seguono, 3 immagini sulle protesi, protesi “indossate”, protesi “gambe da ghepardo” poi, “Un autoritratto al giorno”, di Brian Lewis Snders, 4 immagini e altre 2 immagini; quindi, Impianto del “terzo orecchio” di Sterlac, e “Casco deceleratore”; inoltre, Progetto di “impollinazione umana” e “Foraggeri”, con la biologia sintetica; ancora, Scultura di neonato” su cui si è intervenuti chirurgicamente, e “Bambole scacciapensieri semoventi”, di ingegneria tissutale; continua, Danza virtuale e “Nessun (corp)o è perfetto” ; prosegue, Un robot in costruzione e Un robot “domestico” ; quindi, Componenti e Altri componenti; inoltre, Montagne russe eutanasiche” , e Macchine che “si ribellano” ; ancora, “Il guerriero” e “Sebastiano, il nottambiulo” ispirati da Leonardo; infine, un pannello luminoso e, in chiusura, una sequenza finale.

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Una sequenza finale

Barberini, il nuovo allestimento della pittura del ‘600

di Romano Maria Levante 

Dal 13 dicembre 2019 sono riaperte al pubblico 10 sale dell’ala nord di Palazzo Barberini, piano nobile con il nuovo allestimento della pittura del ‘600, rinnovato nei criteri espositivi, negli “apparati” illustrativi  e negli altri aspetti  rilevanti, dall’illuminazione al restauro architettonico.

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Caravaggio, “Giuditta e Oloferne”, 1597

E’ un rilancio della collezione di Arte Antica che,  ad operazione completata, andrà dal Medioevo al ‘500, dal ‘600 al ‘700  con la spettacolare esibizione di un grande patrimonio di arte e storia. La direttrice Flaminia Gennari Sartori ne ha indicato gli intenti e i motivi ispiratori.

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Sala 19, Manierismo: 1. Gerolamo Musiano

I criteri del uovo allestimento

Dopo l’allestimento nelle sale di Palazzo Barberini recuperate dalla  interminabile occupazione da parte del Ministero della Difesa per il Circolo Ufficiali  della pittura del ‘700,  questa volta è la pittura del ‘600 a venire sistemata in dieci sale  per 550 metri quadri; inoltre è stato preannunciato per il prossimo ottobre  2020 il riallestimento delle opere del ‘500 e successivamente nel 2021 di quelle  collocate  al piano terra con la conclusione dell’intera operazione. 

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2. Jacob De Backer

Viene aggiornata così,  secondo nuovi criteri, la presentazione della prestigiosa collezione di Arte antica, senza intaccare quella di Palazzo Corsini che ne rappresenta la naturale prosecuzione. Si segue una “narrazione” in cui le opere “dialogano tra loro”  per gli accostamenti non solo cronologici ma soprattutto  tematici e di derivazione o  influenza di seguaci, come i “caravaggeschi” esposti in un raffronto intorno ai capolavori di Caravaggio in tre sale. 

Sala 20, Venezia: 1. Tiziano Vecellio

Le opere “dialogano” non solo tra loro, ma anche con il visitatore, per il quale sono stati studiati “apparati”  innovativi nella grafica e nell’esposizione: sono   panelli esplicativi ed  etichette dalle didascalie essenziali e nello stesso tempo esaurienti, in un impianto di illuminazione  anch’esso del tutto rinnovato.

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2. Tintoretto

Si tratta di un nuovo “impianto concettuale” – ha sottolineato la direttrice Flaminia Gennari  Sartori impegnata a realizzarlo – “che focalizza a Palazzo Barberini una struttura espositiva narrativa dal Medioevo al Settecento, cercando di valorizzare anche la storia del Palazzo e dei Barberini, lasciando integra la quadreria  settecentesca a Galleria  Corsini”.

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3. El Greco

La famiglia Barberini  è  l’espressione più alta della gerarchia ecclesiastica,  cardinalizia e papale con Urbano IV, ma anche dell’aristocrazia  laica, tanto che le due ali del  palazzo con diversa destinazione e frequentazione storica  si saldano nei grandi saloni di rappresentanza. E’ stata citata anche  dalla  Flamini Sartori  la compresenza nel  Palazzo, nelle diverse ali, “dell’esuberanza della natura  con i giardini e della vitalità urbana”, due scenari  spettacolari molto diversi offerti dalle finestre  che si aprono nelle pareti espositive. 

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Sala 21, Pittura di genere: Bartolomeo Passerotti

In questa prospettiva, il nuovo allestimento è stato accompagnato dal restauro della parte architettonica. Nelle nuove sale  con le finestre che danno sul giardino  sono collocate 80 opere di  artisti del ‘600  seguendo un itinerario di tipo circolare dallo scalone Bernini allo scalone Borromini, ed è tutto dire. 

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Sala 22, Altarolo: Annibale Carracci, con Innocenzo Tassoni

Ciò premesso, percorriamo le sale in cui le opere sono raggruppate intorno a  temi, periodi e artisti capifila, citandone le principali caratteristiche e gli artisti rappresentati senza commentare le singole opere, dato che non è una mostra temporanea ma un’esposizione permanente che invita il visitatore ad approfondirle immergendosi nel suggestivo contesto espositivo di cui riportiamo un’ampia parte.

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Sala 23, Paesaggio: Paul Brill

Le prime 5 sale, con Tiziano e Tintoretto, Annibale Carracci e il paesaggio

Il percorso inizia  nella sala 19^, il cui soffitto è affrescato con  le storie del patriarca  Giuseppe  e gli stemmi cardinalizi come espressione  della protezione divina accordata alla famiglia proprietaria, non ancora i Barberini ma gli Sforza, su commissione di Paolo I di Santa Fiora.  Tra i pittori che li realizzarono spicca il Pomarancio.

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Sala 24, Caravaggio 1: 1. Carlo Saraceni

Sono esposte opere del manierismo romano con Pietro Francavilla e Gerolamo Muziano,  Jacopo Zucchi e Marcello Venusti, di quest’ultimo ricordiamo la recente mostra “I colori di Michelangelo”; e del manierismo internazionale con Jacob de Backer, Joseph Heintz, Jan Metsys.

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2. Orazio Borgianni

Siamo alla fine del ‘500, viene sottolineato  il “cambio di passo”  nell’atteggiamento verso gli artisti e le loro opere che si manifesterà appieno nel  ‘600. Cresce l’attenzione alla finalità e al significato delle immagini pittoriche valutando il modo in cui sono utilizzate. Si tende  a passarle al  vaglio soprattutto dopo che nel 1564 Giovanni Andrea Gilio in “Degli errori e degli abusi dei pittori” critica gli usi inappropriati delle opere.

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3. Bartolomeo Manfredi

I ritratti possono essere espressione di esibizionismo, le immagini religiose snaturate rispetto alla fede e al bene e il male, tema trattato nel 1582 dal vescovo Gabriele Paleotti  nel “Discorso intorno alle immagini sacre e profane”.  Al culto degli artisti si associa così la rilevanza delle opere analizzate con spirito critico dando avvio a una storia esegetica  destinata a perpetuarsi nella critica d’arte.

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4. Giovanni Baglione

La sala 20^  è dedicata alla pittura di Venezia, presenti i grandi maestri   Tiziano  e la sua scuola,  con “Venere e Adone”, restaurato per l’occasione,  e Tintoretto, ci sono due opere inconfondibili di El Greco, formatosi nella scuola veneziana.

Erano molto diffuse le botteghe, particolarmente fiorenti quelle di Tiziano e Tintoretto, per cui si pone il problema di distinguere le opere progettate ma non eseguite dal caposcuola da quelle totalmente o in parte dovute alla sua mano: il riferimento diretto si può attribuire sulla base delle peculiarità della sua impronta  quando è chiaramente individuabile.

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Caravaggio 2.: 1. Josepe de Ribera

Non poteva intervenire nella gran parte delle opere affidate agli allievi dato il notevole afflusso delle committenze, della Serenissima, ecclesiastiche ed aristocratiche; e anche quando eseguiva i dipinti di propria mano, poi venivano soddisfatte le molte richieste con copie e repliche degli allievi sotto la sua direzione.

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2. Simon Vouet

All’arte ispirata al sacro, che va oltre i soggetti tradizionali,  si affianca quella ispirata ai temi mitologici e ai temi  derivanti dalle leggende immortali di Ovidio. Questi ultimi sono alla base dei  dipinti  “Poesie”, realizzati da Tiziano per l’imperatore Carlo V e Filippo II di Spagna.    

Nel Soffitto,  l’affresco “Carro di Apollo  con le quattro Stagioni” celebrativo delle nozze del principe Urbano Barberini, del 1693, autore Giuseppe Chiari.

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Caravaggio 3: 1. Orazio Gentileschi

La terza tappa del nostro percorso, la sala 21^ – con gli affreschi della volta valorizzati dalla nuova illuminazione –   aggiunge ai temi religiosi e mitologici di cui si è detto, quelli legati alla realtà, cosa che costituisce un’importante innovazione pittorica. 

Gli oggetti diventano soggetti dell’immagine,  si tratta della  Pittura di genere, per rispondere alle richieste del mercato sempre più ampio e diversificato con artisti sempre più professionali e specializzati; anche nelle opere religiose e mitologiche viene dato  spazio crescente alla visione  circostante in cui spiccano oggetti visti nella loro consistenza materiale, lo si nota nelle opere della bottega dei Bassano oltre che in quelle  dei fiamminghi. 

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2. Artemisia Gentileschi

Lo stile non è più aulico ma “modesto”, una sorta di “sermo humilis”  che, paradossalmente, come si legge nella presentazione, “trova posto in una concezione delle arti visive esemplata sul modello dell’eloquenza retorica”.  Sullo sfondo la passione per le Wunderkammerm.

Vediamo 2 dipinti   di Bartolomeo Passerotti, espressione delle ricerche naturalistiche di fine ‘500 di Ulisse Aldrovandi, che in certo senso anticipano le nature morte; e altri esposti molto di rado, come il “Diluvio universale” della scuola di Jacopo Bassano  e le opere di Frans Francken il giovane.

I temi  aulici tornano nella Galleria con la “Fondazione di Palestrina” di Francesco Romanelli, divenuta feudo di Taddeo Barberini, marito di Anna Colonna cui era riservata la Galleria, e il “Sacrificio di Giunone”  di Giacinto Gimignani.

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3. Bernardo Strozzi

La  piccola sala 22,   raccolta e per la prima volta  aperta al pubblico, presenta  Annibale Carracci, ma non un suo dipinto, bensì l’”Altarolo portatile”, realizzato con Innocenzo Tacconi su commissione del cardinale Odoardo Farnese:  un Tabernacolo con la Pietà e i santi Cecilia ed Ermenegildo all’interno, san Michele e l’Angelo, Cristo e Dio all’esterno; ci sono anche la Maddalena costernata con le braccia aperte e san Giovanni che sorregge la Madonna abbandonata tra le sue braccia mentre stringe a sè  il corpo di Cristo, gesto che la rende “co-redentrice”.

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Sala 27, Caravaggeschi: 1. Valentin de Boulogne

Nella scelta di alcuni santi c’è  il riferimento al committente, il cardinale era devoto di Santa Cecilia, aveva dovuto rinunciare a posizioni di potere ed aveva scelto la via della fede nel nome di valori pià alti;  come  Ermenegildo, principe visigoto che  si convertì al Cristianesimo contro la volontà del padre e fu  martirizzato. Un’opera splendida, veramente spettacolare.

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2. Charles Mellin

Dopo questo intermezzo suggestivo, l’orizzonte si apre nella  sala  23  con la pittura di paesaggio, in particolare vediamo tre paesaggi di Paul Brill che rappresentano i “Feudi Mattei”,  Fino ad allora era considerato soprattutto uno sfondo,  ma alla  fine del ‘500 e poi nel ‘600  il paesaggio diventa soggetto principale non solo per motivi artistici ma soprattutto  per il  notevole rilievo dato dal Concilio di Trento alla natura  nella sua bellezza come espressione  della creazione di Dio.

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3. Mathias Storn

Si inizia con piccoli quadri  su rame commissionati  ai pittori fiamminghi dai cardinali; tra loro il potente Federico Borromeo  che ha scritto come questi dipinti fossero sostitutivi della natura in cui immergersi nella preghiera. Divennero presto di grandi dimensioni, spettacolari arredi delle ville in campagna dei nobili romani. In questa sala ne vediamo un esempio, con riprodotti nella residenza romana gli ambienti naturali delle proprietà feudali.

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4. Trophime Bigot

Nel Soffitto,  paesaggi di scuola fiamminga, animati dalle figure dei Profeti e delle Sibille con libri sui quali sono scritte le profezie.

Caravggio, i seguaci e i “caravaggeschi”

Ed ora la grande pittura di Caravaggio distribuita in tre sale, in ciascuna  un quadro del Maestro, circondato dalle opere di seguaci o comunque di pittori  con il suo influsso.

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5. Hendrick Terbruggen

La sala 24, con vista sul Giardino, espone  il primo dipinto di Caravaggio, “Giuditta e Oloferne”, il quadro che con aspro realismo presenta la scena della decapitazione da parte dell’eroina la quale nel vibrare  il colpo fatale sembra allontanare da sé la testa dallo sguardo vitreo, in cui alcuni vedono un suo autoritratto, mentre la figura della vecchia rugosa si pone in contrasto con l’esuberanza e freschezza della protagonista.

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6. Gerrit Van Honthorst

I caratteristici tagli netti di luci e di ombre e la forza della raffigurazione ci immergono in una forma espressiva che fu provocatoria  nei toni e nei modi, e lo è  anche nei riguardi dell’osservatore che si sente obbligato “a partecipare, più che solo a contemplare”.

Si capisce subito l’impatto che ebbe sulla scena artistica, con la spinta a seguire la nuova strada da  lui tracciata tenendo conto, però,  dei desideri della committenza, non sempre pronta a simili provocazioni.  Perciò anche i suoi seguaci più fedeli, riconoscibili dalla raffigurazione  realistica dei soggetti e dalle sciabolate di luci a tagliare le ombre,  declinano in  modo diverso la sua forma espressiva e la sua struttura compositiva, per l’insorgere di altri motivi e di nuove esigenze.

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7. Giovanni Serodine

Vediamo esposte  opere di Carlo Saraceni, il più vicino al suo realismo ma che lo rivive in termini personali,  di Orazio Borgianni che pur muovendosi nel solco tracciato se ne distacca maggiormente, di Bartolomeo Manfredi e Giovanni Baglione, quest’ultimo  tra l’ammirazione e l’emulazione da un lato e la rivalità e l’inimicizia dall’altro che lo fecero entrare in duro conflitto, anche giudiziario, con lui.  Ebbene, la sua opera è esposta affiancata a quella dell’antico rivale-nemico.

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8. Lionello Spada

La seconda opera di Caravaggio  destinata alla  sala 25 è “Narciso”, sarà esposto dal mese di giugno 2020, la figura del giovane che si specchia nell’acqua  è suggestiva per il rilievo scultoreo che fa sentire l’osservatore partecipe diretto della vicenda.

Il  naturalismo caravaggesco  assume qui un aspetto particolare, la rappresentazione va oltre la riproduzione fedele della realtà tipica del grande artista,  evoca il rapporto tra realtà e apparenza che è al centro della leggenda ovidiana e provoca la tragedia quando cade il velo: la realtà della figura riflessa sull’acqua  è anche apparenza.

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9. Giovanni Caroselli

In primo piano la percezione, che può differenziarsi dalla realtà, come scriveva Cartesio nell’affermare che l’efficacia delle immagini non dipende dalla somiglianza, anzi  “per essere immagini più perfette  e rappresentare meglio un oggetto esse non devono somigliargli”.

Le opere di Josepe de Ribera, Simon Vouet  e Candlelight  Master esposte possono essere viste in questa prospettiva intrigante.

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10. Valentin de Boulogne 2

“San Francesco in meditazione”  è la 3^ opera  di Caravaggio esposta nella sala 26,  il santo  è raffigurato nella povertà e nel sacrificio,  con il saio logoro e rattoppato, il viso arrossato dal freddo nella grotta gelida,  mentre guarda il teschio che ha nelle mani,  inginocchiato in  posizione di preghiera ma senza appoggiarsi, il crocifisso è fatto  di due semplici assi  sopra un tronco d’albero.

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Sala 28, “Reni”: 1. Guido Reni

Gli artisti presenti nella sala con le loro opere sono particolarmente significativi, Orazio Gentileschi e la figlia Artemisia Gentileschi, Antonio Petrazzi, Bernardo Strozzi e ancora Bartolomeo Manfredi. E’ interessante per il visitatore ricercare i segni caravaggeschi nel loro stile, dal realismo figurativo alle luci che piovono più o meno violente e creano ombre più o meno nette.

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2. Guercino

Questo “gioco” per il visitatore è ancora più intrigante nella successiva sala 27. dedicata ai caravaggeschi come Valentin de Boulogne e Charles Mellin, Simon VouetMattias Storn, Michael  Sweerts e Trophime Bigot , Hendrick Terbruggen, e Gerrit Van Honthorst, Giovanni Serodine, Lionello Spada e Giovanni Caroselli.

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3. Giovanni Lanfranco

Per impulso del mercato, che ricercava in modo particolare le opere in stile caravaggesco, gli artisti erano spinti a renderne gli effetti più evidenti, mantenendo nel contempo la propria impronta personale. Questo portò allo sviluppo della pittura “a lume di notte”, con gli effetti luministici e umbratili  delle fonti di luce artificiali come candele e lanterne applicati alle rappresentazioni più diverse, dai temi biblici alle scene di taverna, dalle visioni religiose alle allegre brigate di musicanti. 

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4. Guido Reni 2

Ma questo non sempre era limitato agli aspetti stilistici, per Valentin de Boulogne, in particolare – si legge nella presentazione – gli effetti del chiaroscuro caravaggesco riguardano “ la focalizzazione drammaturgica dell’azione, l’individuazione del suo culminate momento di forza  e dei suoi effetti sullo spettatore”.

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5. Guercino 2

Guido Reni e la scuola bolognese, il mistero del ritratto di Beatrice Cenci

Nella sala 28, l’ultima dell’allestimento del ‘600, l’artista emiliano che in qualche modo può considerarsi il contraltare di Caravaggio, Guido Reni e altri grandi artisti, il Domenichino  e il Guercino, Giovanni Lanfranco  e Pier Francesco Nola, fino a Charles Mellin allievo di Simon Vouet che ritroviamo anche in questa sala dopo la seconda di Caravaggio.

