Berlino, Il Muro Infranto, a trent’anni dalla sua caduta, alla Sala da Feltre

di Romano Maria Levante

Nel trentennale della caduta del Muro di Berlino la mostra “Il Muro infranto, Berlino, 9 novembre 1909, di Anna Di Benedetto Pace”  espone dall’8 novembre 2019 al 15 gennaio 2020 alla Sala da Feltre – Open Art agli Orti di Trastevere in Roma, una serie di istantanee scattate dalla fotoreporter inviata nel novembre 1989 a Berlino.  La mostra è a cura di Sabrina Consolini. Nel  catalogo  di Gangemi Editore International le immagini sono accompagnate dalla cronaca viva di quei giorni dell’autrice dello storico “reportage”.

“I segni e le ombre”

L’evento e la testimone che lo ha fissato nelle immagini

Ci sono eventi, tragici o festosi, che segnano l’immaginario collettivo a livello planetario, a ognuno  capita di chiedersi, e spesso di ricordare, dov’era  quando ha ricevuto  la notizia dell’attentato a Kenendy o di quello alle Torri Gemelle, così per la caduta del Muro di Berlino. Esattamente trent’anni fa, il 9 novembre 1989, siamo rimasti avvinti  davanti al televisore, come tutti del resto, partecipi della gioia collettiva che bucava lo schermo, con  un popolo che si liberava da una  segregazione trentennale. Un anno dopo siamo andati a Berlino, c’era ancora aria di festa ma il momento magico era passato, del muro restavano poche tracce anche se venivano venduti frammenti con un’improbabile certificato di autentica in fotocopia.

Anna Di Benedetto, invece, si è trovata a Berlino e ha potuto  vivere direttamente i momenti topici di un simile evento. Infatti, da giovane giornalista, in quall’inizio di novembre,  era stata inviata dal settimanale “Il Sabato”, rilanciato alla grande da Paolo Liguori, a Berlino per un servizio su come la città viveva un momento di attesa per quello che si muoveva al di là del muro, dopo i primi segni di allentamento delle ferree misure restrittive evidenti nella svolta impressa da  Gorbaciov. Una giornalista fotoreporter, qualificata e intraprendente, nello stesso 1989 la sua partecipazione  a Torino Fotografia 1989,  tre anni prima a “Vetrina” nel Parterre di Firenze, all’estero alla Biennale dei giovani di Barcellona. Quindi la persona giusta, con l’entusiasmo giovanile e la professionalità giusta, nel posto giusto al momento giusto.

“Giostra di sentimenti”

Nel trentennale dell’evento presenta una selezione tra le 300 fotografie scattate, sono state scelte immagini quasi di quotidianità, con i volti raggianti di gioia della gente dell’est che incontrava quella dell’Ovest altrettanto felice del ricongiungimento tanto atteso. Oltre  a quelle, naturalmente, del  “Muro della vergogna” con i   giovani che lo aggrediscono con piccoli punteruoli, incapaci anche di scalfirlo per “souvenir”, ma in grado di esprimere tutta la rabbia repressa che si sfoga come può.

Da allora la fotografia di ricerca è stata la grande passione della Di  Benedetto,  sui quattro  elementi, acqua, fuoco, terra, aria, sulla luce e il buio, ma anche su  grandi campioni dello sport. Dopo quotidiani e riviste, entra in RAI , con rubriche  e reportage culturali, dalle opere d’arte dimenticate  ai restauri, dal  buio della  distruzione alla luce della  ricostruzione della “Fenice” di Venezia, dalla lirica nei grandi teatri all’architettura delle nostre città; nel Giubileo del 2000 esplora la storia e la cultura del  “cammino medioevale”, sua l’inchiesta premiata  su “I cantieri della Serenissima”e  quella di successo sulla figura di Caterina da Siena, sua la rubrica  “Angeli d’Europa”  nei luoghi di cultura europei con le loro storie.  Non mancano video,  cortometraggi e, naturalmente, interviste ai personaggi del mondo della cultura. Sono alcuni elementi tratti fior da fiore da una vita professionale nella cultura particolarmente intensa.

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“Il cuore oltre l’ostacolo”

Ma questo è stato “dopo”, nel 1989 la vediamo attiva e intraprendente, nella Berlino sospesa dall’incertezza, pronta a cogliere l’occasione che si sarebbe presentata di fissare sulla pellicola un momento epocale. E lo fa in un “reportage” che ci viene proposto come si trattasse di un’opera teatrale in 3 quadri: “Divisioni”,  “La Gabbia”, “Il cambiamento”.

Le immagini esposte ci fanno rivivere le emozioni che, pur da lontano, provammo tutti davanti al televisore. In prevalenza c’è il Muro, nella sua presenza incombente, i “graffiti” colorati dei writers  metropolitani hanno ingentilito l’immagine spettrale che resta nella realtà per i morti che ha provocato; ma anche immagini della gente comune, dell’Est e dell’Ovest. La galleria si apre con “I segni e le ombre”, rivelatrice del clima, poi la sequenza di fotografie nei 3 “quadri” della rappresentazione evocativa.

Il “reportage”, le Divisioni, la Gabbia, Il cambiamento

Le “Divisioni” suscitano la “Giostra dei sentimenti”, ansie e attese davanti a un muro che è un “tazebao”,  si legge “Doors not Walls” – ripensiamo a scritte attuali dello stesso tono – e anche in grandi caratteri “Kant”, chissà se è un richiamo al cielo stellato, che l’ oppressione non può  cancellare, e soprattutto alla legge morale che invece viene calpestata.  Due immagini sull’”Attesa” mostrano la gente che si accalca intorno al muro, le voci che si potrà passare si sono moltiplicate, si cerca una posizione di prima fila per essere tra i primi, i graffiti variopinti sembrano sottolineare la festa che si preannuncia. C’è qualcuno che non può più aspettare, “Il cuore oltre l’ostacolo” lo mostra  aggrappato alla sommità del muro, la scritta “El Salvador” fa pensare alla salvezza, più che alla nazione sudamericana. Ma ancora “Una sentinella della Germania Est vigila sul muro alla Porta di Brandeburgo”, lo vediamo in piedi serio e compassato, restano i pericoli della reazione dei “Vopos”, ma per fortuna sono increduli e in qualche caso fraternizzano, non aggressivi.

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“L’attesa”

Tanto che, mentre “Un ragazzo e una ragazza guardano  in una sorta di buco aperto nel muro, improvvisamente una sentinella si affaccia dall’altra parte”. E’ forse l’immagine più straordinaria dell’intero servizio,  rende perfettamente la  costrizione dell’Est dove anche un buco viene sorvegliato, rispetto all’Ovest, la testa bionda della ragazza contrasta mirabilmente con l’occhiuta presenza oltre il Muro. Ed ecco “Il varco”, il Muro è ripreso da lontano, si vede la gente che si accalca per passare dall’altra parte.

Le 10 immagini che documentano “La Gabbia” mostrano  le due facce della realtà. Una faccia la vediamo nella “Tenacia” dei giovani che scalfiscono impotenti il muro con i loro scalpelli, e nei “Frammenti di memoria”, sempre con i graffiti variopinti,  che si cerca di prendere come “souvenir” quando ormai non vi sono più dubbi sul lieto fine; non solo giovani tedeschi, anche una figura con una giacca a vento rossa e un cappello a bombetta da peruviano; “Al di là del muro” si attende,  è vicino il momento di rivedere i propri cari e amici segregati nell’Est della città.

Dell’altra faccia della realtà, vediamo  il volto e la figura degli agenti, con le loro divise e i loro berretti che non incutono più timore, sono ormai inoffensivi, in “Contrapposizioni. La libertà controllata” e “Confine” la gente discute con loro. Ma non si possono dimenticare i “vopos” assassini: lo testimonia “L’ultima croce per Chris”,  la vediamo  fissata a una rete vicino al muro nel ricordo del ragazzo ucciso nel tentativo di superarlo per raggiungere Berlino Ovest, il 6 febbraio, nove mesi prima della caduta del Muro; ripensiamo al proiettile che in “All’Ovest niente di nuovo”, fulmina il giovane sulla trincea  a guerra ormai finita, proviamo la stessa stretta al cuore che ci suscitò allora  quell’immagine di morte così ingiusta  e beffarda.

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“Una sentinella della Germania Est vigila sul muro della Porta di Brandeburgo”

Nel terzo “quadro” dell’opera teatrale che viene presentata per immagini, “Il cambiamento”, vediamo i due “vopos” presi dal “Dubbio”, hanno il colbacco, vicino ad una rete, il terreno coperto di neve, l’immagine di una “Fuga” sulla neve è enigmatica, come lo sono le “Vestigia contrastanti”, il Muro in primo piano  e le colonne della Porta di Brandemburgo di sfondo sfuocate, ancora i “Cuori ribelli” e la “New generation” , giovani che scalano il muro o lo  scalfiscono con punteruoli,  c’è ancora “Il freddo della storia” nei volti   di alcuni, ma le minestre calde e il vin brulé  dell’“Accoglienza e solidarietà” della gente dell’Ovest riscaldano i  fratelli dell’Est; le immagini sono eloquenti, non c’è più il Muro, la comunità si è subito ricostituita, anche se non mancano le discussioni, si cominciano a confrontare le rispettive esistenze, così diverse.

I “Colori del futuro” e il “Sogno d’Occidente”   offrono immagini  espressive dei miraggi  che si aprono,  la rutilante auto sportiva rossa dov’erano le utilitarie Trabant a due tempi come una motocicletta, rumorose e inquinanti, l’ampolla con all’interno qualcosa cui solo la fantasia può dare un contenuto, i colori e il futuro compongono una miscela inebriante.  Ma si finisce con il Muro, “Uno squarcio verso la zona franca”,  nome ingannevole perché al contrario era  chiamata più propriamente “striscia della morte”, lì i “vopos” facevano le loro vittime. E l’alta fessura “Per guardare oltre”, che fa scoprire  l’antenna televisiva alta 360 metri, con cui l’Est sfidava l’Ovest, ma il sole riflettendosi sulla sfera posta alla sommità creava per un effetto ottico l’immagine di una croce, beneaugurante come segno divino, che le autorità cercarono di eliminare senza riuscirci.

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Un ragazzo e una ragazza guardano  in una sorta di buco aperto nel muro, improvvisamente una sentinella si affaccia dall’altra parte”

Con questa notazione termina il diario per immagini della Di Benedetto Pace, mentre l’ultima visione del Muro,  in primissimo piano,  sebbene sia imponente, quasi ingigantito, non fa più paura, i graffiti sono in parte scorticati dai tentativi di aprire dei varchi o rendere “souvenir”, è “L’arte strappata”. Per poco tempo il Muro diventerà un reperto, poi verrà tolta  ogni traccia, la vista anche  di pochi tratti inizialmente lasciati come “memento”  era fonte di ricordi angosciosi, con la loro scomparsa la liberazione si è compiuta. Comunque, “La città ritrovata” si presenta subito nel suo ritorno alla normalità di prima del Muro.

I ricordi di quei momenti dell’amica  giornalista 

Tutto questo è stato colto dall’autrice del “reportage”, di cui abbiamo citato i titoli, con gli altri motivi  contenuti nelle ulteriori immagini del suo archivio; ci si chiede qual è stato il criterio della scelta, dato che la maggior parte delle immagini sono “normali”, nessun effetto speciale di arte fotografica. Per lo più vediamo la quotidianità di una giornata pur straordinaria, l’evento ricondotto a una dimensione domestica. Ma per scattare tante fotografie nel torpore dell’attesa  prima, nella concitazione dell’evento poi,  c’è voluta molta energia, con la fotoreporter  in punti di osservazione spesso acrobatici, oppure nei passaggi tra Est e Ovest quando ancora le notizie rimbalzavano incerte e mutevoli, fino alla sospirata conferma data per comunicato stampa, .ma poi tradottasi in un’ondata popolare irrefrenabile, come una valanga umana.

Così rievoca quei momenti Maria Gabriella Susanna, giornalista anche lei che ha condiviso quei momenti a Berlino con la Di Benedetto Pace: “Bisognava fotografare tutto e tutti in un solo momento. Cogliere gli stati d’animo, gli abbracci e l’energia dei colpi di scalpello per salvare le scritte, i murales da immortalare  come iconografie di un secolo. Ognuno portava a casa un frammento di quei graffiti con poesie, disegni pop, dichiarazioni d’amore e anche parole oscene contro il potere, che avevano costituito  un dialogo muto tra i tedeschi di Est e Ovest, ma anche una denuncia  fantasiosa sullo ‘Schandmaue’ (Il Muro della Vergogna)” come lo definirono i berlinesi. Morirono così i contrasti: tutto sembrava dissolversi in una notte di grida, di pianti, di entusiasmi sotto la Porta di Brandemburg”.

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“Tenacia”

E sulle immagini afferma: “Sono foto da pellicola studiate scatto dopo scatto, senza l’opportunità delle tecniche correttive di oggi. Un click, e l’istante è quello, immodificabile, con tutto il suo fascino e la sua intensità”, qui risiede la magia della fotografia istantanea. “Svela lo stato dei sentimenti, ma anche le probabili incomprensioni, le differenze somatiche e gli atteggiamenti di un popolo uguale costretto da una separazione fisica e materiale a sentirsi diverso”. E in molte immagini la gente dell’Est si mescola a quella dell’Ovest che la accoglie con i conforti del caso.

I ricordi dell’autrice del “reportage”

Sentiamo, dal racconto della protagonista, i particolari di quel “reportage” straordinario.  Abbiamo detto che scattò 300 fotografie, sembrano troppo poche rispetto alla grandezza dell’evento, almeno con i criteri di oggi. Ma aveva una scorta limitata di rullini Kodachrome per la sua Nikon, e doveva contenersi per non rimanere senza nei momenti topici. Dalla parte dell’Est e dell’Ovest  è “un fiume in piena inarrestabile”, dice la giornalista, che si riversava dopo i primi momenti di incredulità. “Ricordo il forte brusio gioioso della folla e anche il rumore fragoroso delle prime Trabi o Trabant che iniziarono a uscire dal varco suonando il clacson. Mi resi conto di vivere la storia”.  

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“Frammenti di memoria”

Era giunta in treno due giorni prima, con l’amica giornalista Susanna, ospite a Berlino Ovest di due amici che poi, due giorni dopo la caduta del muro, le portarono in giro per la città con l’auto scoperta, in modo che, in piedi sul sedile, lei potesse fotografare  ciò che avveniva lungo il loro percorso;. Ovviamente si muoveva anche a piedi, nessun disagio pur quando si metteva in posizioni acrobatiche, come nessuna fatica nel portare la pesante attrezzatura, l’attenzione era tutta su ciò che avveniva per le strade: “I Berlinesi dell’Ovest, già nelle prime ore della notte del 9 novembre, avevano organizzato spontaneamente punti di ristoro. Provvedevano a donare, nel freddo pungente di quei giorni, zuppe calde e vin brulè”, lo abbiamo visto nelle immagini. “I Berlinesi  dell’Est erano sopraffatti dalla gioia e increduli per quello che stava accadendo. Si spostavano freneticamente nella città ritrovata, come se tutto potesse svanire all’improvviso, da un momento all’altro. Ma nulla svanì”.

Poi l’ attenzione si sposta verso il Muro: “Ricordo che la folla rendeva difficile avvicinarsi al Muro. Ognuno voleva portarsene  via un pezzo, e così martelli, scalpelli, e qualsiasi utensile utile allo scopo, fecero il loro ingresso nelle mani di chiunque. Tutti volevano partecipare alla distruzione di quel simbolo di divisione. . Tutti volevano portarsi via la testimonianza di quel momento storico. I  nostri amici continuavano a ripetere:.’We Were There!’, ‘Noi c’eravamo’”.

Per questo  abbiamo riportato testualmente alcuni ricordi dell’autrice del “reportage”, lei c’era  e ha la fortuna di dire: “L’esperienza di quei giorni  mi rimarrà per sempre nella mente ma soprattutto nel cuore”.

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“Il dubbio”

Una storia epocale, dalla palla di neve del Muro alla valanga liberatoria

E’ stata una pagina di storia, nel grande libro della “guerra fredda”  che ha portato alla contrapposizione dei due blocchi, Unione Sovietica e paesi del Patto di Varsavia all’Est, e l’Occidente  con l’Europa e gli Stati Uniti d’America all’Ovest,  la Germania divisa in due con gli accordi di Yalta,  poi la cortina di ferro calata sull’Europa, come disse Churchill, “da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico” con settemila chilometri di barriere invalicabili. La  città di Berlino anch’essa divisa in zone amministrate dalle potenze vincitrici, in sostanza in due parti assegnate ai due blocchi contrapposti.

Per circa quindici anni la situazione tenne, i passaggi tra le due parti della città per i motivi più diversi erano normali, finché la libertà e il benessere dell’Ovest fecero sì che 2 milioni di persone non rientrarono nella zona Est.  Finché nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 nel confine tra le due zone fu posta una  barriera di 135 chilometri di filo spinato, poi  finestre al confine murate,  edifici abbattuti, separazioni innaturali tra parti contigue.

Il filo spinato circondava l’intera città, poi fu sostituito dal Muro, come le cinte murarie delle carceri,  tale era diventata Berlino Ovest. Per la divisione con Berlino Est  il  muro era di 42 chilometri.  prima  eretto da muratori con mattoni, blocchetti e cemento armato, in seguito rafforzato con grossi prefabbricati alti 4 metri  e pesanti 3 tonnellate ciascuno; dieci anni dopo il raddoppio, doppia barriera con frapposta una “terra di nessuno” che divenne, come abbiamo già ricordato, la “striscia della morte”  per le tante vittime dei berlinesi fulminati dai  “vopos”  che vigilavano dalle 300 torri di controllo e pattugliavano con cani addestrati.  Per i passaggi autorizzati c’erano soltanto 8 posti di controllo, il più noto il “Checkpoint Charlie” che immetteva nel settore americano.

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“Cuori ribelli”

Dalla “prigione” che era diventato Berlino Est,  i tentativi di fuga oltre il Muro erano continui. Le finestre al confine furono murate per impedire che si gettassero dall’alto per entrare nell’altra parte con sprezzo del pericolo; l’anelito della libertà non solo faceva sfidare la morte, ma moltiplicava l’inventiva, dai tunnel sotterranei alle teleferiche fino ai palloni aerostatici, non parliamo delle automobili  con doppio fondo e dei tanti stratagemmi. E non mancavano i temerari che cercavano di superare il Muro calandosi dall’altra parte e divenendo bersaglio dei “vopos”, le vittime furono  130, ma ben  5000 riuscirono a fuggire nei 28 anni di permanenza del Muro.

L’avvento di Gorbaciov al vertice dell’Unione Sovietica segnò la fine del regime accentratore e oppressivo verso gli altri paesi dell’Est, la “perestrojka e la “glasnost”  incoraggiarono  movimenti libertari in Cecoslovacchia e Ungheria, non più soffocati come era stato all’epoca dei “fatti d’Ungheria” e della “primavera di Praga”; la gente  non solo protestava pubblicamente rivendicando libertà e democrazia, ma fuggiva attraversando frontiere dove non poteva esserci nessun muro, finché caddero anche i fili spinati. Dall’Ungheria e Cecoslovacchia si cominciava  a passare in Austria e nella Repubblica Federale Tedesca.

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New Generation”

In questa situazione che evolveva rapidamente verso una sempre maggiore liberta di movimento senza più opposizioni armate la Germania Est, nonostante l’oppressivo apparato poliziesco  della STASI, incontrava difficoltà crescenti nel cercare di resistere alle pressioni popolari che si esprimevano con una serie di manifestazioni di protesta, dato che non c’era più la mano armata del regime sovietico a sostenerla.

Un mese prima della caduta del Muro ci fu a Dresda una manifestazione popolare con 20.000 partecipanti, e anche a Lipsia con un numero maggiore, si parlò di 100.000, nonostante il regime avesse ammonito che non l’avrebbe tollerata. Ma, come ha ripetuto un testimone, se fossero stati pochi li avrebbero fermati, erano troppi anche per i 5.000 agenti armati.

Il dittatore Eric Honecker – di cui  è esposta in mostra l’immagine del celebre bacio in bocca a Breznev  – si dimise il 18 ottobre 1989  dopo 18 anni di potere ininterrotto. Tre settimane dopo, nella giornata del 9 novembre in una riunione del nuovo vertice fu stabilita  una maggiore apertura verso l’Occidente. Riguardava una liberalizzazione dei permessi tra Berlino Est e Berlino Ovest,  da motivare e richiedere con il passaporto, documento peraltro dato con il contagocce, sarebbero stati larghi nelle concessioni.

Qui scatta la ricostruzione di come fu possibile  che nella stessa giornata in cui si prendevano decisioni all’insegna di una certa gradualità la situazione precipitò, prendendo di sorpresa le autorità. Tre sono i personaggi-protagonisti nei quali è  racchiusa la storia di quella giornata memorabile, oltre alla gente.

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“L’arte strappata”

Il primo protagonista è il portavoce del governo dell’Est, che in una conferenza stampa comunicò le decisioni della riunione alla quale non aveva partecipato, quindi non aveva notizie dirette; si tenne nel vago pur prospettando la liberalizzazione degli accessi. Il secondo protagonista è un giornalista italiano, corrispondente dell’Ansa, che chiese precisazioni su tempi e modi, il portavoce – dopo aver posposto la risposta a quella data a compiacenti giornalisti tedesco- orientali – non potè sottrarsi e si lasciò sfuggire che avevano effetto immediato senza limitazioni; per il giornalista dell’Ansa fu tutt’uno correre a telefonare alla sua Agenzia che il Muro era caduto, ma i berlinesi  non dovettero attendere i giornali dell’indomani perché la conferenza stampa era trasmessa per televisione, così da entrambe le parti del Muro una folla oceanica accorreva senza alcun freno. Il terzo protagonista è il capo delle guardie del confine tra l’Est  e l’Ovest, all’accorrere della massa umana non si sentì di ordinare ai suoi uomini di fermarla con le armi, capì e sentì che non poteva farlo, sarebbe stata una carneficina.  Mentre il giornalista italiano ebbe una medaglia e fu elogiato da Kohl, per i due tedeschi la soddisfazione di aver scritto una pagina di storia: il portavoce per aver anticipato ciò che sarebbe stato solo graduale, il comunicato ufficiale previsto per l’alba  del 10 novembre avrebbe indicato le modalità di una apertura progressiva e controllata, non di liberalizzazione totale e immediata; il responsabile delle guardie di confine che disse “ho vissuto la miglior e peggiore notte della mia vita” per avere evitato  il  bagno di sangue che non avrebbe fermato ciò che era inarrestabile.

Lungo il Muro non ci furono momenti drammatici,  il clima di festa coinvolse anche le guardie, tutto avvenne in un modo impensabile in tali circostanze, perchè quando i mutamenti epocali precipitano ciò comporta disordini e violenze, rivolte e repressioni, nulla di questo avvenne.

I grandi della terra,  i presidenti, l’americano Bush e  il sovietico Gorbaciov si tennero in stretto contatto tra loro e con il capo del governo della Germania Ovest Kohl per controllare la situazione. Anche se centinaia di migliaia di persone  erano passate da una parte all’altra della città, la maggior parte di loro  erano rientrate nella propria  zona: la “breccia” non era temporanea ma definitiva, quindi non serviva fuggire. 

Un‘ultima immagine del Muro

Kohl  lo comunicò in un telefonata a Gorbaciov in quei giorni drammatici, per rassicurarlo che non era in corso un esodo sconvolgente, concludendo così: “Non molto tempo fa le ho detto che non vogliamo una destabilizzazione della situazione nella DDR. Sono sempre di quell’idea”. E Gorbaciov: “I cambiamenti si verificano addirittura più in fretta di quanto potessimo immaginare solo poco tempo fa… Tuttavia, per mantenere la stabilità, è importante per tutti agire responsabilmente. Tutto sommato, io credo che stiamo migliorando i fondamenti di una comprensione reciproca. Ci stiamo avvicinando gli uni agli altri. E’un fatto molto importante… Io penso, signor Cancelliere, che stiamo vivendo una svolta storica verso nuove relazioni, verso un mondo nuovo”.

E possiamo così celebrare questo trentennale, un lungo intervallo di tempo nel quale gli avvenimenti epocali si sono moltiplicati. La fine dell’Unione Sovietica con la libertà riconquistata dai paesi dell’Est che ne facevano parte, al punto che alcuni tra i più importanti come  Polonia e Ungheria sono entrati  nell’Unione Europea; la riunificazione della Germania con il ritorno della capitale a Berlino, dopo aver avuto due capitali, Bonn per la parte Ovest e Pankov per la parte Est; nella riunificazione fu riconosciuta la parità tra due monete molto lontane tra loro.

Sono soltanto dei flash di eventi straordinari di dimensione continentale e mondiale. Ma tutto nasce da quella serata del 9 ottobre 1989, la palla di neve trasformatasi in valanga liberatrice e benefica.

Come non ringraziare Anna Di Benedetto Pace per averci fatto rivivere quei momenti?  Perché lei “c’era”,  “She  Was There”  direbbero  i suoi amici che l’hanno ospitata allora;  per quanto ci riguarda, anche se eravamo a casa incollati al televisore, attraverso le sue immagini e le sue parole  ci sentiamo di dire con la mente ed il cuore: “We Were There”, anche noi c’eravamo.  

Il bacio”, tra Breznev e Honecker

Info

Sala da Feltre-Open ART, via Benedetto Musolino, 7 (Orti di Trastevere). Dal lunedì al giovedì ore 9-13, 14-17, venerdì chiusura ore 16, ingresso gratuito; festivi e prefestivi per appuntamento, tel. 06.585205274. Catalogo: Anna Di Benedetto Pace, “Il Muro infranto. Berlino 9 novembre 1989”, Gangemi Editore International, ottobre 2019, pp. 48, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo relative alla mostra, quelle sui colloqui telefonici Kohl-Gorbaciov sono tratte dal catalogo della mostra del 2009 Davide Monteleone, “La linea inesistente. Viaggio lungo la ex Cortina di ferro”, Italianieuropei-Contrasto, novembre 2009, pp. 152, formato 22 x 30,5. Oltre al presente articolo sulla mostra in atto, abbiamo ripubblicato, sempre in data di oggi, tre nostri articoli usciti su due mostre tenutesi a Roma nel novembre 2009: per la prima mostra, di cui al catalogo appena citato, “Cortina di ferro, il viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni ” e “Berlino, il culmine del viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni” ; per la seconda mostra, “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale al Palazzo Incontro“. I tre articoli furono pubblicati in cultura.inabruzzo,it (ora non più raggiungibile), il 12 e 14 gennaio 2010 per la prima mostra, il 9 novembre 2009 per la seconda. In tal modo, nel giorno del trentennale della caduta del Muro, celebriamo l’evento con la recensione sulla mostra attuale, e anche con le nostre recensioni sulle due mostre del 2009 celebrative del ventennale.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Sala Feltre – Open Art all’inaugurazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare l’autrice delle fotografie, per l’opportunità offerta. Sono inserite nell’ordine della citazione nel testo, con le didascalie date dall’autrice. In apertura, “I segni e le ombre”; seguono, “Giostra di sentimenti”, e “Il cuore oltre l’ostacolo”; poi, “L’attesa” e “Una sentinella della Germania Est vigila sul muro della Porta di Brandeburgo”; quindi, “Un ragazzo e una ragazza guardano  in una sorta di buco aperto nel muro, improvvisamente una sentinella si affaccia dall’altra parte”, e “Tenacia”; inoltre, “Frammenti di memoria” , e “Il dubbio”; ancora, “Cuori ribelli” e “New Generation”; continua, “L’arte strappata” ‘e Un’ultima immagine del Muro; infine, “Il “acio” , tra Breznev e Honecker e, in chiusura, Alcune fotografie con la gente che accoglie i fratelli dell’Est e discute.

Alcune fotografie con la gente che accoglie i fratelli dell’Est e discute

Berlino, il culmine del viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Per celebrare nel nostro sito il trentennale della caduta del Muro di Berlino, oltre all’articolo “Berlino, il Muro infranto, a trent’anni dalla sua caduta, nella Sala da Feltre” del 9 novembre, ripubblichiamo, sempre oggi in questo  sito, il presente  articolo uscito nel ventennale, il 14 gennaio 2010 , e il precedente, “Cortina di ferro, il viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni” del 12 gennaio, nonché l’altro nostro articolo del 9 novembre 2009, “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro”. Questi 3 articoli furono pubblicati in “cultura.inabruzzo.it” (non più raggiungibile). Le immagini su Berlino inserite non riguardano la mostra, ma la caduta del Muro,, tratte da siti web attuali, ce ne scusiamo con Davide Monteleone per aver ceduto, in questa ripubblicazione, all’odierna enfasi celebrativa.

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cultura.inabruzzo.it – 14 gennaio 2010 – Postato in: Eventi

Si conclude la visita alla mostra “La linea inesistente”, con 70 fotografie di Davide Monteleone lungo l’ex Cortina di ferro, Il viaggio del giovane reporter raggiunge il suo culmine a Berlino, nel ventennale della caduta del Muro, alla riscoperta delle atmosfere di un’epoca e di un evento cruciale per la vita e la coscienza d’Europa nella mostra di Roma aperta fino al 24 gennaio al Palazzo Incontro, promossa da “Italianieuropei” con “Contrasto”.

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Il viaggio nella memoria

Il reportage dalla “linea inesistente” diventa un viaggio nella memoria che il giovane Monteleone vuole recuperare quando dice: “Ricostruisco nella mia mente una storia che non ho vissuto, a cui non ho partecipato. Avrei voluto accarezzare il muro dal lato di Kreuzberg, superandolo sottoterra con il metrò, vedere i lugubri bagliori delle stazioni, avvicinarmi curioso a una porta di Brandeburgo deserta. Avrei voluto arrampicarmi su quel muro, spingere insieme alla folla, essere testimone di quel momento storico”. Con questo nel cuore lo accolgono le ali aperte del grande angelo liberatore.

