De Chirico, trilogia I – 1. Il Film della vita e dell’arte nella grande ricerca di Fabio Benzi

di Romano Maria Levante

Una nuova  celebrazione di Giorgio de Chirico dopo quella del 2016 dedicata al trentennale della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico: fu una giornata di analisi e riflessioni sulle implicazioni filosofiche del suo pensiero e della sua arte all’Accademia di San Luca con le relazioni  di docenti universitari, oltre che del presidente Paolo Picozza e di Fabio Benzi. Questa celebrazione è dedicata al quarantennale della morte e al centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità con la venuta a Roma dell’artista nel 1919, e si sono fatte le cose in grande. La Fondazione ha prodotto quella che ci piace chiamare una “trilogia” dechirichiana, innovativa anche nelle  componenti più tradizionali, per così dire, le mostre di Genova e di Torino, dove la novità sta nell’ulteriore approfondimento, la prima della “metafisica continua”, la seconda dell’eredità dei posteri con opere ispirate al  Maestro; trilogia iniziata con la grande ricerca di Fabio Benzi.

Autoritratto”, 1920 (dalla copertina del libro)

Il volume di Benzi, un’accurata ricerca nel labirinto e nell’enigma dechirichiano

La massima innovazione l’abbiamo trovata nella prima componente della “trilogia”, la chiave interpretativa delle altre due e dell’intera storia del Maestro l’imponente lavoro ermeneutico, di ricerca e ricostruzione svolto da Fabio Benzi  nel volume “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”. Non l’abbiamo chiamata “biografia”, sarebbe stato non solo riduttivo ma fuorviante, e in questo sta il suo aspetto profondamente innovativo tale da rappresentare un archetipo da seguire per chi avrà la forza di svolgere, come ha fatto Benzi,  un lavoro imponente anche per altri maestri.  

La volontà tuttavia non basta,  è necessaria la vasta documentazione che si trova solo se si sono costituiti Archivi  completi che consentono di ripercorrere l’itinerario creativo intrecciato alla vita dell’artista. La mostra “La vetrina di Cambellotti”  nel marzo scorso ha celebrato il compimento del vasto e documentato Archivio su di lui, ricco di 8000 documenti, a disposizione degli studiosi, e Fabrizio Russo, titolare dell’omonima galleria in cui si è svolta la mostra, ne ha sottolineato l’importanza a tutti gli effetti.

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Un dipinto di de Chirico con dinanzi l’autore a 19 anni, 1907

Benzi ha dimostrato come si possa valorizzare il materiale d’Archivio collegandolo alle opere dell’artista impegnandosi in un lavoro certosino di analisi e verifica  dei molteplici   momenti  creativi tradotti nelle opere collegandoli  con gli altrettanto molteplici momenti di vita per darne interpretazioni sostenute da valutazioni di ordine psicologico tanto più motivate quanto più la ricostruzione è precisa e documentata.

Una ricostruzione  inedita, originale e  innovativa, l’isola che non c’era nel mare delle analisi dechirichiane, con  gli opportuni  riferimenti agli apporti dei critici impegnatisi sui singoli aspetti  di volta considerati,  tratti da una bibliografia che l’autore definisce “immensa”, tale da non poter essere riportata in appendice;  mentre vengono indicate le citazioni utili a comporre un quadro valutativo  documentato in ogni aspetto.

E anche nella parte iconografica l’impegno è stato massimo, accompagnando passo passo la  ricostruzione del percorso artistico e dell’itinerario di vita nella quale particolare rilievo assumono  i contatti e gli incontri per i loro riflessi sul processo creativo dell’artista fatti rivivere con la riproduzione delle opere che ne sono nate. Per questo  il titolo “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”  ci sembra riduttivo, alludendo a una biografia, mentre è molto di più: ripensiamo al libro del Maestro “Le memorie della mia vita”,  nel lavoro di Benzi de Chirico potrà vedere “Il Film della mia vita”, perché le immagini contestuali ai singoli momenti dell’arte e dell’esistenza trasformano la lettura in una visione, appunto cinematografica, quanto mai coinvolgente: sono oltre 300, inserite nelle 550 pagine  del ricco volume, a illustrare ogni momento rivelatore del processo creativo.  

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“Tritone e sirena” , estate-autunno 1909

La lettura delle biografie per lo più si limita a suscitare un interesse conoscitivo facendo restare all’esterno,  mentre la lettura, anzi la visione della rappresentazione di Benzi fa entrare  dentro la scena fino a coinvolgere totalmente con l’ansia di andare avanti: per conoscere, interpretare e soprattutto vedere il prosieguo di una storia sempre più avvincente. Si penetra nelle vicende di una vita movimentata e mutevole e nel processo creativo che, pur nella “metafisica continua” cui si intitola una delle due mostre del quarantennale, è altrettanto movimentato e variabile dando vita ad  opere apparentemente incomprensibili  che la ricostruzione di Benzi riesce a far decifrare dando al lettore la soddisfazione della scoperta.