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6. Giovanni Lanfranco 2

Questo  fatto  ci introduce  alla presenza, nel primo trentennio  del ‘600,  di una molteplicità di scuole ed espressioni stilistiche molto diverse per il crescente sviluppo del mercato che induceva gli artisti a rendersi riconoscibili con la propria impronta.

Un  indirizzo visibilmente opposto al caravaggesco  quello di Guido Reni della scuola bolognese e degli artisti di impronta classicista con “l’elegante disegno, l’eleganza compita e l’ideale aspirazione”. Ma questi aspetti del “divin Guido” pur  contrapposto al Merisi “maledetto” – osserva la presentazione – “non sono necessariamente percepiti in insanabile conflitto con la ricerca di sensualità, di pathos e finanche di violenza  da cui il pubblico del tempo è pure certamente attratto. Un tempo in cui in pittura, come in letteratura o a teatro,  si cerca il ‘gradevole furore’, il ‘dolce terrore” e una ‘aggraziata pietà’” negli ossimori dell’”Arte poetica” di Nicolas Boilau, “pur convinto che ‘soltanto il vero è bello’ e solo ‘la natura è vera’”.

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7. Guercino 3

A conclusione della galleria seicentesca troviamo al centro della sala,  in una “enclave”  apposita, il celebre dipinto  noto come “Ritratto di Beatrice Cenci”,  attribuito sia pure con incertezze a Guido Reni, che viene intitolato invece “Donna con turbante (presunto ritratto di Beatrice Cenci”, circa 1650,  e attribuito al posto di Guido Reni a  Ginevra Cantofoli , bolognese, 1618-72.  

Il quadro  passò alla famiglia Barberini nel 1818 dalla collezione Colonna dove risulta dal 1783,  ne circolavano molte copie perchè la storia  tragica aveva suscitato forte emozione popolare con il tragico epilogo della decapitazione insieme ai familiari per l’uccisione del padre, che aveva oppresso la famiglia, aveva segregato la figlia e forse assoggettata alle sue “disordinate voglie”, secondo il Muratori, dopo un processo e la  grazia negata da papa Clemente VIII.

8. Guercino 4

Una storia dalle tinte violente, che ha ispirato scrittori e poeti romantici come Shelley e Stendhal, Dickens e Melville, fino ai più vicini Artaud e Moravia, con l’emozione  già suscitata all’epoca divenuta vero culto cui  ha contribuito  l’immagine angelica del suo volto, che  appariva nel  dipinto, definito come “incapace di qualunque disegno malevole” nell’opera di Lavater del 1778 sui “frammenti fisognomici”. Guido Reni l’avrebbe ritratta poco prima della morte, cosa ritenuta altamente improbabile per una condannata, ed “oggi l’attribuzione a Guido Reni è generalmente respinta” si legge nella presentazione. 

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9. Guercino 5

E’ un riconoscimento encomiabile per la galleria proprietaria del dipinto, come è apprezzabile peraltro che nella nuova intitolazione venga indicato “presunto ritratto di Beatrice Cenci”, mantenendo quindi quel riferimento.  Ci lascia nella suggestione che quel volto ha suscitato perché legato alla triste storia di una delle eroine immortali  e non potrà esserne dissociato: la “donna con turbante” della nuova intitolazione resterà per noi, e crediamo per tanti,  sempre la dolcissima Beatrice Cenci. 

Enclave Beatrice Cenci: Ginevra Cantofoli,
Donna con turbante (presunto ritratto di Beatrice Cenci)”,
(già attribuita a Guido Reni), circa 1650

Info
Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e categorie particolari. comunicazione@barberinicorsini.org.  www.barberinicorsini.org. Per mostre recenti, in particolare nelle sale riaperte, cfr. i nostri articoli: in questo sito, “”L’enigma del reale. Ritratti e nature morte alla Galleria Corsini” 24 maggio 2020, “Michelangelo a colori, confronti e scoperte a Palazzo Barberini” 23 maggio 2020, “Palazzo Barberini, il ‘700 nelle nuove sale recuperate all’arte” 21 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com “Eco e Narciso, 1. La mostra nelle sale recuperate: le prime 7, a Palazzo Barberini” 25 settembre, ed “Eco e Narciso, 2. Le altre 6 sale recuperate in mostra, a Palazzo Barberini” 30 settembre 2018, “Mattia e Gregorio Preti, i due fratelli insieme a Palazzo Barberini” 24 febbraio 2019. 23 maggio 2020, e, per gli artisti citati, su Ovidio   1, 6, 11 gennaio 2019,     Caravaggio    27 maggio 2016, 6 giugno 2013,   Caravaggeschi e Carracci   5, 7, 9 febbraio 2013, Tiziano 10, 15 maggio 2013, Tintoretto 25, 28 febbraio, 3 marzo 2013, Guercino   15 ottobre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Caravaggio 8, 11 giugno, 23 febbraio, 21, 22, 23 gennaio 2010 (sito non più raggiungibile, gli articoli trasferiti su altro sito).

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Caravaggio, “San Francesco in meditazione”, 1605-06

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Barberini alla presentazione della mostra, tranne l’ultima non ancora esposta tratta dal sito web carnetdevoyage.it, si ringrazia la direzione della Galleria, con i titolari dei diritti, oltre al titolare del sito citato, per l’opportunità offerta. Sono riportate nell’odine di citazione degli artisti nel testo – tranne le 3 di Caravggio poste in apertura e in chiusura – indicando nella 1^ immagine il numero della Sala e l’intitolazione (non ripetuta nelle immagini successive numerate con i nomi degli artisti autori delle opere riprodotte). In apertura, Caravaggio,“Giuditta e Oloferne” 1597; seguono, Sala 19, Manierismo: 1. Gerolamo Musiano e 2. Jacob De Backer; poi, Sala 20, Venezia: 1. Tiziano Vecellio, 2. Tintoretto, 3. El Greco; quindi, Sala 21, Pittura di Genere: Bartolomeo Passarotti, Sala 22, “Altarolo”: Annibale Carracci con Innocenzo Tassoni, e Sala 23, Paesaggio: Paul Brill; inoltre, Sala 24, Caravaggio 1: 1. Carlo Saraceni, 2. Orazio Borgianni, 3. Bartolomeo Manfredi, 4. Giovanni Baglione, Sala 25, Caravaggio 2.: 1. Josepe de Ribera, 2. Simon Vouet, Sala 26, Caravaggio 3: 1. Orazio Gentileschi, 2. Artemisia Gentileschi, 3. Bernardo Strozzi; Sala 27, Caravaggeschi: 1. Valentin de Boulogne, 2. Charles Mellin, 3. Mathias Storn, 4. Trophime Bigot, 5. Hendrick Terbruggen, 6. Gerrit Van Honthorst, 7. Giovanni Serodine, 8. Lionello Spada, 9. Giovanni Caroselli; continua, Sala 28, Reni: 1. Guido Reni, 2. Guercino, 3. Giovanni Lanfranco, 4. Guido Reni 2, 5. Guercino 2, 6. Giovanni Lanfranco 2, 7. Guercino 3, 8. Guercino 4, 9. Guercino 5; Enclave Beatrice Cenci: Ginevra Cantofoli, “Donna con turbante (presunto ritratto di Beatrice Cenci)”, (già attribuita a Guido Reni), circa 1650; infine, Caravaggio, “San Francesco in meditazione” 1605-06 e, in chiusura, Caravaggio, “Narciso” 1597-99.

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Caravaggio, “Narciso”, 1597-99

Friedler, 2. L’espressione della catarsi interiore, a Palermo

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro commento sulla mostra in corso nella città di Palermo, Fondazione Sant’Elia, Loggiato di San Bartolomeo, aperta dal 7 giugno al 7 luglio 2020, “”Mapping” di Julien Friedler, 35 dipinti su un “corpus” di 140 opere. Altre 25 dipinti saranno esposti dal 25 luglio al 27 settembre a Villa Lagarina, Palazzo Libera, Trento, nella mostra prodotta da CD Studio d’Arte, Padova, che ha collaborato a questa organizzata da MLC Comunicazione, coordinamento di Maria Letizia Cassata.   A cura di Gianluca Marziani e Dominique Stella – curatrice pure della mostra di Villa Lagarina con Carlo Silvestrin – che hanno curato anche il Catalogo trilingue, italiano-francese-inglese, edito da La Route de la Soie Éditions, Paris.

Le rifuge”. 2019

Al termine della rassegna delle opere in mostra – integrata dalla citazione di molte realizzate nello stesso intensissimo 2019, e riportate nel Catalogo, 25 saranno esposte a Villa Lagarina – abbiamo formulato il seguente interrogativo: come viene espresso artisticamente tutto questo? E in “tutto questo” ci sono i tanti motivi presenti in quella che si può definire “seduta psicanalitica lunga un anno” con ritorni ossessivi anche se non nella forma totemica precedente. Un viaggio di “liberazione” nella “catarsi” interiore esplorando paesaggi e mondi iperurani, fino alla “Levitation” e “L’elevation” dopo “Tremblement”, con i suoi tremiti, e le “Vibrations”, mentre ci presenta “La Mansarde” come “Le rifuge”, in cui lo immaginiamo nella figura di “L’hermite” accompagnato dalla figura rassicurante e consolatrice di “La belle Héloise” .

“Mapping”, 2019

La curatrice  Dominique Stella risponde così all’interrogativo sull’espressione artistica: “Lo spazio pittorico si organizza  a partire da chiazze di colore giustapposte componenti una trama vaporosa  che crea un’illusione di atmosfera pur privilegiando  tenacemente la superficie piana della tela”.  La tempesta cromatica sembra contenuta, “il colore nasce talvolta dal fondo bianco della tela che, in talune occasioni, secondo una concezione minimalista dell’opera, resta dominante”. Ma proprio per questo  “richiama la magnificenza del colore”  ed evoca l’apertura catartica all’infinito  liberatorio.

“Les plongeur”, 2019

Non si tratta, tuttavia, di un passaggio indolore, per così dire, e la curatrice lo fa capire citando i contrasti  tra spazio e assenza di spazio, il pieno  e il vuoto,  nostalgia e realizzazione, timore o speranza: “Tali e tanti dubbi  filosofici emergono dalla rivelazione delle opere che l’artista  pone come un enigma”. Anche perché l’enigma  è in lui, “Mapping” non ci sembra nascere da un “progetto” preordinato, né esprimere un processo la  cui trama venga lasciata  volutamente  nel mistero; ci sembra un percorso  psicanalitico nel quale sono compresenti gli opposti, come nelle opere scultoree di Anselmo, da noi citato in precedenza  come mera associazione di idee, per certi aspetti significativa data l’importanza dell’antinomia.

“Méduse”, 2019

Del resto entrambi, oltre che darvi corpo nelle loro espressioni artistiche,  lo hanno scritto: Friedler  nel suo “La Verità nel Labirinto”  definisce l’opera addirittura “una congiunzione degli opposti, una scrittura paradossale, un’iscrizione dei flussi che attraversa lo spirito”.  E sulla spinta interiore  parla del “runore” e “furore” che ci circondano con un interrogativo che ora ci sembra rivelatore: “Sarebbe possibile per l’arte divenire un giorno  un rifugio dal rumore  e  dal furore  che abitano dentro di noi?”  Quelli che ci circondano penetrano in noi, fino ad imprimersi nel nostro inconscio. La Stella cita la  risposta contenuta in una nota: “Un’estetica minima e senza pregiudizio, un punto di vista contemplativo, contrario di ogni tipo di militanza”. Ma la vera riposta Friedler l’ha data con l’”exploit” dei 140 dipinti  nel 2019, allorché si è isolato nel “rifugio” dell’arte, riveltosi non solo protettivo ma anche liberatorio.

Harpye”; 2019

L’occhio di Polifemeno e di Giano bifronte, nel “rifugio” dell’arte

La Stella  cita anche “l’esistenza di una vera  e propria potenza estetica all’opera nell’universo”, tema sviluppato dall’altro curatore della mostra  Gianluca Marziani: “la Terra è Dio, l’Universo è Dio, ogni Stella è Dio” significa “spostare l’Uomo fuori dal centro, riportandolo sulla linea degli altri viventi, significa ripensare al Pianeta come ad un Dio che accoglie  la vita nella sua molteplicità non  solo umana”.

“Tremblement”, 2019

Il curatore definisce “la pittura come oracolo propiziatorio, frammento di stelle, pulviscolo cosmico”.  E  ne fa il campo ” dell'”apparenza del caos espressivo,  di una tempesta che s’irradia sulla superficie  e frammenta gli impasti, schizzando gocce  lasciando colare e raggrumare,  spruzzando raggrumando con la frequenza randomica della pioggia al suolo”: descrizione di un “action painting” alla Pollock che in queste parole sembra materico, non psicologico. Ma aggiunge: “In realtà, dietro le apparenze di un espressionismo selvaggio, si nasconde la centralità di un Giano che osserva il mondo da ogni angolazione,  una visione centrifuga che passa  dal bifronte al multifronte per aprirsi alla totalità delle voci, alle alchimie di un’umanità omerica”.

“Paysage”; 2019

Tale nterpretazione non dovrebbe riferirsi a un “Giano”  cosciente, dato che un disegno preordinato non può preesistere nel percorso psicanalitico evocato: il “nostro  Giano” si abbandona alle  visioni che lo assalgono nel “rifugio” consolatorio dell’arte. Del resto, Marziani parla di “un dipingere catartico e muscolare” evocando sia il carattere liberatorio, sia la compresenza degli opposti, da noi già sottolineata, con le parole  “impatto e levità, forza e carezza ventosa, spinta centrifuga e  e sospensione astrale”.  

Improvisation florale (miroir)”# 1, 2019

E anche se vede un “centro magnetico” – e l’“occhio ciclopico dell’artista, un occhio che guida una visione unica e pacificatrice” – precisa che “il centro non si mostra con didascalica presenza, spesso si nasconde dietro il caos cromatico, dietro la materia informale, dietro le astrazioni radianti”. Tornano gli opposti compresenti in questa interpretazione, in cui alla “guida” e alla “visione unica” si contrappone il il caos, quindi l’informale con le astrazioni incontrollabili che non provengono da un “dominus”  determinato, ma dall’abbandono inconsapevole od onirico per giungere all’emersione dall’inconscio.

Improvisation florale (miroir)”# 2, 2019

Una compresenza di opposti anche nella “moltitudine liquida dei colori”, per esprimere “la drammaturgia e la catarsi, l‘esilio e il cambiamento, la follia e la  poesia”; e “l’ambivalenza tra stimolo superficiale e valore custodito, come fosse una chimera inquieta ma curativa, uno spazio di benessere entro  il caos irrequieto del colore…. archetipi del pensiero filosofico in ua sintesi materica”.

Atmosphère” , 2019

In questa visione che coesiste con la concezione del “centro magnetico”, l’’immagine dell’albero che secondo Marziani caratterizza ogni mostra dell’artista attribuendo a ciascuna una specificità, ci sembra esprimerne la coerenza interna e la differenziazione rispetto alle altre espressioni; ma riteniamo avvenga “ex post” rispetto al processo creativo le cui fasi trovano manifestazione pubblica nelle esposizioni in cui si è “messo in ordine” ciò che nello “spiritual painting” non lo era, come avviene nell’attuale “mappatura”.

“Transparence”; 2019

Come abbiamo osservato per la “guida” e  la “visione  unica”, pensiamo che con “albero” non vada inteso un disegno preordinato,  l’”unità aristotelica” da noi evocata all’inizio riguarda il confinamento temporale, non certo i soggetti e i contenuti, quanto mai variabili e indefinibili come lo sono i moti dell’animo. La “continuità narrativa tra le singole pitture”  la riferiamo al percorso di tipo psicanalitico, nel quale si svolge l’“ideale montaggio che ricrea un embrione  schizoide e metafisico”: non sarebbe  “schizoide” se fosse consapevole e preordinato. Questa nostra interpretazione ci sembra confermata dalla definizione data da Marziani di “viaggio satellitare e stereofonico, privo di orizzonti definiti, privo di  una polarità nordica, privo di identità geografica” che va “in tutte le direzioni”, come nell’abbandono psicanalitico all’inconscio.

“”Senza Titolo”, 2019

Se questo è il “set”  virtuale, senza contenuti né   confini – l’opposto di quello costruito e poi fotografato dall’americano Lachapelle nel quale troviamo anche il “landscape” evocato per altri versi da Marziani –  i risultati pur nella loro genesi individuale, anzi personale, assumono una valenza più vasta, nella visione dell’artista che, come si è detto, è impegnato in questa trasposizione.  Ricorda il curatore che “tutti siamo partecipi del rumore di fondo dove ognuno di noi appartiene al suono della vita dentro l’orchestra degli esseri reali”.   Per esprimerlo, l’artista “mescola figurazioni e astrazioni come accade nella vita, unendo le varie tematiche in un meta genere oracolare e partecipativo”.

“Mapping 4”, 2019

Ed è naturale che tornino immagini ispirate ai suoi viaggi con forme al di fuori da ogni stereotipo africanista, unite a figurazioni irreali dei propri sogni anche ad occhi aperti, “un sapere complessivo che viene trasfigurato nel meccanismo catartico del gesto, nella frequenza rapida di un dipingere rituale”. Al quale aggettivo vorremmo dare il significato dello “spiritual painting” non materico, cioè di rito magico, piuttosto che di gesto e atto abituale, consueto e normale.

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“Lèvitation”, 2019

“Mapping – conclude Marziani – è una vertigine elettromagnetica, un campo di forze  contrastanti e liberatorie”; perciò, aggiungiamo, non può che riflettere un processo interiore senza nulla di precostituito, “una sorta di viaggio tra microcosmo e macromondo, nel ritmo caotico delle cellule e nei rumori infiniti delle stelle”. Va ben oltre i limiti della finitezza umana, ma dall’umanità trae linfa e alimento: “Un viaggio  dalla terra al cielo, passando per il ciclo della vita, per la potenza dei cuori, per la spinta emotiva, per  il parossismo della passione”. Lo abbiamo visto dalle intitolazioni di molte sue opere.