Forse vorrebbe esserne stato protagonista e non solo testimone, se si rammarica di non aver “partecipato”, di non aver potuto “spingere insieme alla folla”; è chiara la volontà di “arrampicarsi” sul Muro magari quando era ancora sorvegliato dai “vopos”, e ricordiamo l’immagine dei ragazzini ripresi dal fotografo rischiosamente affacciati nel pieno della sua efficienza alla mostra di Palazzo Incontro, sempre a Roma; nei “lugubri bagliori delle stazioni” si sente tutto il regime di polizia.

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Così il diario di viaggio diviene un diario dell’anima, dopo aver attraversato “campagne piatte, cieli grigi, enormi spazi vuoti, il terreno ideale per due mondi che un tempo si fronteggiavano”. A Berlino, il centro dell’Europa, si sono sfidati e confrontati, c’è stato un vincitore e uno sconfitto. Ma il giovane reporter non può sentire tutto questo lungo la “linea inesistente” e giunto dove se ne sente ancora l’esistenza, è il dicembre 2008, si accontenta per il momento delle immagini del Checkpoint Charlie, l’ingresso di un tempo verso la libertà. Per il viaggio nell’inferno di ieri ci tornerà un anno dopo, a un mese dal ventesimo anniversario della caduta del Muro, il giorno dei 60 anni dalla proclamazione della Repubblica democratica tedesca nel settore sovietico della città.

Le immagini si fanno intense, ha frapposto spazio e tempo ai “chilometri di terra piatta e vuota”, prima di entrare nelle viscere di “Berlino, il centro dell’Europa. Straziata dalla Seconda guerra mondiale, divisa dagli accordi di Yalta, di Potsdam, separata dal Muro. Isola nel cuore della vecchia Germania Est, divisione nella divisione”. Aggiungiamo un ricordo personale, della nostra visita a Berlino l’anno dopo la caduta del Muro ci è rimasta negli occhi l’immagine del campanile crivellato di colpi lasciato per “memento” a fianco di quello modernissimo, e della collina che domina la città formata dalle immense macerie di una metropoli totalmente distrutta. Poi la monumentalità austera e inquietante della zona Est della città.

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La galleria di immagini di Berlino

Siamo al 5 ottobre 2009, la galleria di immagini inizia con un volto sofferente, seguono due poliziotti sulla porta di Brandeburgo, animali in una fosca oscurità, quindi l’arteria larga novanta metri per le parate militari, una Via dell’Impero socialista. Subito dopo dei fiori, una ragazza a un tavolino d’angolo nella penombra di un caffé, il volto intenso in primissimo piano, l’immagine di un enorme edificio che schiaccia la piccola figura nel grande cortile immerso nell’oscurità. Poi un’immagine ancora più oscura, “quel troncone di Muro rimasto in piedi a ricordare la limitazione della libertà su Bernauer Strasse mi appare minaccioso, materico, silenzioso e inavvicinabile”.

Lo era allora perché chi si avvicinava per superarlo poteva perdere la vita. Ce lo ricorda Monteleone, non è più il reporter, è un giovane ansioso di ricostruire la storia che non ha vissuto: 136 morti accertati nel tentativo di oltrepassarlo, impresa disperata con oltre 300 torrette di osservazione dove i Vopos armati vigilavano senza pietà; più di cento chilometri il muro eretto tra il 1961 e il 1975.

Dal Muro al camposanto il passo era breve se non si stava attenti, lo è anche oggi per motivi logistici, al termine di Bernauer Strasse c’è il cimitero di Invalidenfriedhof sul canale Spandauer in mezzo al quale passava la linea di confine tra i settori alleati e quello sovietico: la linea oggi inesistente, ma ieri tragicamente presente, una barriera invalicabile tagliava il corpo vivo della città.

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Sono già passati quattro giorni dall’arrivo a Berlino, l’ansia di ricostruire le vicende di allora porta all’aeroporto in disuso di Temphelof, non è possibile visitarlo; si ripiega sul Museo della Tecnica dove c’è un esemplare dei velivoli, dalla sagoma panciuta, utilizzati per il ponte aereo su Berlino dopo che il 24 giugno 1948 i sovietici avevano chiuso gli accessi ai settori occidentali della città interrompendo i collegamenti stradali e ferroviari che passavano nel territorio sotto il loro controllo. Furono interrotti anche i collegamenti elettrici, Berlino Ovest rimase senza viveri, medicinali ed energia. Si sfiorò una nuova guerra mondiale ma la risposta fu pacifica, per oltre 460 giorni, fino al 30 settembre 1949, 1400 voli ogni 24 ore trasportarono giornalmente 13 mila tonnellate di viveri e medicinali, carbone e macchinari: in totale 280 mila voli, 2 milioni 300 mila tonnellate, metà delle quali fatte di carbone per il riscaldamento e la produzione di elettricità. Un esempio di come si può evitare la guerra se si mobilitano tutte le risorse in una battaglia sul piano civile e non militare.

L’immagine che troviamo a questo punto è nera, angosciosa, inquietante, richiama quelle del “Terzo uomo”, là era Vienna, qui Berlino, ma l’atmosfera ci sembra la stessa. Ed è evidente, stiamo per entrare nel cupo mondo della Stasi, l’onnipotente polizia segreta, il Ministero per la sicurezza di Stato. Oltre 90 mila dipendenti, 20 mila informatori, uno ogni 63 abitanti, mentre il famigerato Kgb staliniano ne aveva uno ogni 6000, quasi cento volte meno della Germania Est; Erik Mielke, che ne è stato al vertice dal 1955 alla dissoluzione, diceva che “ognuno è un potenziale rischio per lo Stato” e per questa ossessione paranoica aveva messo su un sistema altrettanto paranoico.

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Monteleone ripercorre attonito questo itinerario allucinante nel suo diario e nelle sue immagini. Che iniziano con un innocuo corridoio dal tappeto rosso dove si aprono insospettabili porte, ci sono anche dei quadri alle pareti. Ma ecco le “interna corporis” rese da scatti semplici ed essenziali: le stanze per gli interrogatori e le celle, le seggiole con la lampada da puntare negli occhi e i tavolinetti, fino ai telefoni per le intercettazioni.

Il diario dell’anima di Monteleone

Leggiamo le parole del diario dell’anima di Monteleone: “I corridoi degli interrogatori sono impressionanti. Ci sono più stanze per interrogare che stanze per detenere. Le sedie, quelle degli interrogatori, non hanno bracciali, sono scomode, isolate, lontane dalla scrivania, quelle dell’’inquisitore’, invece, comode, ampie, basse. Telecamere, sistemi di spionaggio, pedinamenti, controlli assoluti”.

Il giovane con il suo viaggio ha varcato la porta dell’inferno, ascoltiamolo ancora: “Lo sforzo incredibile messo nel controllo della popolazione, della limitazione della libertà individuale, dell’umiliazione personale, della tortura e dei ricatti mi ha sconvolto. I rapporti dei pedinamenti sono tanto assurdi quanto ripugnanti, incredibili”. Ne dà le cifre, quasi incredulo: 112 chilometri i “file” degli archivi messi in fila, 18 milioni le pagine di rapporti, oltre a fotografie, video e registrazioni: furono “salvati” dalla popolazione che occupò la sede il 4 dicembre 1989 temendo che le autorità ancora al potere volessero distruggerli per cancellare le prove di tale barbarie. Sono stati resi pubblici e visibili agli interessati due anni dopo la caduta del Muro, il 29 dicembre 1991.

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Sembra di rivedere “Le vite degli altri”, il film cult che di recente ci ha fatto penetrare in quel mondo d’incubo, ma qui si tratta di toccare con mano la realtà, e il giovane resta fortemente impressionato dalla “spersonalizzazione delle persone” che veniva operata. Le sue fotografie ora non indugiano più sugli strumenti di questa oppressione poliziesca, ce ne fanno sentire l’atmosfera, il peso, l’incubo con degli squarci: il grande palazzo con alcune finestre illuminate, quasi che vi si perpetrassero ancora gli interrogatori, due esterni con alberi, uno con una sbarra di delimitazione, l’altro con molta gente in attesa. Tutti al buio, come al buio sono gli scatti alle persone. Su fondo scuro incombe il viso indagatore con la spessa montatura degli occhiali, il grande inquisitore.

Dopo un’immagine degna di “se questo è un uomo” di Primo Levi, e un’altra enigmatica di un giovane quasi in posa segnaletica, la galleria di interni tutti oscuri: la graziosa giovinetta dagli occhi smarriti e dallo sguardo accorato seduta con la testa appoggiata alla mano destra, i due primi piani all’interno di un’auto fino alla tenerezza della coppia, dove lei si stringe al giovane con trasporto. Tra queste un’altra immagine fosca, c’è quasi somiglianza con Orson Welles del “Terzo uomo”.

Ed ecco il diario di Monteleone raggiungere toni di forte intensità, quasi un “diapason” emotivo che dà alle sue parole il valore di una testimonianza diretta, dove non c’è più nulla di professionale o di costruito, è lo sfogo di un’umanità ferita: “Cammino per la strada e ripenso al numero impressionante degli agenti, degli informatori e dei perseguitati. Se fossi alla metà degli anni Ottanta, la probabilità che il mio sguardo incroci quello di una persona appartenente a una di queste tre categorie, escludendo i bambini, è praticamente assoluta”. Non è solo un’impressione momentanea: “L’ossessione che ho provato nei corridoi di Hohenschonhausen mi fa osservare i passanti, il loro abbigliamento, i tratti somatici, i movimenti. Sono tutti per qualche minuto inconsapevoli protagonisti della mia storia senza tempo che attribuisce all’uno o all’altro il ruolo della spia, del burocrate, del traditore della patria, del perseguitato”.

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Siamo al nono giorno a Berlino, il viaggio non può concludersi nell’inferno della Stasi, Monteleone torna al luogo simbolo della città: “Dal giorno dell’erezione del Muro la quadriglia sulla porta di Brandeburgo guarda a Est. A vent’anni dalla sua caduta continua guardare nella stessa direzione”. L’immagine panoramica di un teatro vuoto con le poltrone allineate in platea e il sipario rosso chiuso illustra le parole finali: “Uno spettacolo si è concluso per lasciarne cominciare un altro”. E si è concluso bene, nel momento della verità ci furono comportamenti responsabili da parte di tutti. Sono eloquenti i documenti del National Security Archive di Washington, che la mostra ha avuto l’ulteriore merito di rendere pubblici, e di riportare a futura memoria nel Catalogo.

I documenti rivelatori dell’Archivio segreto: prima della caduta del Muro

Si tratta del diario di Anatolij Cernaev sulla visita di Gorbaciov di cui era autorevole consigliere, nella Repubblica democratica tedesca il 5 ottobre 1989 per il quarantennale del regime: “In realtà non ha piacere di andarci. Mi ha chiamato due volte, mi ha detto di aver ripulito alla lettera il suo discorso, ben sapendo che lo esamineranno al microscopio… non c’è nemmeno una parola di sostegno di Honecker… ma sosterrà la repubblica e la rivoluzione”. Il popolo lo attendeva come un liberatore, dopo le aperture verso un inizio di democrazia della “perestroika” e della “gladnost”.

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Il consigliere segnala che erano scesi in piazza più di 20.000 manifestanti  a Dresda, di più a Lipsia, un treno di profughi in transito era stato quasi preso d’assalto; avverte che in Ungheria e in Polonia il regime è al collasso: “In poche parole, è in corso un completo disfacimento del socialismo come fattore dello sviluppo mondiale. Forse è inevitabile e anche un bene. Perché è un fatto di umanità che si unisce sulla base del buon senso”. Prosegue riferendosi a Gorbaciov: “E tutto è stato avviato da un tipo normale di Stavropol. Forse ha ragione la Thatcher, quando lo ammira perché pensa che ‘in fondo al cuore’ egli abbia previsto l’auto-liquidazione di una società estranea alla natura umana e all’ordine naturale delle cose”. Fino alla considerazione storica: “E’ un’altra faccenda… se alla Russia siano stati necessari il 1917… e una volta di più (!) i nostri grandi sacrifici perché l’umanità potesse giungere a questa conclusione”

Dalla registrazione del colloquio tra Gorbaciov e alcuni membri dell’ufficio politico del Comitato centrale del Partito socialista unificato tedesco il 7 ottobre 1989 si ha conferma di questo atteggiamento. Dice Gorbaciov: “Il popolo rivendica una nuova atmosfera sociale, più ossigeno nella società, soprattutto perché parliamo di un regime socialista… Per usare una metafora, il popolo non vuole solo pane, ma desidera anche potersi divertire. Se considerate questo fatto in senso generale, stiamo parlando della necessità di creare non solo un’atmosfera materiale, ma anche socio-spirituale per lo sviluppo della società”. Quante parole per evitarne di pronunciarne una che si chiama libertà! Ma il senso è lo stesso, e non lascia speranze agli interlocutori tedeschi sui propri intendimenti: “Dalla nostra esperienza, da quella della Polonia e dell’Ungheria, abbiamo visto che se il partito fa finta che non stia accadendo nulla, se non reagisce alle richieste della realtà, è condannato. Siamo preoccupati per la sorte delle forze sane in Ungheria e in Polonia, ma non è facile aiutarle. Hanno rinunciato alle proprie posizioni. E l’hanno fatto perché non sono riuscite a dare risposte tempestive alle domande della realtà, così gli eventi hanno preso una piega dolorosa”. Lasciate ogni speranza, sembra dire, di un bis dei fatti d’Ungheria e della primavera di Praga quando l’intervento militare di Mosca schiacciò i movimenti popolari che anelavano alla libertà.

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Le ansiose consultazioni nei due giorni dopo la caduta del Muro

Scrive Cernaev, il consigliere di Gorbaciov, nel Diario il 10 novembre 1989: “Il Muro di Berlino è crollato. Tutta questa fase della storia del sistema socialista è finita. Dopo il partito polacco e quello ungherese oggi è toccato a Honecker. Oggi abbiamo sentito messaggi sul ‘pensionamento’ di Deng Xiaoping e di Todor Zhivkov. Solo i nostri ‘ottimi amici’ Castro, Ceausescu e Kim Il Sung sono ancora in giro, tutta gente che ci detesta cordialmente. Ma il fatto principale è la DDR, il Muro di Berlino. Perché non riguarda solo il ‘socialismo’, ma lo squilibrio delle forze nel mondo. E’ la fine di Yalta… dell’eredità stalinista e la ‘sconfitta della Germania hitleriana’. Ecco che cosa ha fatto Gorbaciov. E si è rivelato in realtà un grande leader. Ha sentito da che parte andava la storia e ha contribuito a farle trovare una strada naturale”.

I timori del bagno di sangue che aveva funestato i grandi rivolgimenti storici serpeggiavano nelle capitali occidentali, come traspare dalle parole con cui il cancelliere tedesco occidentale Helmut Kohl tranquillizza il presidente americano George Bush telefonandogli il 10 novembre 1989, il giorno dopo la caduta del Muro: “Sono appena rientrato da Berlino. E’ come assistere a un’enorme fiera. C’è un’atmosfera festosa. Le frontiere sono completamente aperte. In certi punti stanno letteralmente tirando giù il Muro e aprendo nuovi varchi. Al Checkpoint Charlie passano migliaia di persone in un senso e nell’altro. Ci sono tanti giovani che vengono a fare una visita e si gustano il nostro modo aperto di vivere. Secondo me stasera torneranno a casa. Pur con una certa cautela, io le direi che, a quanto pare, l’apertura non ha provocato uno spettacolare aumento dell’afflusso di rifugiati”; cioè quell’esodo, sia ricordato per inciso, che preoccupava il governo cecoslovacco come risulta dal documento inviato alle proprie ambasciate nel quale, il 19 ottobre 1989, venti giorni prima dell’evento, si segnalava un esodo in corso, soprattutto di giovani e di personale qualificato, dopo l’eliminazione delle recinzioni di confine tra Ungheria e Austria, ritenuto un gravissimo pericolo per l’intera economia della Germania Orientale.

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Kohl così continua parlando della manifestazione organizzata dai suoi “amici politici” con 120-200.000 partecipanti:”Lo spirito nel complesso era improntato all’ottimismo e all’amicizia. Quando ho ringraziato gli americani per il ruolo che hanno avuto, ci sono stati molti applausi. Senza gli Stati Uniti, questa giornata non sarebbe stata possibile. Lo dica alla sua gente. Le persone della  che hanno partecipato alle proteste e alle manifestazioni erano sincere, non aggressive. Questo ha impressionato molto. Non ci sono stati conflitti, anche se a Berlino Est, a Lipsia e a Dresda sono scesi in piazza in centinaia di migliaia. Spero che continuino a rimanere calmi e pacifici. Ecco in sintesi quello che le posso riferire”.

L’indomani, 11 novembre, Kohl chiamerà Gorbaciov, cercherà di tranquillizzare anche lui e ne risulterà tranquillizzato lui stesso. Dopo avergli detto che le “centinaia di migliaia di persone” che avevano attraversato il confine della Repubblica democratica tedesca lo avevano fatto solo per visitare la Repubblica federale senza alcuna intenzione di restarvi stabilmente precisa: “Vogliamo che nella  la gente resti a casa propria e non cerchiamo certo di far spostare tutta la popolazione della  nella Germania federale… Il numero di coloro che desiderano stabilirsi stabilmente nella Germania Ovest è molto più limitato rispetto a quello che potrebbe preoccuparci”. E non si riferisce alla capacità di accoglienza, ha già detto che “quest’anno si sono trasferite dalla DDR alla BRD 230.000 persone e tutte sono state accolte e sistemate”. Non è plurale maiestatis, si riferisce alla preoccupazione comune con Gorbaciov: “Non molto tempo fa le ho detto che non vogliamo una destabilizzazione della situazione nella Ddr. Sono sempre di quell’idea”.

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La risposta di Gorbaciov è un esempio di saggezza da vero statista illuminato, disinnesca una situazione incandescente; “I cambiamenti si verificano più in fretta di quanto potessimo immaginare solo poco tempo fa. Certo, i cambiamenti possono prendere forme diverse in paesi diversi ed essere più profondi. Tuttavia, per mantenere la stabilità, è importante per tutti agire responsabilmente. Tutto sommato, io credo che stiano migliorando i fondamenti di una comprensione reciproca. Ci stiamo avvicinando gli uni agli altri. E’ un fatto molto importante… Io penso, signor Cancelliere, che stiamo vivendo una svolta storica verso nuove relazioni, verso un mondo nuovo”. Ma ecco i rischi e gli avvertimenti: “E non dobbiamo permetterci di danneggiare questa svolta con azioni maldestre o, peggio ancora, di spingere le cose in una direzione imprevedibile, verso il caos, forzando gli eventi. Non sarebbe auspicabile, da nessun punto di vista”, neppure occidentale, lascia capire. E qui la parte politicamente impegnativa, il vero sigillo del non intervento, anzi della pacificazione: “Per questa ragione prendo molto seriamente le parole che ci siamo dette oggi in questa conversazione, e spero che lei usi la sua autorità, il suo peso politico e la sua influenza perché anche altri si tengano nei limiti adatti al momento attuale e alle esigenze dei nostri tempi”.

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Gli “altri” evidentemente sono gli Stati Uniti, che in passato lo avevano sollecitato direttamente: “Mister Gorbaciov, apra questa porta, mister Gorbaciov, abbatta questo Muro!” l’appello lanciato da Ronald Reagan a Berlino due anni e mezzo prima, nel giugno 1987. In una continua e stretta vicinanza ai berlinesi, dal ponte aereo del 1948 al famoso discorso alla folla oceanica accorsa alla porta di Brandeburgo per accogliere trionfalmente John Fitzerald Kennedy, con parole entrate nella storia:“Tutti gli uomini liberi, ovunque si trovino, sono cittadini di Berlino. Come uomo libero, quindi, mi sento di dire: Ich bin ein Berliner”.

Ricordare queste parole è la migliore conclusione del viaggio nell’anima di Davide Monteleone che è stato un viaggio nell’anima anche per noi e potrà esserlo per tutti gli spiriti amanti della libertà.

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Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Catalogo: Davide Monteleone, “La linea inesistente. Viaggio lungo la ex Cortina di ferro”, con un saggio di Silvio Pons e una selezione di documenti del National Security Archive di Washington D.C., Italianieuropei-Contrasto, novembre 2009, pp. 152, formato 20 x 30,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 12 gennaio 2010. Cfr. anche il nostro articolo “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro” 9 novembre 2009, sempre in questo sito.

Foto

le immagini, come anticipato in premessa, non sono quelle del viaggio di Monteleone, esposte in mostra, ma sono sulla caduta nel Muro di Berlino che abbiamo voluto inserire in questa ripubblicazione celebrativa del trentennale che avviene il giorno dell’evento, 9 novembre 2019, trent’anni dopo il 9 novembre 1989. Si ringraziano i titolari dei siti web, pronti ad eliminare su loro richiesta le immagini di cui non fosse gradita la pubblicazione, che non ha finalità commerciali, pubblicitarie, o economiche di qualsiasi tipo. Sono inserite in modo da rendere l'”escalation” della conquista del Muro, tratte dai siti seguenti, indicati nella successione delle immagini: 1. raggiungere.net, 2. travelfanpage.it, 3. corriere.it, 4. ansa.it, 5. firenze.repubblica.it, 6. ecodibergamo.it, 7. ilfriuli.it, 8. corrieredi rieti.it, 9. corriere.it, 10. donnamoderna.it. 11. ecodibergamo.it, 12. culturaoscialart.it, 13. ravenna.it, 14. ravennatoday.it, 15. raiplayradio.it.

Anghelopoulos, “Ex-Change”, la sfida dell’uomo moderno, alla Banca Generali di Roma

di Romano Maria Levante

 La mostra “A. T. Anghelopoulos. Ex-Change”  espone nella sede della Banca Generali di Roma dal 7 ottobre al 12 novembre una serie di opere  con i cicli pittorici di un artista il quale guarda la realtà con occhi penetranti, cerca di non farsi ingannare dalle apparenze e fissa con la pittura le frammentazioni, fratture e ostacoli che si frappongono quando si vuole esplorare in profondità la vita dell’uomo nella società contemporanea. Si inserisce nella Settimana di arte contemporanea “Rome Art Week” inaugurata alla Casina Valadier con la mostra site-specific “Inner Life” di Anghelopoulos e Micaela Legnaioli. Sia la mostra alla Casina Valadier che questa alla Banca Generali sono a cura di Sabrina Consolini intervenuta sull’artista anche nella precedente mostra del 2015 al Vittoriano. Catalogo di Campitano Editore Service.

Anghelopoulos all’inaugurazione della mostra
dinanzi a una sua opera della serie “Passages”

E’ una “location”  inconsueta quella della mostra, sottolineata dal “private banker” della banca ospitante che l’ha voluta, Andrea Petrangeli,  con queste significative parole: “Considerato il luogo dell’evento, il centro direzionale di un’importante istituzione bancaria, ambiente che più di altri incarna gli archetipi delle moderne società – mercato, profitto, successo economico – quel titolo suona come una provocazione, un incauto incitamento alla diserzione”. Lo interpreta quale mutamento del punto di osservazione, per avere “un diverso sguardo sul mondo, quindi inevitabilmente sulla condizione umana”. Come “osservatore semplice” – cita le parole di Anghelopoulos –  e non di semplice osservatore, “scavalcando le convenzioni, i giochi di ruolo, il pensiero di massa”. Ne dà conferma la curatrice Sabrina Consolini affermando – prima delle considerazioni sulla cifra artistica espressa nei diversi cicli pittorici – che “Anghelopoulos, uomo e artista lontano da mode e tendenze traccia un percorso nel quale la lettura personale travalica ogni esperienza collettiva restituendo pura intimità all’esperienza sensoriale”.

Passages” , 2015

Dalla fotografia alla pittura che trascende il reale

Con queste presentazioni intriganti si avverte ncora di più la sfida posta da ogni artista contemporaneo che si allontana dal figurativo per l’astrazione indefinita. Il primo problema è quello dell’interpretazione delle opere, per la quale non basta l’osservazione  da  visitatore attento, ma vanno ricercati indizi e orientamenti nella biografia dell’artista e occorre documentarsi su sue  esternazioni che aiutino a decifrare  ciò che  appare incomprensibile; a volte pure all’artista, diremmo, almeno quando l’opera è “Untitled”, ed è anche il nostro caso per alcune delle opere esposte. “L’ “osservatore semplice” è già un indizio, ma non basta.

E’ un artista affermato, molte mostre personali e collettive in Italia – dove vive a Roma – e all’estero, apprezzato anche dalla critica straniera, la definizione di “artista di alto livello” é della curatrice italo-francese con attività internazionale Dominique Stella. La biografia registra che  frequentava dei corsi  di pittura sin nell’infanzia, a dieci anni, e nel contempo  prendeva lezioni di chitarra classica, trattandosi di una famiglia di musicofili, è stato  un lettore accanito di classici e di poesie, con predilezione per Montale, ha studiato psichiatria e neurologia; si è appassionato anche alla fotografia, fino ad aprire un laboratorio semi-professionale. In questa molteplicità di interessi Laura Colonnelli vede una “nostalgia del Rinascimento, quando un artista era anche scienziato, letterato, filosofo, musicista”. 

“Passages”, 2015

Nella pittura inizia con il figurativo, nello studio di Gigino Falconi, lo attira anche Monet, ma l’arte contemporanea diventa un richiamo irresistibile, predilige Dalì e Rothko, Magritte e Schifano, per questo vi si dedica dopo una sorta di duplice “autoritratto”  da fotografo imbarazzato perché mentre vuole riprendere ciò che lo circonda vede che sono maschere decomposte  (“Me shooting”, 2009);  o gli si frappone un ostacolo che cerca di superare sporgendosi attraverso un varco (“The Camera Man”, 2010).

Chissà se l’”autoritratto” confuso e tormentato non sia la confessione di aver scoperto che è inutile riprendere la realtà con la fotocamera, perché sfugge e non è quella che appare! La nostra interpretazione si basa sul carattere dell’artista, impegnato a indagare e ricercare, esplorare e perimentare, per cui ci sembra logico pensare che abbia voluto  esternare con quegli “autoritratti” rivelatori il passaggio  del Rubicone non solo dalla fotografia alla pittura ma dal figurativo all’astratto.

Una conferma si trova nelle sue parole, una “interpretazione autentica” della propria vocazione pittorica: “L’arte non deve copiare la realtà ma tornare ad amare l’uomo, provocarne l’intelligenza, portare l’osservatore in una dimensione che trascenda il reale, nella quale proprio l’uomo sia al centro di tutto, di ogni pensiero, di ogni progetto, di ogni fine”.

“Untitled”, 2017

 L’assonanza con l’affermazione di Roberto Longhi secondo cui “l’arte non è imitazione della realtà, ma interpretazione individuale di essa” porta Gianfranco Ferroni  ad affermare che “Anghelopoulos traccia un percorso dove la lettura personale travalica ogni esperienza collettiva, restituendo un senso intimistico all’esperienza dell’apprendimento”; mentre Silvana Lazzarino vede  in lui “il desiderio di riscoprire nuove possibilità per lasciare che le emozioni individuali possano sfiorarsi”.

Sono tutte interpretazioni in linea con quella della curatrice, che non debbono far pensare a un disimpegno dai temi collettivi, tutt’altro,  perché per meglio approfondirli occorre scrollarsi di dosso le convenzioni della società massificata nella libera visione individuale e personale. Ne dà chiara conferma la  Consolini, dopo aver parlato di “lettura personale” e “pura intimità”:  “Insofferente verso i ritmi, i miti e i riti della contemporaneità, Anghelopoulos è convinto che l’arte debba veicolare valori universali  e parlare della condizione umana nel presente”.

Point of View” , 2016

Come parla della condizione umana dell’uomo contemporaneo lo spiega Federico Castelli Gallinara: “Al centro della sua ricerca pittorica l’uomo e la sua difficoltà e impossibilità di contatti realmente solidali e profondi con i suoi simili, il rapporto tra conoscenza e mondo interiore, tra tensione intellettuale e emozioni, la sua ricerca di verità nascoste sotto la superficie delle cose”. Ripensiamo alla lunga ricerca di Ennio Calabria sul “tempo dell’essere” nella rivoluzione permanente del progresso, espressa in opere pittoriche radicalmente diverse da quelle di Anghelopoulos ma mosse da una analoga esigenza interiore.

L’ “osservatore semplice” che guarda “oltre”

Dunque una visione della vita dell’uomo e della realtà libera dalle sollecitazioni interessate  della società massificata, al di là delle apparenze fuorvianti. Ma cosa vede con gli occhi dell’“osservatore semplice” ? E come lo esprime nella sua trasposizione, anzi trasfigurazione, il nostro artista?

Aver sottolineato il carattere prettamente “individuale” e “personale” di questa sua visione non basta per decifrarne le forme espressive, all’apparenza incomprensibili, anzi le rende ancora più criptiche in quanto proprio per questo non decodificabili  a livello collettivo.

“Point of View”, 2018

Claudio Strinati, nella presentazione alla mostra del 2015,  fornisce qualcosa di più di una chiave di lettura, il codice per aprire, come una “password”, immagini come crittogrammi. Per lo storico e critico dell’arte, in  Anghelopoulos c’è un “disimpegno”  non solo del Dio – come intitola una sua serie che vedremo –  ma in termini più generali, in un concezione dell’arte antitetica all’”arte impegnata” anche in termini politici, si pensi all’opposto in Guttuso.  Il disimpegno “è quel luogo dell’arte posto al confine tra un territorio e l’altro, il territorio dell’evidenza e della forza espressiva e quello del mistero e della sparizione”.

A questo punto il critico sarebbe lui stesso indecifrabile se non precisasse: “Sparizione non solo e non tanto dell’oggetto rappresentato, ma della volontà espressiva stessa dell’artista”.  In una sorta di “non esserci”, di “sottrarsi”, inconcepibile se non fosse motivato dalla volontà  di sparire per vedere meglio  immergendosi, diciamo noi, da sottomarino che alza il periscopio a 360°. Ciò corrisponde – torniamo a Strinati – “all’’ingresso in una dimensione analoga a quella che in matematica si rintraccia nei numeri ‘negativi’, nel ‘meno uno’ e così via”.

“Trama (Weave)”, 2016

E’ una dimensione che allontana dalla visione esistenziale della  vita quotidiana, con le sue false apparenze e fa entrare in mondi invisibili ma esistenti come quelli esplorati dalla  scienza alla ricerca di risposte sulla nascita della vita e sui meccanismi  che regolano l’Universo. Al riguardo  il critico cita la meccanica quantistica, con l’”antimateria” e i “buschi neri” fino al “neutrino”, con l’annullamento di tempo e spazio, elementi invisibili ma veri che pongono tanti interrogativi: “Sono quesiti innumerevoli e traumatici tendenti tutti a farci pensare che esista un altrove che è la vera realtà e quello che percepiamo sia apparenza al di là della quale c’è, appunto, l’‘oltre’; l’arte di Anghelopoulos sembra mossa da tale istanza”.  Quindi a questo “oltre”, oggetto dell’attenzione della scienza, si rivolge anche la ricerca che definiremmo leonardesca,  del nostro artista, e lì dobbiamo trovare il segreto della sua forma espressiva, perché vi risiedono gli equilibri invisibili ma decisivi nel macrocosmo dell’universo con i corpi celesti, come nel microcosmo dell’atomo di cui è  composta la nostra materia.

Le opere con la visione della condizione umana da parte dell’artista

Guardiamo le sue opere con queste chiavi di lettura, la visione “individuale” e “personale” dell’artista  libero dalle sensazioni ingannevoli offerte dalla realtà, e il suo “guardare oltre” penetrando al di là di ogni evidenza sensoriale per scavare in profondità.

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“God disengagement – Disimpegno del Dio” , 2014

Abbiamo cercato di esplorare i suoi intenti, ma come decodificare le sue realizzazioni? Aiutano in questo le parole di Castelli Gallinara: “Nasce così una pittura potentemente materica, spessa e colorata, textures che rimandano a dimensioni al contempo cosmiche e e neuronali, finestre su un mondo complesso dove si intrecciano mistero, rivelazione, malcerte promesse e barlumi di speranze, in una struggente attesa di cambiamento”.

Nella prima serie della galleria espositiva, i  2 “Passages”, del 2015, definiti dalla curatrice “sfumati”,  vediamo una superficie pittorica con quello che la Colonnelli chiama “il dilagare dell’oro”, per ”le ampie campiture di colore, che piano piano virano verso l’oro assoluto, quello di Giotto, dei trecentisti, delle icone bizantine”; c’è l’oro anche nei due “Untitled”, del 2016-17, con diverse tonalità e  gradazioni.

Più avanti, i 3 “Point of View”   sono “enigmatici”, tre simil-istogrammi bianchi calati dall’alto, immersi in un fondale d’oro,  nell’opera del 2016, mentre nelle 2 opere del 2018 sono immersi  in un fondo nero con dei riflessi chiari sotto agli istogrammi, rispettivamente due e tre; come se nei due anni trascorsi i “punti di vista”  fossero passati dalla luce al buio.

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“God disengagement – Disimpegno del Dio“, 2015 m

 Nulla da aggiungere alla definizione di “filigrane meditative” data dalla curatrice perTrama (Weave)”.  2016, se non che sono anch’esse intessute d’oro.

Per interpretare le altre serie torniamo agli intenti dell’artista come espressi nella traduzione pittorica secondo la  visione della  Consolini: ”In questo percorso alle radici dell’esistenza, in questa riflessione sul senso della vita si materializzano davanti allo spettatore spiragli, portali, varchi, occasioni per una riflessione, inviti ad alzare lo sguardo, e perché no a compiere un passo nella misteriosa e luminosa direzione offerta, oltre i confini claustrofobici dell’ovvio, del quotidiano, lontano dalle sabbie mobili del consumo  e ben oltre la superficie delle cose, una irresistibile induzione al fatidico passo oltre i confini del proprio perimetro vitale, oltre la superficie delle cose, un’istigazione alla rivolta”. Ci tornano in mente le parole ’incitamento alla diserzione” dell’esponente della Banca  che ospita la mostra, consapevole di come vi sia particolarmente esposto chi, per sua stessa affermazione, “più di altri incarna gli archetipi delle moderne società,  mercato, profitto, successo economico“.  Ma nessun timore, ricordiamo che quella di Anghelopoulos non è un’“arte impegnata” sul piano politico.

“Dense Sky (Cielo Denso)”, 2013

La Consolini nel 2015 aveva già indicato come si manifestano questi “confini claustrofobici” negli addensamenti materici di alcune opere che generano nell’osservatore “la sensazione di una mancanza di visuale o di una visuale insufficiente, soffocata. E’ come se con  queste opere egli volesse ricordarci che l’esistenza di ciascuno  è circoscritta da un invisibile diaframma, una pellicola che lo protegge dal mondo esterno”.  Lo protegge ma nello stesso tempo lo imprigiona, per cui “quello che l’uomo riesce a concedersi è inevitabilmente un’occhiata  furtiva, uno sguardo limitato  a ciò che sta intorno, uno sguardo costretto a farsi largo  tra le fitte trame difensive di un vero e proprio bozzolo”; attraverso quelli che lei stessa oggi chiama “spiragli, varchi, portali per una riflessione”.

Vediamo questi addensamenti materici claustrofobici e soffocanti nelle due opere esposte dal titolo “God Engagement”,  2014-15, è i l”disimpegno del Dio”  perché anche la divinità si arrende dinanzi ai muri dell’esistenza, il piano pittorico sembra una superficie lunare, una variazione della “Superficie fratturata bianca”, 2012, dell’esposizione precedente., dove anche il trittico “Sulle orme di Dante”, 2015,  presentava il Paradiso dorato schiacciato tra  un Purgatorio dalla superficie “fratturata” come nel “God Engagement”  e da un Inferno  in cui nella  barriera invalicabile spunta una piccola lucertola, l’unico elemento figurativo, ispirato a quella di bronzo fusa dal Bernini alla base del baldacchino dell’altare della Basilica di San Pietro.

“Dense Sky (Cielo Denso)”, 2015

Così l’ha definita Anghelopoulos: “E’ simbolo di rinascita, perché cambia pelle. L’ho adottata come sentinella dell’anima, simbolo di veglia attenta tra occhi offuscati e menti obnubiliate”; e ha concluso: “Se esiste un inferno questo è sulla terra, di essa e dei suoi abitanti dovremmo occuparci prima di tutto”. Altra prova che il suo apparente  “disimpegno”  è per meglio “impegnarsi” in una visione che penetra “oltre”, come dimostra la sua  lucertolina simbolica ed evocativa. Ricordiamo, per averli commentati,  l’”Inferno” nei disegni di Rodin e nei dipinti di Roberta Comi, le tre cantiche nei dipinti di Gianni Ttesta,  raffigurazioni di una realtà immaginata nel figurativo, qui siamo nell’astrazione assoluta e imperscrutabile.

Il simbolo di rinascita dall’inferno “sulla terra” è  dunque presente, ma  sembrerebbe velleitario, se stiamo alla serie “Deep Sky (Cielo Denso)”, 3 opere dal 2013 al 2015, quasi sovrapponibili con minime varianti nella bianca rugosità che lascia trapelare minimi spiragli di azzurro, piccole fessure sulla coltre bianca soffocante che copre il cielo come la cenere dell’eruzione copriva  Pompei. Con una quarta opera,  intitolata significativamente “Inner Sky (Cielo interiore)”, del 2015, però, si ribaltano le proporzioni: il bianco è soltanto nei modesti spazi prima dedicati agli spiragli di azzurro, il “cielo interiore” è  azzurro e blu intenso; mentre l’opera con lo stesso titolo del 2012 era in celeste chiaro, la citiamo per il significato che può avere questa maggiore intensità nel senso di una penetrazione più profonda. Vi troviamo  un invito a leggere  dentro di sé per trovare la chiarezza che ci nega il mondo esterno, anche quando eleviamo lo sguardo verso il cielo:  che non è il “cielo stellato” di Kant, il quale peraltro vedeva “dentro di noi” la legge morale, quasi una proiezione interna del firmamento.  Anghelopoulos ha reso visivamente questa visione.

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“Inner Sky (Cielo Interiore)”, 2015

Ma non è tutto, Strinati ha scritto: “Le sue superfici vengono percepite come graffiate, soffocanti per certi versi, e viene da paragonarle a crateri lunari, visioni satellitari, filamenti celesti, viaggi in mezzo a cieli densi di nuvole pesanti e tempestose”. “ cita Klee e Rothko, aggiungendo: “Ma sempre si avverte l’eco, sulle sue superfici. di bagliori che si stanno spegnendo, di visioni in cui non si riesce a scorgere più nulla, di una specie di ritorno al futuro…”. 

Lo abbiamo visto con l’oro che risplende pur nella desolazione, e negli spiragli di azzurro nel cielo coperto di “cenere” che diventano firmamento interiore con poche macchie residue. Ora lo vediamo nella “Serie Turner – Senza titolo”, 3 opere del 2018 ispirate al grande artista dalle straordinarie visioni naturali, con i suoi cieli nelle più diverse meteorologie serene o tempestose. Con un contorno dorato  si passa dal rosso-arancio a due azzurri con diverse striature bianche che sono proprio i “filamenti celesti” evocati da Strinati che, insieme ai “bagliori”, pur se “si stanno spegnendo”, rappresentano comunque un’apertura, qualcosa di altamente positivo e di salvifico. E’ un finale in bellezza che apre il cuore alla speranza.

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“Serie Turner – Senza titolo”, 2018

La “Bella Principessa”, metafora del mistero della vita interiore

La figura umana è assente in questa esplorazione che diremmo cosmica, ma l’artista non l’ha dimenticata. E, a parte i due “Autoritratti” citati – che non sono tali nell’accezione tradizionale, perchè esprimono il disorientamento che lo ha portato dalla fotografia alla pittura con gli intenti e la visione  sottesi  – non possiamo non ricordare l’opera esposta nella mostra del 2015 “Vita interiore-Inner life”, del 2014,  espressa nel volto della “Bella Principessa”, ritratto attribuito a Leonardo, in cui Anghelopoulos colloca un vistoso ingranaggio, che parte dalla parte destra del viso e prosegue nella spalla. Un intervento leonardesco, possiamo dire, considerando che il grande genio del Rinascimento abbinava nei suoi “codici” disegni di ingranaggi e di parti del corpo umano ugualmente oggetto della sua inesausta ricerca.

Il nostro artista ha spiegato così quella che potrebbe sembrare una profanazione del delicatissimo volto e della figura femminile: “Ho voluto raffigurare il  suo lato nascosto, il lato sottratto per sempre agli sguardi del mondo e per ciò stesso metafora del mistero che circonda la vita interiore del soggetto ritratto”.  Il mistero che “ella, come ciascuno di noi porta con sé”,  è spiegato così dalla Colonnelli: “La creatura in cui carne  e anima sono un tutt’uno a riflettere l’immagine divina, è ormai un mezzo robot…. l’uomo non è più la magnifica creatura celebrata da Leonardo e dai pensatori suoi contemporanei, ma una macchina vivente totalmente manipolabile. E sempre più misera e inaccessibile appare la sua vita interiore”. Per la Consolini “l’inaccessibile emivolto, ora svelato, assurge a metafora del mistero che circonda la vita interiore… un magma di desideri, paure, pulsioni, lati oscuri. Il complesso ingranaggio innestato sul suo profilo… è parte di quel mistero svelato,  è una proiezione degli insondabili  ingranaggi interiori, è vita interiore”. 

Anche se quest’opera sulla “Vita interiore” non è presente nella mostra attuale, è esposta  la già citata “Inner Sky (Cielo Interiore)” il cui azzurro, divenuto ancora più intenso di un’opera precedente, ha scacciato la cenere soffocante del “Deep Sky” , una metafora dell’”Ex-Change”, come “occasione di ricontrattare le regole d’ingaggio con la realtà”. Sono parole della curatrice Consolini che così conclude la sua presentazione: “Cosa sono queste opere se non l’occasione per l’impossibile di realizzarsi, per l’imprevedibile di diventare realtà, l’opportunità – che solo l’arte fornisce– di ‘sognare contro il mondo e strutturare mondi che sono altri’, citazione quest’ultima di Steiner che ci riporta  all’assunto iniziale.

E’ compito dell’ artista, un “osservatore semplice” che come Bertoldo possa dire: “Il re è nudo”.

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“Serie Turner – Senza titolo”, 2018

Info

Banca Generali, Roma, Via Leonida Bissolati 76, dal lunedì al venerdì, ore 9,00-17,00, ingesso gratuito.  Catalogo “A. T. Anghelopoulos. Ex. Change”, Campisano Editore Service, ottobre 2019, pp. 34,  bilingue italiano-inglese, formato 20 x 20;  per la mostra del 2015 al Vittoriano,  catalogo “Tra materia e anima, tra memoria e tempo. A. T. Anghelopoulos, Andrea Pinchi”,  a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, novembre 2015,  pp. 112, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28.  Dai due cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli sugli artisti e i temi citati: in questo sito, su Leonardo 2, 4 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com, per la mostra precedente, “Anghelopoulos e Pinchi, astratto  e concreto al Vittoriano”  16 novembre 2015, Calabria 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019, Turner 17 giugno, 4, 7 luglio 2018, Guttuso,  14, 26, 30  luglio 2018, 16 ottobre 2017, 27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, 25 e 30 gennaio 2013;  Klee  1° e 5 gennaio 2013,  Dalì  28 novembre, 2 e 24 dicembre 2012,  Rothko, nella Collezione del Guggenheim  22 e 29 novembre, 11 dicembre 2012; Monet e gli impressionisti 12, 18, 27 gennaio 2015, 11 maggio 2014; per le visioni dell’Inferno,  Rodin,  Roberta Comi  20 febbraio 2013, per le tre cantiche Gianni Testa  14 settembre 2014; per le visioni cosmiche “Meteoriti”5 ottobre 2014, per i “numeri negativi” e simili,””Numeri” 23, 26 aprile 2015; in cultura.inabruzzo.it, Leonardo, 6 febbraio 2012, 23 febbraio 2011, 11 gennaio 2010, 6 luglio e 30 settembre 2009, Monet e gli impressionisti 27 e 29 giugno 2010; guidaconsumatore.fotografia, Schifano 15 novembre 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini, riportate nell’ordine in cui sono citate nel testo, sono tratte dal Catalogo dell’attuale mostra, tranne quella di apertura fornita cortesemente dalla curatrice, e quella di chiusura tratta dal Catalogo della mostra del 2015, si ringraziano Sabrina Consolini, i due Editori,  con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Anghelopoulos,  per l’opportunità offerta. In apertura, Anghelopoulos all’inaugurazione dinanzi a una sua opera della serie “Passages” ; seguono, 2 opere intitolate “Passages” entrambe 2015, e “Untitled” 2017; poi, 2 opere intitolate “Point of View” 2016 e 2018, e “Trama (Weave)” “2016; inoltre 2 opere intitolate “God disengagement – Disimpegno del Dio” 2014 e 2015; ancora, 2 opere intitolate “Dense Sky (Cielo Denso)” 2013 e 2015, e “Inner Sky (Cielo Interiore)” 2015; infine, 2 opere intitolate “Serie Turner – Senza titolo” entrambe 2018; in chiusura, “Vita Interiore – Inner Life” 2014.

“Vita Interiore – Inner Life”, 2014

Roma. Al Quirino la poesia di Emanuele diventa teatro

di Romano Maria Levante

Riceviamo ora da Comin & Partners: “Caro collega, si è svolto ieri sera, 21 ottobre, al Teatro Quirino di Roma il reading dedicato alle poesie del Prof. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e Presidente Onorario della Fondazione Roma. Geppy Gleijeses, Marisa Laurito e Andrea Giordana hanno letto alternativamente 15 tra le più belle e toccanti poesie tratte dalle raccolte ‘Pietre e vento’ e ‘La goccia e lo stelo’ del Prof. Emanuele, insignito di recente del ‘Premio Montale fuori di Casa 2019 – sezione Mediterraneo per la poesia’. In calce e in allegato la nota stampa e alcune immagini. Grazie per l’attenzione e un cordiale saluto, Comin & Partners.” Peccato non aver ricevuto l’invito alla serata, la nota stampa fornisce le notizie essenziali, ma non può rendere l’atmosfera e la magia delle poesie di Emanuele recitate da Geppy Gleijeses, Marisa Lurito e Andrea Giordana. Tre grandi attori, il primo dei quali protagonista del precedente recital nove anni prima, il 20 ottobre 2010. Con lui c’erano Marianella Bargilli e un’altra coppia di grandi attori, Paola Gassman e Ugo Pagliai. Di quella serata riportiamo la nostra cronaca pubblicata allora; della serata di ieri riportiamo il comunicato di Comin & Partners e le immagini che inseriamo in un mix del testo della serata di allora con le fotografie della serata di ieri e con in più fotografie del poeta Emanuele nella serata del Premio Montale e nelle maratone poetiche dei “Ritratti di poesia” nelle quali consegna i premi per la Poesia internazionale e la Poesia nazionale.

Emanuele in mezzo alla platea del Quirino il 21 ottobre 2019

“22 ottobre 2019. Le poesie di Emmanuele Emanuele al Teatro Quirino di Roma – Reading di poesie del Prof. Avv. Emmanuele F. M. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e Presidente Onorario della Fondazione Roma, ieri sera al Teatro Quirino di Roma. Di fronte ad una sala gremita per l’occasione, i tre attori Geppy Gleijeses, Marisa Laurito e Andrea Giordana hanno letto alternativamente 15 tra le più belle e toccanti poesie tratte dalle raccolte ‘Pietre e vento’ e ‘La goccia e lo stelo’ del Prof. Emanuele, il quale oltre ad essere avvocato, docente universitario, economista, filantropo e mecenate, è anche scrittore e poeta di successo, essendo stato recentemente insignito, tra gli altri riconoscimenti letterari ricevuti nel corso della sua carriera, del ‘Premio Montale fuori di Casa 2019 – sezione Mediterraneo per la poesia’. Il reading è stato impreziosito dalle suggestive immagini di sfondo del video-artist Gianluca Rame, su musiche di Ludovico Einaudi. Momenti di sincera commozione in sala quando il Prof. Emanuele, dopo i ringraziamenti di rito, ha chiesto all’amico Gleijeses di leggere due inediti, tratti dall’ultima sua raccolta ‘Il sole dentro’ che ancora dev’essere data alle stampe. Cocktail a seguire nel foyer del teatro, fino a tarda sera”. Questo ieri, ed ora il precedente spettacolo, 20 ottobre 2010.

Come eravamo, le poesie di Emanuele al Quirino nove anni fa

Al Teatro Quirino di Roma la sera del 20 ottobre 2010 uno spettacolo fuori dal comune, la poesia divenuta teatro ed emozione con le letture poetiche dei versi di Emmanuele Francesco Maria Emanuele, che non ha bisogno di presentazione per chi si appassiona all’economia e alla finanza e per chi ama l’arte: è il “dominus” delle Scuderie del Quirinale e del Palazzo delle Esposizioni, della Fondazione Roma e di altre istituzioni culturali per non parlare di quelle economiche e finanziarie, ed anche delle iniziative in campo sociale con il Terzo settore.

Una serata speciale in un Quirino affollato e partecipe, un vero teatro realizzato attraverso la poesia. Non una delle consuete letture poetiche, ma qualcosa di diverso, anzi molto di più. Sarà stato il palcoscenico, al posto delle normali sale utilizzate per tali occasioni, sarà stato il buio della platea e l’occhio di bue sul lettore di turno, saranno stati gli attori di grido che si sono succeduti alla ribalta a dare la marcia in più alla serata. Ma questi ingredienti scenici erano il contorno, pur se prelibato, del piatto forte: la poesia di Emanuele resa ancora più viva da immagini che scorrevano sullo schermo.

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Uno scorcio della platea del Quirino nella serata del 21 ottobre 2019

Non un semplice sfondo, ma un vero controcanto con le emozioni visive a corredo delle parole e relativa musica. Un abbinamento che non era mai capitato di vedere con toni e stimoli così suggestivi, in grado non solo di rendere i luoghi e gli ambienti, ma anche di interpretare l’animo del poeta. Di volta in volta sferzato dal vento o abbagliato dalle luci, nel rincorrersi tra montagne che il vento aveva scavato creando immagini antropomorfe o tra le acque impetuose, le sabbie e i vulcani, i declivi e gli abissi. Che erano poi le discese e le risalite, le cadute e i voli del canto poetico.

E’ stata una fortuna assistere a questo spettacolo, con l’ulteriore fortuna di poterlo vivere a fianco di Giuliana Lojodice, e nell’attesa rievocare con lei il mitico sceneggiato “Una tragedia americana”, il suo personaggio di Roberta, antagonista di Sondra, la sfavillante Virna Lisi verso la quale l’attrice ha parole di ammirazione; e poi gli “Oscar del teatro” di cui è stata protagonista – chissà se ci saranno ancora dopo la triste sorte dell’ETI! – e tanti momenti della grande carriera di una interprete e di una coppia straordinaria, Giuliana e Aroldo, compresi i suoi recenti lavori con un regista bravo ed esigente come Sepe; fino allo spettacolo del 22 novembre prossimo all’Eliseo, unico non solo perché si esaurisce in una sola serata ma per la sua forte valenza scenica e artistica.

Scende, dunque, il buio in platea, davanti a due leggii posti agli estremi del palcoscenico, si avvicendano gli attori, e che attori! Paola Gassman e Ugo Pagliai, Geppy Gleijeses e Marianella Bargilli, due coppie molto affiatate, una staffetta di generazioni. Diversi stili interpretativi, che hanno segnato cambi di tonalità e di espressione, quasi a voler marcare i diversi momenti attraversati dal poeta e l’onda di sentimenti che ne scaturiva: il tono pacato e sommesso, tutto interiore di Ugo Pagliai e gli acuti appassionati di Paola Gassman, il vigore e l’intensità interpretativa di Geppy Gleijeses e la leggiadra freschezza vocale e scenica di Marianella Bargilli.

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ll recital delle poesie di Emanuele:, Geppy Gleijeses, Marisa Laurito, Andrea Giordana

Ogni poesia segnava la fine di un quadro, l’attore tornava dietro le quinte ed entrava in scena il successivo dal lato opposto del palcoscenico; nessun contatto, non era come la staffetta di tipo calcistico dei “Tre tenori”. Una “ronde” incessante di cui si può intuire il ritmo tenendo conto della brevità delle poesie di Emanuele, essenziali nello scolpire le immagini con poche icastiche parole.

Se quelle di Calder, esposte lo scorso anno nel “suo” Palazzo delle Esposizioni”, erano “sculture d’aria”, le immagini create dalla poesia di Emanuele erano di volta in volta sculture di vento e di sabbia, di mare e di cielo, in definitiva sentimenti scolpiti nella natura e dalla natura che li plasmava. Come ciò potesse avvenire lo si vedeva dalle immagini proiettate, una filmografia dei moti dell’animo. Quando Gleijeses alla fine presenterà, per l’applauso del pubblico, Paolo Calafiore autore del filmato – oltre a Ludovico Einaudi per le musiche e altri operatori – Emanuele dirà: “E’ l’Africa come la ricordo io, l’altopiano è riportato com’era e com’è nelle mie poesie”.

E’ in scena la poetessa Maria Luisa Spaziani

Ma lo spettacolo non era terminato, entrava in scena la poetessa Maria Luisa Spaziani, allorché dinanzi alla platea ora illuminata si sono seduti sul palco intorno a lei i quattro interpreti e il poeta Emanuele, che ha dovuto superare la ritrosia a presentarsi in una veste che per pudore non si sente di aggiungere alle altre che indossa con autorevolezza in posizioni di vertice – l’imprenditore e il finanziere, l’intellettuale e lo scrittore, l’operatore culturale e il creatore di grandi eventi artistici – al punto di non aver voluto rilasciare un’intervista sulla poesia: “Io sono tante cose insieme – dice lui stesso – considerarmi anche poeta sarebbe troppo”. Ma non può negarlo, lo considera tale la poetessa per antonomasia, che con fervore giovanile fa una vera e propria orazione celebrativa.

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Geppy Gleijeses legge le poesie di Emanuele

“Il poeta è tutto – dice nel delinearne la figura – mentre le altre attività sono parziali e settoriali, il poeta ha la visione d’insieme”. “Emanuele o Emmanuele – prosegue giocando sulla emme raddoppiata nel nome, come ha fatto Lino Angiuli nell’introduzione scritta alla sua silloge – è imprenditore, banchiere, operatore e tanto altro, lui vorrebbe essere soltanto poeta”. Perché ne conosce il valore e il significato, anche se ne ha il pudore: “Quando la gente sente che qualcuno in aggiunta alle proprie attività è anche poeta – continua la Spaziani – fa un sorrisetto come se fosse marginale, un giochetto tipo le parole incrociate se non una stranezza”. La poesia, invece, è un fatto serio: “E’ un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli”.

Ma è anche molto di più: “Se faccio un sogno e poi ne nascono dei versi, quei versi sono il sogno che ha sognato con me. Attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi.”. E, riferendosi alle poesie di Emanuele, aggiunge: “Io ho sognato con lui l’Africa, i suoi deserti e i suoi cactus, la Maremma purtroppo dimenticata e i suoi segreti, i misteri e le favole, Cortina e una storia d’amore”.

Emanuele non è qui il freddo imprenditore, è commosso, ben altro dell’uomo di pietra, non lo è con la sua poesia; ne ha assorbito la sobrietà e il pudore, pur se apre il suo animo ma sempre trattenendosi. Aggiunge solo i ringraziamenti alla poetessa e ai tanti amici che hanno voluto essergli vicini, con un tocco di classe quando evoca la città natale da cui è stato lontano per cinquant’anni, una lontananza voluta per non vederla diversa da come l’aveva vissuta nella fanciullezza; e qui il nostro pensiero corre a “Nuovo Cinema Paradiso” anche se forse non c’è stato un vecchio saggio a dirgli di restarne lontano. C’è voluta l’occasione di un convegno sull’identità mediterranea per riportarlo a Palermo dove ha rivisto quel mondo e si è immedesimato nella poesia che ricorda la “Città”, la ritiene il culmine dei suoi sentimenti: li rappresenta e lo rappresenta fedelmente.

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Marisa Laurito legge le poesie di Emanuele

Gleijeses la leggerà da par suo in conclusione, dopo aver fatto un’acuta considerazione: “Come una donna bellissima paga lo scotto di non essere ritenuta intelligente, così un grande imprenditore e uomo di finanza può subire il pregiudizio di non essere ritenuto poeta”. Non è il caso di Emanuele, il riconoscimento gli viene da tante parti, qui riconfermato palesemente dalla Spaziani e dai grandi attori che hanno scelto di fare lo spettacolo solo perché le poesie di Emanuele sono grandi poesie.

Le prime tappe del lungo cammino

La serata termina con il saluto degli amici a Emanuele sempre più commosso; ma non può finire la nostra cronaca senza trasmettere ai lettori qualche favilla degli sprazzi di luce poetica che hanno illuminato la platea del Teatro Quirino. Lo facciamo scegliendo, fra le sue tre agili raccolte di poesie esposte, quella dal titolo eloquente “Un lungo cammino”, non è una silloge episodica ma una vera sequenza di cinquant’anni di ricordi e di emozioni; in una serata nella quale il tono teatrale faceva dimenticare la presentazione libraria abbiamo voluto ricordarla chiedendo la dedica di prammatica.

Ed eccoci ora a sfogliare l’aureo libretto cercando di estrarne e legare parole che riescano a renderne il filo conduttore, il ritmo e l’armonia, la modulazione dei toni e la profondità dei contenuti. La prima poesia che troviamo è quella citata in cui l’autore si riconosce maggiormente, “Città”, è nella sezione dedicata alla terra, anni 1956-58: c’è già un primo percorso di vita nel quale si rispecchia anche quello successivo. Appaiono i segni arcani delle strade più buie dell’infanzia, che si ripetono più tardi nel tempo dell’ansia, tra le occhiaie vuote di vuoti destini e slarghi di rara bellezza. Negli anni del dopo interviene il rimpianto, restano gli squarci di luce improvvisi su vecchi portali, il colore rabbioso dei muri, la polvere opaca, e gente incupita dall’antico dolore di chi vive nel bello e ne muore. E sempre in questo periodo, indietro di mezzo secolo, a San Martino c’è il caldo meriggio che annulla i sogni, negli angoli oscuri in fondo all’anima ansima il petto di grandi speranze che il tempo corrode. L’età dell’infanzia suscita i ricordi più dell’attesa degli anni a venire, quando un viso d’opale diffonde una luce e canti trasmettono parole d’incenso. Dalla terra prorompe la rabbia del Sud, l’antico rancore per quel che non fu, per quel che non è, le vane speranze di vite diverse e diverso futuro; in un mare che è ostile seppure ricco di antiche leggende.

Dalla terra sono ispirati i canti dell’Aspra, degli stessi anni, il poeta apre il cuore in una natura dove all’ostilità della terra si contrappone la lusinga del mare. Il mare tra le case in rovina, s’inseguono i venti di terra. Per ore – confida – guardavo le onde, pensavo al futuro di là da quel mare; poi la partenza, andai e persi il ricordo, rivedo di là altro mare, soffermo lo sguardo sull’onde e sento la stessa ansia di sempre: conosce lo stesso pensiero la mente, andare, partire. Lo spirito di Ulisse, forse, il mezzo secolo successivo di Emanuele mostra il suo lungo viaggio con Itaca nel cuore.