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Sage contemplative dell’extravagance humain”, 2019

Viene espresso in un “metaforismo spirituale che  contiene segni, codici, graffiti,  disegni elementari  e altre conferme di un alfabeto d’accoglienza globale. Si intuisce  un’ampiezza che sfida il tempo ideale e lo spazio percepito, una prospettiva a 360 gradi  con l’energia dell’occhio metafisico, come se il nostro Giano abbracciasse la bellezza di ogni possibile conoscenza, dalla caverna ai microchip, dal mattone al silicio, dal fossile al feticcio”. Una sintesi suggestiva, quella di Marziani, che fa pensare all’infinito e all’eterno.


“Invocation nocturne” , 2019

Lo sguardo di “E.T.”,  umanità cosmica nella forza pittorica

Questo è “Mapping”, e all’occhio di Polifemo e di Giano bifronte vorremmo aggiungere quello di E.T. – creato da Carlo Rambaldi, il mago degli “effetti speciali” – per come abbiamo percepito la visione dell’artista:  intensamente umana che intenerisce quanto lo sguardo dell’extraterrestre, pervasa ddll’umanità cosmica richiamata dai due curatori della mostra palermitana.

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”Ouverture mystique”, 2019.

Le due mostre – a Palermo e a Villa Lagarina, con le 60 opere esposte complessivamente – presentano solo una parte del “corpus” di 140 opere realizzate da Friedler nell’”unità aristotelica” temporale di cui si è detto. E’ un unico “albero”, un gigantesco “baobab”, per la sua estensione diviso in gruppi differenziati che, però, non devono far perdere la visione d’insieme: la tensione liberatoria, con l’anima alla ricerca di tutto ciò che possa far filtrare raggi luminosi e disperdere le ombre sottostanti, come gli “alberi” di Manuel Felisi, protesi verso il cielo alla conquista della luce che piove e si fa strada evocando “il presente del passato” in un intenso “caos quieto” esistenziale.

“Ballons multicolores, 2019

Per questo motivo abbiamo citato in precedenza anche tante opere non esposte in mostra che ci sembrano tutte strettamente complementari; alcune di esse rivelatrici, in particolare “Le refuge” e “La Mansarde” , fino a “La Belle Héloise” che vediamo ideale compagna e guida del suo viaggio dantesco, novella Beatrice. E ci siamo immedesimati virtualmente nel suo eccezionale “exploit” operato nel raccoglimento della “mansarda”, il “rifugio” artistico che ne qualifica e accresce il significato,  moltiplicandone  il valore.

L’hermite”, 2019

Abbiamo chiesto come si spiega questo ”exploit” a Dominique Stella, che conosce così bene l’artista. Ci ha risposto: “Credo proprio che Friedler sia stato folgorato dall’idea di annegarsi nell’idea stessa di pittura”.  E’ una sintesi di opposti anche la sua che rende icasticamente  la “folgorazione” di un attimo e l’”annegarsi” di un anno nell’”idea stessa di pittura” connaturata con il proprio essere di artista: nell’identificazione e immedesimazione di natura psicanalitica che lo rende protagonista e nello stesso tempo testimone della propria catarsi.

La mostra di Palermo ci ha fatto riscoprire Julien Frieler nella sua umanità oltre che nella forza pittorica, in un processo che ci ha intimmente coinvolto, e anche emozionato. Come avverrà per tutti coloro che vorranno seguirlo nel percorso che lo ha portato alla “liberazione”, spirituale e insieme artistica.

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La belle Héloise”, 2019

Info

F ondazione Sant’Elia, Loggiato di San Bartolomeo, Corso Vittorio Emanuele 25, Palermo.  Da martedì a domenica, ore 10-13 e 16 -20, lunedì chiuso. Ingresso eccezionalmente gratuito, a piccoli gruppi con guanti e mascherine. Tel. 091.6123832, www.fondazionesantelia.it. Cataloghi: Julien Friedler, “Mapping”, a cura di Gianluca Marziani e Dominique Stella, La Route de la Soie Éditions, Paris 2020, pp 204; Julien Friedler, “Behind the World”, La Route de la Soie Editions, Paris 2018, pp. 64; dai due Cataloghi trilingue, italiano-francese-inglese, sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito ieri 13 maggio 2020, l’articolo sulla mostra precedente in www.arteculturaoggi.comFriedler, il colore degli abissi, al Vittoriano” 17 novembre 2018. Per gli altri artisti, cfr. i nostri articoli: in questo sito, su Anselmo 23 maggio 2020, Carlo Rambaldi 22 maggio 2020, Lachapelle 24 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com, su Manuel Felisi 5 novembre 2018, 25 aprile 2016, 11 maggio 2015, Lachapelle 12 luglio 2015, Pollock in “Stati Uniti e Cuba, con Haiti, al Vittoriano per l’Expo” 3 luglio 2015, “Guggenheim. Dall’espressionismo astratto alla Pop Art” 29 novembre 2012; in cultura.inabruzzo.it, su “Dante” 2 articoli 9 luglio 2011 (gli articoli di quest’ultimo sito, non più raggiungibile, saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dalla curatrice che ringraziamo,  con i titolari dei diritti, compreso il fotografo Vincent Everarts. Sono tutte opere di Julien Friedler del 2019 e – a parte l’apertura, 2 “Mapping” e “Senza Titolo” – sono riportate nell’ordine in cui sono citate nel primo articolo. In apertura, “Le rifuge”; seguono, “Mapping” e “Les plongeur” ; poi, “”Méduse” e “Harpye”; quindi, “Tremblement” e “Paysage”; inoltre, “Improvisation florale (miroir)” # 1 e 2 ; ancora, “Atmosphère”  e “Transparence”; continua “”Senza Titolo” e “Mapping 4 “; prosegue, “Lévitation” e ” Sage contemplative dell’extravagance humain” ; poi, ”Invocation nocturne” e ”Ouverture mystique” ; quindi, “Ballons multicolores” ; infine,“L’hermite” e “La belle Hèloise” ; in chiusura, “La Mansarde”.

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“La Mansarde”, 2019

Friedler, 1. La catarsi del “pittore degli abissi” in mostra a Palermo

di Romano Maria Levante

Mapping” è il titolo della mostra che espone 35 dipinti di Julien Friedler a Palermo, Fondazione Sant’Elia, Loggiato di San Bartolomeo, dal 7 giugno al 7 luglio 2020. Organizzata da MLC Comunicazione, coordinamento di Maria Letizia Cassata, in collaborazione con  CD Studio d’Arte Padova che ha prodotto la mostra a Villa Lagarina, Palazzo Libera, Trento, dove dal 25 luglio al 27 settembre saranno esposti altri 25 dipinti tratti dal “corpus” di 140 opere realizzate nel 2019. A cura di Gianluca Marziani e Dominique Stella – curatrice anche della mostra a Villa Lagarina con Carlo Silvestrin – come il Catalogo trilingue con 140 opere, editore La Route de la Soie Éditions, Paris.

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Il Loggiato di San Bartolomeo, Palermo, sede della mostra

Rinviata di un mese per il “lockdown” del  coronavirus, dopo la lunga quarantena viene così presentata la riapertura all’arte vissuta direttamente: “Il capoluogo siciliano ricomincia pian piano a risollevarsi, riapre i suoi palazzi, le chiese, i musei: e sceglie un artista dall’immaginario strabordante e, insieme, necessario. Per il tempo, il momento, il luogo”.  Il 2 giugno è stata riaperta la mostra alle Scuderie del Quirinale, nel 500° anniversario di Raffaello,  che fu chiusa a marzo dopo una settimana. E’ il momento liberatorio per l’arte, nel quale si inseriscono le opere presentate  a Palermo, liberatorie e catartiche.

“Mapping 7”, 2019

Ritroviamo nella mostra di Palermo Julien Friedler che ci aveva impressionato un anno e mezzo fa al Vittoriano  dove  il “pittore degli abissi” – come viene chiamato – esponeva opere di un cromatismo molto intenso, non certo le ombre delle profondità inaccessibili dove regna il buio.  E’ una contraddizione solo apparente, non sono gli abissi oceanici ma quelli della psiche che di certo sono popolati di  luci e bagliori, lampi e folgorazioni di ogni tipo in cui il colore ne accresce la carica emotiva; ma ci sono anche i “buchi neri”, come le arcate del Loggiato di San Bartolomeo, per questo sede quanto mai evocativa.

“Les Anges noirs“, 2019

Lo definimmo “il colore degli abissi”, sottolineando l’’approccio da psicanalista che interroga l’anima “per tentare di comprendere i meccanismi del pensiero, di percepire gli stati di coscienza e di vigilanza, cercando di decifrare l’impenetrabile enigma della vita”,  per usare le parole della curatrice di allora e di oggi Dominique Stella, che negli ultimi cinque anni ha curato le esposizioni delle sue opere e ne ha esplorato i motivi ispiratori reconditi.

La mort de cochon sauvage” , 2019

La mostra di Palermo ci sembra si distacchi dalle altre per una sorta di “unità aristotelica” temporale, le opere sono state create nel 2019 e  non solo le 35 esposte, ma le 140 riprodotte nel ricco Catalogo: un accanimento compositivo tutto da interpretare. Cercheremo di farlo diversamente da come avviene per la maggior parte degli artisti, le cui opere pur se legate  alle vicende  personali acquisiscono vita propria, quindi non richiedono particolari introspezioni.

“L’évadè”, 2019

L’esplorazione negli “abissi” della psiche

Per Fridler non si tratta di vicende ma di interiorità negli “abissi” della psiche di un artista che ha fatto l’analista della  psicanalisi e la trasferisce nelle opere analizzando se stesso con i propri conflitti interiori, avendo maturato la convinzione, alla scuola di Lucas, che i contrasti dell’animo possono portare a malattie psichiche da curare con l’analisi. La profondità della sua esplorazione negli “abissi” psichici raggiunge i meandri dell’’inconscio, “le connessioni segrete con l’invisibile”, che investono  l’infinito e il divenire, vanno oltre la percezione e la comprensione, fino alla trascendenza, a cui tende  l’artista.

“Notre Dame”, 2019

Invisibile e infinito, associati agli opposti, visibile e particolare, li troviamo nelle  installazioni dello scultore contemporaneo Anselmo con i significati filosofici sottesi. Però la visione di Friedler non attiene alla fisica, tanto che afferma:  “La bellezza aspira certamente al sublime e alla contemplazione, ma la sua forza ci trascende”. E’ da conquistare superando barriere interiori, come vedremo.

Nulla di estemporaneo nell’artista, tutt’altro:  nel 1990  fu creato da lui un istituto, “Le Maire”  che nei pochi anni di attività ha dato un contributo significativo alla psicanalisi. E poi l’associazione “Spirit of Box” , che porta le testimonianze e le realtà individuali a livello collettivo attraverso  scambi e legami in modo da creare una comunità di pensiero; le 9 teste scolpite da lui, poste su delle colonne, in un””enclave” oscura al Vittoriano, erano espressioni dell’”Embrione di anime” nell’incontro tra il personale e il collettivo. 

“Les musulmanes” , 2019

Un incontro non sul piano della ragione, bensì della percezione di quanto di imperscrutabile viene dall’anima, con questo obiettivo: “Riconciliare azione e contemplazione, nell’intento di promuovere un pensiero umanistico e catartico”. Con l’accento su “catartico”, partendo da se stesso per “esplorare l’animo umano nella sua complessità atavica e universale” mobilitando l’esperienza psicanalitica per l’approccio interiore e le conoscenze di culture e civiltà acquisite nei suoi viaggi nel mondo.

L’espressione artistica è la traduzione  visiva di tale percorso. E allora ci domandiamo: quali sono stati i suoi conflitti interiori, come si sono manifestati, cosa è emerso dall’esplorazione negli “abissi” della propria  psiche, come li ha risolti, e come ha portato tutto ciò a livello collettivo? La mostra di Palermo ci sembra esprima tale processo interiore imperscrutabile, che va seguito prendendo l’avvio dall’esposizione del 2018 al Vittoriano dove ci sembra si possa trovarne la premessa e insieme anche una chiave interpretativa.

“Monsieur poulpe” , 2019

Le inquietudini  precedenti

Ebbene, la maggior parte delle 23 opere esposte nel 2018 era costituita da figure iconiche  e composizioni misteriose, per lo più inquietanti, che esprimevano a seconda dei casi angoscia o ribellione: così  i giganteschi, 2 x 1,50 m “Yama Macumba” e “Le Guerrier“, siamo nel 2010;  ma lo stato ansioso non si attenua negli anni, se nel 2016 abbiamo “Le Phoenix” con tante teste allucinate, e nel 2018 “L’Autre”, un fantasma che si staglia nell’ombra. Non sono  meno inquietanti “L’Avengle” ed “Ecce Homo” , con cui torniamo al 2010: il soggetto lo giustifica, ma il Cristo è tragicamente totemico, come “Le Clown Androgyne”, nelle stesse dimensioni imponenti.

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“Moise et Leon” , 2019

Totemiche pure le figure in rilievo, che nella loro espressività teatrale hanno anch’esse tratti di inquietudine. Ci riferiamo ai fantocci alti da m. 1,35 a m. 1,50, “Mr. Tom” e“L’Homme poubelle“, del 2014, “L’artiste en Fantòme” 2012, e “Un démon” 2014. E anche quando passa a composizioni complesse con più figure, si conferma l’elemento totemico,  da  “Totems” e “Le Totem  et les deux chevaliers” del 2014, a ”Le Graal” e  “La Grotte aux résurrections” del 2015,  fino ai rossi di ““Corps & artifice” e “22 mars 2016” del 2018. Nè sono rasserenanti“Ectasy II” 2014, e “Ode satanique” 2018; o “La Chute de Joker” 2010 e “Le Maitre des couleurs” 2017, nella loro frammentazione altrettanto inquietante e neppure, ovviamente, “Crucifixion” 2016.

“Ragnar”, 2019

La catarsi lunga un anno, con l’approdo compositiva e cromatico

Nel commentare le opere ora ricordate della mostra precedente citavamo le “macchie di Roschach” in uso nella psichiatria, per dire che con le gigantesche forme totemiche forse l’artista psicanalista aveva voluto creare dei nuovi “test per l’anima” molto diversi. Nella mostra di Palermo, invece, ci sembra di poter vedere in parecchi casi l’equivalente di tali “macchie” evocative per la natura delle composizioni che sono all’opposto della  forma totemica, a partire dal formato più che dimezzato, generalmente di 1 x 1 m., soprattutto nei numerosi “Senza Titolo” che esprimono un’esplorazione senza orientamento nè confini.

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“La violoniste et le cracheur de feu”, 2019

Dominique Stella parla di “armonia che vuol essere lenitiva,  come un ritorno all’essenziale, al magma primordiale  e misterioso che si esprime in visioni incoscienti. Dalla materia pittorica emanano  impressioni sensibili e impalpabili che si stabiliscono in atmosfere vaporose  e colorate”. ”Incoscienti”  e “impalpabili”, dunque, ma come nascono?  “In Mapping l’artista  sembra liberato da certe sue ossessioni e incertezze”. Le domande esistenziali dei lunghi anni di pratica psicanalitica, riflesse nella sua opera plastica e filosofica  sembrano qui trovare una tregua, una sorta di sosta in cui lo spirito si placa e si rivitalizza.  Questo abbiamo riscontrato nel passaggio da “Behind the World” del Vittoriano a “Mapping” di  Palermo.

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“La cantatrice”, 2019

Cercando di penetrare nel processo creativo dell’artista non ci vediamo una scelta consapevole – “incoscienti” atmosfere, si è detto – bensì il risultato di un percorso psicologico prima di divenire artistico che lo ha portato alle 140 opere in un anno, una interminabile seduta psicanalitica in cui l’ossessione, pur presente, viene combattuta con immagini distensive sempre informali in cui le “macchie di Roschach” possono materializzarsi. “Gesto liberatorio” il suo,  che porta a una “scrittura inconscia” – è sempre la Stella  – diversa dall’”action painting”, perciò “action” andrebbe sostituito da un termine come “spiritual” che esprima l’immediatezza psichica dando a Friedler il merito di aver creato un nuovo filone artistico.

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“Danseur Hopi” , 2019

Sempre inconsapevolmente e non scientemente, il suo lavoro “matto e disperatissimo”  – ci torna in mente l’inquietudine leopardiana – prova che ne è stato preso e forse travolto, non ha dominato ma è stato dominato dalla tempesta psichica che dopo averlo sconvolto si è andata placando. Per l’artista americano Holliday la catarsi liberatoria che ha determinato una svolta nella sua arte  pittorica si è avuta in brevi ma intense  “vacanze romane”, per Friedler non abbiamo notizie su come si sia svolta e sul suo “buen retiro”, ma due sue opere non esposte si intitolano “Le rifuge” e “La Mansarde”, quindi…

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“Les terres rouges”, 2019

Le opere esposte a Palermo

Guardando la galleria espositiva di Palermo, soltanto nelle 4 dall’uguale titolo “Mapping” sembra di avvertire un criterio ordinatorio, ma è un’impressione. In altre riemerge, in modo appena percepibile,  il fondo ossessivo, ci riferiamo a “Les Anges noirs”, e “La mort de cochon sauvage”, a una “Senza titolo” e, sia pure meno affiorante, a “L’évadé”.

Superata questa fase, il processo liberatorio e catartico passa dalle immagini evocative dei suoi viaggi, da “Notre Dame” a “Les musulmanes” , a soggetti  per noi enigmatici, come “Monsieur poulpe” , “Moise et Léon” e “Ragnar”, a scene che richiamano  momenti di  leggerezza, come “La violoniste et le cracheur de feu” , “La cantatrice” e “Danseur Hopi”.

Drapeaux blancs sur fond rouge”, 2019

Poi lo vediamo assorto nella contemplazione in “Les terres rouges” e “Drapeaux blancs su fond rouge” , nella ricerca interiore in “Tracé” , affrontare il mare con Drakkar”, calarsi in profondità con “Les plongeur” tra “”Méduse” inquietanti, ancor più con Harpye”, in un percorso accidentato.

Ma dopo i “tremiti” di “Tremblement” si affida al “Paysage”  rasserenante, e nel processo liberatorio si distende in due “Improvisation florale (miroir) e si  abbandona ancora di più all’”Atmosphère”  e alla “Transparence”, per elevarsi in “Lévitation” , consapevole dell’anomalia in “Sage contemplative dell’extravagance humain”. Nel ripiegamento interiore, il “diapason” passa dall’”Ouverture mystique” all’’”Invocation nocturne”, fino alla liberazione all’esterno nell’esplosione festosa di “Ballons multicolores”. Protagonista potrebbe esssre “L’hermite”, lo vediamo come l’autoritratto nel “rifugio”.

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“Tracé” , 2019

Sono immagini in cui tra quelle incantate se ne vedono di inquietanti, in un misto di sogno e realtà, ombre terrestri e luci siderali, spesso in una frammentazione compositiva che mostra l’assenza di un disegno preciso e l’abbandono alle sollecitazioni dell’inconscio. 

Spigolando tra le tante altre opere del fatidico 2019

Questa la selezione palermitana del “corpus” di 140 opere realizzate nel 2019, in cui il viaggio ideale dell’artista si muove in un campo che possiamo esplorare compiutamente con le immagini del Catalogo. Cerchiamo di immedesimarci nel suo percorso collegando le molte altre opere con un “fil rouge” ideale, psicologico e artistico, che riflette solo la nostra percezione del tutto personale senza la benchè minima pretesa di voler interpretare l’itinerario imperscrutabile dell’artista, ma con l’intento di una narrazione che possa delinearne un possibile processo catartico.

Apriamo con “La fresque des premier jours” , simbolico inizio del viaggio lungo un anno. Che parte da “Placenta” e “Les Ovulos” per aprirsi a “Miroir de la dérive des continentes” e sale più in alto, “A la conquéte de l’espace” fino a “La constellation de mouton” e “… de l’ours” con “La pluie des asteroides”.

“Drakkar” , 2019

Non sfugge alle ombre degli “abissi” della psiche in “La veuve noire” e “”Trois ballon noirs”, “Black seals” e “La mort des oliviers”; dagli “Anges Noirs” in mostra si passa ad “Ange Noir” cui si contrappone però “Ange Blanc” , non esposti, come a fronte di “Le Terres Noirs” “Le Terres Rouges” esposto, una compensazione serena con cui scaccia quelle ombre. Mentre “Aborigénes” e “Fétiches”, con “La bal des fossils” , rimandano ai primordi, i due “Le seméur (miroir)” e “La relique” ricordano che c’è qualcosa da custodire.

Ci riportano alla ricerca interiore “La voie” e “La piste” , la cui meta sembra evocata da “La cart au trésor”, mappa preziosa tra le varie “Mapping” indefinite. Ma ecco irrompere il paesaggio in tante espressioni, da “Paysage sur fond de déntelle” a “Les landes du hiver” e “Berges d’hiver”, da “Melodie d’orange” a “Tempéte en forét” , da “Le garde de nuit” a “Oiseau du nuit”, da “Floral” a “Fleurs sauvages” , da “Les arcanes rouge” fino a “Clairiere enchantè” e all’esplosione luminosa di “Declination jaune dominant”.

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“Mapping” su tessuto, 2019

Oltre che nelle immagini citate che culminano nel “giallo dominante”, il paesaggio è declinato negli ambienti naturali, da “A la campagne, un dròle de promeneur” ad “Intuition de montagne” , e nell”elemento evocativo, “La voie de l’aqua” ed “Eaux profondes”, “La montée des eaux” e “Rocheuses”, fino a “L’archipel” ” e “Le chàteau et les chutes d’azur”, con la trasposizione mistica di “La Chute du Temple de Jérusalem”; e nei due“Coin de Jardin (miroir) ” a lui vicini dove si può levare “Le coup de vent”.

Dalla realtà, attraverso “L’abstraction symbolique” approda alla fantasia di “La princess et le crayon volant”, e alla visione onirica di “Songe bucolique” per assurgere ai due “”Hyper Boréen” e al più eclatante ‘”Aurore boreal” ; in un’escalation da “Au pays des merveilles” fino a “Village juché parmi les étoiles” e al timido “Soupcon de paradis” , con la liberazione dai vincoli anche linguistici in “Un incanto”. Nascono le “Vibrations” che portano a “L’elévation” e alle altre immagini liberatorie della mostra palermitana, prima citate.

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Yoma Machumba”

Ma la sorpresa è aver trovato, tra i 140 dipinti della sua introspezione interiore, due molto più piccoli degli altri, meno della metà, ma quanto mai significativi perchè ne segnano la sede, “La Mansarde” e “Le rifuge”: proprio il rifugio artistico nel quale si è arroccato per la “catarsi” liberatoria del 2019, che lo vede come “L’hermite” di un altro suo dipinto. Una solitudine illuminata da un”immagine femminile, “La belle Héloise” , forse la Beatrice nel suo viaggio dall’inferno delle ossessioni al paradiso della liberazione. “Amor omnia vincit”, lo diciamo solo come associazione di idee, ma sarebbe bello se fosse stato così!

Come si esprime artisticamente tutto questo? Lo vedremo prossimamente.

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“Le clown androgine”, 2010

Info

F ondazione Sant’Elia, Loggiato di San Bartolomeo, Corso Vittorio Emanuele 25, Palermo.   Da martedì a domenica, ore 10-13 e 16 -20, lunedì chiuso. Ingresso eccezionalmente gratuito, a piccoli gruppi con guanti e mascherine. Tel. 091.6123832, www.fondazionesantelia.it. Cataloghi: Julien Friedler, “Mapping”, a cura di Gianluca Marziani e Dominique Stella, La Route de la Soie Éditions, Paris 2020, pp 204; per la precedente mostra, Julien Friedler, “Behind the World”, La Route de la Soie Editions,  Paris 2018, pp.  64;  dai due cataloghi trilingue, italiano-francese-inglese,  sono tratte le citazioni del testo.  Il secondo e ultimo articolo uscirà, in questo sito, domani, 14 giugno 2020. Cfr., in www.arteculturaoggi.com, il nostro articolo sulla mostra romana, “Friedler, il colore degli abissi, al Vittoriano” 17 novembre 2018, in questo sito, i nostri articoli su Anselmo 26 maggio 2020, Holliday 28 giugno 2019.

Foto

Le immagini di tutte le opere esposte a Palermo sono statecortesemente fornite dalla curatrice che ringraziamo,  con i titolari dei diritti, compreso il fotografo Vincent Everarts; quella di apertura è tratta dal sito palermoviva.it, si ringraziano i titolari, le ultime tre sono riprese dal nostro articolo sulla precedente mostra al Vittoriano. Sono riportate nell’ordine di citazione nel testo. In apertura, il Loggiato di San Bartolomeo, a Palermo, sede della mostra; seguono, tutte di Julien Friedler del 2019; “Mapping 7” e “Les Anges noirs“; poi, “La mort de cochon sauvage” e “L’évadè” ; quindi, “Notre Dame” e “Les musulmanes” ; ancora, “Monsieur poulpe” e “Moise et Leon”, continua, “Ragnar” e “La violoniste et le cracheur de feu” ; prosegue, “La cantatrice” e “Danseur Hopi” poi, “Les terres rouges” e “Drapeaux blancs sur fond rouge” ; quindi, “Tracé” , “Drakkar” e “Mapping” su tessuto; infine, dalla mostra del 2018 al Vittoriano, “Yoma Machumba” e “Le clown androgine” 2010; in chiusura, “Ecce Homo” 2008-10.  

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“Ecce Homo”, 2008-10

Anselmo, l’arte e la natura all’Accademia di San Luca

di Romano Maria Levante

Per celebrare il conferimento del Premio Presidente della Repubblica 2016 per la Scultura,  la mostra “Giovanni Anselmo. Entrare nell’opera” espone dal 13 novembre 2019 al 31 gennaio 2020 all’Accademia Nazionale di San Luca – che lo ha segnalato per il premio nel suo turno con le Accademie dei Lincei e di Santa Cecilia – in un percorso disegnato dall’artista curatore,  27  opere  da lui scelte, create dal 1967 al 2019.  Catalogo dell’Accademia Nazionale di San Luca con saggi di Francesco Moschini e Jean-Christophe Amman,  Gabriele Guercio e Ilaria Bernardi, Maddalena Disch e  Marcella Beccaria.

“Entrare nell’opera” , 1971

La  retrospettiva testimonia un itinerario artistico di oltre mezzo secolo prestigioso a livello nazionale e internazionale, con migliaia di mostre e le opere nelle più importanti collezioni pubbliche  e private in Italia e all’estero.  Va ricordato che nel 1990  gli fu conferito il Leone d’oro alla Biennale di Venezia.

E’  un successo indiscusso che si identifica con  l’affermazione dell’Arte povera di cui è  stato un esponente di punta dopo una sorta di folgorazione, a metà degli anni ’60, allorché cominciò a utilizzare i materiali divenuti poi abituali e lasciò la pittura nella quale si era affacciato mentre lavorava da grafico in uno studio pubblicitario. Nel 1967  due  mostre  collettive a Torino e una a Genova, “Arte povera. Collage 1”, e nel 1968 già espone a Dusseldorf e New York, acquisendo fama internazionale, e con lui l’Arte povera. Non si è formato nelle scuole d’arte, per questo dall’inizio non ha seguito percorsi predefiniti, ma una propria strada segnata dal suo istinto mosso da uno spirito animato da intuizioni geniali e sentimenti profondi.

“Infinito” , 1970

Proprio la profondità dei motivi ispiratori rende particolarmente complessa la ricognizione sui significati delle sue opere, che devono essere decifrati con la chiave interpretativa della loro genesi, accuratamente ricostruita dagli studiosi ai quali faremo diretto riferimento. Pertanto la citazione delle opere sarà preceduta di volta in volta dalle motivazioni  del tutto inconsuete per un artista e intrise di  concetti  che dalla filosofia approdano perfno alla cosmologia passando per la fisica. 

L’artista, nell’allestimento che ha realizzato, ha seguito una linea coerente con la propria  impostazione inserendo le opere nella molteplicità degli spazi dell’Accademia in modo da ottenere la massima aderenza. Il  percorso inizia dalle sale a pianterreno e  dal giardino con lo statuario portico d’ingresso  del  Borromini, sale  lungo la rampa elicoidale anch’essa  utilizzata,  fino al piano superiore dove tra le tante pitture e sculture della storica galleria si scoprono  le ultime opere significative esposte.

Particolare del lato in alto della prima,  I di INFINITO” 6 ottobre 1975

L’infinito 

Il momento iniziale e nel contempo risolutore, da cui nasce l’Anselmo dell’Arte povera, è la folgorazione, per così dire,  all’alba del 16 agosto 1965, sulla vetta del vulcano Stromboli,  allorché “prova la vivida, benché sfuggente sensazione  che la propria ombra, dissoltasi nell’aria, fosse inclinata verso l’infinito”, in una convergenza di  fattori, dalla posizione del sole e della persona, dalla qualità della luce ai fumi del cratere. Lo racconta  Gabriele Guercio in un corposo saggio intitolato “La garanzia dell’inesistente” nel quale, partendo dall’”epifania dello Stronboli” scava nei motivi ispiratori dell’artista, con il “Tutto” come affermazione del reciproco, il  nulla.

“Una simile esperienza percettiva si rivela carica di conseguenze. Indica all’artista che la sua presenza non è costretta entro confini prestabiliti  una volta e per sempre, che il sé e l’altro-da-sé  si co-appartengono in  un’unità impermanente ma nondimeno intuibile”.  Ne deriva la percezione di un’energia che attraversa  le diverse dimensioni, l’umano e il cosmico, il noto e l’ignoto.

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Interferenza nella gravitazione universale” , 1969, uno di 20

Ne dà testimonianza il ritratto fotografico di quel momento al quale dà il titolo rivelatore  dell’orientamento che ne scaturisce: “La mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965”. Si vede la sua figura posta nel “crocevia dei quattro elementi”, su  un declivio dietro il quale si apre “l’al di là”nel contrasto tra le linee nette dell’immagine e  la percezione di qualcosa che le supera e diventa indefinibile.  Lui stesso ha affermato: “All’improvviso la mia persona mi apparve, piccolissima rispetto alla distanza che c’è tra il Sole e la Terra”. Una constatazione cosmologica, che approfondirà in seguito, come vedremo, con altre fotografie rivelatrici.

Secondo Guercio, inoltre, “in quell’alba del 16 agosto 1965, anche se involontariamente, i rispettivi campi dell’artistico e del non artistico si trovano intrecciati, laddove quest’ultimo corrisponde al paesaggio della natura che si manifesta nella sua incontenibile potenza”. A questo contribuisce l’”immagine di montagna”, associata al pensiero “della totalità e dell’infinito” nelle “altitudini supreme e rarefatte”,  che ha colpito tanti letterati e artisti come Turner  con l’ impressionante immagine del Vesuvio in eruzione. In questo modo  si evoca il rapporto tra l’artista  e la forza della natura, l’artistico e  il non-artistico compresenti, la coesistenza di stati finiti e infiniti, “la mobilità della frontiera tra  il misurabile e l’incommensurabile, tra il noto  e l’ignoto”.

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Dove le stelle si avvicinano di una spanna il più”, 2001-19

E’ intitolata “Infinito”, 1970, una fotografia del cielo azzurro  scattata con la messa a fuoco sull’infinito.  Ad essa fu poi aggiunta una diapositiva con la scritta “Infinito” che, nella stessa messa a fuoco appena citata,  dava una proiezione bianca e confusa. L’ambivalenza  tra “infinito” e “finito”  in un lingotto di piombo con quest’ultima scritta, è così commentata da  Jean Christophe Amman  nel suo saggio illustrativo di tutte le opere: “L’uso del piombo sottolinea il FINITO, lo rende pesante, definitivo, lo lega al suo posto, fa sì che l’elemento complementare assente risulti ancora più intensamente come una privazione, come mancanza di una parte essenziale”.

Anche nell’infinito viene evidenziato un altro aspetto centrale di cui diremo in seguito.  Vediamo 6  piccoli pannelli con campitura nera e sotto un pannello grigio con la scritta  che dà alle opere il titolo  “Particolare…”  seguito dalla specifica “… del lato in alto della prima, seconda, terza   I di INFINITO”  in quelle del 1975 e 1979, e “…  del lato orizzontale sinistro in alto nella seconda N di INFINITO”  in quella del 1975,   “… della circonferenza maggiore della O di INFINITO”   in quella del 1960, in tutte è indicato il giorno preciso.  Si tratta di  un  “particolare visibile e misurabile” del concetto di infinito  che cerca di declinare in forma “finita”.

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“Mentre la terra si orienta” , 1967

Un altro momento fotografico ispirato all’infinito, dopo quello  rivelatore sullo Stromboli, è  di quattro anni dopo, nel 1969,  diversa l’ora,  l’ambiente e la stagione:  pomeriggio, campagna  e inverno invece di alba, montagna ed estate. L’artista nei dintorni di Torino  fotografa il sole al tramonto in una sequenza scandita da  una ventina di passi tra l’una  e l’altra delle 20 fotografie scattate intitolate “Interferenza nella gravitazione universale” .

“Volevo seguire il sole – sono le sue parole – L’idea era quella di avere un movimento autonomo rispetto a quello delle Terra e delle  stelle, di interferire attraverso questa mia piccola traiettoria  con l’incessante moto dell’universo”.  Il suo intento è di trovare una prova  alla  concezione sull’energia espressa nelle azioni umane: “Io, il mondo, le cose, la vita, siamo delle situazioni di energia e il punto  è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì di mantenerle aperte  e vive in funzione del nostro vivere”. 

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Mentre oltremare appare verso sud-est”, 1967-79-20

Secondo Marcella Beccaria la prova è stata fornita, diremmo missione compiuta:  “L’opera documenta in maniera inequivocabile  il movimento dell’artista in direzione opposta alla rotazione terrestre, il suo agire infinitesimale, eppure reale, contro lo scorrere inesorabile del tempo”. Guardiamo la sequenza delle 20 fotografie nello scalone elicoidale dell’Accademia, hanno differenze impercettibili l’una dall’altra, ma in evidenza tra la prima e l’ultima, il sole si abbassa, gli alberi si ingrandiscono. “Quella piccola camminata – si sarà trattato di un centinaio di metri – è un’azione specifica, è la manifestazione di un’energia in atto diretta da una precisa volontà umana”. E stando al titolo della sequenza fotografica, il risultato non è da poco.

Vediamo anche un’altra sequenza nel porticato con delle statue e il giardino, un serie di blocchi rettangolari a terra con il titolo “Dove le stelle si avvicinano di una spanna il più”,  2001-19, un percorso questa volta di pochi metri non fotografico ma materiale in un’analoga  ricerca cosmologica.  Molto diverso “Mentre la terra si orienta”, 1967, della terra posta sul pavimento con al centro un ago magnetico. Anche in “Mentre oltremare appare verso sud-est”, 1967-79-2016, c’è l’ago magnetico,  questa volta con due pietre in piedi sul lato sottile, una colorata di azzurro oltremare. Colore che ritroviamo in “Verso oltremare”, 1984, una grande pietra a forma triangolare con la punta in alto che tocca un quadratino con quel colore; e in “Grigi che si alleggeriscono verso oltremare”, 1982-86,  con 5 coppie di  pietre fissate alla parete  da cavetti e la placca oltremare.       

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“Verso oltremare”, 1984

Il tutto

Collegato all’infinito entra in campo un concetto, al quale Guercio dedica un’ampia dissertazione, il “Tutto”. Si parte da un’evidenza, 7 opere dell’artista del 1971 in cui la parola non solo viene ripetuta, ma è divisa in due o tre parti: “Tut-to” o “tu-t-to. Non è una  bizzarria, data l’importanza fondamentale che gli viene attribuita, come al “Primordio” di Cagli, è un messaggio criptico così decifrato dallo studioso: “Benché siano formate da elementi che si compongono tra loro, la divisione e i vuoti tra le lettere  rendono indecidibile se e in che misura tale composizione possa dirsi esaustiva  o non ci sia un residuo, una parte occulta o sconosciuta”. Sono proiettate su oggetti e, nota Amman, “indicando tutto non si indica niente, vale a dire l’equivalenza diventa onnipresente”. La coesistenza degli opposti sempre presente nell’artista. 