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Emanuele dopo aver ricevuto il Premio Montale nel palazzo Althemps l’11 aprile 2019

Il porto è un luogo metafisico con la luna che emerge da dietro le vele e sembra fermarsi immota nel vecchio scenario sbiadito dove la notte che avanza rianima i moli, mentre il mare immobile attende. E sui volti di grande tristezza si legge con l’ansia il gelo di esistere. Un sentimento personale e collettivo, se un canto si leva con le nenie di popoli dispersi da sempre sul mare che unisce le coste. In un mare simile il poeta non resta in superficie a meditare, vi penetra nel fondo. Scendevo nel buio dell’acqua profonda – esclama – nel cono di luce che spegne i raggi e le stelle. Fluttuavo, portato dall’onde leggere nel sacro respiro del mare: padrone di me nel silenzio capivo che come sul mare la vita, incurante, mi avrebbe portato.

L’estate di Pioppo ci dà immagini crepuscolari. E’ sera, mia madre suonava nel portico di vecchi fogliami – ricorda – il buio ritagliava la figura di lei, udivo il richiamo, volevo fermare la voce, l’odore di terra, le strisce del cielo, il vapore alla base dei monti, volevo che tutto restasse così, la madre e la natura. Ma il sogno d’estate carducciano sembra svanire, passa la sera e scende la notte.

Torna la natura con il bosco e le ginestre. Una scultura antica nella radura, immobile, la quercia possente e solitaria, protesa al cielo, resiste al gelo e alla calura, ai venti e ai fulmini; i fusti leggeri invece si accalcano tremanti aggrappati l’un l’altro per cercare protezione. L’insegnamento: così nella vita l’uomo grande è solo e gli altri lo guardano timorosi, bisognosi del gruppo per esistere; e non solo per resistere, aggiungiamo. Prima abbiamo evocato Carducci, la ginestra non può non richiamare Leopardi, per il fiore del deserto il poeta trova una definizione di intensità straordinaria: risposta terrena al raggio del sole si aggrappa alla pietra più arsa. E questa sua capacità di resistere dà forza: lontano si sente l’odore portato dal vento, nel fiore ritrovo l’ardore che porto nel cuore.

Emanuele consegna il Premio per la poesia internazionale
della 13^ Edizione dei Ritratti di Poesia” alla poetessa sudafricana Ingrid de Kock,
nel Tempio di Adriano, il 15 febbraio 2019

Il cammino prosegue

Scorrono lenti gli anni, siamo al 1963-67, ancora ricordi dell’isola, per la quale si prova un amore struggente, il poeta la vede e la sente, bella e crudele, forte, di bello di sole e di luce intrisa. E si apre a una confessione che è orgogliosa riaffermazione di identità: negli anni ti ho portato nel cuore, ragione di vita; nei segni lavati dal tempo aspetto di te ciò che è mio. E per questo sente che deve ancora cercare, nel rimpianto di vite diverse vissute nel sogno ed esclama: vorrei ripartire dal nulla di prima e tornare e cercare partendo da niente. Le ore di chiare speranze sembravano grandi e ora sono solo rimpianti. Non vi sono fiori sulle strade ferrate su cui corre la vita, si rimane soli e torna il gelo dell’esistenza: non vedo e non sento – dice – il freddo del cuore mi porta la neve negli occhi.

Il lungo cammino procede, nel 1968-70 si va nell’America di Bob Dylan che cantava: “Quante strade deve percorrere un uomo per diventare uomo, quante orecchie deve avere per sentire qualcuno che piange”. La risposta è nel soffio del vento che va, ora il vento e l’uomo sono lo stesso ma non fermano le lacrime e l’odio. “The road” è il titolo, la strada su cui ora si snoda il lungo cammino, ma arriva la negazione portata dal dolore: non c’è riposta nel soffio del vento, non può rispondere l’uomo al dolore del mondo. L’anima rimane da sola, non sente i dolori del mondo e il grido cammina di notte e non sente.

Emanuele consegna il Premio per la poesia italiana della 12^ Edizione dei “Ritratti di Poesia” alla poetessa Donatella Bisulli, nel Tempio di Adriano, il 9 febbraio 2018

L’anno successivo apre un percorso di più di vent’anni, dal 1971 al 1994: esplode l’amore, la vita del cuore. C’è il presagio: svanisce il sogno, corrono negli anni le nuvole, mi volto indietro e non vedo che te, tu sola trapassi il gelo del cuore. L’amore cancella i pensieri tristi: guardarti avanzare leggera richiudere il libro del mondo, tenerti la mano. Perché sei tu, lo so – si confida il poeta – gioisce e batte il cuore al tuo sorriso e si ritrae seguendo il dolore e l’amaro di sempre. Un’amarezza che supera: la luce fa sera negli occhi miei stanchi, e tu sei nel ricordo del giorno. Lei ha riportato la vita nel cuore dove non c’erano più per un tempo infinito sorriso ed emozione, nell’anima non c’erano ansie e veri rimpianti. Sparite al ricordo le voci, le facce, i sorrisi. Ma con l’amore il vento di antichi ricordi riempie i miei sogni – può esclamare – si irradia una luce e in essa ti vedo. L’abbraccio scaccia il tedio e dà voglia ancora d’amore, i giorni svaporano di tutto riempiti di te.

La tappa più recente

Dopo questa abbandono liberatorio al sentimento il lungo cammino giunge alla tappa più recente, dal 1994 al 2005; non arriva all’attualità, per questa c’è un’altra silloge vincitrice di un premio. Ma è un momento che rappresenta comunque l’occasione di fare un bilancio di sentimenti e di emozioni. Prima di evocarli con le sue stesse parole ci sono due motivi quanto mai attuali: l’Africa e il vulcano. La prima è la terra dalla quale, dopo la sua Sicilia, ha tratto le maggiori ispirazioni, con il suo vento e i suoi altopiani, e lo hanno ricordato le immagini straordinarie che hanno accompagnato la lettura poetica: il vento odoroso che porta sul mare i magici suoni di Fez e parla di uomini antichi, della loro civiltà. La terra li accolse felice, finché esseri di ferro crociati li spinsero sul mare. Sparirono, rimasero lì, si perse il ricordo e vissero nel canto. E oggi ritornano sospinti dal vento di Fez ma in essi si è spenta la forza creatrice, diversi dal fu, attratti da ciò che di loro distrugge il ricordo. Veramente profonda, mentre impetuosa è l’immagine del vulcano: rossi crateri e bagliori di fuoco, il grido possente e i metalli neri e fumanti che sono disciolti e corrono a valle, dove si fermano frementi e di pietra divengono a prova che esiste, per sempre: il dio Vulcano.

Su pietre è scritta la vita che a noi umani tocca leggere senza capire, e non sono le pietre del vulcano. S’immerge nella natura sapendo di aver già vissuto nei boschi in vite lontane: da lupo. Ma non si tratta dell’”homo homini lupus”, bensì di una ricerca: è questo che ora mi manca e cerco da solo nel cupo del bosco; sapevo che c’era già stata una vita feroce e felice in cui avevo vissuto la terra mia madre, e il cielo stellato e il sole mio padre e stelle sorelle e fiumi e mari, pietre miliari del ricordo. Cercare se stesso nella natura, ma non solo: ci sono i figli e le vite, il sogno e il rimpianto.

Emanuele apre la 7^ Edizione dei “Ritratti di Poesia”,
nel Tempio di Adriano, il 1° febbraio 2013

Nel sonno dei figli si scopre un intenso sentimento, è questa la gioia più grande. Le vite nel corso degli anni spariscono, rimane il ricordo, si perdono nel nulla esperienze ed emozioni. Restano rari momenti: un sorriso di donna, un grido d’amore di figli, la polvere tutto sopisce e ricopre, e nulla più torna nella vita. Il sogno che sempre ritorna non porta più a me il tuo dolce bacio – sospira – ogni ora sapendo che nulla sarà mai come allora. Nella canzone d’amore c’è il ricordo di una figura lontana che si cerca di far rivivere: le forme tornite, la veste gioiosa, le labbra dischiuse, e anche il passo armonioso, l’andare altero, lo strano sorriso: rimpiango il tempo perduto e come i rami spezzati mi butto alle spalle i ricordi sfinito e perduto. Ci sono i sogni portati dal delirio di gloria che atterrano l’uomo ma lo spingono anche a volare alto nel cielo come nuvole d’oro. E sono proprio le nuvole l’immagine terminale del lungo cammino che abbiamo percorso con il poeta.

Per questa poesia non ci limitiamo a completare con le parole prese fior da fiore il filo d’Arianna nel labirinto dei sentimenti immersi nella natura, la riportiamo integralmente nella sua scansione in versi: “Nuvole immobili/ il sole le passa/ riscalda le pietre sconnesse del tempo/ l’umano rincorre l’umano/ costretto da un vivere incerto/ inquieto si aggira/ chiedendo conferma…”.

Qualunque parola di commento guasterebbe, è un percorso di vita e di sentimenti che sentiamo anche nostro, grati al poeta di averci offerto questa sua introspezione che illumina tutti noi, ci fa aprire gli occhi dinanzi a stimoli emotivi che ora ci appaiono più chiari e coinvolgenti, dopo aver fatto un viaggio emozionante che solo la poesia può rendere con le parole che vengono scolpite. Al termine di questo percorso ci torna in mente il commento della poetessa Spaziani alla platea: la poesia é un apprendimento della realtà, è un modo di vedere le cose come grandi simboli, “i versi sono il sogno che ha sognato con me, attraverso la poesia vogliamo che gli altri sognino con noi”.

Ebbene, con le poesie di Emanuele non abbiamo sognato solo l‘Africa e la sua Sicilia, abbiamo sognato ni stessi, le nostre illusioni e le nostre inquietudini. Abbiamo sognato la nostra vita.

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Emmanuele F. M. Emanuele

Info

Pubblicato il 26 ottobre 2010 in cultura.inabruzzo.it, non più raggiungibile. Cfr. i nostri articoli su manifestazioni legate al prof. Emanuele: in www.arteculturaoggi.com, sul conferimento a lui del Premio Montale 14, 20 aprile 2019, sulla maratona poetica annuale da lui ideata e promossa, organizzata e animata, “Ritratti di poesia”, 17 febbraio 2019, 1°, 5 marzo 2018, 13 marzo 2017, 19 febbraio 2016, 15 febbraio 2013; in cultura.inabruzzo.it, sui “Ritratti di Poesia” 9 maggio 2011, sul recital delle sue poesie al Quirino nel 2010 (testo qui ripubblicato integralmente) 24 ottobre 2010; su un convegno Unioncamere in materia economica 17 aprile 2009; in fotografia.guidaconsumatore, sui “Ritratti di poesia” 30 gennaio 2012 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini della serata del 21 ottobre 2019 sono state fornite da Comin & Partners che si ringrazia, con i titolari dei diritti, illustrano il testo che riporta anche la nostra cronaca e i contenuti della serata di nove anni fa, il 20 ottobre 2010; le immagini della serata del Premio Montale e delle tre manifestazioni dei “Ritratti di Poesia” del 2019, 2018 e 2013 sono state riprese da Romano Maria Levante rispettivamente a Palazzo Althemps e al Tempio di Adriano. In apertura, Emanuele in mezzo alla platea del Quirino il 21 ottobre 2019 ; seguono, uno scorcio della platea del Quirino nella serata del 21 ottobre 2019, e il recital delle poesie di Emanuele: Geppy Gleijeses, Marisa Laurito, Andrea Giordana; poi, Geppy Gleijeses legge le poesie di Emanuele, e Marisa Laurito legge le poesie di Emanuele; quindi, Emanuele dopo aver ricevuto il Premio Montale nel palazzo Althemps l”11 aprile 2019, Emanuele consegna il Premio per la poesia internazionale della 13^ Edizione dei “Ritratti di Poesia” alla poetessa sudafricana Ingrid de Kock, nel Tempio di Adriano il 15 febbraio 2019, ed Emanuele consegna il Premio per la poesia italiana della 12^ Edizione dei “Ritratti di Poesia’ alla poetessa Donatella Bisulli, nel Tempio di Adriano, il 9 febbraio 2018; infine, Emanuele apre la 7^ Edizione dei “Ritratti di Poesia”, nel Tempio di Adriano, il 1° febbraio 2013, ed Emmanuele F. M. Emanuele; in chiusura, Il Teatro Quirino.

Il Teatro Quirino

De Chirico, trilogia III – 3. Le ultime 3 sezioni del “ritorno al futuro”, alla GAM di Torino

di Romano Maria Levante

Concludiamo  il racconto della mostra “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro, Neometafisica e Arte contemporanea” ,  tenuta  a Torino dal 19 aprile al 25 agosto 2019 alla  GAM, Galleria Civica  d’Arte Moderna e Contemporanea,   organizzazione della GAM, direttore Riccardo Passoni,  con “Metamorfosi”, presidente Pietro Folena, e la “Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, presidente Pietro Picozza. a cura di Lorenzo Canova, membro del Consiglio scientifico della Fondazione, e di Riccardo Passoni, della GAM, che hanno curato anche il Catalogo della Gangemi Editore International Arte.. Con questo terzo articolo sulla mostra si conclude quella che abbiamo chiamato la trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità:  aperta dal volume di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, un vero Film sullo straordinario percorso artistico ed esistenziale del Maestro,  proseguita con la mostra di Genova “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica” e conclusa con la mostra di Torino di cui raccontiamo le ultime sezioni espositive, con  de Chirico impareggiabile ispiratore di artisti in qualche modo suoi epigoni.

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Giorgio de Chirico, “Interno metafisico con mano di David”, 1968

Abbiamo delineato in precedenza il percorso che porta de Chirico alla Neometafisica nel corso degli anni ‘60, la riproposizione in forme diverse e con una differente resa cromatica e pittorica dei contenuti della prima Metafisica – che risale a mezzo secolo più indietro, fatto di per sé straordinario –   con le “Piazze d’Italia”  e  i “manichini”,  gli “interni ferraresi” e  gli “archeologi”. 

La Scultura, partendo da Michelangelo

Dalla pittura alla scultura con l’intermezzo della 4^ sezione, “Verso Michelangelo”, il grande Maestro rinascimentale del quale  de Chirico scrisse nel 1920: “L’ultimo grande pittore  italiano, nel quale visse il classicismo con tutti i suoi segni e i suoi misteriosi simboli è stato Michelangelo”. Viene presentato un suo disegno, “Studio di braccio per una figura della Volta Sistina”,  1508-09, importante effetto della presenza nell’organizzazione di  “Metamorfosi”, la società presieduta da Pietro Folena che con i suoi stretti rapporti con Casa Buonarroti ha presentato nel 2012 a Roma una serie di  disegni di Michelangelo abbinati a quelli di Leonardo forniti dalla Biblioteca Laurenziana.

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Giorgio de Chirico, “Adamo”, seconda metà anni ’50

Tornando a de Chirico, un braccio michelangiolesco figura nell’”Interno metafisico con mano di David”, 1968,  un “quadro nel quadro”  con dietro tavolozza, listelli, squadre “ferraresi” inquadrati in una “lira”  con un’ampia finestra dalla quale si vedono  cielo ed edifici, un interno aperto per nulla claustrofobico. E poi i “d’aprés” con segno molto marcato di particolari della Sistina, “Adamo” e i particolari di “Dio”  e “Il profeta Giona”.

Di Tano Festa – già citato per la sua “Piazza d’Italia” fotografica – altre due opere, questa volta di derivazione michelangiolesca sulla scia di de Chirico, “La creazione dell’uomo”, 1966, la celebre immagine delle dita che si avvicinano per la trasmissione della vita, e “Michelangelo according to Tano Festa n. 34”, 1967.

Tano Festa, “Michelangelo according to Tano Festa n. 34”, 1967

Con questa suggestiva introduzione si passa allo “Spazio scultura” della 5^ sezione, con un’ulteriore galleria  neometafisica aperta  e “gioiosa”, senza l’inquietudine della “sospensione”. Sono dipinti, ma il senso della scultura è nei rapporti con lo spazio, nelle immagini scultoree che arrivano fino ai monumenti al centro delle “Piazze d’Italia”, de Chirico si raffigura come statua in alcuni casi, e scrive fin dal 1918: “Un dì sarò anch’io statua solitaria. Sposo vedovo sul sarcofago etrusco”.  Una “presenza pietrificata in un mondo pietrificato”, con la nostalgia per un passato mai dimenticato.

Ne troviamo segni vistosi negli “Archeologi”, 1968, una coppia con il petto ricolmo di templi e statue, colonne spezzate e arcate, torri e altro ancora, in perfetto ordine, l’atteggiamento è sereno, uno dei due tiene la mano sulla spalla dell’altro che tende la mano quasi dialogando, le teste pur a uovo sono accostante, nulla di misterioso, si trovano all’aperto con un vasto orizzonte alle spalle.

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Mimmo Paladino, “Squadra”, 1999

Così il primo piano di due teste  di manichini, la prima con una squadra in una sorta di armatura, “Le maschere”, 1970, è un interno ma con l’ampia finestra aperta sul cielo e su una fuga di torri bianche. Una finestra anche in “Mistero a Manhattan”, 1972, l’enigma è nella testa di Mercurio alato, un “quadro nel quadro”, con una poltrona invasa  da segni, tra due tende teatrali, l’apertura sui grattacieli newyorkesi che si stagliano nel cielo toglie ogni inquietudine al mistero pur presente.

Anche in “Mobili e rocce in una stanza”, 1973, e “Il poeta e il pittore”, 1975, la finestra dà un’apertura sull’esterno, ma in entrambi sono piccole e lasciano vedere solo il cielo con nuvolette bianche. Nel primo, l’apertura fa svanire l’inquietudine che verrebbe dall’accostamento tra elementi interni come i mobili, e da esterno, come templi e rocce, con l’aggiunta di una statua; mentre nel secondo, l’apertura, con l’aggiunta di un quadro  raffigurante una “Piazza d’Italia”, rende  sereno  e non inquieto il colloquio dei due manichini seduti al tavolo tra listelli e squadre “ferraresi”. Non ci sono finestre perché è all’aperto “Termopili”, 1971, con templi grandi e piccoli tra una “lira” teatrale e  un traliccio al centro – che ci fa pensare ai tralicci metallici di Uncini, qui presente con altra interpretazione – in una visione metafisica modernizzata.

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Giorgio de Chirico, “Termopili”, 1971

Sono tutte pitture con elementi scultorei che hanno ispirato artisti in qualche modo divenuti epigoni. Mimmo Paladino – che attraversa i diversi generi artistici, disegno e incisione, pittura e scultura e fonde elementi di diverse aree culturali –  in “Squadra” , 1999, recepisce l’elemento “ferrarese”’ e il mistero metafisico con il manichino seduto, statua che otto anni dopo, in “”Senza titolo (Rabdomante)”, 2007,  rappresenta  in piedi contro il muro trafitto alla schiena da rami alla san Sebastiano. Le  scultoree sono  di bronzo, come “Architettura”, 2000, scatola con fiocco di cui il titolo sottolinea la struttura. A questo associamo “Casa, interno familiare”, 1969, di Giosetta Fioroni – anch’essa inquieta sperimentatrice della Scuola romana, dalla pittura alla scultura, dal collage alla fotografia fino alla ceramica – in legno dipinto a colori brillanti, e la terracotta dipinta, con altri materiali, “La ballata del Cervo”, 1979, di Fausto Melotti – scultore di costruzioni fragili e aeree –  un teatrino con al culmine due piccoli manichini  dinamici ed espressivi.  

Ritroviamo una statua in posizione eretta in  “Pelotaris (Yellow Eyes”, 1999, di Juan Munoz – in una delle sue tipiche figure scultoree monocromatiche fragili e coinvolgenti, tra illusione e realtà –  avvolta come una mummia in una immobilità metafisica; mentre il video di  Vanessa Beecroft, “VB47”, 2001 – specialista nei “quadri viventi” ispirati al mondo di oggi incentrati soprattutto sulla condizione della donna –  presenta un manichino femminile con la testa a uovo ma senza segni divinatori.

Ruggero Savinio, “Stanze (con cielo nero)”, 2007

Le “ombre” in de Chirico e negli epigoni

Dalla scultura alla fotografia, sempre sulla scia dei  motivi dechirichiani. Claudio Abate – che con i suoi scatti ha scavato nel rapporto tra artista  e opera d’arte, come nel caso di Carmelo Bene –  riprende la “performance” di  “Jannis Kounellis, ‘Apollo’ 1973, Gelleria Liverani”, 2010, nella quale mascherato da Apollo è seduto a un tavolo con ruderi, ai lati un corvo e un suonatore di flauto. Mentre Hilla e  Bernd Becher – la coppia impegnata dalla fine degli anni ’50 a rendere in modo sistematico lo spirito della  nascente archeologia industriale con “Wasserturn”, tra il 1972 e il 1995 fotografano 4 strutture industriali di vario nome nella loro fissità e solitudine metafisica, immagini desolate e desolanti.

L’’opposto in“Promenade (Dittico)”, 1973, di Fabrizio Clerici – eclettico nei diversi generi artistici coltivati e nella fusione dei vari stili dal classico all’orientale, dal rinascimentale al barocco –  un dipinto a olio con un’immagine quanto mai dinamica che mostra un vasto spazio interno sul quale si lancia verso l’apertura nella parete opposta un cavallo rampante che sbuca da una porta con la testa e le zampe anteriori protese nel galoppo,  non si può non associare ai cavalli di de Chirico.

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Giorgio de Chirico, “La battaglia sul ponte”, 1969

Dalle Sculture, nella  6^ sezione si passa alle “Ombre”, sulle quali de Chirico ebbe a dire “ovunque la consolazione dell’ombra”, dopo aver constatato “ovunque la volontà del sole”. Così si manifesta tale consolazione: “Le ombre tracciano sul suolo dei rettangoli, dei quadrati, dei trapezi di un nero così dolce che l’occhio bruciato ama rinfrescarsi in essi”.   

Quelle che vediamo nella sezione non sono, però, le ombre metafisiche delle arcate,  e delle presenze misteriose, ma ombre che nascono idealmente dal “Sole spento” e si materializzano in un nuovo “Guidoriccio da Fogliano” nel cavaliere a cavallo  di “Il ritorno al castello”, 1969, sullo sfondo non un tempio greco ma   un castello medievale con cinque  torri; le stesse che si vedono dalla finestra di un interno nel quale si addensano ombre frastagliate come i contorni del cavaliere,   è “La battaglia del ponte”, dello stesso anno, e nello stesso luogo qui trasportato all’interno, perché anche il cavaliere viene ripreso mentre passa sul ponte: le due “lire” di contorno sottolineano l’aspetto teatrale, mentre le squadre da disegno in evidenza ricollegano alla metafisica “ferrarese”. Vediamo anche “Bagni misteriosi con cigno”, 1958,  l’ombra divide in due il tipico parquet-acqua.

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Gino Marotta, “Oasi d’ombra, 1966-73 – Giraffa d’ombra, 1969 –Albero d’ombra“, 1966

Le ombre di de Chirico hanno ispirato Gino Marotta – lo scultore che, pur restando figurativo, ha accentuato gli aspetti artificiali rispetto a quelli naturali – il quale le ha  applicate ai suoi personali metacrilati, agili volumi di animali e piante, dal 1966 al 1973. “Oasi d’ombra”   inizia con “Albero d’ombra”  e prosegue con  Fenicottero d’ombra”,  “Giraffa d’ombra”  e “Pantera apparente”,

Un’ombra su un paesaggio urbano con viale alberato in “Fidenza. Da ‘Il profilo delle nuvole’”, 1989, di Luigi Ghirri – che nella fotografia ha approfondito il rapporto tra immagine naturale e artificiale –  in cui l’oscurità della parete della casa è rotta dalla luce che proviene da una finestra illuminata, e anche sul viale si riflette la luminosità che proviene dall’abitazione; invece  in “Stanze (con cielo nero)”, 2007, di Ruggero Savinio –  il figlio di Alberto, fratello di de Chirico, che nel raffigurare spazi e figure cura il rapporto tra colore, luce e materia – la finestra è oscura perché vista dall’interno, mentre l’ambiente con due persone è ravvivato dall’intensa vivacità cromatica nel rosso dominante. Mentre  l’”Ombra di tre parallelepipedi”, 1973, di Giuseppe Uncini – interessato agli aspetti strutturali, con le sue installazioni metalliche, nelle loro relazioni con lo spazio –  richiama le ombre delle “Piazza d’Italia”  in una astrazione geometrica solo evocativa, non rappresentativa.

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Renato Guttuso, “”La visita della sera”, 1980

Particolarmente significativa ci è sembrata l’”ombra” che cala sugli alberi all’esterno di palazzo del Grillo in “La visita della sera”, 1980,  di Renato Guttuso, il grande artista dalla pittura impegnata politicamente, maestro del realismo contro formalismi e astrazioni, che fu vicino a de Chirico, lo inserì nel celebre dipinto “Caffè Greco” celebrandone l’intesa frequentazione, e lo difese, pur  nella ben diversa cifra stilistica e di contenuto: nel cortile della residenza di Guttuso si muove una tigre la cui presenza, nell’ombra sullo sfondo, crea una sospensione metafisica intensa e misteriosa.

Come intensa e misteriosa è l’ombra che avvolge la fotografia di Gianfranco Gorgoni – che ha documentato le opere delle avanguardie, dalla Pop Art all’arte concettuale, fino a contribuire al lancio della Land Art –  con “De Chirico e Warhol a New York”, 1972, ne emergono i volti percossi da una luce violenta, il fotografo li ha colti con un’espressione molto diversa, ferma e consapevole quella di de Chirico,  stralunata e  assorta quella di Warhol, in una sorta di surreale passaggio di testimone.

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Giorgio de Chirico, “Piazza d’Italia (monumento al poeta)”, 1969

L’identità nella sua figura e nelle interpretazioni dei contemporanei

La 7^ e ultima sezione, “L’artista, l’identità, lo studio”,  è il degno coronamento di una galleria che si è dipanata nel passaggio da de Chirico ai suoi epigoni, perché vediamo il Maestro in persona  con fotografie e autoritratti suoi oltre ad opere  di artisti che lo celebrano evocandone la figura.

Per lo studio vediamo “Sole sul cavalletto”, 1972, con tanti suoi motivi, il sole dardeggiante sul cavalletto e il “sole spento” all’orizzonte, la poltrona all’interno con le squadre da disegno “ferraresi” e i templi e ruderi all’esterno; mentre per la sua figura in forma scultorea “”Piazza d’Italia (monumento al poeta)”, 1969, è al centro ancora con le squadre “ferraresi” in primo piano,  l’alto comignolo sul fondo e le case in lontananza, le arcate ai lati tra le “lire” teatrali.

L’identità viene espressa dai disegni “Il ritorno di Ulisse”, metà anni ’30, e “Il ritorno di Ulisse  per ‘Hebdomeros”, 1972, a distanza di oltre 35 anni il motivo in cui si identifica per la sua vita movimentata, tra Grecia e Francia, Germania e Italia, fino all’America, sempre con il pensiero rivolto alla sua Itaca greca. Maurice Owen, Russell Richards – il primo, studioso dei rapporti tra la metafisica dechirichiana e la prospettiva, i dipinti di de Chirio e le antiche pitture parietali, il secondo degli spazi reali e virtuali e dell’interattività –  in Hebdomeros  + KikiTt Visuonics”,  rendono omaggio al protagonista del romanzo di de Chirico con un’animazione digitale di immagini sovrapposte.

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Giulio Paolini, “La caduta nel mondo”, 2009

Infine l’artista, del quale Claudio Abate presenta la fotografia a figura intera intitolata semplicemente “Giorgio de Chirico”, 1972,  sullo sfondo alle sue spalle si riconosce Salvador Dalì in giacca bianca che lo guarda mentre viene avanti; lo stesso Abate ci dà il profilo della sua figura fissato in camera oscura in una straordinaria somiglianza con i celebri profili di Hitchock, manca solo la musichetta che li accompagnava. Altre immagini del Maestro, bambino ad Atene,  a Monaco di Baviera nel 1907, a Parigi nel 1928 completano la galleria fotografica. Mentre il suo “Autoritratto nudo”, 1945, ci dà l’autorappresentazione più estrema di un artista che si è ritratto con gli abiti più sontuosi delle diverse epoche nella voluta teatralizzazione della sua figura.

Ebbene, proprio a questo autoritratto che abbiamo definito estremo si è ispirato dichiaratamente  Luigi Ontani  con “Autoritratto nudo (d’aprés Giorgio de Chirico)”, 1978,  replicato 33 anni dopo con “SemiNudo (d’aprés Giorgio de Chirico)”, 2011, due immagini fotografiche nella stessa positura  di Ontani giovane e poi maturo, nel primo la “foglia di fico” è un asciugamano annodato come in de Chirico.

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Giorgio de Chirico, “”Autoritratto nudo”, 1945

Anche Giulio Paolini – impegnato in vari campi, dalla fotografia alla scultura fino all’installazione, dal teatro all’editoria, nella ricerca sull’arte nel confronto con le immagini in rapporto con il fruitore – si è riferito all’Autoritratto nudo” facendone l’approdo di una avvicinamento progressivo di immagini e visioni nella mostra del 2010 L’enigma dell’ora” svoltasi a Roma al Palazzo delle Esposizioni insieme alla mostra “De Chirico e la natura”. Di Paolini è esposto il misterioso “Et quid amabo nisi quod enigma est?, 1969-70,  con la mano che mette nella tasca della giacca il proprio biglietto da vista, il tutto con un titolo dechirichiano; mentre è esplicito e palese “La caduta del mondo”, 2009, una evidente proposizione di una “Piazza d’Italia” con torre ed ombre e soprattutto la statua che riproduce la sagoma di de Chirico nelle due visioni  della luce bianca e dell’ombra nera che si proietta al suolo. 