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Grigi che si alleggeriscono verso oltremare”, 1982-86

Siamo di nuovo alla compresenza e insieme alla dicotomia, tesi e antitesi, dopo la rivelazione dell’ombra che porta all’“Infinito”, qui il “Tutto” nel suo frazionamento sillabico porta all’”area incognita evocata dallo scarto incalcolabile”, per cui l’esclusione fa parte della parte visibile.  Nello spazio tra la cesura delle sillabe “quel vuoto diviene interpretabile come l’attestazione di un’assenza,  di un puro nulla”.  Ma non basta: “Di più. Essendo incolmabile,  può paradossalmente significare il vero aspetto della pienezza”. Sono considerazioni che a prima vista lasciano sconcertati, e non solo noi, se lo studioso  commenta: “Il che provoca disorientamento: si è portati a riflettere su come la cosiddetta totalità con la quale ci si vorrebbe confrontare o nella quale ci si sente inclusi appaia non solo insatura, ma colma di fratture  e lacune”.

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“Invisibile”, 1970-1998-2007, nell’angolo “Verso oltremare”

E’ un aspetto  che si riscontra nella Natura e nella Storia, e averne la percezione è istruttivo anche per la vita  quotidiana. Si acquisisce la consapevolezza  della propria “malferma collocazione nel mondo” e  che esiste un “quid” indistinguibile ma presente dal quale viene stimolato il pensiero alla ricerca di  quello che  ne potrà derivare, per cui “allo stress dell’esperienza di disadattamento può seguire la catarsi”.  Con questa più vasta prospettiva: “Luce e ombra, visto e non visto, qui e altrove, finito e infinito, assumono così dei valori attinenti non solo alla percezione sensoriale  ma anche al campo sovra sensoriale del pensiero”. 

E’ un contesto in cui si colloca l’antinomia Visibile-Invisibile espressa nell’opera esposta  “Invisibile”, 1970-1998-2007. un blocco di granito con l’iscrizione opposta “Visibile”. La stessa scritta appare quando si intercetta il fascio di luce di un proiettore facendo da schermo, in assenza non c’è alcuna scritta, ma l’invisibile. Così l’artista ne spiega l’intento: “Ho voluto creare un’opera invisibile. Se voglio, però, verificare l’invisibile, ciò è possibile solo mediante il visibile. Se voglio materializzare l’invisibile, questo diventa immediatamente visibile. L’invisibile è quel visibile che non si può vedere”.  Come il Tutto a garanzia dell’inesistente, del Nulla. 

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 “Particolare” su pietra, 1972-2019

In tale prospettiva Anselmo testimonia, con le discontinuità delle  sue opere, come “l’arte introduca nel mondo l’ipotesi che l’inesistente rappresenti il garante dell’esistente e della inspiegabilità del fatto che esista qualcosa anziché nulla”.

Il particolare

Abbiamo visto che il “Tutto” nasce da una scritta, ebbene ce n’e un’altra anch’essa significativa, che indica una parte del “Tutto”,  è la parola “Particolare”.   Il “particolare” viene individuato anche nelle opere sull’ “Infinito”  prima citate, e  figura come scritta intercettata dal visitatore che attraversa il fascio di luce dell’apposito  proiettore. Risale al 1972,  l’anno dopo il “Tutto”  nelle sue divisioni sillabiche, ugualmente con la proiezione della scritta, ne vediamo un’espressione nelle proiezioni  intitolate “Particolare”,   1972-2019, su una pietra e in un angolo della stanza, su una parete e su un braccio; ci sono state in passato anche proiezioni multiple con i paesaggi.

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“Particolare”, proiettato su angolo, 1972-2019

Ecco come lo spiega Maddalena Disch nella nota dedicata a questo aspetto molto significativo: “Particolare non si esaurisce nei suoi componenti materiali, né si risolve nel linguaggio immateriale della parola proiettata. Funziona piuttosto come  un atto di individuazione, che di volta in volta riconosce un punto nello spazio nella sua qualità di ‘particolare’ (nel senso del sostantivo’), in sé unico e ‘particolare’ (nell’accezione aggettivale del termine)”.

La studiosa precisa: “Nello stesso tempo, questa puntuale azione di identificazione rinvia, per deduzione logica, a un tutto più vasto in cui quel  particolare, in quanto tale, è inscritto”. Infatti la parete su cui è proiettato è parte della stanza che a sua volta è componente dell’edificio, parte del quartiere, della città, della nazione. “In altri termini, la focalizzazione che qui-e-ora distingue un preciso particolare lo accerta anche come parte integrante di un ipotetico tutto”.  

“Particolare”, proiettato su parete, 1972-2019

Troviamo  molto interessante l’ulteriore qualificazione che viene fornita: “Noi, le cose, lo spazio tutt’intorno siamo fatti di particelle  e nel contempo siamo particelle di uno spazio incommensurabilmente più esteso, afferrabile soltanto attraverso il mezzo di misura dei suoi particolari”.  Riconduce oltre che al tutto, all’infinito nella sua configurazione cosmologica raffrontata alla limitatezza umana, come affermato dallo stesso artista nel 1972, alla nascita del  “Particolare”: “Ho fatto sovente dei lavori che partono da idee che sono di volta in volta  il tempo in senso lato, o l’infinito, o l’invisibile, o il tutto, forse semplicemente perché sono un terrestre  e cioè limitato nel tempo, nello spazio, nel particolare”. 

Osserva la Disch: “Particolare, tutto, infinito, visibile e invisibile sono concetti che guidano e organizzano la nostra percezione delle cose, del mondo e dell’universo”. Ed ecco come: “Strumenti di orientamento e parametri di riferimento, indicano il grado di misurabilità e di visibilità, così come il rapporto che ci lega allo spazio-tempo cui apparteniamo”.

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“Particolare”, proiettato su braccio, 1972-2019

A queste immagine e a questi concetti leghiamo un’altra espressione dell’artista, la mano aperta con il dito che indica qualcosa di lontano, si dice comunemente che non si deve guardare il dito che indica la luna, qui vediamo  l’opera intitolata “Il panorama con mano che lo indica”, è del  1982, dieci anni dopo il “Particolare”, la mano con il dito proteso è disegnata  su un pannello di carta alla parete, a terra una pietra rettangolare.

Ilaria Bernardi nella nota specificamente dedicata al tema, afferma: “In Panorama, salendo sulla pietra,  compiamo un’esperienza che in qualche modo ricorda quella fatta da Anselmo sul vulcano di Stromboli nel 1965 quando,  da una posizione ancora più elevata rispetto all’orizzonte, constatò come la sua ombra fosse rivolta verso l’alto”. 

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“Il panorama con mano che lo indica”, 1982

E  la associa all’immagine “monstre” “Entrare nell’opera” in cui l’artista si è  ripreso in bianco e nero all’interno di uno spazio vastissimo dove è corso nel punto prestabilito dopo averlo messo a fuoco con l’autoscatto  della macchina fotografica, e questo nel 1971, l’anno del “Tutto”; ne è nato un gigantesco pannello su tela di cm 290 x 500 nel quale la minuscola figura umana al centro è quanto mai eloquente.  In entrambe le opere  la vastità  rispetto alla limitatezza: “E’ solo grazie alla constatazione dell’infinità del tutto (invisibile) rispetto alla sua parte (visibile)  che percepiamo di essere, sia pure limitati, nel tempo e nello spazio”, constatando l’”infiniya energia insita nel Cosmo”.

La pietra e non solo

Abbiamo già incontrato la pietra in una serie di opere nelle quali, però, era soprattutto funzionale a un messaggio prevalente sulla sua materialità. E’ giunto il momento di considerare le opere in cui la pietra è protagonista anche della “gravitazione universale” prima evocata con  il servizio fotografico torinese. 

“Respiro”, 1969

Partiamo ugualmente da una fotografia di Mussat Sartor del 1970  citata da Gabriele Guercio a proposito della “ricognizione bifocale”: in essa l’artista guarda in alto una sua opera  del 1969, una  grossa pietra appesa a un gancio con un cavo  d’acciaio che la avvolge. Lo studioso è incerto su cosa ci sia nel suo sguardo, “da reverenza e scrutinio a timore e incredulità”, trattandosi di un masso di 75 chili che, come l’ombra sullo Stromboli,  va verso l’alto e non verso il basso; un’altra “Interferenza sulla gravitazione universale” dopo quella fotografica.

E osserva: “La pietra costituisce un suggestivo equilibrio di dato  e di creato. Decisiva per la riuscita del bilanciamento è la caratteristica presa del nodo scorsoio. Grazie a essa, quanto più forte è la spinta  esercitata sul cavo dal peso del blocco pietroso tanto più salda è la stretta con la quale il nodo la trattiene al gancio nel muro”.  In altri termini: “Il nodo e il gancio fissano il masso  a mezz’aria sfruttando e riorientando  esattamente quella forza di gravità che altrimenti provocherebbe la sua caduta al suolo”. Con queste  considerazioni, che confermano quanto detto in precedenza sulla compresenza degli opposti, “ci si rende conto che proprio perché  interviene nel dato di natura dimostrando che non è mai acquisito una volta e per sempre – la forza di gravità è utilizzabile per un fine opposto alla caduta dei corpi – il composto di pietra, laccio e gancio genera un mondo autosufficiente eppure concomitante a quello naturale”.

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“Torsiome”, 1968

E’   la premessa di un’interpretazione al centro della quale c’è l’equilibrio tra il peso della pietra e la presa del nodo – cioè tra l’elemento naturale  e l’interferenza umana – “difficilmente comprensibile se ci si attenesse  ai criteri di intelligibilità prima della comparsa della pietra-opera”. L’’intervento creativo ha determinato le condizioni per cui ciò che sembrava impossibile o inesistente esiste ed è realizzato, “la pietra-opera è in grado di  mostrare simultaneamente la faccia  latente  e quella manifesta: la regola e l’eccezione, la forza di gravità e la sua riconversione, la tensione e la quiete, il limite e l’illimitato”. La forza dell’arte resa plasticamente dalle parole di Guercio.

Ma  l’artista non fa leva soltanto sulla pesantezza della pietra, la associa anche a materiali leggeri. Francesco  Moschini opere come   “nel  gruppo di tele che sostengono due macigni o quando della lattuga viene legata tra due pietre, forse la sua opera più nota, dove la fragilità viva di una pianta verde viene a  configurarsi in una simbiosi fra forza dirompente e vitalità esuberante”,  nel ripetersi in modalità sempre diverse ma con risultati assonanti, di forze contrapposte.

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“Per un’incisione di indefinite migliaia di anni”, 1969

Non c’è quest’opera, ma ne vediamo una in cui è espressa la stessa antinomia compresente tra fragilità e durezza, è “Respiro”,  1969, due barre di ferro a sezione tonda, lunghe 350 cm, separate da una spugna, che fanno le veci delle due pietre e della lattuga. La fragile spugna “respira” e impedisce alle due pesanti sbarre di collidere quando si dilatano con il caldo; è  il principio applicato nelle rotaie.  Commenta Amman: “Quello che Anselmo mostra in quest’opera è la forza dell’impercettibile, che resta comunque, nei suoi effetti chiaramente registrabile”.  In altri termini: “Un processo invisibile  si può constatare solamente per via dei suoi effetti visibili”, pertanto “l’invisibile si misura col visibile”, e lo abbiamo visto anche con le proiezioni della parola intercettate dal visitatore.

“Senza titolo”, 1967

Dell’anno precedente  il ferro ruotato a forza intorno a strati fissati al muro con un anello del più morbido fustagno e bloccato alla parete nell’opera intitolata  “Torsione”,  1968, in un accumulo di energiache lo studioso definisce così: “E’ forza compressa come immagine e come realtà ferro insieme a fustagno  fissati al muro in “Torsione”

 La durezza del ferro è in un’altra opera dello stesso 1969  intitolata  “Per un’incisione di indefinite migliaia di anni”,  un  grosso tubo di 188 cm. diametro 12 cm, alleggerita dalla scritta sulla parete riportata nel titolo: eloquente  o dal grasso che lo ricopre per preservarlo dalla ruggine e  renderlo indistruttibile nel tempo, come afferma l’artista: “L’opera somiglia a un disegno che altri continueranno. E’ un lavoro che si autocontinuerà, un’opera volta contro la morte, contro il tempo determinato, delimitato dall’uomo”.http://www.arteculturaoggi.it/2020/05/05/gina-lollobrigida-2-fotografa-al-palazzo-delle-esposizioni-di-roma/http://www.arteculturaoggi.it/2020/05/05/gina-lollobrigida-2-fotografa-al-palazzo-delle-esposizioni-di-roma/

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Il colore mentre solleva la pietra
la pietra mentre solleva il colore”, 1988-90

Concludiamo  la galleria con due opere lontane nel tempo – distano 20 anni circa – di analoga impostazione. “Senza titolo”, 1967, con il tondino di ferro a U che avvolge al centro una lastra di perpex, 2 m per 1 m,  sostenuto dalla tensione del perpex che esprime energia. E  “Il colore mentre solleva la pietra la pietra mentre solleva il colore”, 1988-90. Anche qui c’è una linea al centro tra due superfici, non è più il perpex ma la pietra, e la linea è un cavo d’acciaio in tensione con il colore che viene reso protagonista.

Ma protagonista è comunque l’arte, che  Guercio vede così: “Se artistico e non artistico, sensibile e sovrasensibile, sono intrecciati tra loro è perché nascono insieme”. E conclude: “La pratica artistica costruisce la natura in quanto alterità  o non artistico senza presumerla come preesistente all’atto creativo, bensì come l’altra faccia di un costrutto bipolare  che vede entrambi definirsi vicendevolmente”.

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“Lato destro”, 1970

Un “ritratto” finale

Ci congediamo da Anselmo con un ritratto giovanile del suo volto intitolata “Lato destro” , 1970, non in mostra: sembra una semplice fotografia con il particolare della scritta sul collo che le ha dato il titolo, e la specifica “con negativo voltato”. Non si tratta di una stravaganza, l’indicazione del lato esprime il modo speculare e non coincidente con cui ci vediamo noi e gli altri, per cui, osserva Amman, “nessuno può vedere se stesso come lo vede l’altro”; a meno di rovesciare, come ha fatto per la fotografia che lo rtrae, per cui “il vero lato destro, da lui contrassegnato, corrisponde al lato destro, visto da me come spettatore”.

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Uno scorcio della Galleria scultorea

Con questo effetto, nel quale tornano si riflettono le antinomie e gli opposti compresenti nella sua opera: “Attraverso la sempklicissima esperienza dell’artista viene tematizzato e specificato un costante processo trasformativo (l’abitudine visiva), processo che solo in certi precisi casi è ripercorribile da un altro e che comprende non solo le abitudini visive ma anche quelle conoscitive”. Non solo, quindi, fenomeni naturali oggetto di osservazione scientifica, ma anche aspetti profondi di natura psicologica e mentale di ordine filosofico.

Ancora una volta sperimenta su se stesso con il mezzo fotografico, come per l’illuminazione iniziale dell'”infinito” sul vulcano di Stromboli cinque anni prima di questo ritratto e il percorso “gravitazionale” nella sequenza fotografica di Torino l’anno precedente; il tutto poi tradotto nella sua arte fatta di materiali poveri e naturali associati in modo inusitato e sempre allusivo, un’arte autentica, pur difficile da decifrare.

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Bertel Thorvaldsen, “Le tre Grazie”, 1842

In mezzo secolo di attività artistica ha messo in pratica l’assioma secondo cui l’arte assume una connotazione insolita  e primaria anche rispetto alle forze della natura,  con le sue opere nelle quali la compresenza degli opposti ha portato prove eclatanti di fenomeni impercettibili o imperscrutabili. Un’arte, dunque,  dominante  e rivelatrice non specchio della natura ma indipendente nella sua creatività. Quindi indipendente anche da qualunque percorso prefissato, ma, aggiungiamo, indagatrice e ammonitrice.

L’Accademia con questa mostra, come con le altre di arte contemporanea, fornisce una dimostrazione evidente della latitudine sconfinata della creazione artistica che può trovarvi un posto privilegiato anche se, come per Anselmo, lontana anni luce dalle forme classiche rappresentate nella sua ricca galleria con tanti autentici capolavori, 300 sculture e 1500 pitture. Per visitare un’installazione visiva di Anselmo si percorre questa straordinaria galleria, dopo la scalinata nella quale si è accompagnati dalle 20 fotografie torinesi della sua “Interferenza nella gravitazione universale”; all’uscita, una sensazione indefinibile nella quale ciò che è percepibile nel turbine emotivo è la grandezza dell’arte in tutte le sue più autentiche manifestazioni.

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Un gruppo di dipinti

Info

Accademia Nazionale di San Luca, Roma, Palazzo Carpegna in Piazza Accademia di San Luca. Catalogo “Giovanni Anselmo. Entrare nell’opera”, Accademia Nazionale di San Luca, ottobre 2019, pp. 256, formato 19 x 25 cm; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli:  in questo sito, su  Cagli 5, 7, 9 dicembre 2019; in www.arteculturaoggi.com su Turner 17 giugno, 4, 7 luglio 2018.

Photo

Le immagini sono stare riprese da Romano Maria Levante nell’Accademia di San Luca all’inaugurazione della mostra, meno le n. 3, 6, 12-14, 16, 19, 21 tratte dal Catalogo, si ringrazia la Direzione e l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; sono inserite in ordine di citazione nel testo. Le prime 21 immagini sono tutte opere di Anselmo; le ultime 4 riguardano la Collezione artistica dell’Accademia, 2 per la scultura, 2 per la pittura. In apertura, “Entrare nell’opera” 1971; seguono, “Infinito” 1970, e “Particolare del lato in alto della prima,  I di INFINITO” 6 ottobre 1975; poi, “Interferenza nella gravitazione universale” 1969, uno di 20, e “Dove le stelle si avvicinano di una spanna il più” 2001-19; quindi, “Mentre la terra si orienta” 1967, e “Mentre oltremare appare verso sud-est” 1967-79-2016; inoltre, “Verso oltremare” 1984, e “Grigi che si alleggeriscono verso oltremare” 1982-86; ancora, “Invisibile”, 1970-1998-2007, nell’angolo “Verso oltremare”, e  “Particolare” su pietra; continua, “Particolare” proiettato su angolo, su parete, e su braccio, 1972-2019; prosegue, “Il panorama con mano che lo indica”  1982; poi,“Respiro” 1969, e “Torsione” 1968; quindi, “Per un’incisione di indefinite migliaia di anni” 1969 e “Senza titolo” 1967, infine, per Anselmo, “Il colore mentre solleva la pietra la pietra mentre solleva il colore” 1988-90 ,  e “Lato destro” 1970. Seguono, per la collezione dell’Accademia di San Luca, uno scorcio della Galleria scultorea e Bertel Thorvaldsen, “Le tre Grazie” 1842, espressivo delle 300 sculture; poi un gruppo di dipinti e, in chiusura, Guido Reni, “La fortuna con la corona in mano” 1637, espressivo dei 1500 dipinti.

Guido Reni, “La fortuna con la corona in mano”, 1637

Echaurren, 2. Un profilo dell’artista, movimentista nella vita e nell’arte

di Romano Maria Levante

Abbiamo commentato in precedenza il “Duchamp politico” di Pablo Echaurren, sottolineando la corrispondenza nell’impegno controcorrente comune ai due artisti,  pur nelle  biografie molto diverse. Ora vogliamo tracciare un profilo di Echaurren entrando nella sua vita movimentata, anzi movimentista, dopo aver  analizzato in passato  la sua arte espressa nelle due mostre “Chrhomo sapiens”  nel 2010 a Palazzo Cipolla e “Contropittura” nel 2015 alla Gnam, la sede dove è tornato per la presentazione del “pamphlet” citato su Duchamp nella conversazione con Marco Senaldi.

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Inizia la galleria degli “schizzi” artistici di Pablo Echaurren

Ripercorreremo rapidamente  i  periodi esistenziali e artistici del suo itinerario, avendo come sfondo le immagini della mostra tra settembre 2017 e gennaio 2018  al Museo di Roma in Trastevere, con le sue  vignette di “contro pittura” affiancate alle fotografie  istantanee di Tano D’Amico a documentazione  degli anni della contestazione e del  terrorismo agitati dalla violenza in una drammatica escalation. Echaurren  è stato più che un testimone, avendo vissuto attivamente quella stagione,  mai protagonista di violenze, approdò agli “Indiani metropolitani”  che prediligevano lo sberleffo. In questo aspetto abbiamo trovato un collegamento tra questa mostra  al primo  piano  del Museo di Roma e quella al pianterreno dedicata a “Totò, il genio”  in contemporanea, solo sfasate di un mese apertura e chiusura,  implicita metafora  della compresenza di due realtà contraddittorie.

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Non ci soffermeremo sulle molteplici forme di espressione artistica che hanno segnato un’epoca così tormentata, abbiamo analizzato la sua interpretazione dell’“horror vacui” e della natura, della “romanità”  e della musica, e non solo rispetto al “Crhomo sapiens”, nella mostra antologica  ideata e organizzata da Emmanuele F. M. Emanuele alla Fondazione Roma; e la sua “Contro pittura”   alla Gnam in cui cambia tutto per figurazioni  che rendono la sua inquietudine nelle forme astratte e nel cromatismo. Fanno da sfondo alla sua vicenda esistenziale in un  impegno costante e generoso.

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Le prime manifestazioni artistiche di successo

Figlio d’arte – il padre, l’artista Roberto Sebastian Matta Echaurren, ha donato un proprio lungo  pannello mosaicato a Roma, si trova nel tunnel pedonale di accesso alla Metro A di Piazza di Spagna –  ma il genitore non gli fu particolarmente vicino, tanto che lo definirà “trasparente”, mentre  ad avviarlo alla pittura fu Baruchello, e forse non gli furono indifferenti le riproduzioni del picassiano Guernica e di un Mirò poste nella sua stanza. Era  stata la musica il suo primo amore, suonava il basso nel complesso “I Lemon”  ma si aggiunse subito il collezionismo, dalle figurine ai francobolli, dalle farfalle ai fossili, fino agli scritti sul futurismo. Lo dimostra nelle prime composizioni pittoriche, quadratini diligentemente disegnati e colorati, quasi raccolte da “entomologo”; una premessa alle grafiche su carta nelle quali si esprimerà il suo impegno politico.

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I suoi “quadratini” furono notati e acquistati addirittura dal “guru” dei Dada e surrealisti in Italia, Arturo Schwartz, mentre era ancora studente, è l’inizio degli anni ’70.  Al collezionismo nella vita e nelle prime forme di arte segue il fascino dell’ideologia – si butta sui testi marxisti – e delle trasgressioni, dai Dada e surrealisti, con Max Ernst e Tzara fino a  Marcel Duchamp che sarà il suo costante e ammirato riferimento. 

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La sua pittura,  pur continuando ad esprimersi nei mosaici colorati dei quadratini, abbandona l’innocenza da  “entomologo” e diventa fortemente allusiva, celebrando il lavoro manuale e l’affrancamento dai padroni, va in scena anche il “68” e in 9 quadratini compone il nome di Karl Marx, li citiamo tanto per intenderci; ma non è tutto politico, nei suoi “quadratini” entra la natura, e artisti come Brueghel, e Van Gogh, Bosch e Duchamp.

E’ ancora la matrice da collezionista ad esprimersi in forme pittoriche semplificate da cui  emerge la tendenza al messaggio ma senza seriosità da profeta, anche se i titoli “danno la morale della favola”, sempre  con leggerezza e “humor”, appunto in tono favolistico. Lo stesso spirito di Hokusai e Hiroshige che gli fecero scoprire l’armonia nella natura, tanto che diede anche lui un’interpretazione della celebre “Onda” del giapponese.

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Agli esordi il suo è stato definito “un carattere ludico, ma nello stesso tempo lucido”, premessa degli sviluppi eclatanti sia per il talento precocemente manifestato, sia per i contatti con il mondo artistico. L’evoluzione pittorica immediata è il passaggio dai “quadratini” alle “decomposizioni floreali”, riemerge lo spirito del collezionista, si pensi che colorava sfregando con i pigmenti naturali dei petali e delle rose!  E dire che i suoi “quadratini” sono stati visti come un’espressione di avanguardia rispetto alla realtà alla stregua di Cubismo e Futurismo, Dadaismo e Surrealismo, Pop Art, Minimalismo e Concettualismo. Nello stesso tempo il suo spirito fumettistico lo aveva portato alle copertine di tipo “naif”, quella del fortunato libro “Porci con le ali”, la storia di Rocco e Antonia divenuta  “cult” della “beat generation”,  lo fece conoscere al grande pubblico.

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L’abbandono della pittura per una grafica irridente

Come non riposare sugli allori e  proseguire su una linea già così affermata?  Ebbene, avviene l’opposto, Echaurren lascia la pittura ma non larte che  porta tra i giovani e i ceti popolari con i suoi disegni  provocatori e irridenti quanto mai coinvolgenti. Lo fa con gli schizzi macchiati di rosso, in alcuni dei quali figura la dissacrante “Fontana” cioè l’orinatoio,   e lo “Scolabottiglie” di Duchamp con la scritta “Odio le molotov” per riaffermare il carattere non violento del suo impegno diretto. Siamo agli ultimi anni ’70.

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Duchamp è al centro della sua attenzione, anzi lo invoca con gli scritti nei suoi schizzi provocatori:  “Duchamp è la negazione della contemplazione”, “Duchamp è azione”, “E’ distribuzione di creatività a tous les étages”, “Duchamp è di sinistra”, “Il movimento è un Ready Made”. Sfoga la sua inquietudine anche su fogli di quaderno con motti e grafiche,  tornano i simboli del lavoro, chiavi inglesi, pistoni e meccanismi, quasi in visioni oniriche; e la scritta Dada, come un’ossessione o una liberazione, con riferimenti anche televisivi.

Si ripete la compresenza di scritte ludiche, come il “Dadaumpa”, ed evocazioni impegnate, come “Autodifesa” e  “Direzione di marcia”, “Assemblea”  e “Servizio d’ordine”, “Conformismo” e “Protagonismo”, “Retorica” e “Militarismo”. Ma vediamo anche una grande scritta in rosso “Dadatotò”, che ci riporta alla mostra parallela del grande Totò citata all’inizio, e  “Il passaggio da militante a desiderante”,  “Manicheismo, malattia senile dell’estremismo” e “Il linguaggio dell’uomo totale sarà il linguaggio totale”, “L’arte o sarà collettiva o non sarà”   e “Per un’arte applicabile e replicabile”, come un manifesto politico.

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 Espressioni fumettistiche compaiono in molti altri schizzi, e l’esclamazione esplosiva “Oask”  ricorre spesso, è il simbolo del  movimento degli “Indiani metropolitani” di cui fa parte, un vortice di parole che avvolgono come in un gorgo, ripensiamo alle ”parolibere” del Futurismo di cui fu un attentissimo cultore. Mentre la scritta “Come fondere cellule e nuclei sconvolti clandestini” e altre non devono far pensare alle cellule eversive, vanno  interpretate alla luce del surrealismo, insieme allo “humor” e all’ironia. E non manca di utilizzarli anche verso il proprio gruppo, a stare ai titoli irridenti di certi suoi schizzi: “Sporchi indiani metropolitani non si capisce un accidente di quello che dicono” e “Maledetti indiani metropolitani fatevi capire quando parlate”.

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Siamo sempre nel 1977. A questo punto l’abbandono della pittura si fa completo, lascia anche gli schizzi macchiati di rosso con frasi e  titoli provocatori, disegna per “Lotta continua”, l’organo del movimento extraparlamentare, quasi da militante, ma sempre con “humor”, tanto che utilizza figure preistoriche e perfino Paperino,  e slogan trasgressivi spesso cerebrali; la politica “tout court” non è nelle sue corde, collabora anche a giornali satirici come “Il male” e “L’Avventurista”, sempre con lo “humor” surreale da “indiano metropolitano”.

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E’ trascorso un decennio dalla contestazione del ’68, il suo impegno nel segno di una acuta sensibilità politica e sociale si è espresso nelle forme più accattivanti,  anche se faziose, di una grafica surreale e paradossale. Ma il sequestro di Aldo Moro con la strage dei cinque agenti di scorta e la sua uccisione dopo 55 giorni di prigionia fa cadere nell’angoscia degli “anni di piombo”. Non c’è più spazio per la leggerezza e l’ironia dei suoi schizzi irridenti e allusivi, il clima diventa  maledettamente serio, anzi drammatico.

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Senza esitazione Echaurren di nuovo cambia tutto,  Si riavvicina alla pittura in una forma nuova ispirata al Futurismo prediletto,  il “collage”,  utilizzando ancora la carta ma in modo del tutto diverso rispetto agli schizzi macchiati di rosso. La sua base è la realtà,  e i ritagli di giornale sono frammenti della ricomposizione di un qualcosa che  si è rotto e va ricostruito in concreto pur nel ripiegamento in sé stessi. Ma c’è anche la fuga dalla realtà per la cultura, nelle illustrazioni e nei fumetti con le storie di  personaggi celebri, da Marinetti a Majakovskij, da Pablo Picasso ad   Ezra Pound, Anche nel “collage” c’è evoluzione, l’elemento cartaceo viene soverchiato dal segno  sempre più marcato, quasi volesse liberarsi dai vincoli che lo trattengono, fino all’inasprimento della composizione,  non più brandelli sbiaditi ma forti accostamenti.

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Il ritorno alla pittura, e non solo

Il ritorno definitivo alla pittura è l’approdo di questa spinta irresistibile, siamo alla fine degli anni ’80, ritroviamo l’artista versatile e poliedrico nel suo elemento naturale.  E lascia la carta, da tanto tempo suo supporto d’elezione, per la tela, la china e l’acquerello per l’acrilico, il segno sottile per il cromatismo violento, l’accenno per il simbolo vistoso, l’allusione più o meno percepibile per la titolazione quanto mai esplicita.

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I temi sono quelli dell’attualità, ispirati ad eventi eclatanti dalla rivolta di piazza Tienamen alla caduta del Muro di Berlino, alle guerre del Golfo con Iran e Irak, Stati Uniti e Kuwait, ci sono ancora scritte con  titoli eloquenti e diretti, non più  sarcasticamente allusivi e provocatori, leggiamo “Berlin” e “The Fall of the Wall”, “War” e “Bomb”, ma anche “Resisto”, “Vermi” e “Bastardi”, il serpente della guerra semina angoscia in alcune composizioni.  Non  ricorre al figurativo, sarebbe troppo per un trasgressivo come lui; il suo è un espressionismo ispirato ai graffiti  metropolitani e alle allegorie medievali, del resto sono “anni bui” anche questi, come i “secoli bui” del Medio Evo, fino all’arte precolombiana.  

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Inizia la galleria delle istantanee fotografiche di Tano D’Amico

Dai “fumetti” a dimensione personale e individuale a grandi “murales” a dimensione collettiva e popolare, dall’accenno irridente delle grafiche poi reso ancora più labile nei “collage” a una forza espressiva e una violenza cromatica di grande impatto emotivo.  Ci sono ancora frecce e simboli ricorrenti, ma la forma è sempre più pittorica. Dopo il serpente i  teschi cominciano a invadere le sue tele, anche in forma mutante, non sentiamo più la forza rivoluzionaria, ma non si tratta di una cupa ossessione. L’”horror vacui” viene considerato  liberatorio in quanto esorcizza il male, la presenza dei simboli di morte lo allontanano, perché il male va dove c’è il bene.  E sa elevarsi con il “Volo” e “Da zero a infinito”, dove ci sono anche mostri pacifici, mentre nel 1990 inneggia  a “La nuova Italia” accostando  la figura di Paperino e il simbolo del PCI, quasi un segno distensivo.

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Sono chiamate  “carte (di navigazione)”  quasi  delineassero la direzione da seguire. In questo periodo un nuovo amore per l’arte della ceramica, la freccia di Cupido lo colpisce  a Faenza in una mostra intitolata “L’apprendista stregone”, diventa apprendista ma anche stregone perché ne penetra i segreti in una ricerca approfondita che lo porta ad innovare con opere in ceramica blu in cui inserisce i teschi che esorcizzano il maligno. Le produce nella bottega di Gatti, dove erano stati anche Balla e Baj, Ontani e Paladino. Particolarmente significativo “Il mio ombelisco”, nella proboscide di un rinoceronte che richiama l’elefante  della fontana romana della  Minerva. In ceramica anche un omaggio a Duchamp, con le grottesche di serpenti e draghi, e il titolo “U/ Siamo tutti Duchamp”, che Echaurren ha citato espressamente nel suo “Duchamp politico” come abbiamo ricordato.

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A questa parentesi molto significativa, come quella delle “tarsie”, tessuti fortemente cromatici, per la sua pittura una direzione  nuova che sa anche d’antico è quella verso la musica, il primo amore che “non si può scordare” torna in un periodo di disorientamento che richiede di aggrapparsi a qualcosa di solido: i ritmi che richiamano anche la successione ordinata degli  elementi, e gli strumenti musicali, tra cui il basso che suonava nella band.

L’impegno sociale e i “murales” di “contropittura”

Ma non è un ripiegamento su se stesso, manifesta un forte impegno sociale e umanitario nell’ambiente carcerario. Organizza con l’Arci  un laboratorio artistico per i detenuti del  carcere di Rebibbia,  e ne espone i  risultati  con la mostra “Gattabuismo” al Palazzo delle Esposizioni nel 1996.  Gira in carcere il  film per la televisione  “Piccoli ergastoli” e lo presenta nel 1997 alla Mostra del cinema di Venezia e nel 1998  al Festival di Biarritz. Nel 1997 diventa Accademico dell’Accademia Nazionale di San Luca.

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Scrive “pamphlet” sul mondo carcerario. Già nel 1985, allorché era  finita ogni militanza,  aveva proposto e realizzato iniziative di comunicazione popolare, in  “AmoRoma”, diffonde di manifesti con opere di Fellini e Schifano, Pratt e Pazienza; in seguito, con  la cooperativa “Sensibili alle foglie”, realizza  mostre sullo “scarabocchio”.

Non è più il militante di gruppi contestatori e libertari, ma l’irrisione provocatoria è sempre nelle sue corde: nel 1995 vende a prezzo dimezzato banconote da 10.000 lire ironizzando così sull’”Arte ricca” e sui guadagni promessi ai collezionisti di opere d’arte; il pensiero va al facsimile di assegno disegnato da Duchamp e da lui utilizzato per pagare 115 dollari al  proprio dentista con tutte le implicazioni esplorate da Eucharren nel “Duchamp politico”. Fonda  nel 1997 il “Partito del Tubo” – con Giuseppe Tubi, artista cibernetico – dal  programma surreale di  “sostituire la politica del vuoto  al vuoto della politica”, lo pubblicizza con volantini perfino alla Biennale di Venezia del 1999.  

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La sua pittura di questo periodo non ne è immune, si “sfoga” con grandi scritte negli acrilici, veramente di “Contropittura”, si va da “Ex-pistols” a “Sex”, da “Usura” ad “Antitutto”, da “Festa punk” addirittura a “Merda”. Ma vi è anche “La religione murale”con le scritte “Amen” e “Saint”, il simbolo di falce,  martello e  stella  capovolto, si proclama in un dipinto “cubista per caso”, con  le parole “fragile” e “fragilissimo”. Tra il 2006 e il 2011 una serie di opere romano-centriche, in cui torna l’”Ombelisco” della ceramica, e si celebra il Colosseo, Piazza Navona e non solo, in dipinti dalla forte presa cromatica e spettacolare,  rea i quali spicca “Vertici azzurri”.

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Il percorso artistico che ha visto abbandoni e riprese, irruzione di temi  e forme inusitate riprende l’impegno contro quelle che considera le degenerazioni del sistema capitalista  con dipinti di grandi dimensioni che vanno ben oltre i “murales morali”;  recano grandi scritte con parole solo in parte cancellate; e la cancellazione parziale lo differenzia da Isgrò che le eliminava del tutto, qui si invita a decifrare l’alterazione. E’ come se fossero i passanti a eseguire le cancellazioni, anche riferite al mondo dell’arte.

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Sono dipinti monumentali, dal segno marcato e il cromatismo intenso, realizzati tra il 2012 e il 2015; oltre alle scritte in cui tornano parole  esplicitamente “politiche”, come “Election day”, “Parlamento”, “Sindaco”, vediamo anche “Combat” e “Market”, “Voi siete qui” ed “Ego”,  “Toxic” e “Asset”, Atrist” e “Aerfair”, sono compresenti i diversi motivi.  E scene di guerra combattuta, tra navi e aerei, scoppi e frecce con scritte bellicose riferite anche all’arte e alle case d’asta, “Corpus Christie’s” e “Corpus Sotheby’s”, fino ad “Auction painting”, riferito all’avanguardia artistica americana. Nel 2015 con  “Wall Street Art” mediante simboli pacifisti celebra il lavoro dopo la guerra.