Un’altra opera di Paolini, “Senza titolo (GDC/GP), 2016,  presenta i fogli dipinti assemblati e appesi nello studio. Sono solo alcune occasioni del suo continuo confronto con de Chirico del quale ha ammirato la persistenza al di là dei cicli artistici, per la sua spontaneità che supera gli eventi temporali.  “Nessuno meglio di de Chirico  – ha detto nel 2016 – ha saputo destreggiarsi, in epoca moderna, nell’insostenibile ruolo di ‘artista contemporaneo’, non per un attento sorvegliato, equilibrio tra passato  e presente, ma per essersi abbandonato  a una trionfale caduta libera negli abissi del tempo”.   E si tratta di un artista dell’avanguardia concettuale, immerso nella modernità ma senza dimenticare la tradizione.

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Luigi Ontani, “Autoritratto nudo
(d’après Giorgio de Chirico)”, 1978

Un’immagine simbolica del volto di de Chirico è nell’Opera Ubiqua” (Delfina D.D. – Auronia D. D.), di Gino De Dominicis – artista eclettico, dall’arte concettuale al figurativo alle “performance” provocatorie – con un sorriso enigmatico in un’espressione statuaria, mentre Vettor Pisani – le cui opere concettuali e simboliche sono “aperte a interpretazioni visuali e mentali, dai risvolti esoterici e inquietanti” –  nel suo  “Vero falso d’autore”, 2009, evoca l’inizio della metafisica con  immagini di quadri di Bocklin che si intravvedono nel buio.  La  “Divisione dello specchio”, 1975, di Michelangelo Pistoletto – dalla Pop Art all’arte povera, con il coinvolgimento dell’osservatore come nei “quadri specchianti” – rappresenta una specie di labirinto metafisico con un gioco di riflessi, e “Senza titolo”, 1988, di Claudio Parmeggiani  – nella sua ricerca concettuale su ruolo e natura delle immagini rispetto ai referenti emotivi e culturali – ci sembra evochi il celebre guanto di “Chant d’amour”, la  fase con oggetti insensati,  insieme ad altri motivi.

Per ultimo abbiamo lasciato Servo Muto Ariano (da Ariano)”, 1995, con vestito, cravatta e scarpe su un poggia abito che sostiene il simulacro di una presenza inesistente,  c’è solo l’abbigliamento. Ma non è un’assenza, l’opera vuole sottolineare la presenza insostituibile, un  mistero quanto mai intrigante che riporta al clima enigmatico della metafisica dechirichiana. E’ un’opera di Fabio Mauri – anch’egli dell’avanguardia, vicino a Pasolini, le cui opere sono legate alla comunicazione  e ai modelli comportamentali nei loro risvolti  sociologici  e ideologici – il quale nel 2002 ha avuto queste parole per il Maestro: “De Chirico non ci ha insegnato cosa è  l’arte, ma cosa è e cosa può essere l’artista, cosa è la sua lungimiranza, la sua persistenza, la sua poesia, con quanta cura si devono gustare i propri alimenti… Come si fa  a non amarlo per sempre?”.

Ci sembra questa la migliore conclusione della  trilogia dechirichiana nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità.

Fabio Mauri, “Servo Muto Arano (da Ariano)”, 1995

Info

Torino, GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Catalogo “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro” , a cura di Lorenzo Canova e Riccardo Passoni, Gangemi Editore International, aprile 2019, pp. 192; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della terza parte della trilogia su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, questo 3° articolo, che segue i due usciti il 25 e 27 settembre, conclude l’intera trilogia aperta dal primo articolo del 3 settembre 2019. Per la seconda parte della trilogia, sulla mostra di Genova, 3 nostri articoli sono usciti il 18, 20, 22 settembre; per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, 7 nostri articoli, sempre in questo sito, sono usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 25 settembre. Sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com Guttuso 14, 16, 30 luglio 2018, 16 ottobre 2017, 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, 25, 30 gennaio 2013, Adami 16 gennaio e 12 marzo 2017, Warhol 15, 22 settembre 2014, Fioroni 1° gennaio 2014, Pistoletto 11 aprile 2013, Abate 2 gennaio 2013, Marotta 13 ottobre 2012: in cultura.inabruzzo.it, Paolini 10 luglio 2010; in www.archeorivista.it, Paladino 26 gennaio 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le ultime 4 sezioni della mostra commentate nel testo e sono inserite facendo precedere, ove possibile, l’opera di de Chirico a quella o quelle di artisti riferiti a lui. In apertura, Giorgio de Chirico, “Interno metafisico con mano di David” 1968; seguono, Giorgio de Chirico, “Adamo” seconda metà anni ’50, e Tano Festa, “Michelangelo according to Tano Festa n. 34” 1967; poi, Mimmo Paladino, “Squadra” 1999, e Giorgio de Chirico, “Termopili” 1971; quindi, Ruggero Savinio, “Stanze (con cielo nero)” “2007, e Giorgio de Chirico, “La battaglia sul ponte” 1969; inoltre, Gino Marotta, “Oasi d’ombra 1966-73 – Giraffa d’ombra 1969 –Albero d’ombra” 1966, e Renato Guttuso, “”La visita della sera” 1980; ancora, Giorgio de Chirico, “Piazza d’Italia (monumento al poeta)” 1969, e Giulio Paolini, “La caduta nel mondo” 2009; continua, Giorgio de Chirico, “”Autoritratto nudo” 1945, e Luigi Ontani, “Autoritratto nudo (d’après Giorgio de Chirico)” 1978; infine Fabio Mauri, “Servo Muto Arano (da Ariano)” 1995 e, in chiusura, Gianfranco Gorgoni, “De Chirico e Warhol a New York” 1972.

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Gianfranco Gorgoni, “De Chirico e Warhol a New York”,1972

De Chirico, trilogia III – 2. Le prime 3 sezioni del “ritorno al futuro”, alla GAM di Torino

di Romano Maria Levante

Proseguiamo il racconto della mostra “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro, Neometafisica e Arte contemporanea”, svoltasi a Torino dal 19 aprile al 25 agosto 2019 alla  GAM, Galleria Civica  d’Arte Moderna e Contemporanea,   organizzata dalla GAM, direttore Riccardo Passoni,  con “Metamorfosi”, presidente Pietro Folena, e la “Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, presidente Pietro Picozza. a cura di Lorenzo Canova, membro del Consiglio scientifico della Fondazione, e di Riccardo Passoni, della GAM, che hanno curato anche il Catalogo della Gangemi Editore International Arte.

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Giorgio de Chirico, “Ettore e Andromaca davanti a Troia”, 1968

E’ la  terza parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte, e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, ne abbiamo già delineato i contenuti, ora passiamo in rassegna la galleria di opere esposte nelle 5 sezioni: le prime due sulle opere metafisiche di de Chirico ispiratrici  di citazioni e riferimenti contenuti nelle opere di altri artisti raggruppate nelle altre sezioni, con ritorni su de Chirico scultore e impareggiabile creatore di spunti sempre nuovi e intriganti per altre interpretazioni.

Abbiamo ripercorso in precedenza l’itinerario che porta de Chirico alla Neometafisica nel corso degli anni ‘60, la riproposizione in forme diverse e con una differente resa cromatica e pittorica dei contenuti della prima Metafisica, che risale a mezzo secolo più indietro – cosa di per sé straordinaria –   con le “Piazze d’Italia”  e  i “manichini”,  gli “interni ferraresi” e  gli “archeologi”. 

Così definisce questo itinerario  Riccardo Passoni, direttore della GAM e curatore della mostra con Lorenzo Canova: “Da questo lungo percorso di conferma e di verifica del sé, nasceranno nei suoi quadri in questa fase finale  nuovi arricchimenti e  travestimenti compositivi, sia in esterni sia in interni. Arricchimenti di informazioni visive, messi alla prova in iconografie  proliferanti, compaiono in opere che non rinunciano agli antichi schemi compositivi”.  Questo per i contenuti, ed ecco come nascono nell’artista in modo nuovo e come sono espressi in una tecnica pittorica adeguata al diverso “animus”:  “De Chirico li intride di nuova ironia, e di quella giocosità su cui ha insistito la critica recente, rimarcando al contempo il cambio di  timbro dei colori, il rischiaramento di una tavolozza scelto per una pittura non più gravida di ansie, ma che si voleva divertire – verrebbe da dire – alla prova della reazione del fruitore”. 

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Enzo Gribaudo, “Omaggio a de Chirico” 1968

Non  si sente più l’inquietudine e la sospensione della prima Metafisica dinanzi all’enigma e al mistero, d’altra parte l’origine è ben diversa. De Chirico parla di “evoluzione  di visioni, apparenze e sensi reconditi di quei soggetti che ho eseguito prima, per molti anni”. E ne precisa contenuti e forme espressive: “Queste visioni  dei quadri da me dipinti da alcuni anni mi si presentano in vari modi. A volte in stato di perfetta coscienza, guardando, magari, un quadro della mia produzione precedente, e pensando: ecco, quel personaggio potrebbe essere molto più  chiaro di colore, la camera dove si trovano uno o più personaggi potrebbe pure essere di una tonalità più chiara e sulla parete di destra potrebbe esserci una finestra, o un vano, dal quale si sorgerebbe  un po’ di cielo, con delle nubi, e qualche edificio di una città immaginaria”. Poi aggiunge: “A volte anche queste visioni dei quadri  di questi ultimi anni mi si presentano di notte, ma non proprio in sogno, ma in quello stato di semi incoscienza che precede il sogno”. La matrice onirica in lui è sempre presente.

D’altra parte, quando nasce la Neometafisica c’è il ritorno generale alla figurazione, sia pure nelle forme provocatrici del neo.dadaismo e della Pop Art, e  in questo contesto – afferma sempre Passoni – “De Chirico è il modello, non l’epigono tardivo di tante situazioni, che pure  a lui  furono senz’altro debitrici… Perché  la sua pittura rappresentativa, con il suo carico di messaggi, anche anti-naturalisti, indicava sin da  subito un nuovo paradigma fortissimo di svolta anti Informale”.

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Giorgio de Chirico, “Le muse inquietanti “1947

La galleria espositiva presenta gli artisti con le opere “debitrici” verso de Chirico, in collegamento con la Neometafisica e con altri aspetti della sua attività poliedrica, scultura compresa, in una sequenza così precisata dal curatore: “Il nostro percorso si snoderà dalla citazione esplicita, diretta, al pretesto intelligente; da una riflessione  sul senso dello spazio, anche secondo una resa tridimensionale, alla sosta degli aspetti più misteriosi e sfuggenti dell’opera del grande maestro-interlocutore: fino all’interrogazione sul sé, da parte dell’artefice contemporaneo: sé fisico, sé mentale, e di riflesso su forza  e limiti dell’operare artisticamente, sulla possibilità o meno di incidere nel mondo”. Delle 6 sezioni, la 1^ é riservata a de Chirico, nelle altre ci sono sue opere ed opere di artisti contemporanei a lui “debitori”.

La Neometafisica nelle 9 opere della 1^ sezione

La 1^ sezione presenta “Giorgio de Chirico Neometafisico”, con la sfilata di  9 dipinti nei quali, come in una anteprima teatrale, vengono riproposti alcuni dei suoi principali motivi.

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Mimmo Rotella, “ De Chirico”, 1988

Orfeo Trovatore stanco” , 1970, li riassume idealmente raffigurando, tra un sipario teatrale aperto e le squadre-righelli della metafisica “ferrarese”, il “manichino” dalla testa ad uovo seduto con il torace ricettivo di oggetti come negli “Archeologi”, le arcate delle “Piazze d’Italia” e lo sfondo lontano con torre ed edifici. Dello stesso anno “La tristezza della primavera”, in cui possiamo trovare la “nuova ironia” di cui ha parlato Passoni, essendovi tutt’altro che la tristezza del titolo nel grande albero della vasta apertura nel fondo; inoltre,  dietro al “manichino” seduto spunta una testa a uovo e un braccio, per sorprendere o scherzare, con un secondo albero dietro una  piccola finestra.

Altro “manichino” seduto “Il pensatore”, 1973,  nel corpo un assemblaggio di oggetti, una colonna e una testa scolpita,  libri e altro, a sinistra le arcate, a destra l’ingresso di un tempio, elementi evocativi dell’enigma e del mistero ma senza sospensione e inquietudine.  Anche  per “Il meditatore”, 1971, figura seduta  e umanizzata nella testa, non più ad uovo da “manichino”, pur nell’inconsueto  viluppo che ricopre il corpo e nella chiusura in uno spazio ristretto, il potenziale effetto inquietante e claustrofobico è alleggerito dalla finestrella con l’azzurro del cielo e le nuvolette bianche.

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Francesco Vezzoli, “Portrait of Sophia Loren as the
Muse of Antiquity (After Giorgio de Chirico)”, 2011

Dalla finestrella sul cielo alla totale apertura paesaggistica sul mare blu sotto un cielo azzurro che scolora all’orizzonte in “Frutta con busto di Apollo”, 1973, in primo piano mele e banane, un uovo e un melograno, un piccolo grappolo d’uva con acini sparsi e un grande ananas, una vera “vita silente”  piuttosto che “natura morta” sotto gli occhi di Apollo, il dio vaticinatore la cui testa pensante è sulla destra.

“Bagni misteriosi” è dello stesso 1973, anche qui ampia apertura sul cielo con le consuete nuvolette  orizzontali e l’immersione dei due bagnati nudi e “in carne” nell’acqua-parquet  caratteristica di questa creazione, tra colonne smozzicate e altre evocazioni.  Nell’anno successivo abbiamo “Il nuotatore nel bagno misterioso”, un torso michelangiolesco che nuota nell’acqua-parquet, l’ambiente ristretto e senza aperture, dopo l’”en plein air” dei “Bagni” del 1973, sarebbe claustrofobico se non fosse alleggerito dal cigno in primo piano, tra l’altro non bianco ma a strisce colorate, come conferma anche in questo caso dell’approccio ironico  e gioioso della Neometafisica.

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Andy Warhol, “The Disquieting Muses (After de Chirico)”, 1982

Del resto, del 1974 abbiamo altre due opere esposte a chiusura della sezione, entrambe in uno scenario aperto e in un clima euforico. “Cavalli antichi di Apollo” , si intitola il dipinto con una coppia di destrieri che scalpitano  rampanti da stemma araldico, tra ruderi di colonne e la facciata di un piccolo tempio. “Trofeo con testa  e tempio” l’apoteosi finale con una sorta di “totem” eretto sulla trabeazione di un tempio antico con una testa di statua greca, squadre da disegno e altri oggetti in un fitto assemblaggio che culmina in tre mani protese, due  dal pugno chiuso a braccio nudo, una con le cinque dita aperte, in carattere con il titolo; la piattaforma lignea del “trofeo” domina una pianura con dei templi, verso un orizzonte sempre più luminoso sotto un cielo azzurro intenso.

Le “Citazioni”, 20 opere nella 2^ sezione

Presentato così il de Chirico neometafisico, nella 2^ sezione con le “Citazioni” si entra nel vivo dell’influenza che ha avuto  sulle avanguardie dell’epoca, facendo precedere le opere “debitrici” da quelle cui si riferiscono o che  hanno inciso maggiormente sull’ispirazione degli autori.

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Giorgio de Chirico, “Gladiatore nell’arena”, 1975

“Ettore e Andromaca davanti a Troia”, 1968, è una prova ulteriore  del carattere nuovo della  Neometafisica, la composizione è ben diversa dalle figure ingessate di “Ettore e Andromaca” della metafisica precedente, i due “manichini” in primo piano hanno le bocche spalancate come se cantassero, dietro una selva di lance, un tempio e le mura sotto un cielo azzurro con le nuvolette  che si scolora nell’orizzonte, un’immagine gioiosa, sulla sinistra in basso il figlioletto Astianatte; e pensare che Ettore sarebbe andato al duello mortale con Achille senza scampo – “periremo, ma gloriosi, e alle future genti qualche bel fatto porterà il mio nome”, le sue parole – ed è struggente l'”Addio di Ettore ad Andromaca” con il confronto tra i valori della famiglia che premono in lei e quelli della patria e dell’onore che premono in lui. Di quest’opera troviamo una “citazione” fedele in “Omaggio a de Chirico” di Ezio Gribaudo – editore e collezionista d’arte, oltre che artista presente in mostre personali e collettive dall’inizio degli anni 50 – con un primo piano del gioioso “Ettore e Andromaca”  della Neometafisica tra altre figure evocative.

Ma anche la “Piazza d’Italia” diventa “Poesia d’estate” , 1970,  arcate e torre, ombre lunghe e treno sbuffante, con la statua di Arianna distesa  al centro, ma c’è una figura rassicurante sotto la grande arcata di destra che non fa avvertire la solitudine e la sospensione, l’enigma è risolto. Ne vediamo “citazioni” molto particolari nella visione di Mario Schifano – poliedrico tra cinema, musica e pittura, tra i fondatori della  Scuola di Piazza del Popolo,  inquieto tra monocromie e colori brillanti fino alla multimedialità –  in  “Senza titolo”, 1972, una delle 4 immagini fotografiche riprese dalla televisione  mostra la statua di Arianna in primo piano e il treno sbuffante sullo sfondo, cui si aggiunge  una grande bottiglia a sinistra. La più sorprendente è un’opera  recente, del 2012, dominata dall’immagine della diva, novella Arianna al centro della “Piazza d’Italia”, ma tutt’altro che distesa e sconsolata, eretta, le mani dietro la testa in bikini, nella  sua prorompente e provocatrice bellezza, si tratta di “Portrait of Sophia Loren starring in ‘Presente e Passato’ (After de Chirico)”. 2012, collage di carta, stampa  e getto d’inchiostro su tela e ricamo metallico.

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Franco Fontana, “Presence Absence, Roma EUR”, 1979

Del 1971 Interno metafisico con palla e biscotti”,  ben più arioso degli interni “ferraresi” nei quali si sentiva l’incubo della guerra alle porte, qui la fuga  delle forme triangolari di tonalità chiara del soffitto dà respiro alla scena; mentre ”Interno metafisico con sole spento” , e anche “luna spenta”, tra le squadre “ferraresi”, è ravvivato dal sole dardeggiante e dalla luna luminosa delle due grandi finestre laterali, con il cielo azzurro e gli edifici; è il sole che troviamo in un’altra fotografia dell’opera di Schifano appena citata. 

Sono del 1973 due coppie di “manichini”, quelli solo accennati da sagome lignee senza volume di “Le muse della lirica” dove la muse sono evocate dalla lira con il profilo del dio; e i “manichini” veri e propri, dalle teste a uovo e l’occhio divinatorio, con “incorporati” templi ed altro, di “Il dialogo misterioso”. In entrambi ampi squarci di esterno aperto tra tende teatrali. Il “manichino” è immortalato da Mario Schifano in “Maestro italiano del 900”, 1976, uno smalto su tela e plexiglas con la testa a uovo tra squadre “ferraresi” in un tripudio di violenti colori. 

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Giorgio de Chirico, “Le maschere”, 1970

Dopo questa reiterata “introduzione” metafisica, con “Le muse inquietanti”, versione del 1947 – quindi un quarto di secolo prima delle opere ora ricordate – inizia la serie dei lavori dei contemporanei ispirati direttamente alla metafisica. L’ispirazione più diretta e autorevole a questa fondamentale opera metafisica è quella di Andy Warhol – personalità eccentrica ed eclettica, tra i massimi esponenti della Pop Art –  il quale ne fa una  quadruplice replica cromatica sull’onda delle repliche dechirichiane, riconoscendogli esplicitamente il valore della sua scelta seriale tanto contrastata dai surrealisti.  

Mimmo Rotella –  innovatore con il  “decollage”, manifesti strappati poi incollati sulla tela in forme varie – presenta la sagoma dai contorni marcati di un manichino su una colonna tra brandelli di carta intitolato significativamente De Chirico”, 1988; intitola “Giorgio de Chirico”  l’omaggio di una sorta di statua con il suo nome delineata dai soli contorni su un piedistallo. La musa moderna impersonata in una diva nel recente “Portrait of Sophia Loren as the Muse od Antiquity (After Giorgio de Chirico)”, 2011, di Francesco Vezzoli – che esprime la cultura popolare in varie forme utilizzando personaggi dello spettacolo quali star dell’effimero mediatico –  figura statuaria con le “incorporazioni” degli “Archeologi” e l’innesto su una colonna come “musa inquietante”, con arcate e sfondo da “Piazza d’Italia”, due dei più celebri archetipi metafisici celebrati contemporaneamente.

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Mario Schifano, “Maestro italiano del 900″, 1976

Con “Mobili nella valle” , 1968, di de Chirico, troviamo la”ripetizione”, avente lo stesso titolo, ispirata a precedenti sue opere sul tema, di Mario Ceroli – fautore dell’“arte povera” con l’uso di materiali naturali per esprimere la realtà e l’ambiente in cui si svolge la vita quotidiana  –  che presenta dei veri mobili lignei, in una sorta di “ready made” ispirata dal Maestro.

“Il ventilatore”, 1972, di Emilio Tadini – scrittore e saggista oltre che pittore con una solida base teorica alle sue figurazioni improntate all’oggettività – evoca, nell’”Archeologia” della modernità le origini del “sole spento” dal ventilatore della Marelli, mentre “Dal ciclo restaurazione, Trovatore  da e per de Chirico”, 1973,  di Concetto Pozzati – dalla pubblicità alla pittura, dalla Pop art a figurazioni ironiche con riflessi metafisici, surrealisti e tradizionali – emerge un vero “manichino” dechirichiano in bianco-nero.  

 Per ultime,  due “citazioni” di concezione opposta. La prima è la successione di  capolavori immaginari tra cui la citazione dechirichiana di Ugo Nespolo – tra  Pop Art e dadaismo ha esplorato il rapporto tra arte e immagine con approccio ludico e trasgressivo – dal titolo Al Museo in volo & a zompi”, 1991; la seconda il monolitico totem di Luigi Ontani – sperimentatore in vari generi d’arte, autore  e modello, “tableau vivant” con il proprio corpo –  “Canopo Dioscuri DeChirico S’AVinio”  con delineate immagini delle opere dei due fratelli, spicca la celebre immagine metafisica della bimba che corre con il cerchio.

Henry Moore, “”Nuclear Energy”, 1964

Le “Derive”, la 3^ sezione con 25 opere

La galleria di de Chirico con i suoi epigoni prosegue  con la 3^ sezione sulle “Derive”, 25 opere tra cui 9 di de Chirico e 16 degli artisti che hanno fatto  riferimento a lui. La gioiosa Neometafisica torna all’aperto con  “I giocattoli del principe”, 1960, oggetti stravaganti in una “Piazza d’Italia” con arcate ma  senza statua, e La torre”, 1968, in primo piano imponente a quattro piani; al chiuso con due “Interni metafisici”, uno “.. con profilo di statua”, 1962, l’altro “… con nudo anatomico”, 1968, entrambe le figure del titolo sono inserite in una visione verso l’esterno, cui si aggiunge, nel secondo, una finestra con vista sull’officina, che tolgono ogni senso claustrofobico.

Anche i Gladiatori sono rappresentati in modo più aperto di quelli originari, addirittura abbiamo “Quattro gladiatori nella stanza con vista del Colosseo”, 1965, e “Combattimento di gladiatori”, 1969, in una rotonda molto teatrale. Ma poi “Gladiatore nell’arena”, 1975, ce lo presenta nel Colosseo non nella consueta veste umana, ma con la reincarnazione del “manichino” nella testa a uovo divinatorio sia pure con la carne e i muscoli in vista. Fino ai due enigmi, “Il segreto del castello”, fine anni ’60, e “Mistero di una stanza d’albergo a Venezia”,  1974, nel primo alle due tetre costruzioni sulla destra si contrappongono gli oggetti in primo piano e il ghirigoro sulla sinistra, che fanno svanire ogni incubo, mentre nel secondo una sorta di Ebdomeros si muove tra  pannelli arabescati dietro una sorta di sipario teatrale spalancato.

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Giorgio de Chirico, “Quattro gladiatori
nella stanza con vista del Colosseo”, 1965

I riferimenti più espliciti sono quelli di Henry Moore – il grande scultore dai costanti riferimenti a maternità, mito e storia, in una integrazione della forma tra interno ed esterno – con  “Nuclear Energy”, che richiama la testa di “manichino”, è del 1964 ma Moore ha dialogato con de Chirico addirittura dagli anni ’30; e di Salvo (Salvatore Mangione) – dall’“arte povera” all’“arte concettuale” fino   a una “pittura dei luoghi”, dalle valli alle pianure – con i suoi “Gladiatori”  del 1968 e il classicheggiante “Ippolito e Fedra” del 1977, che richiama Ovidio oltre de Chirico.  

Altri riferimenti diretti si riscontrano in Franco Angeli – che con altri artisti, in un legame anche esistenziale, creò la Scuola di Piazza del Popolo,  impegnato nel superamento dell’informale per meglio interpretare il suo tempo –  il quale in “Sabaudia”, 1986-88, mostra la torre e la falce di luna nera indubbiamente dechirichiane; e nei due “Presence Absence, Roma Eur”, 1979, di Franco Fontana – fotografo tra i primi a usare il colore non come mezzo ma come messaggio, impegnato nella ricerca sul paesaggio e lo spazio urbano nei suoi aspetti reali e onirici – che presenta, con i loro elementi metafisici, le arcate e le statue del “Colosseo quadrato”, le ombre lunghe  e l’atmosfera sospesa. Tano Festa – altro fondatore della Scuola romana di Piazza del Popolo che riportò alla figurazione dopo le avanguardie iconoclaste –  addirittura intitola “Piazza d’Italia 1977” la sua versione quasi evanescente del tema del Maestro, con arcate  e torri,  che troviamo anche nella stampa fotografica di Gabriele Basilico – il più noto fotografo di paesaggi urbani documentati nel loro valore identitario e  nei loro mutamenti, fino alle grandi metropoli – intitolata “Milano”, 2003, due grandi palazzi con al centro un monumento, “mutatis mutandis” una piazza metafisica .

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Salvo (Salvatore Mangione), “Gladiatori”, 1978

Più indirette altre “derive”, come  “Pour Vous Madame, Pour Vous Monsieur”, 1964, di Valerio Adami  – narratore figurativo ispirato ai fumetti  con un disegno preciso e un cromatismo uniforme per interni moderni e spersonalizzati –  è un occhio metafisico in una sovrapposizione bianca su una  misteriosa figura rosa, e “Rosso Veneziano”, 1965, di Lucio del Pezzo – originale nell’astrazione formale delle sue opere, animate da ironia e senso ludico dell’arte – una fila di  oggetti allineati che richiamano quelli “ferraresi”; “Unititled (Wall)”, 1971,  di Philip Guston – pittura ideologica  e di critica sociale la sua, che si muove tra la rappresentatività della figurazione e l’essenzialità dell’astrazione – è un muro evocativo nel suo rosa sfumato, con sopra dei reperti, è un artista molto legato a de Chirico;  “Senza titolo”, 1986, un’immagine da interno di Alessandro Mendini – tra architettura, design e arte, progettista teorico e  realizzatore di  oggetti e mobili, pitture e istallazioni – con segni che richiamano le forme di Capogrossi e le lingue dei “Rolling Stones”.

Infine le opere degli anni ’80 di Luca Patella – anticipatore di “Land Art” e “Arte concettuale”, tra i primi nella multimedialità e nella gestualità delle “performance”, impegnato nell’interazione tra i vari  linguaggi e i loro simboli –  che invece citano direttamente de Chirico nei titoli,  Vaso  fisiognomico di Giorgio de Chirico” che come l’analogo dedicato a Marcel Duchamp ne  riproduce il profilo, e “Bauli ballanti Dech (de Chirico) e Duch (Duchamp”, ancora associati nell’omaggio dell’artista, per i bauli il riferimento è al cromatismo, esteso anche alle pareti.

Terminano così le prime 3 sezioni, prossimamente racconteremo le ultime 3 con altre interessanti scoperte.

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Giorgio de Chirico, “Mobili nella valle”, 1968

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Torino, GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Catalogo “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro” , a cura di Lorenzo Canova e Riccardo Passoni, Gangemi Editore International, aprile 2019, pp. 192; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della terza parte della trilogia su de Chirico nel quarantennale della scomparsa, dopo questo 2° articolo, che segue il 1° uscito il 25 settembre, ci sarà la conclusione dell”intera trilogia con il 3° articolo del 29 settembre 2019. Per la seconda parte della trilogia, sulla mostra di Genova, i nostri 3 articoli sono usciti il 18, 20, 22 settembre; per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, i nostri 7 articoli, sempre in questo sito, sono usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 25 settembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, Patella 18 aprile 2015, Warhol 15, 22 settembre 2014, Duchamp 16 gennaio 2014, Angeli 31 luglio 2013; in cultura.inabruzzo.it su Schifano 15 maggio 2011, per l’aspetto onirico,Teatro del sogno 7 novembre, 1° dicembre 2010, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010.

Foto

Le immagini delle opere sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le prime 3 sezioni della mostra commentate nel testo e sono inserite facendo precedere, ove possibile, l’opera di de Chirico a quella o quelle di artisti riferiti a lui. In apertura, Giorgio de Chirico, “Ettore e Andromaca davanti a Troia” 1968; seguono, Enzo Gribaudo, “Omaggio a de Chirico” 1968, e Giorgio de Chirico, “Le muse inquietanti” 1947; poi, Mimmo Rotella, “De Chirico” 1988, e Francesco Vezzoli, “Portrait of Sophia Loren as the Muse of Antiquity (After Giorgio de Chirico)” 2011; quindi, Andy Warhol, “The Disquieting Muses (After de Chirico)” 1982, e Giorgio de Chirico, “Gladiatore nell’arena” 1975; inoltre, Franco Fontana, “Presence Absence, Roma EUR” 1979, e Giorgio de Chirico, “Le maschere” 1970; ancora, Mario Schifano, “Maestro italiano del 900 1976, e Henry Moore, “”Nuclear Energy” 1964; continua, Giorgio de Chirico, “Quattro gladiatori nella stanza con vista del Colosseo” 1965, e Salvo (Salvatore Mangione), “Gladiatori” 1978; infine Giorgio de Chirico, “Mobili nella valle” 1968 e, in chiusura, Mario Ceroli, “I mobili nella valle” 1965.

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Mario Ceroli, “I mobili nella valle”, 1965

De Chirico, trilogia III – 1. Neometafisica e contemporanei, alla GAM di Torino

di Romano Maria Levante

Alla  Galleria Civica  d’Arte Moderna e Contemporanea, la GAM  di Torino,  dal 19 aprile al 25 agosto 2019,  la  terza parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità. Dopo Roma e Genova delle prime due parti, nel ricordo degli spostamenti dell’artista da una città all’altra, la mostra “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro, Neometafisica e Arte contemporanea”,  presenta a Torino “de Chirico neometafisico”, con le sezioni “Citazioni” e  “Derive”, ”Verso Michelangelo” e “Ombre” che espongono opere sue e di contemporanei a lui ispirati, e chiude con “L’artista, l’identità, lo studio”. Organizzata dalla GAM, direttore Riccardo Passoni,  con “Metamorfosi”, presidente Pietro Folena, e la “Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, presidente Pietro Picozza. A cura di Lorenzo Canova, membro del Consiglio scientifico della Fondazione, e di Riccardo Passoni, della GAM, che hanno curato anche il Catalogo della Gangemi Editore International Arte.

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Giorgio de Chirico, “Il pensatore”, 1973

“Questa mostra vuole  ricostruire così le dinamiche di un dialogo innovativo e fecondo, la storia della sintonia tra un grande artista e gli artisti che lo hanno seguito, un confronto tra la pittura neometafisica di Giorgio de Chirico e le opere di autori italiani e internazionali  che hanno visto la sua opera con occhi nuovi, in un momento in cui l’arte contemporanea ha cercato una nuova ispirazione nelle immagini di massa, negli oggetti della vita quotidiana, nei colori e nelle luci del mondo contemporaneo”.  Con queste parole ne riassume contenuti e intenti Lorenzo Canova, curatore della mostra con Riccardo Passoni, e autore nel 2010 dell’intensa immedesimazione nei viaggi dechirichiani “Nelle ombre lucenti di de Chirico”.

L’impatto sul mondo dell’arte e sulle  avanguardie

Il curatore precisa che prima dell’impatto sugli artisti contemporanei di cui alla mostra, ha spiazzato il mondo dell’arte avendo superato non solo i canoni rinascimentali, ma anche “l’attenzione percettiva  e ‘retinica’ che ha legato l’impressionismo e la scomposizione cubista, l’attenzione al movimento e alle compenetrazioni del dinamismo futurista…”, Come? “Utilizzando un sistema multiplo di aperture prospettiche, di piani sfalsati, di ombre e di luci in cui l’enigma di Nietzsche prende forma concreta nelle piazze e nelle architetture, negli interni e nei loro accumuli di oggetti”.

Anche i New Dada e le altre avanguardie sono state influenzate dalla sua traduzione pittorica del pensiero filosofico di Schopenauer e Nietzsche, che evoca l’insensatezza della vita. Con il dadaismo, secondo Maurizio Calvesi, c’è in comune “il recupero dell’oggetto così com’è, integro al di là dei processi compositivi della visione cubista e futurista, o anche delle deformazioni espressionistiche”. L’oggetto non porta, però, al realismo: “Una condizione di questo recupero è lo ‘spaesamento’ dell’oggetto, cioè la sua collocazione al di fuori della rete usuale dei rapporti causa-effetto, dipendenza, vicinanza, in cui l’esperienza e la memoria ci hanno abituati ad inserirlo”.

“Giorgio de Chirico, “La tristezza della primavera”, 1970

Nel loro “spaesamento” trovano una spiegazione i biscotti, le righe-squadre da disegno e le altre “piccole cose di pessimo gusto” ferraresi più o meno gozzaniane, al di fuori del normale contesto,  i “mobili nella valle” all’esterno delle abitazioni e, per converso, le case e gli alberi nelle stanze, fino alla barchetta di Ulisse e di Ebdòmeros che remano nell’acqua della camera; e l’osservatore non si sente più “spaesato” dinanzi alla visione insolita, che invece diventa intrigante.   

L’anticipazione di avanguardie come la Pop Art si percepisce anche dalle sue parole, quando collega alle immagini oniriche di templi e santuari greci la pubblicità di un dentifricio, e nei suoi dipinti, in particolare “Canto d’amore”, in cui a lato del  calco della testa dell’“Apollo del Belvedere” pone una  palla verde e un guanto arancione, “un vero e proprio archetipo per l’immaginario di un’intera generazione degli anni Sessanta tra Italia, Europa e Stati Uniti”.

Canova  lo afferma con chiarezza, ed è meritorio dinanzi a visioni incomprensibili perché indecifrabili: “Le due direttrici sono tracciate: la memoria classica e dell’arte del passato e i segnali della comunicazione urbana. Apollo e il dentifricio, diventano così i due poli ideali tra i quali si sono mossi moltissimi artisti legati a questa linea neometafisica”.

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Luigi Ontani, “Campo Dioscuri
De ChiricoS’AVInio” , 2017

Il nuovo sistema pittorico della Neometafisica

Entra in campo la Neometafisica, troppo spesso considerata una mera ripetizione della prima Metafisica, trionfale esordio sulla scena dell’arte del poco più che ventenne pittore,  ripresa nell’età avanzata quasi avesse esaurito l’ispirazione e volesse rifugiarsi in una tale isola felice. Le aspre polemiche iniziate con Breton dopo la svolta classicista del 1919,  poi rivolte all’imitazione e alle copie ed acuitesi soprattutto nel secondo dopoguerra,  hanno sviato l’attenzione dal vero significato della Neometafisica e dalla sua importanza, al di là delle questioni di mercato e del suo valore intrinseco, come nuova scossa innovativa e rigeneratrice del mondo dell’arte.

“A partire dal 1968 – è sempre Canova – de Chirico ha costruito così il nuovo sistema pittorico della Neometafisica, dove la rielaborazione delle sue creazioni non si contraddistingue come una semplice (anche se splendida) replica del passato, ma come un nuovo e luminoso periodo di creazione in cui il maestro ha riletto e interpretato la sua stagione metafisica giovanile contaminandola con l’immenso apparato iconografico delle sue opere degli anni Venti e Trenta per ottenere nuovi risultati”. Eccoli: “Ne è scaturito un discorso del tutto differente che apre alla visione dell’arte che sta segnando il panorama attuale nell’idea di ‘remixaggio’ e ripensamento fecondo del passato (in questo caso soprattutto del passato creativo dello stesso artista) in chiave diversa, anticipando infatti uno dei tratti salienti dell’arte odierna”.  Si tratta della “ripetizione differenziata”, ma anche sulla copia de Chirico non si tira indietro, se ben fatta è un’opera d’arte essa stessa.

Sulle “citazioni” va ricordato che anche prima della Neometafisica inseriva elementi del passato nelle nuove opere, per cui quelle del periodo classico, anzi dei periodi classicisti, recano tracce metafisiche; e non si può negare, per converso, che la prima Metafisica,  pur nella sua concezione rivoluzionaria, fosse  permeata delle presenze classiciste della sua adolescenza e delle prime prove pittoriche.

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Concetto Pozzati, “Dal ciclo restauratore, Trovatore da e per de Chirico”,1972

Con la Neometafisica, questa costante della sua vita artistica ha assunto una forma sistematica e ben più rilevante, configurandosi “allo stesso tempo come un ritorno e come una nuova partenza, una fase di nuova creatività”. Ed è straordinario che Canova  usi  questa parola per sfatare tutte le sottovalutazioni, per usare un eufemismo, del nuovo corso di de Chirico, e sottolineiamo nuovo.

Si tratta di una “grande macchina scenica dove tutto sembra illuminato dalla luce di una nuova rivelazione, dallo scioglimento lieto di molti enigmi, dal compimento gioioso di una vita consapevole della propria immortale grandezza, da affrontare e rivisitare anche con un leggero senso di ironia, dal diradarsi delle antiche tenebre della melanconia e della solitudine metafisica”. Non a caso la mostra a Campobasso del 2017 è stata intitolata alla “gioiosa Neometafisica”.

Questo avviene nella fase finale, e “rappresenta il lungo e splendido tramonto del pittore” che invece di essere forzatamente dimesso, è “un momento di straordinaria intensità in cui le cose, i colori e il suo sguardo sul mondo toccano un nuovo diapason di chiarore”, al posto della luce calante crepuscolare la rutilante luce solare che brilla come nel suo simbolico “Sole sul cavalletto”.

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Giorgio de Chirico, “Poesia d’estate”, 1970

In virtuale sintonia con la Pop Art e il clima degli anni ’60  ripropone le sue creazioni più tipiche – dai “Manichini” alle “Piazze” agli “Archeologi” fino ai “Gladiatori” – “in un nuovo vortice di idee in cui la pittura, nella sua dimensione intellettuale anticipa la linea concettuale delle giovani generazioni”. La capacità di anticipare le giovani generazioni nella fase finale di un produzione sessantennale, anche prescindendo dal suo altissimo valore, dà una misura della sua grandezza.

Il ritorno al passato

L’insegnamento va anche oltre, e riguarda i rapporti con il passato, il modo di farne tesoro per meglio interpretare il presente. Un presente nel quale, in questa fase della sua vita, irrompevano le nuove forme di comunicazione in grado di travolgere ogni argine. Quindi occorreva che nel mondo dell’arte fosse trasfusa nuova energia proveniente da un passato rivisitato, e poteva provenire per mano di un artista  mai domo che aveva superato tante frontiere, dalla Metafisica al classicismo, senza mai ritirarsi, ma ripresentandosi sempre sui diversi versanti della sua arte incarnando forse come nessun altro, per averla tradotta nell’arte,  la condizione umana sospesa tra le memorie di una civiltà classica nel segno della bellezza e il portato di tutt’altro segno della civiltà di massa.

Nei rapporti con il passato, in effetti, ha seguito l’esempio dei grandi Maestri che anch’essi replicavano le loro opere, in particolare Tiziano, che segnò la sua prima svolta classicista, e Rubens cui si è ispirato in una serie di nudi, e per questo è stato esaltato dall’artista della Pop Art Andy Warhol.  Con il suo rifarsi al passato, ma innovando in molti particolari anche tecnici come le luci e i colori, mette in pratica nella sua pittura quella ricerca del “progresso qualitativo dovuto al fatto – sono sue parole – che io cerco sempre di perfezionarla nel senso della qualità”  per ottenere “quadri che possono stare alla pari con qualsiasi capolavoro dei maestri antichi”. Anche questo è un insegnamento da non lasciar cadere per un’arte sempre più frettolosa e meno attenta alla qualità.

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Tano Festa, “Piazza d’Italia” , 1977

E mentre la cura della qualità è uno degli aspetti collaterali del “ritorno al passato”, con riferimento all’arte contemporanea nelle sue correnti più avanzate, nella sua pittura esalta “la componente mentale, l’aspetto intellettuale e spirituale”, anticipando il senso dell’ “arte concettuale”, anche se questa per lo più ha scelto scorciatoie ben lontane dalla “qualità” da lui ricercata nel dare corpo ai contenuti ispirati dalle sue conoscenze filosofiche e dalle sue reminiscenze classiche presenti anche nelle fasi lontane dal classicismo.

Sui rapporti con la modernità viene osservato inoltre che la pittura Neometafisica, pur tornando al passato, si collega alle opere nate nella Parigi che allora era il simbolo della “modernità, questo gran mistero, tu lo ritrovi a ogni angolo di strade accoppiato a ciò che fu, gravido di ciò che sarà”; e in queste sue parole del 1925 si trova la chiave del legame che ha avuto con la capitale francese  e del valore permanente della pittura che gli ha ispirato, nella sua concezione circolare del tempo, in cui presente, passato e futuro fanno parte di un flusso continuo, evocato da Calvesi nel centenario della sua  nascita in relazione ad “Ebdòmero e l’immortalità, gli ‘archeologi’ e nuovi manichini”: “La memoria contempla il passato come un fiume che ha corso a valle, nella speranza del futuro”.

Sono figure la cui “malinconia è confortata”, per cui profeticamente “preludono al ritorno luminoso e ‘consolatorio’ della Neometafisica, che con il suo paradossale flusso del fiume  che va indietro per comporre il futuro nella curva del tempo, dà compimento e dona migliore comprensione  alle opere dei decenni precedenti”. E’ il tempo circolare, “l’eterno ritorno” delle sue letture filosofiche, personificato nel “Ritorno di Ulisse” su una piccola barca a remi come quella con cui Ebdòmero rema in cerchio nella sua stanza, “barchetta metafisica e allo stesso tempo umile  e ironica di un uomo abituato ad affrontare le grande imprese dell’arte con i semplici e leggeri strumenti della pittura”: de Chirico, che Canova vede nei panni di Ebdòmero, il novello Ulisse metafisico.

Franco Angeli, “Sabaudia”, 1986-88

E non a caso de Chirico spende parole si ammirazione per “quel film meraviglioso di metafisica che si chiama ‘I dieci Comandamenti’”; e che a Parigi “ogni muro tappezzato di réclames  è una sorpresa metafisica”. Non solo, ma “il putto gigante del sapone Cadum, e il rosso puledro del cioccolato Poulain  sorgono con la solennità inquietante di divinità dei miti antichi”. Preludio alla Pop Art, che nella Neometafisica trova il suo sbocco naturale, con i nuovi enigmi al passo dei tempi, e “non dimentica le esperienze passate… ma che ora ha trovato una nuova ricchezza e una nuova corposità… e celebra una lucentezza che mostra uno stato d’animo del tutto nuovo dopo la malinconia e i malesseri fisici della sua giovinezza”, sono sempre parole di Lorenzo Canova.   

Fagiolo dell’Arco a sua volta trova nella “ripresa festosa dei temi metafisici… il vero momento della rivelazione”, che immagina “ (come in una valle di Giosafat) quando tornano in scena tutti i personaggi, tutti i simboli sembrano chiarirsi, tutti i misteri appaiono meno oscuri in quei teatrini della memoria nei quali il Veggente, ormai pacificato, sembra parlare con linguaggio non troppo sibillino”.

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Philip Guston, “Untitled (Wall)”, 1971

Le repliche Neometafisiche, dunque,  non sono ripetizioni pedisseque nei contenuti, come afferma lo stesso de Chirico  riferendosi ai “soggetti che sono, direi, come una evoluzione di visioni, apparenze e sensi reconditi di quei soggetti che ho eseguito prima, per molti anni”. Non lo sono neppure nella forma e nella tecnica pittorica: “Queste nuove  ispirazioni, e visioni, che dir si voglia, si basano su vari elementi, fisici e metafisici. Gli elementi fisici sono una maggior chiarezza  nella tonalità generale del dipinto, e l’uso del nero, più abbondante di quanto lo usassi prima”.

Non è un nero che opprime, come scrive Dell’Arco che vede i simboli schiarirsi e i misteri meno oscuri, anzi “è il sole a rappresentare l’immagine per eccellenza della Neometafisica… uscito dal bianco e nero delle litografie per incendiarsi di rossi e di gialli, Come in un percorso di purificazione esoterica, è l’oro del sole l’oro della conquista e il sole del cavalletto rischiara della sua luce interiore  tutta la pittura degli ultimi anni di de Chirico, segno ermetico di una condizione sublimata di beatitudine ascetica che riecheggia quella teorizzata proprio da Schopenauer, un filosofo che de Chirico ha amato per tutta la vita…”.

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Giorgio de Chirico, “Frutta con busto di Apollo”, 1973

A queste parole di Canova aggiungiamo quelle di Giulio Paolini che nella mostra del 2010 svolta al Palazzo Esposizioni di Roma,  “L’enigma dell’ora” in parallelo con “De Chirico e la Natura”, ha fatto del suo “Autoritratto nudo”  l’approdo di un avvicinamento progressivo: “Nessuno meglio di de Chirico ha saputo destreggiarsi, in epoca moderna, nell’insostenibile ruolo di artista contemporaneo”; in quanto tale, “la posizione di de Chirico nel corso degli anni è stata recepita e resa attiva anche grazie agli artisti che ne hanno compreso la grande forza simbolica”: Paolini e altri, le cui opere sono ispirate dai dipinti della Neometafisica con i quali sono esposte nella mostra.

 Gli artisti contemporanei affiancati alla Neometafisica

Un breve accenno a questi artisti contemporanei per introdurre la galleria delle opere affiancate alla Neometafisica, partendo dall’affermazione di Canova: “Dunque, il paradosso finale di de Chirico è stato quello di non influenzare solo gli artisti del Ritorno all’ordine, alla tradizione e al mestiere, ma di dare linfa vitale alle ricerche di artisti legati alla Pop Art, all’arte concettuale (come lo stesso Paolini) o alla Body Art e alla Performance, nel momento in cui hanno sentito il bisogno di uscire dai codici di quello sviluppo progressivo dell’arte del Novecento fondato sulla successione dei movimenti di avanguardia, che già un artista come Duchamp aveva messo in discussione”; e aveva osservato tra l’altro, in contrasto con le critiche dei contemporanei a de Chirico dopo la svolta post-metafisica: “Ma la posterità potrebbe avere qualcosa da dire”. Una profezia che si è realizzata.

Il primo artista da citare, “noblesse oblige”, è Andy Warhol, per lui de Chirico ha rivolto lo sguardo al passato  per profetizzare il futuro, creando “immagini che cambiano mentre si ripetono”, e ha dichiarato: “Ho sempre ammirato de Chirico . Ha ispirato molti pittori… Mi piace la sua arte e poi  quell’idea di ripetere sempre e sempre gli stessi dipinti. Mi piace quest’idea e ho pensato che sarebbe stato magnifico farlo… Probabilmente è questo che abbiamo in comune… Mi piace il mito che de Chirico usava… le immagini di de Chirico sono un mito ed è  per questo che l’ho usato per esprimere i miei sentimenti. Ha usato anche la mitologia greca… mi piace anche questo… Ogni volta che vedevo i quadri di de Chirico mi sentivo vicino a lui. Ogni volta che lo vedevo mi sembrava di averlo conosciuto da sempre”. In una celebre foto del 1972 sono insieme a New York, e il viso di Warhol sembra al contempo assorto e stravolto.

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Valerio Adami, “Pour Vous Madame, Pour Vous Monsieur”, 1964

Dopo Warhol, Giulio Paolini, la cui opera si richiama a de Chirico nei due estremi che si uniscono, il ricordo e la memoria nel tornare al passato della grande arte, la profezia e la chiaroveggenza nel vaticinare il futuro. Mentre attribuisce la ricerca del nuovo delle avanguardie all’età giovanile per cui, avendola superata, conclude: “Oggi non vedo più quell’interesse ad andare avanti. Cerco di andare in profondità”. 

Gli  artisti vicini alla Scuola romana di Piazza del Popolo, Franco Angeli e Mario Schifano, Tano Festa e Mimmo Rotella, sono altrettanto legati a de Chirico. Franco Angeli è preso dalla sua segreta anima metafisica dove la melanconia irride alla morte tra i segni ermetici delle piazze dechirichiane, Mario Schifano definisce de Chirico “grande Maestro italiano del ‘900” citando le sue opere metafisiche e neometafisiche, Tano Festa, interessato al recupero dei capolavori del passato,  entra in gioco in merito alla citazione e alla copia, e Mimmo Rotella vi riferisce  la nuova pittura “in senso moderno, non tradizionale”, con una forza “quasi magica” da visionario.

Mario Ceroli, interessato al recupero dell’arte antica e della tradizione rinascimentale in senso contemporaneo, è colpito dal carattere innovativo delle opere di de Chirico, e vi si ispira; mentre Pino Pascali e Fabio Sargentini faranno entrare il mare nella galleria d’arte, Gino Marotta il bosco artificiale dentro il Museo. E lo scultore Fausto Melotti si ispira alla composizioni metafisiche con i suoi Teatrini gioiosi come la Neometafisica, mentre per Giosetta Fioroni  “in un clima  bloccato nel tempo e nella dimensione della memoria pervade la casa-teatrino”. Del resto de Chirico, da grande scenografo, nella Neometafisica valorizza la scena, con quinte teatrali e l’assemblaggio di oggetti.

Claudio Parmiggiani, “Senza titolo” 1988

Come quelli di Claudio Parmeggiani, “fondati sulla dialettica metafisica tra splendore e oscurità”. Mentre Gino De Dominicis condivide con de Chirico “la concezione del tempo che rovescia la contemporaneità per la dimensione atemporale dell’immortalità”; e “la scultura di Mimmo Paladino è sostenuta da “una segreta misura metafisica, dall’incrocio tra enigma e geometria, dal sentimento di una melanconia intellettuale che aleggia sui suoi personaggi, sulle architetture”.

Michelangelo Pistoletto “costruisce un sistema enigmatico di rimandi e riflessioni che, tuttavia, lascia aperto l’enigma di uno specchio che può riflettere ogni cosa ma non sé stesso”, e dice: “Se l’arte è lo specchio della vita io sono lo specchiaio. Sono diventato prestigiatore: dentro ad uno specchio tagliato in due sono apparsi tanti specchi quanti sono i numeri possibili, fino all’infinito”. Alessandro Mendini  “ha riconosciuto una radice metafisica nel suo lavoro”, e Luigi Ontani  “ha precorso anche ironicamente l’uso della citazione nell’arte contemporanea” di marca dechirichiana, così come Salvo con modalità diverse.    

L’assemblaggio negli interni, l’accumulo di squadre da disegno e altri oggetti ha interessato Lucio del Pezzo ispirandogli  opere in cui, tra pittura, scultura e installazione, materializza l’enigma dechirichiano. E Ugo Nespolo ospita de Chirico nei suoi Musei immaginari nel cui labirinto la Neometafisica si unisce al fumetto e insieme alla tradizione del Rinascimento, al puzzle e alle tarsie “in un percorso felice e luminoso dove la pittura diviene una festa dello sguardo”.

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Giosetta Fioroni, “”Casa: interno familiare” , 1969

Mentre Ezio Gribaudo, sodale di de Chirico e ideatore-editore di libri su di lui, gli ha reso omaggio come artista in un linguaggio Pop citando opere metafisiche e neometafisiche in composizioni cromatiche vibranti. Si ispira alla metafisica anche Valerio Adami, che si confronta con il Pop e il fumetto “in un sistema iconografico che trova in de Chirico una delle sue radici”.

Concetto Pozzati, all’insegna di una “restaurazione dei valori” fondata sui grandi Maestri italici in un palcoscenico metafisico, “modulando bianco e nero e colore, scrittura e pittura”, realizza “la visione quasi allucinata di un omaggio a de Chirico come caposcuola della grande arte  moderna italiana”. E Fabrizio Clerici viene indicato come il “prosecutore della metafisica” dagli anni ’40, con Alberto Savinio, fratello di de Chirico, mediante “una pittura di grande forza visionaria e di severo rigore costruttivo”; anche il figlio di Alberto, Ruggero Savinio, suo nipote, si rifà alla metafisica con ambienti “dall’atmosfera sospesa” dove domina “il senso di un’attesa inesplicabile”.

Clerici è amico di de Chirico e di Renato Guttuso,  che ne ha sostenuto la grandezza e la paternità della Metafisica – “la ‘metafisica’ è de Chirico e da lui parte, dal profondo de Chirico” – inoltre gli ha dedicato un ritratto e lo ha raffigurato nel grande dipinto “Caffè Greco”, mentre in “La visita della sera” crea “un’atmosfera di misteriosa e inesplicabile sospensione” di chiara marca metafisica.

Fausto Melotti, “La Ballata del Cervo” , 1979

Infine dei  fotografi, che riproducono la  “sospensione temporale delle piazze di de Chirico e la loro visione architettonica”. Alcuni nomi: Gabriele Basilico e Luigi Ghirri, Franco Fontana e Claudio Abate, che ne ha ricavato il  “profilo segreto” nel contorno bianco mentre emerge dal buio.

Concludiamo questa rapida carrellata sugli artisti contemporanei che hanno sentito l’influsso di de Chirico e della sua Metafisica e Neometafisica, nella quale le citazioni sono da Canova, con le sue conclusioni, da curatore della mostra, a proposito della “felice stagione metafisica” di “de Chirico, Metafisico, Neometafisico, Contemporaneo”: “Alla fine del suo percorso de Chirico celebra così il trofeo stesso della sua opera, erigendo  il monumento trionfale alla sua lotta di gladiatore monomonaco  al centro dell’arena dell’arte, pronto per essere riscoperto come precursore delle generazioni a venire, aprendo al futuro tutti i suoi ritorni nella curva del tempo”.

Un tempo breve per il nostro ritorno sulla mostra, prossimamente la descrizione delle opere esposte, sue  e dei contemporanei che a lui si sono ispirati nei modi più diversi.

Juan Munoz, “‘Pelotaris
(Yellow Eyes” , 1999

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Torino, GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Catalogo “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro” , a cura di Lorenzo Canova e Riccardo Passoni, Gangemi Editore International, aprile 2019, pp. 192; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della terza parte della trilogia su de Chirico nel quarantennale della scomparsa, a questo primo articolo ne seguiranno 2 che usciranno il 27 e 29 settembre e concluderanno l’intera trilogia. Per la seconda parte della trilogia, sulla mostra di Genova, i nostri 3 articoli sono usciti il 18, 20, 22 settembre; per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, i nostri 7 articoli, sempre in questo sito, sono usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Cfr. i nostri articoli precedenti su de Chirico: in www.arteculturaoggi.com, nel 2016, “De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione” 17 dicembre; “De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura” 21 dicembre; sulle mostre: nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e la mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019, Guttuso 14, 16, 30 luglio 2018, 16 ottobre 2017, 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, 25, 30 gennaio 2013, Futuristi 7 marzo 2018, Adami 16 gennaio e 12 marzo 2017, Impressionisti 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2016, Espressionisti 27 gennaio 2016, Patella 18 aprile 2015, Warhol 15, 22 settembre 2014, Duchamp 16 gennaio 2014, Fioroni 1° gennaio 2014, Angeli 31 luglio 2013, Cubisti 16 maggio 2013; Tiziano 10, 15 maggio 2013, Pistoletto 11 aprile 2013, Abate 2 gennaio 2013, Pop Art 29 novembre 2012, Marotta 13 ottobre 2012: in cultura.inabruzzo.it , Irripetibili anni ’60, 3 articoli 28 luglio 2010, Schifano, 15 maggio 2011, Paolini 10 luglio 2010, Impressionisti 27, 29 giugno 2010, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre 2009, 2 febbraio 2010; in www.archeorivista.it, Paladino 26 gennaio 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le diverse sezioni della mostra commentate in modo specifico nei due articoli successivi e sono inserite facendo precedere, ove possibile, l’opera di de Chirico a quella o quelle di artisti riferiti a lui. In apertura, Giorgio de Chirico, “Il pensatore” 1973; seguono, “Giorgio de Chirico, “La tristezza della primavera” 1970, e Luigi Ontani, “Campo DioscuriDe ChiricoS’AVInio” 2017; poi, Concetto Pozzati, “Dal ciclo restauratore, Trovatore da e per de Chirico” 1972, e Giorgio de Chirico, “Poesia d’estate” “1970; quindi, Tano Festa, “Piazza d’Italia” 1977, e Franco Angeli, “”Sabaudia” 1986-88; inoltre, Philip Guston, “Untitled (Wall)” 1971, e Giorgio de Chirico, “Frutta con busto di Apollo” 1973; ancora, Valerio Adami, “Pour Vous Madame, Pour Vous Monsieur” 1964, e Claudio Parmiggiani, “Senza titolo” 1988; continua, Giosetta Fioroni, “”Casa: interno familiare” 1969, e Fausto Melotti, “La Ballata del Cervo” 1979; infine, Juan Munoz, “‘Pelotaris (Yellow Eyes” 1999 e, in chiusura, Claudio Abate, “Giorgio de Chrico 20.12.72 ore 22.23. Contatto con la superficie sensibile” 1972 (anno di stampa 2001).

Claudio Abate, “Giorgio de Chrico 20.12.72 ore 22.23. Contatto con la superficie sensibile” 1972 (anno di stampa 2001)

De Chirico, trilogia II – 3. Le ultime 4 sezioni della “Metafisica continua”, al Palazzo Ducale di Genova

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della mostra “Giorgio de Chirico, Il volto della Metafisica”,  organizzata  a Genova, al Palazzo Ducale, Appartamento del Doge con apertura dal 30 marzo al 7 luglio  2019, dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza e da Palazzo Ducale Fondazione per la cultura, presidente Luca Bizzarri,  con ViDi, presidente  Luigi Emanuel Rossi, a cura di Victoria Noel-Johnson che ha curato anche il Catalogo Skira. E’ la seconda parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, con il monumentale volume di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita  e l’opera”, che l’ha aperta, e la parallela mostra di Torino “Giorgio de Chirico. Ritorno al futuro”, che la chiude. 

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“Gli archeologhi”, 1940

Dopo averne riassunto i contenuti e descritto la galleria delle prime 3 sezioni della mostra – il “Viaggio senza fine”, gli “Esterni” e gli “Interni metafisici” –  completiamo il racconto e chiudiamo la seconda trilogia con le ultime 4 sezioni – dai “protagonisti metafisici” alla “natura metafisica”, dal “ritorno alla tradizione” alla “magia della linea” – ribadendo la convinzione che ci ha fatto aggiungere alla definizione  di “Metafisica continua” quella di “Classicità continua” per la compresenza costante dei motivi classici con i metafisici.