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Un flash sulla mostra con Tano D’Amico

Conclusa la rievocazione del suo percorso esistenziale e artistico seguendo le due grandi mostre  a Palazzo Cipolla e alla Gnam  da noi ampiamente commentate a suo tempo, vogliamo puntare ancora l’attenzione sulla dimensione “politica” con riferimento alla più recente mostra, citata all’inizio, al Museo di Roma in Trastevere,  con le sue grafiche provocatorie e irridenti del 1977, che abbiamo già ricordato,  esposte con le fotografie di Tano D’Amico a documentazione del clima di violenza urbana di cui sono espressione. Oggetto della mostra è  la storia di un paese e di una  generazione di giovani in un periodo quanto mai tormentato della nostra vita nazionale, nel rapporto tra grafiche  e foto, tra l’arte  e la vita che ne è ispiratrice.

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Di Echaurren abbiamo detto, di Tano D’Amico basta ricordare i suoi “reportage” nei luoghi più diversi nei momenti cruciali, in Italia e all’estero, anche nelle carceri  e nei manicomi, qui soprattutto nelle strade. Vediamo scene drammatiche di guerriglia urbana, fino al sangue sul selciato, i contestatori e i poliziotti,  rispetto ai quali Pasolini rovesciava il giudizio corrente considerando i secondi  come veri proletari non i primi, rampolli della borghesia decadente;  ma anche scene distensive di condivisione e solidarietà, con l’amore che veniva contrapposto alla guerra.  

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In 200 opere “le facce, le feste, le donne, il rapporto uomo-donna, l’opposizione, la morte e il sangue, le lettere, la comunicazione alogica, la poesia visiva, la creatività urbana… “; è stato pubblicato anche il libro evocativo “Il piombo e le rose – Utopia e creatività del movimento”, proiettato il film “Indiani metropolitani” insieme  a seminari  con osservatori e protagonisti. 

L’effetto dell’abbinamento lo si vede nelle immagini che abbiamo volutamente inserito nel testo come illustrazione di un  aspetto  saliente dell’impegno di Echaurren,  la propria passione politica dando a questo aggettivo l’alto valore morale dell’etimologia. 

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La presenza crescente dell’Echaurren “politico”

Passione politica prorompente, dunque, anche in Guttuso l’ideologia tradotta nel suo caso in milizia partitica, ne  aveva ispirato le denunce nel suo ben  noto realismo pittorico. Ma come in Guttuso,  non devono sorgere equivoci sulla  caratura artistica, in Echaurren  quanto mai  personale nella contaminazione di generi di diverso livello  ma senza gerarchia,  nello spirito di una ricerca incessante e di una presenza innovativa, dalla pittura alla grafica, dalla ceramica all’illustrazione e al fumetto; fino alla scrittura autoriale,  prima di “Duchamp politico” una serie di altri “pamphlet”. Un’arte come strumento e non come fine – secondo l’insegnamento di Duchamp – con l’obiettivo di muovere le coscienze  contro l’assuefazione.

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Nel 2019  si nota  un’intensificazione della sua attività, prima dei “Duchamp politico”  del 20 dicembre alla Gnam con Marco Senaldi,   lo troviamo nella discussione sulla sua opera ai “I martedì critici” di Alberto Dambruoso  il 1° ottobre nell’Accademia Belle Arti di Roma con Raffaele Perna e Claudia Solaris, prima ancora il 4 maggio al Macro  nel convegno su  “Le forme del conflitto”  promosso dalla  Fondazione  che divide con la Solaris sui rapporti tra arte, politica e linguaggio Ci piace sottolineare questa sua presenza crescente a conclusione del nostro rapido profilo della sua figura, incentrato sulla sua vicenda esistenziale e umana oltre che artistica con riferimenti al  significato e  contenuto delle sue opere, cui si è solo accennato  avendole commentate in modo specifico nelle recensioni alle due mostre del 2010 e del 2015.

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Abbiamo anche dato dei “flash” della mostra del 2018 al Museo Romano con i suoi schizzi provocatori e irridenti affiancati alle  foto di Tano D’Amico sulla violenza nelle piazze e la risposta altrettanto violenta dello Stato  negli anni “bui” del terrorismo. A questo punto, nel cercare di interpretarne la posizione attuale, stimolati dal suo “pamphlet” su “Duchamp politico”, non possiamo che citare di nuovo il giudizio  di Arturo Schwartz  come facemmo nella nostra recensione  alla mostra del 2015 alla Gnam:    “Pablo non ha mai smesso di interrogare se stesso e la società; è sempre partecipe, percorre la sua strada da solitario,  estraneo alle beghe e fuori dalle congreghe. Non teme di mescolare il sacro e il  profano, l’artista  e l’artigiano”.  In questo modo “lancia razzi di segnalazioni in tutte le direzioni per avvisare gli altri naviganti che c’è bisogno di dire sì all’impegno e no all’assuefazione, al conformismo, all’abitudine”. E per seguire “un’idea-guida:  rivoluzione ininterrotta, necessità di dedizione, esigenza di costruire un pluriverso ben diverso dall’uni-verso mondo a senso unico”. 

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E’ un giudizio che ci mostra due facce, quella del combattente contro le degenerazioni del sistema mobilitato nel promuovere l’impegno rivoluzionario nella società, e quella del solitario “fuori dalle congreghe”.   Quale di queste due  facce vedremo  prevalere dopo “Duchamp politico” che sembra segnare  una ripresa della lotta libertaria, con l’avvisaglia così significativa che c’era stata con la  mostra al Museo Romano in Trastevere?  Il suo “pluriverso ben diverso dall’uni-verso mondo a senso unico”  ricorda il programma dei 26 artisti, Ennio Calabria in testa, firmatari nel 2017 del  “Manifesto per l’Arte – Pittura e Scultura”  rilanciato con la manifestazione del 10 dicembre scorso a Roma, come si vede dai  punti che abbiamo riportato al termine del   nostro commento al “pamphlet”. Ricordando nel contempo che Duchamp rifiutava sempre di firmare petizioni, non sappiamo se Echaurren è suo epigono anche in questo. Comunque concludiamo con lo stesso auspicio  di un contatto e un coinvolgimento in un impegno che ci sembra possa convergere in qualche modo. 

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Info

Il primo articolo, relativo al suo “Duchamp politico” , è uscito in questo sito il 6 aprile 2020; cfr. l’ articolo anch’esso collegato, sul “Manifesto per l’arte” “, sempre in questo sito, il 3 aprile 2020. Cfr, inoltre, i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com sulle sue mostre “Contropittura” 20, 27 febbraio 4 marzo 2016, “Crhomo sapiens” 23, 30 novembre, 14 dicembre 2012, su cui ci siamo basati nella ricostruzione del suo itinerario artistico e di vita. Per gli  artisti citati, in questo sito sul Muro di Berlino 3 articoli il 9 novembre 2019; in www.arteculturaoggi.co, su Guttuso “innamorato” 14, 26, 30 luglio 2018, “rivoluzionario” 16 ottobre 2017, “religioso” 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, “antologico” 16, 30 gennaio 201, Hiroshige 14, 19 giugno, 5 luglio 2018, Futuristi 7 marzo 2018 Hokusai 5, 8, 27 dicembre 2017, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, “Il ’68′” 21 ottobre 2017, Pasolini 27 ottobre 2015, 11, 16 novembre 2012, Duchamp, 16 gennaio 2014, Isgrò 16 settembre 2013, Cubisti 16 maggio 2013, Brueghel   5 marzo 2013,   Marinetti 2 marzo 2013, Pop Art 29 novembre 2012, Mirò, 15 ottobre 2012 ; in cultura.inabruzzo.it, Schifano, 15 maggio 2011, Praz  e Pazienza 23 febbraio 2011, Van Gogh 17, 18 febbraio 2011, Dada e surrealisti, 6, 7 febbraio 2010, Picasso 4 febbraio 2009, Futuristi, 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009; in fotografia.guidaconsumatore.com, Pasolini 4 maggio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Museo Romano in Trastevere alla presentazione della  mostra, ad eeccezione delle n. 6, 8, 10, 13 riprese alla mostra di Echaurren, “Contropittura”, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea e tratte dal primo dei 3 articoli su tale mostra sopra citati. Si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, un giovanissimo Echaurren con l’invito attuale a credere “alla creatiità e allo sberleffo”; seguono suoi 13 schizzi irridenti degli anni ’70; poi uno scorcio del volto di Tano d’Amico che evoca la difesa degli ultini, e altrettante sue fotografie di violenza urbana, con la repressione, ma anche alcune di pace e d’amore; in chiusura, una serie di giudizi sul “movimento del ’77” di Echaurren, D’Amico e altri.

Echaurren, 1. Duchamp politico nel “pamphlet” di un artista impegnato

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nella “Sala delle Colonne”  la sera del  20 dicembre 2019 si è svolta una conversazione tre gli autori di due studi su Duchamp –  la cui provocazione artistica si è espressa nel “ready made”  – illustrati e commentati nell’occasione.  Di ben diversa estrazione, Pablo Echuarren artista e “provocatore” a sua volta nell’arte e nell’impegno attivo movimentista,  con il  suo “Duchamp politico”, Marco Senaldi, critico d’arte  e curatore, con il suo “Duchamp. La scienza dell’arte”,   hanno approfondito da diversi punti di vista il significato del “ready made”.

La Presentazione del libro, con  Echaurren al microfono,
alla sua dx  Marco Senaldi;

Per Senaldi  i “ready made” sono soprattutto immagini, “idee motrici” che provocano una reazione, quindi “non si incarnano nella materialità di un oggetto” né si muovono in una sfera “puramente concettuale e smaterializzata”, ma sono “interazioni mediali” con le quali Duchamp  “trasforma la nozione di opera d’arte da oggetto contemplativo immobile a test dinamico e ideo-motorio”. E’ rivoluzionario: “Questo gesto radicale sovverte anche il senso generale dell’Arte, trasformandola da un’attività individualista dedita alla ricerca della bella forma, a un esperimento psicologico intersoggettivo il cui scopo è la liberazione da ogni stereotipo visuale, e anche esistenziale”.  Echaurren pone a sua volta i ”ready made”  al centro di una rivisitazione della vita oltre che dell’arte di Duchamp, da lui sempre seguito,  rivivendo anche il proprio passato di contestazione attiva.  Al suo “pamphlet” è dedicato il nostro commento.

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Marcel Duchamp dietro il ready made “Ruota di bicicletta”

Pablo Echaurren non smette di stupire.  E noi, dopo averne commentato ampiamente a  suo tempo la  versatile attività artistica  nelle due mostre romane a  Palazzo Cipolla nel 2012 e nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 2015, diamo conto ora del  suo “pamphlet”  su “Duchamp politico” avendo  assistito al confronto con  Marco Senaldi,  un artista controcorrente e un critico-filosofo.

Il “pamphlet” si apre con la citazione di Dante, seguito da D’Annunzio e Pascoli, e da artisti come Dalì, Picasso e Giacometti. Sembra prenderla molto da lontano  l’autore in una veste che può sembrare insolita ma non lo è, a stare agli scritti che hanno accompagnato la sua attività artistica impegnata su tanti fronti.

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Orinatoio (“Fontana”), 1917

Dante in realtà viene associato a Duchamp per la copiosità dei commenti su di lui, e al riguardo si cita l’espressione di  Marinetti,  sul  “verminaio di glossatori” che ne tenevano “in ostaggio” l’opera, e sappiamo come il “guru” del Futurismo fosse caro a Pablo che ne è stato uno studioso e collezionista attento e appassionato. D’Annunzio lo cita  come  l’”esatto contrario” di Duchamp nell’interpretare il binomio comune “arte-vita“, e Pascoli  come  ideale corrispondenza del suo “fanciullino” al “duchampiano museo di Lilliput” nel quale il minimalismo di oggetti miniaturizzati serviva a tenere a bada il suo “ego”.  I  tre artisti, Dalì, Picasso e Giacometti,  li cita come “giganti del segno” dai quali  Duchamp si distacca perché sobrio, insensibile  “per la fama e per la ‘frenesia da cavalletto’  che si era impossessata del mondo occidentale”.

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Scolabottiglie

Dalla vita e dall’atteggiamento verso l’arte nasce la dimensione politica

“Lontano dalla retorica dell’artista ispirato  e posseduto dal sacro fuoco”,  Duchamp considerava l’arte come una “scienza  immaginaria  e arbitraria” con cui fare i conti evitando le due tentazioni opposte:  a “strafare” e a “tirar via e a ripetersi”  sotto la spinta del pubblico da compiacere.

Questo si confaceva a una dimensione artigianale dell’attività,  che rifuggiva dalle seduzioni del consumismo,  anzi le contrastava con atteggiamenti spontanei derivati dal carattere semplice e gentile, anche irridente, ma  irriducibile nelle scelte di vita all’insegna della libertà. Che voleva dire libertà dal mercato e dal denaro,  libertà dal mondo dell’arte schiavo degli interessi e della vanità.

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Ruota di bicicletta

Perciò  viene visto   insensibile ai richiami mondani,  arroccato nella difesa delle sua indipendenza e della propria concezione della vita e dell’arte, come realizzazione di cose “ben fatte”  per le quali il lavoro manuale è collegato, anzi compenetrato con il lavoro intellettuale.  La ricompensa non è economica e tanto meno monetaria, bensì morale, insita  nel “fare” e “fare bene” come un bravo artigiano; in quest’ottica l’arte è un mezzo per ben operare, non un fine da raggiungere.

Di qui il riferimento alla concezione monacale medievale rispetto alle suggestioni della modernità,   con il rifiuto delle mostre e dei musei, in modo da spiazzare il mercato che non  riusciva così a costruire una offerta adeguata e quindi non poteva neppure creare una domanda.  E ciò lo otteneva lavorando con una lentezza esasperante, “rivendicava la pretesa di non potere (dovere) lavorare più di due ore  al giorno, ma anche quelle due ore dichiarate sembrano un alibi…”.

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Attaccapanni

Gli piaceva rifugiarsi negli scacchi, il gioco lento per antonomasia, ne divenne campione, fu capitano della squadra olimpica francese di cui faceva parte il campione del mondo Alekhine. Era l’opposto di come si comportava l’artista del suo tempo, “ormai pienamente compromesso con i  processi di ottimizzazione tayloristi, privo di tempi morti, di pause, sottomesso al dio denaro”.  E questo non era senza effetti concreti: “Non si aspetta niente, né soldi, né gloria, né riconoscimenti”, seguendo una linea precisa: “Evitando accuratamente il successo, ha messo in pratica una strategia di non collaborazione, di sottrazione, di contenimento della propria produzione, al minimo indispensabile”.  

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Appendicappelli

 Negli ambienti in cui viveva non c’era traccia delle sue opere. Ma fanno scoprire dell’altro, “quei suoi atelier sembrano delle vere  e proprie Wunderkammer dell’antiestetica, dell’antimateria, della sottrazione, son spazi di sospensione in cui il tempo sembra essersi fermato, appare dilatato, rallentato…”. Ma  non è questione solo di misura del tempo, quanto di concezione: il suo è “un tempo particolare, personale, che si oppone al tempo convenzionale”; viene definito da Echaurren “un tempo antitecnologico, improduttivo, fatto di pause  e tempi morti”, l’opposto del tempo nella concezione corrente tutto proiettato nella rapidità come produzione e come consumo.

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Pettine con astuccio

E qui dalla dimensione personale si comincia  a passare alla dimensione politica, sebbene  Duchamp  non solo avesse  affermato “non capisco niente di politica”  ma l’avesse definita “un’attività stupida, che non conduce a nulla”; e non  partecipava agli eventi politici del suo tempo  con  dichiarazioni e tanto meno proclami.  La dimensione politica  Echaurren la vede “nell’intero arco della sua vita”  di  contrapposizione “ alla declinazione della società borghese” in tutti i suoi aspetti.

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Specchio,

Potrebbe sembrare contraddittorio con il carattere riservato e alieno da manifestazioni prima sottolineato, ma Echaurren ci tiene a precisare che  si è contrapposto “non frontalmente, ma ‘di profilo’”, riconoscendo  che si tratta di presunzioni  e non di fatti. Presunzioni, peraltro, assolute se può dire che “le sue scelte, sia in campo artistico che esistenziale, e la sua indole ci restituiscono il ritratto di un antimilitarista, di un antinazionalista, di un antimaschilista, di un anticapitalista, di un anticonsumista, di un antistacanovista… di un antirazzista”.  Il suo “rigetto della società capitalistica” si esprime in atteggiamenti veri e non presunti: “L’ozio, il silenzio, l’appartarsi dalla scena, il rifugiarsi negli scacchi, sono le varie facce di una rivolta pacifica contro l’accumulazione (di cose, di denaro, di opere d’arte)”.  E così il cerchio si chiude con quanto rilevato dalla sua vita.

Gmitolo

Il “ready made” e le sue contraddizioni

A questo punto Echaurren dalle considerazioni da psicologo attento ad elementi comportamentali,  che sfociano nell’interpretazione “politica” cui abbiamo accennato, passa a considerazioni da economista parlando dell’aspetto più qualificante del “Duchamp politico”: i “ready made”, i semplici oggetti di uso comune che diventano opere d’arte per il solo fatto di essere stati scelti dall’artista.   Entrano in gioco concetti quali il “valore di scambio”  e il “valore d’uso”, e quando il primo prevarica sul secondo che misura l’effettiva utilità del bene “la merce diventa ragione in sé e per sé, diventa il fine di ogni cosa, si fa ‘alienazione’, reificazione di ogni relazione”. 

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Portacubetti di ghiaccio

Il “ready made” esaspera questa degenerazione in quanto l’oggetto viene “deprivato di ogni valore d’uso” diventando una sorta di feticcio e  assumendo  un elevatissimo “valore di scambio”: un paradosso perché  avviene in corrispondenza con la sua inutilità. Per questo è “ oggettivamente, un monumento alla merce allo stato puro, simbolo  e denuncia dello stato di scissione, di lacerazione in cui versa una società basata sull’adorazione del capitale cristallizzato”, una versione moderna, aggiungiamo,  del “vitello d’oro” della maledizione biblica. Dimostra come il mercato tolga concretezza e valore effettivo alle cose privandole di una funzione effettiva nel portarle a un livello di astrazione che si traduce nell’alienazione della società alla quale corrisponde la perdita di umanità.