Finora abbiamo descritto il “viaggio senza fine” e l’ambiente in cui si svolge, gli “esterni” e gli “interni” metafisici come un “set” teatrale, del resto la teatralizzazione fa parte della visione dechirichiana, e non solo quando è esplicita come nei suoi Autoritratti in costume d’epoca.

Ma cos’è il teatro senza i personaggi? Ed ecco irrompere “I protagonisti metafisici”, nella 4^ sezione della mostra. Sono le “Arianne” e i “manichini”, gli “archeologi” e i “gladiatori”, ciascuno una storia, una funzione, una metafora, e c’è anche l’artista negli abiti di scena della sua grande rappresentazione. 

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“”Il trovatore”, 1972

Arianna – celebrata da Ovidio come inconsolabile dopo essere stata abbandonata da Teseo che aveva aiutato ad uscire dal Labirinto, prima dell’incontro con Bacco – al centro delle “Piazze d’Italia” distesa in un triste abbandono non è sempre la stessa. Essa esprime il dilemma apollineo-dionisiaco  del pensiero di Nietzsche – per questo è diventata l’icona metafisica di de Chirico – ma nei “ritorni” metafisici assume sembianze e atteggiamenti diversi; addirittura viene identificata nella figura della sua compagna Isabella Pakswer come “Diana addormentata nel bosco” e la “Fanciulla addormentata”. Come avviene per altre figure metafisiche, anch’esse viste in chiara evoluzione.

Dopo Arianna, i “Manichini”, che  nella loro semplicità rappresentativa esprimono aspetti centrali del pensiero di Nietzsche e di Apollinaire,  incarnando il “vaticinatore”, il “veggente”, e a volte il “trovatore”. Hanno la testa a forma di uovo, una sorta di ellisse senza volto, priva di lineamenti, ma con un segno, simbolo di una seconda vista o visione interiore, la cosiddetta “apoptéia”. Evolvono in forme più elaborate, come gli “archeologi”, ma soprattutto in forme sempre più umanizzate, fino ad assumere un incarnato roseo al posto delle membra e del corpo fatti di volumi geometrici inanimati. Arrivano a impersonare soggetti ben identificati, dal “figliuol prodigo” ai mitici Ettore e Andromaca, per citare i più frequenti.

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“Ettore e Andromaca”, seconda metà anni ’50

Un posto a sé occupano gli “Archeologi”, con i quali l’artista gioca in casa, depositario dei ricordi e delle nostalgie della sua terra nonché dei valori  dei reperti e dell’arte antica. E’ evidente il significato dei ruderi che sono nel loro torace, ma è straordinario come la essenzialità del “manichino”  si  sia arricchita nell’incrocio con statua ed essere umano, acquisendo  elementi  simbolici  soprattutto di un dinamismo e una vivacità espressiva che mancava nei “manichini”. Hanno anche elementi umani nei corpi lunghi e nelle gambe corte, e soprattutto negli atteggiamenti, e a differenza dei “manichini” di prima generazione presentano movenze e comunicano tra loro con semplici ma significativi gesti, anche consolatori, per questo spesso sono rappresentati in coppia.   

Evolvono naturalmente  nei “Gladiatori” in una progressiva e irresistibile umanizzazione. Non ci sono più elementi meccanici, sono figure umane in carne ed ossa, magari filiformi per lo più addensate in gruppi che combattono o festeggiano, la solitudine metafisica è un lontano ricordo.  

“Il segreto della sposa”, 1971

Vediamo una tale evoluzione nei dipinti di questa sezione,  che si apre con un disegno inconsueto, “L’apparizione”, 1917, una sorta di sintesi tra il manichino “meccanico” e quello “umanizzato”, nelle due figure, l’una in piedi e l’altra seduta, con i diversi elementi compresenti e integrati.

Di particolare interesse “Ettore e Andromaca” e “Trovatore”, seconda metà anni ’50, per l’efficacia dirompente delle figure di “manichini” con la corazza, due dipinti quasi gemelli, nel secondo c’è anche la testa di statua evocativa a terra; e per la ripetizione degli stessi soggetti ma in forma diversa nel 1970-72, la coppia è in primo piano, “a mezzo busto” se così si può dire, mentre nel “Trovatore” si sono aggiunte le arcate e il treno sbuffante sul fondo, in una ripresa nostalgica dei primi motivi metafisici.

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“La musa del silenzio” , 1973

“Il contemplatore”, 1976,  guarda un “quadro nel quadro”  con un castello sulla rupe e un grande albero. In tutti, le figure meccaniche con testa a uovo e il segno della veggenza, tra squadre da disegno e righelli della metafisica “ferrarese”.

Un  “manichino”  vestito di rosa in “Il segreto della sposa”, 1971, un “quadro nel quadro”  anche qui tra squadre da disegno “ferraresi”, in primo piano una grande testa di statua a terra, a sinistra una finestra da cui si vede un tempio tra le rocce e una testa di statua, a destra una finestrella con  nuvolette bianche in un cielo azzurro.

Due teste di “manichini”  in un primo piano cinematografico con ”Le maschere”, 1973. la prima non è la consueta forma a uovo ellissoidale senza volto, sembra una celata con l’apertura nel viso attraversata da una squadra da disegno, sullo sfondo da una finestra si vede un edificio bianco con le arcate e una torre, davanti altre squadre e righelli, una composizione aperta nonostante il titolo.    

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“Natura morta con selvaggina e bicchiere di vino”, 1923

Seguono i “manichini”  con oggetti incorporati nel torace, da “Canzone metafisica”, 1930, in cui il manichino chitarrista incorpora un’abitazione, a “Gli archeologhi”, 1940, una coppia di figure sedute e accostate con incorporati ruderi di colonne,  fino a “Oreste e Pilade”, 1960,  un’altra  coppia che incorpora  non solo colonne ma templi, e “Oreste solitario”, 1974, in cui l’incorporazione è più schematica, con apertura al cielo e a una  distesa di templi in basso. Sono umanizzati, le braccia morbide, nulla più di meccanico, gli atteggiamenti accattivanti. 

L’umanizzazione è anche più evidente in La musa del silenzio”, 1973,  del “manichino” resta  solo la piccola testa nera, il corpo è di carne, tra squadre da disegno, una testa di statua a terra e un vaso con una pianta verde, dalla finestra si vedono due edifici che si stagliano nel cielo.

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“Corazze con cavaliere (Natura morta ariostea”, 1940

In modo diverso, in “Il figliuol prodigo”. 1974, la figura seduta sovrastata dalla statua è vestita  interamente  con cappello a tuba come una colonna, così le braccia, non c’è più  il “manichino”.

Con “Lotta di gladiatori”  l’umanizzazione è completa, una diecina di figure in carne ed ossa, con chiaroscuri che ne sottolineano la struttura corporea, risale al 1928,  nella visione atemporale della mostra.

La “natura” e  la “tradizione”, fino alla “magia della linea”

Siamo usciti definitivamente dagli interni claustrofobici di origine “ferrrarese” per immergerci nella natura alla quale nel 2010 fu dedicata la  grande mostra “De Chirico e la natura”  al Palazzo delle Esposizioni collegata alla mostra di Giulio Paolini, nella stessa sede espositiva, “L’enigma dell’ora”, che culminava nell’approdo all”Autoritratto nudo” di de Chirico.

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“Le cheval d’Agamemnon (Due cavalli sulla spiaggia)”, 1929

Com’è la “Natura metafisica” cui è intitolata la 5^ sezione?  Innanzitutto non è mai una “natura morta”, anche i frutti staccati dall’albero e la selvaggina sono  chiamati “vita silente” perché, come scrisse nel 1942,  “rappresenta la vita silenziosa degli oggetti e delle cose”, ispirandosi ai nomi tedesco “Still leben” e inglese “Still life”.  Quando la natura è aperta sul paesaggio la rappresenta nel periodo barocco con castelli e cavalieri, altrimenti con templi e ruderi antichi. L’intensità cromatica evolve con l’evoluzione stilistica, al riguardo va ricordato che approfondì molto la tecnica dei Maestri antichi utilizzando anche la “tempera”, è curata molto la resa visiva.

Si va da “Natura morta con dolce siciliano”, 1919, e “I pesci sacri”, fine anni ’30,  in contesti claustrofobici, alle immagini di soli frutti ma ubertosi, in “Natura morta” e “Natura morta con coltello”, 1930, alle composizioni di  “vita silente” ben più aperte, come “Mandarini su un ramo (Arance-Villa romana)”, 1922, e soprattutto “Natura morta con selvaggina e un bicchiere di vino”, 1929, che ha addirittura uno scenario teatrale, con la tenda-sipario  e uno sfondo paesaggistico, collinetta alberata e abitazioni.  Analogo contesto teatrale e paesistico con collinetta in “Corazza con cavaliere”, 1940, in primo piano da protagonista l’armatura e una brocca, solo in secondo piano il cavaliere alla “Guidoriccio da Fogliano”, viene definita “Natura morta ariostea”, analoga impostazione paesistica con ampio orizzonte in ”Ricordo metafisico delle rocce di Orvieto”, 1922.

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“Il carro del sole”, 1970

Troviamo  il mito in “Ippolito e compagni”, 1969,  e nelle immagini gemelle “Il carro del sole”  e “Visione sulla riviera”, 1970, con lo stesso scorcio della villa, balconata e ringhiera, albero e piante mentre in volo c’è Fetonte e un’altra figura alata. Irrompono i cavalieri in “Paesaggio con rudere, castello e cavaliere”, 1955,  e soprattutto i cavalli alla Delacroix in “Le cheval d’Agamemnon (Due cavalli sulla spiaggia)”, 1929, e in “Cavalli in riva al mare”, 1935 con ruderi e nel primo un tempio; “Testa di cavallo”, 1962, celebra il nobile animale come protagonista della visione teatrale.       

In “Marina presso Genova”, 1935, una visione plastica, inconsueta, nuvole, rocce e monti prevalgono sulla ristretta striscia del mare, mentre la grande macchia di alberi a sinistra dà il tono alla composizione. Con de Chirico le sorprese non finiscono mai, non è poliedrica soltanto la sua espressione artistica e stilistica, anche la sua ispirazione si nutre di stimoli sempre nuovi e inattesi.

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“La gravida da Raffaello”, 1920

La natura riporta ai temi tradizionali perché è sempre stato un riferimento costante per l’arte. Per questo nella 6^ sezione “La Metafisica incontra la tradizione”, incontro avvenuto sin dalla prima svolta classicista del 1919 con il momentaneo distacco dalla prima Metafisica. Fu “galeotto” anche il soggiorno a Roma e a Firenze dopo il servizio militare a Ferrara ad avvicinarlo maggiormente all’arte antica da lui sempre coltivata, fino all’attrazione fatale che lo portò alle copie e ai “d’aprés” preparati in lunghe contemplazioni nei grandi musei, e ad approfondire la tecnica pittorica antica, con l’uso della “tempera”, fino a teorizzarla e a farla prevalere sul contenuto.

Anche in questo approccio c’è stato un processo evolutivo che lo ha portato ad accostarsi a Renoir, con i suoi nudi morbidi e delicati, fino a un reincarnazione reinoiriana della mitica Arianna. Naturalmente nel periodo barocco si sbizzarrisce  nei ritratti e nei soggetti equestri rielaborando anche opere di antichi maestri da Tiziano a Rubens, da Velasquez a Delacroix, e  nella fase più avanzata approdando agli   Autoritratti in abiti dei diversi secoli.

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“”Diana addormentata nel bosco”, 1933

La sezione inizia con “”Ritratto della madre” , 1911, e La signora Gartzen”, 1913, generalmente citati per dimostrare che il classicismo evidente nelle due figure precede anche la prima Metafisica, poi si passa a “La gravida di Raffaello”, 1920, altra opera cardine della sua prima svolta, con le derivazione dirette dai Maestri antichi, che prosegue con “Testa di fanciulla da Perugino”, seguito da “Ritratto femminile”, entrambi del 1921. 

Dello stesso anno la figura nuda in piedi di “Lucrezia”, che prelude alla Bagnante”  del 1929 e al “Nudo”  in riva al mare della fanciulla, in due immagini, in  piedi e seduta del 1930,  di chiara derivazione da Renoir; come i nudi dormienti di Fanciulla addormentata da Watteau”, 1947, e Nudo coricato (Sera d’estate)”,  anni ’50, mentre “Diana addormentata nel bosco” , 1933, è una Arianna bucolica nella “vita silente” dechirichiana, con l’uva e i pomi a terra in primo piano.

‘”Ritratto di Isa, vestito rosa e nero”, 1934

Concludono la sezione due immagini della prima metà degli anni ’30, “Ritratto di Luigi e Nini Bellini”, 1932, e “Ritratto di Isa, vestito rosa e nero”, 1934, la moglie di de Chirico che ci introduce ai suoi due “selfie” teatrali,  “Autoritratto in costume del Seicento”  e “Autoritratto con corazza”, del 1947-48, nell’estrema teatralizzazione della sua arte.

L’esposizione si conclude con la 7^ sezione, “La magia della linea”, che rievoca il titolo della mostra del 2009 al Museo Carlo Bilotti, ispirato alla sua definizione del disegno considerato un “demone lineare”, un’arte “divina”  dalla quale nasce “un’opera  a sé, bella e pulita, emozionata ed emozionante”.  Questo perché “ogni aspetto della natura, ingannevole, cangiante e passeggero, possiede, riguardo al mondo delle cose eterne, il suo particolare segno, o simbolo,  ed è appunto tale segno o simbolo… che l’artista classico scopre”: sono sue parole del 1920, dopo l’esplosione della prima Metafisica e la prima svolta classicista.

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“‘Laura e Mario’, illustrazione per ‘Siepe a nordovest’ di Massimo Bontempelli”, 1922

Sono esposte le 12 illustrazioni per il libro di Massimo Bontempelli, “Siepe a nordovest”,  eleganti e raffinate, nelle figure singole e nelle composizioni molto elaborate nella natura; e le 11 illustrazioni per il libro del suo amico ed estimatore, Jean Cocteau, “Mythologie”, più nette e incisive e soprattutto con le immagini intriganti dei “Bagni misteriosi” dall’alto valore evocativo.

Così si conclude la galleria espositiva di Genova, con opere che coprono l’intero spettro della vita artistica di de Chirico e comprovano la definizione di “Metafisica continua”  data alla sua arte.

A questa che abbiamo chiamato la seconda parte della trilogia dechirichiana nel 40° anniversario della sua scomparsa e nel 100° dalla prima svolta classicista, seguirà la terza parte della trilogia sull’influsso nei confronti dell’arte contemporanea su cui si è esercitata la parallela mostra di Torino “Ritorno al futuro”. Ne daremo conto prossimamente.

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“‘Il centauro misterioso’, illustrazione per
‘Mythologie di Jean Cocteau”, 1934

Info

Genova, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge, Catalogo “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica” , a cura di VictoriaNoel-Johnson. Skira, marzo 2019, pp. 248; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della seconda parte della trilogia di de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, pubblicata nel mese di settembre, sulla mostra di Genova, che termina con l’articolo attuale dopo gli articoli del 18 e del 20 settembre; sarà seguita dalla terza parte sulla mostra di Torino, con gli articoli del 25, 27, 29 settembre che concluderanno l’intera trilogia. Per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, cfr. i nostri articoli, sempre in questo sito, usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 18 settembre. Sulle citazioni del testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com per la mostra su Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019; in cultura.inabruzzo, su Paolini 10 luglio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le ultime 4 sezioni della mostra commentate nel presente articolo. In apertura, “Gli archeologhi” 1940; seguono, “”l trovatore” 1972, ed “Ettore e Andromaca” seconda metà anni ’50; poi, “”Il segreto della sposa” 1971, e “”La musa del silenzio” 1973; quindi, “Natura morta con selvaggina e bicchiere di vino” 1923, e “Corazze con cavaliere (Natura morta ariostea” 1940; inoltre, “Le cheval d’Agamemnon (Due cavalli sulla spiaggia)” 1929, e “Il carro del sole” 1970; ancora, “”La gravida da Raffaello” 1920, e “”Diana addormentata nel bosco” 1933; continua, “‘”Ritratto di Isa, vestito rosa e nero” 1934, e “‘Laura e Mario’, illustrazione per ‘Siepe a nordovest’ di Massimo Bontempelli” 1922; infine, ‘Il centauro misterioso’, illustrazione per ‘Mythologie’ di Jean Cocteau” 1934 e, in chiusura, “”Autoritratto in costume del Seicento” 1947.

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“”Autoritratto in costume del Seicento”, 1947

De Chirico, trilogia II – 2. Le prime 3 sezioni della “Metafisica continua”, al Palazzo Ducale di Genova

di Romano Maria Levante

Prosegue il racconto della mostra “Giorgio de Chirico, Il volto della Metafisica” svoltasi a Genova dal 30 marzo al 7 luglio  2019 al Palazzo Ducale, Appartamento del Doge, organizzata dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza e da Palazzo Ducale Fondazione per la cultura, presidente Luca Bizzarri,  con ViDi, presidente  Luigi Emanuel Rossi, a cura di Victoria Noel-Johnson che ha curato anche il Catalogo Skira.

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“”Piazza d’Italia con statua di Cavour”, 1974

E’ la seconda parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità. In precedenza ne abbiamo delineato i contenuti, ora passiamo in rassegna la galleria di opere esposte nelle  varie sezioni, raggruppate per temi e non per cronologia con le relative motivazioni, in una persistenza che ha fatto parlare di “Metafisica continua”; definizione cui noi abbiamo aggiunto quella di “Classicità continua” per i motivi classici sempre compresenti come quelli metafisici. Cominciamo con le prime 3 sezioni, nelle quali viene inquadrato il suggestivo contesto metafisico.

Inizia il “viaggio”,  gli “esterni” metafisici

La 1^ sezione evoca “Il viaggio senza fine”, espressione che riassume “la vita e l’opera” di Giorgio de Chirico, come si intitola il prezioso lavoro di Fabio Benzi, un volume di oltre 500 pagine che abbiamo definito “Il Film della mia vita”, in parallelo con “Le memorie della mia vita” del Maestro. Si tratta di una ricerca molto approfondita e documentata , che affronta in modo franco e diretto le tante questioni aperte e fornisce una preziosa chiave interpretativa delle “invenzioni” dechirichiane, spesso spiazzanti, pubblicata significativamente in questo quarantennale della sua morte in aggiunta alle mostre di Genova e di Torino, le altre due parti della trilogia celebrativa; ne abbiamo trattato ampiamente in precedenza.

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“L’ebreo errante”, 1917

La poesia di de Chirico “Viaggio”, dell’aprile 1917, fa capire come siano persistenti alcuni motivi legati alla terra natale.  Cita “la casa/  paterna… che non rivedrò più mai”,  poi “il marciapiede  bianco di polvere e di freddo/… della mia già lontana/ infanzia”,  l’imbarcazione che “salpa/ verso i porti della vecchia Europa”, quindi esclama “e tu ingegnere piemontese, costruttore di nuove/ strade ferrate perché sei così mesto oggi?”, fino alla visione “che il mondo/ scoperto era veramente/ Un mondo nuovo”.  

C’è tutto il suo “viaggio” dalla terra natìa al “mondo nuovo” americano che tanto lo colpì quando lo raggiunse, la nostalgia dell’infanzia, il trasferimento in  diversi paesi europei. Un viaggio come quello di Ulisse, in un “eterno ritorno”, identificazione obbligata dato che il dipinto “Ulisse”, del 1929, è un proprio “Autoritratto”, e Il ritorno di Ulisse”, del 1968,  a 40 anni di distanza, sottolinea questa equiparazione con l’eterno viaggio racchiuso in una stanza,  in cui rema nella barchetta su un tappeto divenuto mare non più senza fine, forse metafora della vita con la porta socchiusa  in fondo che rappresenta l’unica uscita ma verso il buio, mentre alle due pareti il quadro con la torre metafisica e la finestra con il tempietto classico rappresentano i poli della sua arte e della sua vita; visione ln qualche modo rasserenata 5 anni dopo nel “Ritorno di Ebdomeros” .

Anche la 2^ sezione si apre con un’immagine di viaggiatore inquieto e tormentato, dello stesso anno della poesia, elemento indubbiamente significativo, per cui non comprendiamo perché non abbia aperto la 1^ sezione abbinando all’identificazione con Ulisse questa con “L’ebreo errante”, un acquerello evocativo, con l’ombra della solitudine che si allunga nell’ambiente deserto e inospitale.

“Piazza d’Italia con fontana”, 1968, firmato 1934

E’ la sezione degli “Esterni metafisici”, irrompono le “Piazze d’Italia”, in una sequenza che come nelle sezioni successive è senza tempo; nel senso che, come si è accennato, gli accostamenti sono tematici e non cronologici, e spesso si affiancano opere sullo stesso tema di epoche molto diverse.  

Sono esterni che esprimono “la strana sensazione di vedere tutte le cose per la prima volta” provata in piazza Santa Croce a Firenze nel 1910 quando ebbe l’”illuminazione” metafisica che gli ispirerà le piazze con le arcate e le ombre lunghe, la statua al centro e in fondo il treno a vapore. La prima suggestiva esternazione di quanto sentiva dentro di sé fu “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”, che evoca la visione iniziale con la chiesa e la statua raffigurate schematicamente senza voler riprodurre la realtà. Seguirono altre piazze, con la sua particolare visione prospettica che crea un’atmosfera indicibile di sospensione.

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“Il ritorno di Ulisse”, 1968

E’  il caso di  “Piazza d’Italia” (Souvenir d’Italie)” 1924  e “Piazza d’Italia (con statua di Cavour)” 1974,  tra loro 50 anni, dalla metafisica alla gioiosa Neometafisica: nel primo si sente l’inquietudine dell’isolamento con le due minuscole figure nella piazza assolata e la grande statua vista di spalle che accresce questa sensazione;  nel secondo c’è maggiore apertura  e luminosità, pur se le arcate e la statua sono sempre lì, ma le arcate non sono oscure e misteriose, bensì accoglienti con una figura nell’arcata centrale che attira l’attenzione, mentre le due figurette sono ancora più lontane  e più piccole, la statua di Cavour vista frontalmente  e non dal retro, è più comunicativa.

C’è anche una “Piazza d’Italia con piedistallo vuoto”, del 1965, con molta ombra tra scorci di arcate e la base di una statua mancante, peraltro appena visibile sulla sinistra, in fondo una casa con l’orologio sulla parete di fronte, segnali di vita che attenuano il senso di privazione dell’insieme.

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“Il mattino delle muse”, 1972

Si passa dalle Piazze alle Torri nel dipinto del 1968 Piazza d’Italia con fontana”, il suo zampillo rischiara la zona d’ombra delle arcate a destra, quelle a sinistra sono in piena luce, al centro sullo sfondo un nuovo elemento architettonico, la torre a 4 piani, che vediamo alla ribalta in “La torre” , del 1974, immagine che svetta con tutti i suoi significati metafisici.

Entrano in scena i celebri “Manichini”,  che con la loro testa a uovo impenetrabile sono la metafisica  personificazione degli enigmi e misteri altrimenti affidati alle piazze con le loro arcate o alle statue poste al centro, come quella di Arianna, con i riferimenti che rimandano all’inconscio.

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“Il figliuol prodigo”, 1975

Con “Le muse inquietanti” della fine degli anni ’50  abbiamo la rivisitazione del celebre quadro della prima Metafisica che fu all’origine della brusca rottura con il capofila dei surrealisti.3 Abbiamo ricordato in precedenza che Breton voleva avere quest’opera senza riuscirci per le difficoltà poste dal proprietario con tanta insistenza che Chirico si offrì di preparagliene una copia; accettò, il proprietario autorizzò e l’operazione si fece, poi lui negò tutto attaccando de Chirico come se avesse artatamente diffuso una copia spacciandola per l’originale. Fu solo l’inizio di una campagna diffamatoria contro de Chirico diffusa a macchia d’olio che ne segnò la vita e anche l’espressione artistica perché, non essendo tipo da porgere l’altra guancia, in certi periodi orientò la sua produzione in senso provocatorio scegliendo volutamente percorsi antitetici ai surrealisti.

E’ esposta anche una rielaborazione ancora più tarda del dipinto, dal titolo “Il mattino delle muse” del 1972, in cui è quasi immutata la parte centrale della composizione, con la statua-manichino in piedi a sinistra e la musa seduta a destra, ispirata a un reperto visto dal giovanissimo de Chirico nel Museo di Atene vicino alla scuola che frequentava; mentre è totalmente mutato lo sfondo, non più il misterioso castello rosso ma abitazioni sparse aperte e ariose, e anche la statua in secondo piano esce dall’ombra per mostrarsi in piena luce: la Neometafisica è gioiosa anche in questo modo.

“Contemplazione metafisica”, 1950-60

Ma ecco “Il figliuol prodigo”, del 1975,  l’antico e il moderno nella statua del padre che scende dal piedistallo per abbracciare il figlio manichino, per di più con le squadre da disegno e i listelli “ferraresi”, fa pensare che la statua mancante nel quadro del 1955 – che forse per questo gli viene accostato – possa essere questa scesa momentaneamente a terra dalla sua base per un gesto affettuoso. Sullo sfondo una statua equestre dopo le consuete arcate metafisiche.

Ci sono anche esterni appena accennati, quindi senza le piazze spettacolari con le loro arcate e le loro ombre nette.  Sono quelli che si  intravedono appena in “Composizione metafisica” , 1950-60, e in “Triangolo metafisico (con guanto)”, 1968, il guanto di colore arancione in entrambi, il primo rielabora “Chant d’amour”, con la testa greca e la palla verde, il secondo a forma triangolare con una scacchiera  tra forme oscure; l’esterno è rappresentato nel primo dal cielo con piccole sagome di edifici scuri, nel secondo dai comignoli di una fabbrica che si stagliano nel cielo azzurro, i fumi si confondono con le consuete nuvolette orizzontali.

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“La meditazione di Mercurio”, 1973

Una testa greca anche in “La meditazione di Mercurio”, 1973,  con una variante dei biscotti “ferraresi” sulla destra, oggetti indeterminati forse ornamentali.  Dello stesso anno  “Il sole sul cavalletto”, dardeggiante e luminoso come simbolo di un’ispirazione costante, come del resto la falce di luna anche se è a terra, con a lato una poltrona, quella dell’artista. Il dipinto è posto tra gli “interni metafisici” ma lo spostiamo idealmente qui perché nella grande apertura sul fondo vengono inquadrati all’esterno, sopra dei piccoli templi bianchi, il sole spento che scende all’orizzonte e la luna nera, sempre collegati con i fili elettrici nell’inesauribile inventiva dell’artista e nei suoi enigmi così intriganti. “Offerta al sole” , del 1968, esprime la luminosità del periodo americano, il sole dardeggia sullo sfondo come se sorgesse all’orizzonte mentre sembra accendere un fuoco di raggi su una sorta di piedistallo, quasi una forma celebrativa. Non c’è il sole spento, ma due falci di luna, una nera l’altra rossa, sempre collegate come il sole a dei fili elettrici. L’ambivalenza tra luce e ombra attraverso i raggi del sole luminoso o spento e le falci di luna, con i fili che innescano linee di forza e di energia, si unisce all’ambivalenza esterno-interno di cui diremo.

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“Offerta al sole”, 1968

Gli “interni” metafisici

Nella 3^ sezione, dagli esterni si passa agli “Interni metafisici”, cui ci ha introdotto  “Il sole sul cavalletto”.  Rappresenta quello che chiama “l’enigma  di cose considerate in genere insignificanti”, assemblate in modo apparentemente senza senso, accostate a immagini evocative dell’antichità come templi, statue ed altro e spesso con riferimenti agli esterni metafisici prediletti come scorci delle “Piazze d’Italia”.

La compresenza di oggetti e forme diverse esprime ciò che avviene nella memoria quando torna indifferentemente ad eventi vicini e lontani di natura molto diversa, nella compresenza di ricordi personali ed evocazioni storiche accomunati senza una logica. Ma proprio per questo motivo l’osservatore è spinto a cercare i collegamenti  incomprensibili e comunque inespressi, tanto più che anche il contesto in cui sono inseriti sembra altrettanto illogico, quindi misterioso.

Non solo, anche i possibili significati dei singoli oggetti diventano motivo di attenzione, per cui da insignificanti diventano evocativi dei più disparati riferimenti. “L’ordinario è misteriosamente trasformato in qualcosa di straordinario – osserva la curatrice – strano ed enigmatico: una sensazione di scoperta, sorpresa e rivelazione pervade la scena”.

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“Interno metafisico con pere”, 1968

L’aspetto più straordinario è che questo non avviene per caso: “L’artista voleva che la sua pittura agisse come una sorta di  catalizzatore rivelatorio per l’osservatore, che in questo modo poteva ‘vivere nel mondo come in un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli bizzarri, variopinti,  che cambiano aspetto, che a volte come bambini  rompiamo per vedere come sono fatti dentro. – E, delusi, ci accorgiamo che sono vuoti’”, sono parole di de Chirico quelle citate, del 1912, in piena fioritura della prima Metafisica.

E’ quello che viene chiamato “l’aspetto metafisico delle cose ordinarie”, l’aspetto centrale degli “interni” metafisici, mentre per gli “esterni” abbiamo visto invece le arcate, non certo presenti negli edifici moderni, e la statua classica al centro della piazza, anch’essa da ritenersi alquanto eccezionale, almeno nelle sembianze di Arianna abbandonata. 

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‘Interno metafisico con officina”, 1969

Ritroviamo altre vecchie conoscenze, come le teste classiche, In”Interno  metafisico con testa di Mercurio” e “… con testa di Esculapio”, 1969, non in forma scultorea, bensì come quadri inseriti in composizioni nelle quali le righe e squadre da disegno “ferraresi” sorreggono l’immagine incorniciata, mentre dall’apertura sulla destra che dà spazio alla composizione si vede una”Piazza d’Italia” con statua e il mare con tempio antico.

Ma c’è anche l’”Interno metafisico con paesaggio romantico” e “…con officina”, sempre il “quadro nel quadro” al centro con l’immagine da cui prende il titolo e le aperture, questa volta sulla sinistra, su edifici di varia forma immersi nel paesaggio. “Interno metafisico con pere” e  “…con ovale nero”  non hanno simili aperture sull’esterno, ci sono solo delle nuvolette in alto nel primo, nel secondo tornano i biscotti “ferraresi”. Sono tutti del 1968-69.

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“Interno metafisico con testa di Esculapio” , 1969

Aperture sul fondo che sembrano quadri in “Visione metafisica di New York”  e “Armonia della solitudine”, del 1975-76, con la visione rispettivamente dei grattacieli e di uno scorcio di arcate di una Piazza d’Italia, in primo piano l’assemblaggio di oggetti, per lo più squadre “ferraresi” con anfore panciute dalla superficie liscia e luminosa.

Di poco anteriore “Il grande trofeo misterioso”, 1973,  l’assemblaggio quanto mai denso di forme, più che oggetti, templi e ruderi, non manca il “quadro nel quadro”, e la testa di un cavallo dagli occhi spalancati ravviva la scena, ai due lati le finestre si aprono su un paesaggio con case e templi.

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“Armonia della solitudine”, 1976

Gli interni metafisici esposti sono del periodo 1968-73,  ma per meglio comprenderli si deve risalire alla fase in cui sono stati concepiti quelli che, dopo una ripresa nella seconda metà degli anni ’20, sono esplosi nella “Neometafisica” di fine anni ’60- anni ’70, in forme più aperte e solari.

Resta però l’impronta  dell’ispirazione iniziale, a Ferrara dove era coscritto, sia pure come scritturale e non combattente, nel periodo della prima guerra mondiale 1916-18, tra i timori della guerra e l’isolamento, che suscitavano un senso claustrofobico in cui interno ed esterno si sovrappongono; il “quadro nel quadro” accentua questa ambivalenza portando l’esterno, anche edifici e templi, negli “interni metafisici”, e si confonde con la finestra, come  nei citati “Interno metafisico con officina” e “… con paesaggio romantico”.  Anche di qui passa lo “straniamento”, con l’annullamento del confine tra realtà e finzione in una messa in scena di tipo teatrale.

Prossimamente il racconto delle altre 4 sezioni della mostra concluderà la seconda parte della trilogia, prima di passare alla terza parte della mostra di Torino.

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“Il grande trofeo misterioso” 1973

Info

Genova, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge. Catalogo “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica” , a cura di VictoriaNoel-Johnson. Skira, marzo 2019, pp. 248; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della seconda parte della trilogia di de Chirico nel quarantennale della scomparsa, pubblicata nel mese di settembre, sulla mostra di Genova, che dopo l’articolo attuale e quello del 18, terminerà con il terzo articolo del 22 settembre; sarà seguita dalla terza parte sulla mostra di Torino, con gli articoli del 25, 27, 29 settembre che concluderanno l’intera trilogia. Per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, cfr. i nostri articoli, sempre in questo sito, usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 18 settembre.

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le prime 3 sezioni della mostra commentate nel presente articolo. In apertura, “Piazza d’Italia con statua di Cavour” 1974; seguono, “L’ebreo errante” 1917, e “”Piazza d’Italia con fontana” 1968 firmato 1934; poi, ““Il ritorno di Ulisse”” 1968, e “Il mattino delle muse” 1972; quindi, “Il figliuol prodigo” 1975, e “Contemplazione metafisica” 1950-60; inoltre, “La meditazione di Mercurio” 1973, e “Offerta al sole” 1968; ancora, “Interno metafisico con pere” 1968, e “Interno metafisico con officina” 1969; continua, ‘Interno metafisico con testa di Esculapio” 1969, e“Armonia della solitudine” 1976; infine, “Il grande trofeo misterioso” 1973 e, in chiusura, “Il sole sul cavalletto” 1973.

“”Il sole sul cavalletto”, 1973

De Chirico, trilogia II – 1. Il volto della “Metafisica continua”, al Palazzo Ducale di Genova

di Romano Maria Levante

La seconda parte della trilogia dechirichiana nel 40° anniversario della morte e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità – dopo la prima da noi chiamata “Il Film della mia vita”, l’imponente lavoro di Fabio Benzi , “Giorgio de Chirico, La vita e l’opera” – è la mostra a Genova, “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica”; conclude la trilogia la terza parte a Torino, “Giorgio de Chirico, Ritorno al Futuro, Neometafisica e Arte contemporanea”. La mostra di Genova è aperta dal 30 marzo al 7 luglio  2019 al Palazzo Ducale, Appartamento del Doge, organizzata dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza e da Palazzo Ducale Fondazione per la cultura, presidente Luca Bizzarri,  con ViDi, presidente  Luigi Emanuel Rossi, a cura di Victoria Noel-Johnson come per il Catalogo Skira.

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“Ettore e Andromaca”, 1970

Il viaggio senza fine in una mostra speciale

Una mostra speciale su Giorgio de Chirico, imperniata sull’assioma “Metafisica continua”, in base alla constatazione che anche nei periodi in cui sembrerebbe ripudiata per abbracciare il classicismo, l’impronta metafisica permane nei particolari anche di contorno, pronta a tornare di nuovo alla ribalta e occupare tutta la scena. Il 2019, oltre che celebrativo dei 40 anni dalla scomparsa del Maestro, lo è anche del centenario dell’abbandono, nel 1919,  della prima Metafisica per il classicismo, con successivi reciproci ritorni, in uno spettacolare susseguirsi di invenzioni e sorprese. Tanto che la curatrice della mostra, Victoria Noel-Johnson  lo chiama “Le voyage san fin”.

Di questo viaggio la mostra fa rivivere i momenti salienti seguendo non un criterio cronologico ma tematico, per cui opere di periodi diversi  sugli stessi temi sono appaiati: “esterni”  e “interni metafisici”, “protagonisti” e “natura metafisica”, “l’incontro della metafisica con la tradizione” e “la magia della linea”, sono tappe del percorso ininterrotto in 60 anni di lavoro artistico geniale e fonte di continue scoperte. E’ un itinerario che seguiremo visitando queste sezioni tematiche della mostra, 6 atti di uno spettacolo teatrale suggestivo, come è stato suggestivo il “Film della mia vita” , da noi tradotto in una “fiction”  in 7 puntate.

In quella che è stata la prima parte della “trilogia” dechirichiana abbiamo ripercorso le molteplici e spesso tormentate fasi della sua esistenza con i numerosi spostamenti  soprattutto tra Grecia e Germania, Francia e Italia, fino agli Stati Uniti, che ne hanno fatto un cosmopolita poliglotta agguerrito, dotato tra l’altro di una notevole vis polemica; e l’evoluzione del processo creativo iniziato in grande mentre era poco più che ventenne con la prima Metafisica – rimasta la pietra miliare della sua arte – e sviluppatosi con il classicismo oscillando come un pendolo in moto incessante.

“”Piazza d’Italia con piedistallo vuoto”, 1955

Nel  nostro tragitto abbiamo esplorato i principali temi di una gamma vastissima, in stretto collegamento con il grande lavoro di ricerca e di approfondimento di Fabio Benzi, per cui ora  tratteremo solo quelli che la curatrice ha ritenuto di dover evidenziare come linee guida per meglio apprezzare la ricca galleria espositiva: 6 sezioni, ripetiamo, come 6 atti di uno spettacolo teatrale.

Le impronte del genio, enigmi e misteri della Metafisica e non solo

Da parte nostra ci piace sottolineare innanzitutto come le impronte del genio si vedono subito, basta porre mente al fatto, non abbastanza evidenziato, che la sua grande “invenzione” metafisica, dopo l’illuminazione nella piazza fiorentina di Santa Croce davanti alla statua di Dante, avvenne nel 2010, quando aveva 22 anni, e l’intero ciclo della prima Metafisica si è svolto nell’arco di 8 anni, quindi si è concluso con lui trentenne, per poi riaprirsi in diversi momenti e con varie forme.

Ed è stata la prima Metafisica ad imporsi all’ammirazione del mondo dell’arte – su cui si è abbattuta come un vento rigeneratore – e in particolare dei surrealisti, Breton in testa, i quali vi hanno colto uno spirito innovativo e d’avanguardia che apparentemente collimava con le loro posizioni. Mentre si basavano sull’irrazionale visione onirica con la coscienza addormentata, ben diversa dalle fondamenta filosofiche del pensiero di de Chirico nate da solide letture, Nietzsche e Schopenauer in particolare, letti nella lingua originale conoscendo bene il tedesco dopo il trasferimento a Monaco.

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Piazza d’Italia con fontana” , 1969

La curatrice della mostra Viictoria Noel-Johnson, con le parole sorpresa-scoperta-rivelazione evoca l’atmosfera imponderabile e suggestiva che aleggia nelle composizioni metafisiche: “E’ proprio la peculiarità di questa atmosfera (o Stimmung in termini nietzschiani), pregna di imprevedibilità e inquietudine, a suscitare un sentimento di sorpresa, scoperta e rivelazione: una rivelazione metafisica, per essere più specifici. Il mondo di de Chirico è, in definitiva, un luogo enigmatico in cui la banalità della vita quotidiana e gli oggetti ordinari si trasformano in modo tale da ‘rivelarci’ la loro essenza metafisica”.

De Chirico così ne scrisse  all’amico Fritz Gartz il 26 dicembre 2010: “I miei quadri sono piccoli… ma ognuno  è un enigma, ognuno racchiude una poesia, un’atmosfera, un presagio che lei non può trovare in altri quadri. Per me è una gioia terribile averli dipinti – quando li esporrò sarà una rivelazione per il mondo intero”. Molto sicuro di sé, ma a ragione, fu proprio come aveva previsto. Del resto, sono molteplici gli enigmi, le atmosfere, i presagi, delle sue composizioni metafisiche.

“Interno metafisico con paesaggio romantico” , 1968

Ci sono quelli delle piazze deserte, con le arcate e le ombre nette mentre un treno a vapore corre sul fondo e minuscole figure si stagliano nella solitudine di una landa assolata; con la variante della statua di Arianna al centro della piazza, nella desolata tristezza dell’abbandono da parte di Teseo.

Poi gli enigmi dei manichini, figure inquietanti che richiamano le Muse – uno dei quadri più celebri ha questo titolo – come vaticinatori che evocano il ruolo dell’oracolo, con i suoi presagi e i suoi misteri; e anche espressione dell’uomo-macchina di Apollinaire, il poeta sodale di de Chirico, e financo dell’uomo deprivato della propria coscienza razionale, enigma tra i tanti enigmi del mondo.

Ancora, gli enigmi degli interni “ferraresi” e non solo, con l’accozzaglia di righe e squadre da disegno e altri oggetti di uso quotidiano, per non parlare dei biscotti, incomprensibile se non si pensa alle vetrine da lui viste a Ferrara nel periodo militare nel quartiere ebraico, con tutto il retaggio dei suoi studi sulle religioni che lo interessavano forse per il loro contenuto misterico.

“Interno metafisico con testa di Mercurio”, 1969

Non sono enigmi metafisici ma enigmi altrettanto intriganti gli archeologi con il torace ricolmo di ruderi, evidentemente interiorizzati e divenuti parte integrante della loro persona; i “mobili nella valle” all’aperto “impropriamente” in strada, ma ispirati dalla visione spiazzante dei traslochi; e, di converso, le case e gli alberi nelle stanze, altrettanto impropri ma ispirati anch’essi ad evidenze reali, come l’ara monumentale di Pergamo in una sala del Museo di Berlino.

Sia in quest’ultimo caso, sia negli altri, preminente è l’onda di ricordi personali, e di nostalgie, per quanto di Ellade e Grecia antica si è impresso nel suo animo di adolescente, che frequentava un istituto vicino al Museo, visto come raccoglitore di memorie e cimeli: ed ecco la sala con il Palazzo Reale e altri edifici diventare quel raccoglitore di memorie, mentre gli alberi che si vedono nella stanza, che lui chiama “intrusione della natura”, entrano come elementi naturale  nell’intimità quotidiana ed evocano  la vicinanza degli dei agli uomini della mitologia greca; in chiave moderna   ha anticipato “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli che canta “questa stanza non ha più pareti ma alberi, alberi infiniti…”.  

“Visione metafisica di New York”, 1975

L’Ellade della sua adolescenza rivive nella Metafisica e nelle altre espressioni criptiche, apparentemente stravaganti, anche se oggi con l’arte contemporanea non ci si stupisce come avveniva al tempo in cui queste opere fecero irruzione nel mondo dell’arte. Percorso, sì, dalle provocazioni delle avanguardie, e dalle altrettanto spiazzanti innovazioni dei cubisti e dei surrealisti, ma quelle di de Chirico sottintendevano significati profondi che non si riusciva a rintracciare e ad individuare.

Proprio questo aspetto lo ha posto al centro di polemiche e aggressioni inqualificabili, come quella del capofila dei surrealisti, Breton, ammiratore della prima Metafisica al punto di chiedere con insistenza un’opera del periodo d’oro, accontentandosi di una copia che, con l’autorizzazione del proprietario, fu dipinta eccezionalmente da de Chirico per esaudire il suo desiderio così acuto; ebbene, questo gesto di benevolenza fu spudoratamente trasformato in falsaria produzione di copie, con la negazione dell’accordo nonostante prove inconfutabili che Benzi nel suo libro documenta. Gli strascichi di questo scontro violento si sono fatti sentire a lungo danneggiando il percorso del Maestro, che ha reagito con la sua proverbiale energia sostenuto anche dagli artisti italiani di Parigi.

Ma c’è poi tutto il filone del classicismo dechirichiano, manifestatosi a più riprese e in varie forme, fino alla paziente copia di dipinti dei grandi maestri rinascimentali, per rifarsi alla radice dell’arte e del culto della bellezza, in un’estensione di temi e soggetti, stili e visioni che non ha eguali.

“Il contemplatore”, 1976

Motivo e valore della svolta del 1919

E’ il centenario della svolta del 1919,  che la mostra intende celebrare insieme al quarantennale della scomparsa del Maestro, con una selezione di opere successive a tale anno, tranne il disegno “L’ebreo errante” del 1917. Prima di passare in rassegna la ricca galleria espositiva, dopo la carrellata sui principali temi evocati cercheremo di rispondere all’interrogativo che sorge spontaneo:  perché abbandonò di colpo la metafisica che aveva avuto e stava avendo tanto successo?

La risposta la troviamo nello scritto intitolato significativamente “L’esploratore”, pubblicato nella fase culminante della pittura metafisica, immediatamente prima del fatidico 1919. Rivela l’intenzione di ricercare “un’arte più completa, più profonda, più complicata”, e paradossalmente “più metafisica”, per arrivare a una “nuova Metafisica”. E si propone di farlo cercando “il demone in ogni cosa”, risalendo all’”origine o originarietà”. Il trasferimento a Roma pochi mesi dopo, con l’immersione nella classicità della città eterna fece sì che questi intenti trovassero uno sbocco nel classicismo, apparentemente antitetico alla Metafisica, ma nella sua mente invece contiguo. Del resto ciò è provato dal fatto che nelle sue composizioni metafisiche ci sono sempre richiami classici evidenti.

“Il figliuol prodigo” , 1974

Nulla di improvvisato né di occasionale, fu un cambiamento profondo pur in una continuità ideale espressa nei motivi metafisici che permangono nelle opere classiciste. E per risalire all’origine dell’arte classica si assoggettava a copiare dal vero, nei musei dove  erano esposte opere di Maestri, in particolare del Rinascimento, cercando di penetrare anche nella tecnica pittorica e nei materiali usati, tanto che per un certo periodo abbandonò l’olio per la tempera “all’antica”. E lo ha anche approfondito nei suoi scritti, che costituiscono un vero giacimento culturale abbinato alla pittura.

“So che il valore di quello che faccio oggi apparirà, presto o tardi, anche ai ciechi”, scriveva il 28 dicembre 1921 a Breton che non solo non riconoscerà il valore della svolta, ma lo boicotterà, come si è accennato, con gran parte dei surrealisti – non tutti – mentre sia pure tardi, il “vaticinio” di de Chirico si è avverato: non viene negato il valore della svolta né la continuità. D’altro canto, anche l’indiscussa Metafisica ebbe le aspre critiche di Roberto Longhi e le sue ironie sul “dio ortopedico”!

La Noel-Johnson afferma: “Nonostante le critiche surrealiste dichiarassero il contrario, de Chirico non abbandonò né tanto meno rinunciò alle sue prime opere metafisiche, ma scelse invece di svilupparle nella direzione di una maggiore riservatezza. Non si trattava di un ripudio, di una reazione o di una rivoluzione, bensì di una rinascita compiuta attraverso la scoperta metafisica”.  E ricorda che nella mostra del 1921, sebbene fosse tutto preso dalla riscoperta dei classici fino a farne copia, presentò sia le pitture metafisiche che le più recenti, compresa la copia del “Tondo Doni” di Michelangelo eseguita nel 1920;  inoltre nel catalogo scrisse: “Il lato metafisico della pittura mi ha sempre preoccupato”. E conclude,  riferendosi in particolare alla stroncatura di Roberto Longhi e alle aspre quanto interessate critiche dei surrealisti: “A cent’anni di distanza, non solo queste critiche appaiono datate, ristrette e superate, ma la cosiddetta arte da museo  e la produzione post-1918 di de Chirico risultano ‘audaci’, fresche e innovative tanto nell’approccio quanto nell’esecuzione”.

Natura morta”, 1930

Il viaggio di de Chirico tra passato e futuro

Un motivo che si può ritenere da un lato alla base della svolta del 1919, dall’altro unificante con la prima Metafisica che la precede, è quello del viaggio. Sia nella vita, per i suoi frequenti trasferimenti tra un paese europeo all’altro – dalla Grecia alla Germania, poi dalla nuova sede in Francia  all’Italia – e da una città italiana all’altra, da Firenze a Milano, fino a Roma con la parentesi di Torino; sia nell’arte, nella quale il viaggio viene evocato spesso, con il sigillo del 1917 nell””Ebreo errante”, rafforzato dalla sua attenzione per l’ebraismo sfociata anche nella metafisica “ferrarese” ispirata alle vetrine del quartiere ebraico con esposti poveri oggetti e i tipici biscotti.

Ma c’è di più, il pensiero di Nietzsche, cui è legata tanta parte della sua visione metafisica, contiene un riferimento preciso all’”eterno ritorno”, dal quale il giovane de Chirico – che lo leggeva nell’originale tedesco – fu molto colpito, e si rafforzerà nella convinzione quando i suoi viaggi si moltiplicheranno. Secondo questa concezione, l’esistenza si ripete in un ciclo infinito, e non potrebbe essere altrimenti data l’incessante trasformazione di materia ed energia.

Ecco il filosofo in “La gaia scienza”: “Questa vita, così come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte… e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione… l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta, e tu con essa…”. L’insegnamento di Nietzsche è “che il tempo non esiste e che sulla grande curva dell’eternità il passato è uguale all’avvenire”.

Di qui nasce l’interesse per una serie di personaggi mitici, le cui immagini sono presenti nella sua pittura: Giano raffigurato nell’incisione sulla fontana di alcuni dipinti,  simbolo della visione rivolta al  passato e nel contempo al futuro, nato in Tessaglia da cui erano partiti gli Argonauti, simboli del viaggio senza fine; e anche del suo viaggio come di quello di Ulisse e di Ebdomeros – il protagonista del suo romanzo – evocato in due opere in cui naviga nella barchetta all’interno della stanza in moto circolare, simbolo della natura eterna del viaggio, citato in una serie di titoli che incontreremo nella visita alla galleria della mostra.

“Ippolito e compagni”, 1963

Vados, dove nacque de Chirico è in Tessaglia, quindi al motivo mitico di Giano bifronte si aggiunge quello personale in una commistione nostalgica che pervade tutta l’opera del Maestro. La forza della classicità, con la prima parte della formazione ad Atene, non è attenuata dalla circostanza che la sua nascita in quella terra fu, per così dire, casuale trattandosi della sede provvisoria del padre, ingegnere ferroviario che stava lavorando per realizzare la rete in Tessaglia. Troppo forte è stato l’impatto su una mente assetata di conoscenza e su un’anima aperta alla fantasia, come quella del ragazzo, poi adolescente, Giorgio, per non lasciare un segno indelebile, nella vita e poi anche nell’arte, in un itinerario movimentato ma con una costante di fondo: la nostalgia venata di malinconia.   

Il figliuol prodigo, altro tema di più dipinti,  allude specificamente all’unione passato-presente con l’incontro tra il padre, quale statua di pietra o antico gentiluomo, che simboleggia la tradizione e il figlio, manichino metafisico. La Noel-Johnson interpreta così il significato dell’incontro: “L’abbraccio tra padre  e figlio sembra alludere al punto di contatto in cui passato e presente si toccano sulla grande curva dell’eternità nietzschiana, quel cerchio ininterrotto in cui ‘il passato è uguale all’avvenire’ ed è costruito da ‘flussi e riflussi, partenze e ritorni e rinascite’”. Nello specifico della visione dechirichiana, “in questo senso, la scena del ritorno del figliuol prodigo pare simboleggiare l’abbraccio armonioso, da parte di de Chirico, del passato (i grandi maestri) e del presente (la pittura metafisica)”: quindi  non va interpretato come ideale passaggio di consegne da una fase (metafisica) all’altra (classicismo) della propria espressione artistica ma, aggiungiamo noi, come la loro stretta unione  per  dimostrarne la complementarità e la continuità.

“Ritratto femminile”, 1921

L’unione tra passato e presente, lo “straniamento”

Nelle opere di de Chirico, in particolare in quelle metafisiche, è frequente l’accostamento di retaggi del passato, come templi e ruderi, a oggetti del presente nella loro semplice quotidianità. Ci troviamo di fronte al “dépaysement”, lo “straniamento” dato dalle  combinazioni singolari di oggetti avulsi dal contesto in cui sono collocati.

A fronte di tutto questo, va considerata la sua ricerca nell’arte e nella cultura classica per interpretare il mondo moderno con l’apporto del sapere sedimentato nei secoli. E’ un  contesto nel quale si inserisce il suo impegno nel fare copie di opere dei grandi artisti del passato per studiarli a fondo e cercare di carpirne i segreti. L’interesse per il passato nella propria produzione artistica scatta nel 1919, e diventa una costante fino alla Neometafisica dell’ultimo decennio della sua vita;  in fondo un ritorno personale trattandosi di opere che ricalcano quelle della prima Metafisica.

Sulle opere ispirate invece ai più celebri artisti del passato e, in particolare, sulle copie dai dipinti originali, va sottolineata l’evoluzione nel tempo, in quanto si differenziano da quelle del periodo iniziale sia nella scelta del soggetto, sia nell’approccio alla copia: ”Ora l’artista sceglieva di rielaborare particolari – spiega la Noel-Johnson –  o di includere specifici motivi tratti da dipinti dei grandi maestri riprodotti in fonti secondarie… anziché lavorare direttamente sull’originale”.

In sostanza, faceva  rielaborazioni simili o molto vicine a un dettaglio dell’originale, oppure inseriva motivi dei Maestri del passato in un diverso contesto ambientale; o si sbizzarriva negli Autoritratti, in particolare in quelli in costume  del ‘600 o del ‘700 considerati una “novità nel campo del ritratto”.

“Testa di fanciulla da Perugino”, 1921

Le rielaborazioni non vanno considerate imitazioni a cui è ricorso avendo perduto la vena creativa della prima Metafisica, dato che è sempre stato una fucina di idee e di invenzioni; riflettono piuttosto il depaysement . lo “straniamento” cui si è già accennato.  E l’interesse per i classici non  porta a ripudiare, bensì a sviluppare le opere precedenti; anzi, “tanto le realizzazioni artistiche, quanto i suoi scritti  critico-teorici esprimono in maniera costante il desiderio di portare avanti la grande tradizione pittorica ed entrare  a far parte della storia dell’arte”.

Sono parole della Noel-Johnson che, con la citazione di Ingres entra nel campo controverso dell’imitazione: “Quando vi ordino di copiare i grandi maestri, credete che voglia fare di voi degli imitatori servili e dei copisti? No, voglio che prendiate il succo della pianta per viverne”. Risultato, “tradurre la verità della grande tradizione dell’arte”. De Chirico, invece, “cercava di sottoporla  a una ‘trasfigurazione misteriosa’”, non ricercando l’originalità e l’innovazione  come le avanguardie dai surrealisti ai dadaisti, ma l’“originarietà – un’emozione  primordiale ricorrente legata all’origine della creazione artistica… presente in tutta la produzione dell’artista”. Mentre l’originalità vuol dire,  secondo Nietzsche, “non l’essere i primi a vedere qualcosa di nuovo, ma vedere come nuovo ciò che è conosciuto da sempre e, in quanto tale, visto e trascurato da tutti”. E, secondo de Chirico, ciò che qualifica l’opera d’arte è il fatto che “sarà sempre qualcosa di nuovo che l’artista avrà fatto uscire dal niente, qualcosa che prima non esisteva”.

Il problema dell’imitazione e della copia ha suscitato negli anni le polemiche più vivaci, dato che de Chirico vi ha fatto ampio ricorso, né si può liquidare con poche parole. Ci sembrano fornire un’interpretazione autentica le dichiarazioni da lui rese in un’ intervista all’“Europeo” il 30 aprile 1970: “La copia che riproduce e interpreti bene un’opera d’arte può anche essere un’opera d’arte, perché la copia, se è fatta bene, per quanto copia, è un’opera d’arte per forza, non può essere altrimenti”; e ancor più direttamente: “La copia di un’opera di de Chirico, se fosse fatta bene, sarebbe una buona copia della mia opera. Diversa è la questione dei falsi”. Alla base di tutto c’è l’“originarietà” e l’impiego del dépaysement. Non resta che concludere: ”Così è, se vi pare”…

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“”‘Frontespizio’, illustrazione per ‘Siepe a nordovest’ di Massimo Bontempelli”, 1922

Dalla “Metafisica continua” alla “Classicità continua”

Una notazione finale sul motivo di fondo della mostra, “Metafisica continua”. Indubbiamente è una costante che ritroviamo nelle fasi classiciste, come un sigillo, a marcarne la persistenza pur nelle notevoli differenze di stile e di contenuto. Però ci sembra che avvenga anche il reciproco, nelle opere metafisiche, dalla prima ai “ritorni di fiamma”,  non mancano riferimenti classici, anche qui elementi di varia natura, altrettanti  sigilli che l’artista vuol lasciare per sé, prima che per gli altri.

E allora, se i segni metafisici lasciati pur nelle opere classiciste hanno fatto parlare di “Metafisica continua”, ci sembra che altrettanto possa dirsi per i segni classicisti, per cui ci sentiamo di  dire che ci troviamo di fronte anche ad una “Classicità continua”. Così le due forti spinte interiori del Maestro possono congiungersi in un binomio indissolubile, e compenetrarsi nella visione della sua figura, che s’innalza sempre più nell’Olimpo dell’arte di tutti i tempi. Anche perché la sua “Metafisica continua”  unita alla sua “Classicità continua” dà luogo a una miscela tale da aver contagiato i contemporanei, pur così diversi, come dimostra la parallela mostra di Torino.

Concludiamo con il messaggio finale della curatrice Noel-Johnson: “Questo Zeusi novecentesco ci invita a seguirlo come ‘esploratori pronti per altre partenze’, in un viaggio infinito di sorpresa, scoperta e rivelazione metafisica”. Lo traduciamo nell’invito a visitare la mostra, racconteremo prossimamente la galleria delle 6 sezioni espositive.

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“‘Conversazione misteriosa’, illustrazione per
‘Mythologie di Jean Cocteau”, 1934

Info

Genova, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge. Catalogo “Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica” , a cura di Victoria Noel-Johnson. Skira, marzo 2019, pp. 248; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della seconda parte della trilogia di de Chirico nel quarantennale della scomparsa, e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità, pubblicata nel mese di settembre, sulla mostra di Genova, che dopo l’articolo attuale e quello del 18, terminerà con il terzo articolo del 22 settembre; sarà seguita dalla terza parte sulla mostra di Torino, con gli articoli del 25, 27, 29 settembre che concluderanno l’intera trilogia. Per la prima parte della trilogia, basata sulla ricerca di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560, cfr. i nostri articoli, sempre in questo sito, usciti il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 settembre 2019. Cfr. i nostri articoli precedenti su de Chirico: in www.arteculturaoggi.com, nel 2016, “De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione” 17 dicembre; “De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura” 21 dicembre; sulle mostre: nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010  a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e sulla mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. Per gli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com sui Cubisti 16 maggio 2013; in cultura.inabruzzo.it su “Dada e surrealisti” 6, 7 febbraio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico sono tratte dal Catalogo della mostra sopra citato, si ringraziano l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; riguardano le diverse sezioni della mostra commentate in modo specifico nei due articoli successivi. In apertura, “Ettore e Andromaca” 1970; seguono, “”Piazza d’Italia con piedistallo vuoto” 1955, e “Piazza d’Italia con fontana” 1969; poi, “Interno metafisico con paesaggio romantico” 1968, e “Interno metafisico con testa di Mercurio” 1969; quindi, “Visione metafisica di New York”” 1975, e “Il contemplatore” 1976; inoltre, “Il figliuol prodigo” 1974, e “Natura morta” 1930; ancora, “Ippolito e compagni” 1963, e “Ritratto femminile” 1921; continua, “Testa di fanciulla da Perugino” 1921, e “‘Frontespizio’, illustrazione per ‘Siepe a nordovest’ di Massimo Bontempelli” 1922; infine, “‘Conversazione misteriosa’, illustrazione per ‘Mythologie di Jean Cocteau” 1934 e, in chiusura, “Autoritratto con corazza” 1948.

“Autoritratto con corazza“, 1948