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Fodero

L’artista invece “deve divertirsi e divertire”, il suo deve essere “un gioco”, e Duchamp lo ha dimostrato praticamente nella vita  e nelle opere: “… quando collocai una ruota di bicicletta su uno sgabello, con la forcella capovolta, non c’era in tutto questo alcuna idea di ready made, né di qualunque altra cosa; era semplicemente un gioco… era divertente come idea”.  Poi divenne  una operazione di smascheramento, e con “l’orinatoio” aggiunse “l’humor e la beffa” esponendolo in una mostra, del resto applicò anche baffi e pizzetto alla  Monna Lisa leonardesca, violandone la sacralità, da vignettista di riviste umoristiche com’era. 

Si avvalse  dell’arte come un mezzo e non come fine  per dimostrare un assunto così penetrante. “Il re è nudo”, dunque, come direbbe il bambino dinanzi alla Fontana-orinatoio o allo Scolabottiglie, oggetti comuni per di più  adorati come capolavori, e almeno il primo tutt’altro che nobile?  Non c’è soltanto questo perché il discorso si fa più articolato, e forse più complesso, sotto due aspetti.

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Pala

Il primo è che l’esposizione di oggetti comuni non serve all’artista per sbeffeggiare chi li esalta,  tutt’altro. Serve a valorizzare il lavoro dell’uomo,  esaltarne la creatività, qualità di ogni lavoratore, non soltanto degli “specialisti” come sono gli artisti. Quindi tutte opere nobili gli oggetti? Se può esserlo un vero orinatoio  nessun oggetto può esserne escluso. E tutti, dunque, possono sentirsi artisti, in una democratizzazione dell’arte non più fatta di  élite. Nel contempo, “se tutti sono artisti nessuno lo sarà, o almeno nessuno potrà vantarsi di esserlo o millantare un’aura particolare e un valore aggiunto al proprio operato”. Con questo risultato: “Dovrà ridimensionare, se non schiacciare, il proprio ego esondante del proprio operato”.

Ampolla (“50 cc. di Aria di Parigi”)

Ma ad Echaurren non sfugge un aspetto apparentemente contraddittorio con questa visione, il fatto cioè che tale nobilitazione è frutto esclusivamente della scelta dell’artista, “un  nuovo Prometeo, un semidio capace, solo indicandolo, a elevare un  semplice ferrovecchio a  ‘opera d’arte’”: quindi altro che democratizzazione, l’esatto opposto!  E cerca di superare la contraddizione con questo argomento: “E’ altrettanto vero che lo stesso artista, così facendo, sembra mostrare la via  attraverso la quale ciascun essere umano (sebbene non particolarmente dotato tecnicamente)  possa emanciparsi e ‘trasformarsi’  a propria volta in artista, annullando così ogni distanza, ogni separazione, ogni divisione del lavoro”.

Questa considerazione non convince,  suggerita com’è dall’ideologia secondo cui in tal modo si muove “un ulteriore passo nella direzione dell’uomo totale vaticinato da Marx e Engels”: direzione utopistica, osserviamo noi, peraltro negata dalla storia, come è stata negata, almeno finora, la “liberazione dal lavoro” vaticinata anch’essa dall’ideologia marxista la cui applicazione pratica è clamorosamente fallita.

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Monna Lisa con baffetti e pizzo

Nella realtà crediamo che il “ready made” abbia dimostrato l’opposto, l’onnipotenza dell’artista  – “un nuovo Prometeo, un semidio”, come dice Echaurren – dato che  nessuno può trasformarsi in artista con  oggetti di uso comune, se  non nella propria convinzione, cosa  ragguardevole ma  racchiusa in un ”foro interno” invisibile e neppure comunicabile. Altrimenti chiamerebbero la “neuro” se venisse equivocata l’affermazione che “il ‘ready made’ è “espressione di un talento alla portata di tutti, è aura allo stato puro  e sua perdita definitiva. Il ready made può essere pratica sociale,  perfino”.

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“Scatola in valigia”

Si  può  sostenere, a questo punto, che “’l’artista è nudo, il suo ruolo sciamanico  viene impietosamente ‘messo  a nudo’ , ridotto a semplice atto generico, ad atto umano”? Crediamo di no, l’artista appare ancora di più come “un nuovo Prometeo, un semidio”. E questo perché il mercato, l’odiato capitalismo, ha sconfitto il generoso tentativo  di Duchamp inglobandolo nella sua logica distorta e rendendo abissale il divario tra “valore di scambio” e “valore d’uso”  di un bene inutile.

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Scacchiera

Altro che “superamento delle divisioni di classe” attraverso il “ready made”, sembra invece la loro celebrazione plateale!  altro che “libero corso  a un’avanguardia di massa”  con l’ondata della moltitudine di artisti e il “rogo della vanità del genio ‘compreso’”!. C’è stata, sì, una banalizzazione dell’arte, e possiamo citare  la”banana con lo scotch” dal “valore di scambio” di 113 mila dollari di Cattelan  come punto di arrivo attuale, ma sempre ad opera del “nuovo Prometeo, semidio” non di “quidam  e populo”; e c’è voluto un altro “semidio” che l’ha staccata dall’esposizione e l’ha potuta mangiare  platealmente, forse novello Duchamp alla ricerca del residuo e non ancora perduto “valore d’uso”. 

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“Ritratto di giocatore di scacchi”, 1911

Duchamp  è stato coerente,  “non ho mai messo in vendita i miei ready made, non li ho mai venduti”,  ci tenne a dichiarare. Si impegnava nell’’“estinzione dell’artista e del suo mito”, afferma Echaurren, ma non si può dire che ci sia riuscito, tutt’altro.  Voleva far  esplodere le contraddizioni del sistema , come “il re è nudo” della favola, invece si è  ribadita l’onnipotenza del mercato che punta sull’artista per affermare il suo dominio, proprio con la banalità degli oggetti più anonimi presentati  come opere d’arte quando non lo sono, ma osannati quali capolavori. E ci sembra valga anche per la “fine del culto del pezzo originale”, con la possibilità di replicarlo con il nuovo acquisto di un oggetto simile, venendo meno il presupposto. 

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“Ritratto di giocatori di scacchi”, 1911

Echaurren si rende conto di tutto questo, quando afferma che l’arte, dopo essersi liberata del potere dei principi e della chiesa, ha trovato un nuovo despota, il mercato. Ma gli artisti sembrano non avvertire “la propria subalternità alla critica e al mercato”, quindi manca una “coscienza di classe”, l’unica che può indurli “a combattere per la propria dignità, per il diritto  a veder rispettato il proprio pensiero  senza doverlo svendere per campare”.  E forse il merito del “ready made” e dei suoi epigoni è stato proprio questo, non liberare ma  documentare la subalternità. “Il re è nudo” ci sembra sia questo, rivela non che l’arte non esiste ma che esiste il mercato e la domina.

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Omaggio ad Apollinaire

L’analisi di Echaurren richiama alcune opere di Duchamp, interpretandone la genesi e il significato. Dal “Grande vetro”  ai “Quadriboli” della Saint Chapelle”, dai “Neuf Mules Malic” a “Glissière ccontennat un moulin à eau-en metaux  voisins”, dal “Nudo che scende le scale” a “Boite en-valise” e ”Etant donnés” , per lo più anteriori, ma alcune successive alla provocazione artistica che le ha fatte dimenticare, o almeno le ha messe nell’ombra. Ci riferiamo ai “ready made” , dall’orinatoio, intitolato pudicamente “Fontana”, alla “Ruota di bicicletta” , dallo “Scolabottiglie” all'”Attaccapanni”, dalla “Pala” al “Pettine con astuccio”, dal “Portablocchetti di ghiaccio” al “Gomitolo“, fino allo sberleffo dissacrante di “Monna Lisa con baffi e pizzetto”. Riportiamo una rapida galleria visiva delle due “vite” artistiche di Duchamp, dopo i “ready made”, “noblesse oblige”, le precedenti figurative e cubiste di un pittore già affermato che cambiò strada radicalmente nella sua lotta generosa contro “mulini a vento” peraltro difficili da contrastare.

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“Il grande vetro”

Echaurren sulla svolta artistica e ideale di Duchamp si riferisce agli “Incohérents”  per l’irriverenza e  ai “Dada” per l’“elemento goliardico”, che però “nelle mani e nelle intenzioni  di Duchamp diventa qualcosa di più, lo schiaffo al buon gusto e alla seriosità dell’arte in generale e dell’avanguardia in particolare”, i baffi e il pizzetto all’opera intoccabile diedero lo schiaffo alla sacralità rinascimentale. Ma anche sotto questo profilo l’analisi di Echaurren supera l’aspetto artistico, il suo interesse primario è politico.

L’ “Echaurren politico”, riprende la battaglia?

Su questa pista la rievocazione  diventa sempre più concitata, nello scoprire il “Duchamp politico” l’autore riscopre l’”Echaurren politico”, in un identificazione della quale fa parte l’abbandono dell’attività artistica per un certo periodo , “dedicandosi ad altro”, da cui sono accomunati.  

“Nudo che scende le scale, n. 2”, 1912

Il fatto che “l’artista si è liberato ma nel  mercato, non si è ancora liberato del mercato” comporta effetti intollerabili perché viene meno qualsiasi riferimento in una situazione insostenibile anche per il suo ruolo sociale ed esistenziale, tutto da ridefinire, e non solo: “Deve prima di tutto lottare per l’indipendenza dell’arte, per la sua emancipazione dalle logiche produttive, per la liberazione dalla brutale riduzione  a valore di scambio cui viene sottoposta”. E indica “i servi e i padroni da abbattere”,  dalle case d’arte  agli speculatori, dalle gallerie e case d’asta alle riviste specializzate: forse il nostro sito giornalistico si salverebbe, essendo dedicato anche alla cultura e non solo all’arte.

“Giovane triste su un treno” , 1912

 “Duchamp è l’arma giusta da usare, da impugnare”  per quanto si è detto sulla sua figura  così diversa e sul suo “essere all’interno del meccanismo di elaborazione poetica ed estetica e al contempo  starne fuori, coerentemente”. Echaurren  ricorda che “nel 1977, noi ci avevamo provato”,  oltre quarant’anni fa, all’epoca in cui era impegnato nella contestazione del sistema in allegria con gli “Indiani metropolitani”. . La parola d’ordine era “U/siamo tutti Duchamp”, l’invito a considerare “L’autre moitié du Mar/ciel: La sua faccia politica ci appariva in tutto il suo splendore enigmatico ed enig/mistico: di qui “Caviale e Duchamp”, “Créativité à tous les etage”. Ma senza effetto, “ovviamente siamo rimasti inascoltati. Non poteva essere diversamente”.

Allora è stata perduta la battaglia per l’indipendenza dell’arte  dalla tirannia del mercato con l’inverecondo  mercimonio  che ha reso l’arte “una droga”, come denunciava Duchamp, per lo spettatore “’un sedativo’, un distrazione per accettare la banalità e la frustrazione dell’esistenza, mentre per l’artista è l’eccitazione che gli produce quell’ambizione a sentirsi un genio”.

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Ritratto di Dumonchel” , 1910

Detto questo ci poniamo una domanda finale. L’analisi di Echuarren è soltanto esplicativa oppure ci sono i germi di una ripresa combattiva?  Possiamo desumerlo dalla conclusione nella quale  sottolinea che il maggiore lascito di Duchamp non è nelle sue opere, pur se sono capolavori. “Nient’affatto, ciò che ci lascia è un capitale immateriale di cui, innegabilmente, fa parte il messaggio a ribellarsi allo ‘stato presente delle cose’ all’interno del sistema dell’arte,  a reagire attivamente contro quella che possiamo tranquillamente  definire ‘Wall Street Art’, un’arte sensibile più alla borsa che alla vita”.  

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“I giocatori di scacchi” 1910

E lo vediamo maggiormente in un’affermazione precedente  secondo cui nel mirino di Duchamp c’è “l’intera organizzazione sociale, l’intera struttura, della quale l’arte risulta essere la sovrastruttura (in termini marxiani, perché no?)”.  E lui è il “ribelle, rivoluzionario”, un uomo “in guerra perenne  contro il mercato pervasivo e persuasivo , che ci indica, con serenità, con indifferenza, la sfida da portare avanti, i nodi che oggi spetta  a noi sciogliere”. Con un’affermazione inequivocabile: “Non basta interpretare la sua ‘poetica’, si può metterla in pratica”. 

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“Paesaggio a Blainville” n.1, 1902

Il “messaggio a ribellarsi” viene messo in pratica da Echaurren?  E’ l’interrogativo al quale ci piacerebbe avere una risposta. Anche perché  c’è chi già si muove contro l’omologazione imposta dal mercato, è l’Associazione culturale “in tempo” con il “Manifesto per l’arte” del 22 ottobre  2017 rilanciato nell’incontro del dicembre scorso con gli artisti-firmatari che hanno esposto una loro opera ed espresso le proprieconvinzioni, Ennio Calabria in testa. Citiamo soltanto tre affermazioni del “Manifesto”: “Difendiamo l’identità della specie contro la robotizzazione dei processi della mente”. “Siamo consapevoli che l’attuale società si fonda sulla categoria della ‘convenienza’ che considera irrilevante l’identità umana”. “Pensiamo che soltanto la soggettività dell’essere    e i suoi impulsi, per proprio bisogno, identifichino la necessità della funzione dell’identità antropomorfa”. “Sum ergo cogito”  l’icastica sintesi di questa impostazione.

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“Paesaggio a Blainville” n. 2, 1902

Che ne pensa Echaurren, è ipotizzabile un’unione delle forze per un’azione comune?  “Non firmavo mai petizioni o cose del genere”, dichiarava Duchamp, aggiungendo: “Vogliono farti firmare petizioni, farti entrare nel gioco, impegnarti, come dicono loro”: rifiutava non per indifferenza ma per marcare la sua “alterità”, fuori da tutti i giochi, “autosufficiente”. Cosa farà Echaurren, suo affezionato epigono? Anche la risposta a questo interrogativo potrebbe essere annoverata tra i risultati del suo magistrale “pamphlet”  su Duchamp, icona del sommo valore della libertà. . Un valore che Echaurren ha  difeso nella vita e nell’arte, in un percorso esistenziale su cui torniamo molto presto con riferimento all’ultima sua mostra romana: una mostra “politica” dopo l’antologica “Chromo Sapienes” del 2012 e la tematica “Contropittura” del 2016.

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“Studio per ‘Paradiso'”

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, Via di Villa Giulia, ingresso gratuito, presentato il libro di Pablo Echaurren, “Duchamp politico”, Postmedia books, aprile 2019, seconda edizione, pp. 64; dal libro sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo, sulla figura di Echaurren, uscirà in questo sito il 9 aprile 2020; cfr., sempre in questo sito, anche l’articolo sul “Manifesto per l’arte” 3 aprile 2020 Per gli autori, gli artisti e le correnti citate cfr. inoltre i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com  su Echaurren per le mostre romane “Contropittura” alla Gnam 20, 27 febbraio, 4 marzo 2016 e “Crhomo sapiens” al  Palazzo Cipolla  23, 30  novembre, 14 dicembre 2012; su Picasso 5, 25 dicembre 2017,  6 gennaio 2018, Duchamp  16 gennaio 2014;  Dalì 28 novembre, 2, 18 dicembre 2012;  D’Annunzio 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013;  in cultura.inabruzzo.it su  Dante 2 articoli 9 luglio 2011, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Picasso, 4 febbraio 2009; Salvador Dalì in 130 fotografie in fotografia.guidaconsumatore.com, 18 giugno 2012 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

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Conclusione dell'”Azione alla lavagna” di Echaurren al Macro: “Llaboté enloru et moi” ,
con la “Trascrizione sintetica di una serie di note provocazioni , intuizioni, pensieri
elaborati  su Marcel Duchamp nell’arco di oltre quarant’anni.”

Foto

L’immagine di apertura è stata ripresa da Romano Maria Levante alla Galleria Nazionale nella serata della presentazione del libro; le due immagini di chiusura sono tratte da tale libro. Le altre immagini che riproducono le  opere di Duchamp sono state riprese, in parte da Romano Maria Levante alla mostra del 2014 alla Gnam, in parte da siti web di dominio pubblico tra i quali: it.s.artsdot.com, skyarte.it, wikioo.org, katart.net, pkaia.it, luxflux.net, facebook.it, pinterest.com, settemuse.it, it.wahooart.com. L’inserimento delle immagini ha finalità meramente illustrativa, senza alcun intento economico, commerciale o pubblicitario, si ringraziano i titolari dei siti per l’opportunità offerta, dichiarando di essere pronti ad eliminare immediatamente le immagini di cui non fosse gradita la pubbliucazione su semplice loro richiesta. In apertura, un momento della Presentazione del libro, con  Echaurren al microfono, alla sua dx  Marco Senaldi; segue Duchamp dietro il “ready made” Ruota di bicicletta ; poi il primo trasgressivo “ready made” Orinatoio (“Fontana”) seguito dai “ready made” di oggetti dagli usi più diversi, “Scolabottiglie” e Ruota di bicicletta, Attaccapanni e Appendicappelli, Pettine con astuccio e Specchio, Gomitolo e Portacubetti di ghiaccio, Fodero , Pala e Ampolla (“50 cc. di Aria di Parigi”), fino alla dissacrante Monna Lisa con baffi e pizzetto; dopo i “ready made”, 4 opere espressive della sua vita, la Scatola in valigia e la Scacchiera” , 2 “”Ritratti di giocatori di scacchi” , 1911, il primo figurativo, il secondo cubista; quindi un Omaggio ad Apollinaire, che verrà tradotto in “ready made” da Mario Patella, e l’opera “Il grande vetro” ; la galleria culmina con 7 immagini del suo periodo iniziale risalendo dal cubismo del celebre “Nudo che scende le scale, n. 2”, e del “Giovane triste in treno” 1912, fino ai figurativi “Ritratto di Dumonchel” e “”Giocatori di scacchi” 1910, 2 “Paesaggi a Blainville” 1902, e “Studio per ‘Paradiso'”; infine, una “performance” precedente di Echaurren al Macro  di Roma il 5 ottobre 2018, Conclusioned dell'”Azione alla lavagna” di Echaurren al Macro, “Llaboté enloru et moi” , con la “Trascrizione sintetica di una serie di note provocazioni , intuizioni, pensieri elaborati  su Marcel Duchamp nell’arco di oltre quarant’anni.” e, in chiusura, la Copertina del pamphelt di Echaurren “Duchamp politico”.  

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Copertina del “pamphlet” di Echaurren, “Duchamp politico”,