E come sia stato complesso tutto questo lo anticipano  le due citazioni che l’autore pone in apertura come  “sigilli”:   “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata  a tale fine” ” di Jorge Louis Borges; e “l’enigma dell’arte racchiude in sé quello del mondo, però lo rende formalmente praticabile” di Fabio Mauri.

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“Lotta di centauri” , estate-autunno 1909

Benzi non si è fatto “confondere” dal labirinto dechirichiano in cui ci sono le architetture, con e senza simmetrie;  e si è impegnato nel decrittare “l’enigma dell’arte” rendendo “praticabile” quello del mondo. E lo ha fatto – elemento oltremodo importante e non scontato facendo lui parte della Fondazione – senza alcun intento agiografico, al contrario si impegna strenuamente per far emergere gli influssi e le ispirazioni che il Maestro ha avuto nelle  sue creazioni maggiormente innovative – dalla pittura  metafisica in generale fino ai manichini in particolare – e trova i precedenti in poeti e pensatori, e non solo, in una visione opposta a quella che coltiva il “genio isolato” anticipatore senza alcun debito verso il retroterra culturale.  Sotto questo profilo la sua ricerca è particolarmente accurata, si direbbe accanita: anche dove comunemente viene visto un “prius” assoluto scova antecedenti ispiratori, e riporta le relative immagini a confronto con la rielaborazione del Maestro, sempre innovativa, si tratti di luoghi come pure, in certi casi, perfino di  dipinti.

Ci ha fatto ripensare all’impostazione della mostra alle Scuderie del Quirinale nel quinto centenario della morte di Leonardo, dichiaratamente orientata a “sfatare il mito del genio isolato” da parte del curatore, che dirige il Museo delle macchine leonardesche. Il lavoro di Benzi, esponente della Fondazione de Chirico, sebbene non si propone  questo, fa emergere, con una indagine anche psicologica molto penetrante, i fattori su cui si è costruito quel genio straordinario che ha lasciato un segno profondo nell’arte e nel pensiero del ‘900:  fattori interni, come la formazione adolescenziale e gli spostamenti da una parte all’altra in Europa e nel mondo, fattori esterni nei rapporti con filosofi, poeti, e anche pittori dai quali ha tratto gli elementi per la sua personale rielaborazione.  I suoi copiosi scritti, e quelli dei personaggi con cui è stato in contatto,  sono  una fonte preziosa di validazione e conferma di quanto ricostruito con l’equazione arte-vita.

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“Centauro morente” , estate-autunno 1909

Uno dei maggiori pregi della ricostruzione operata da Benzi sta nel procedimento investigativo con cui ha trattato le sue fonti dalle origini più diverse, ma noi non potremo darne conto per i limiti del nostro scritto, concentrato necessariamente sui punti fermi, e sono molteplici, che riesce a fissare nella sua ricerca instancabile all’interno del labirinto. Riesce sempre a trovare il percorso giusto che gli consente di decifrare gli enigmi più imperscrutabili, nei quali l’arte si intreccia con la filosofia e con altre discipline che l’inesauribile fantasia e l’imponderabile versatilità del Maestro evocano in forme sempre nuove e intriganti. Pagina dopo pagina l’interesse cresce, si resta attoniti e ammirati, seguiremo il suo racconto come il dipanarsi di un film, per questo riprodurremo in parte anche la sequenza di immagini che lo corredano.

Atene, Monaco e Milano, la nascita di un artista colto e irrequieto

La ricostruzione della figura e dell’opera di de Chirico, nato a Vados in Tessaglia il 10 luglio 1888 da famiglia benestante – il padre Evaristo ingegnere civile costruttore di ferrovie in varie nazioni e poliglotta, come sarà anche lui che parlerà cinque lingue – inizia con “l’educazione in Grecia” in un clima cosmopolita per la presenza di espatriati; quindi, apertura internazionale ma intense suggestioni del mito greco, inteso non come mitologia favolistica bensì come simbolo e metafora. Il massimo  poeta ellenico di allora, Kostis Palamis ebbe di certo influenza su di lui, che studiava al Politecnico di Atene, come sui giovani compagni che manifestavano anche in piazza. Il pensiero di Nietzsche, al quale si ispirava il poeta, e la filosofia di Schopenauer, si impressero nel meccanismo formativo  del giovane Giorgio ammodernando ciò che altrimenti sarebbe stato superato e stantio.

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“Prometeo” , inverno 1909

Una compresenza di entrambi i motivi, tradizionale e moderno, si aveva anche nel panorama urbano, con le antiche rovine, si pensi all’Acropoli,  e i moderni edifici industriali, e tutto ciò si rifletterà nelle sue opere, almeno all’inizio.  Come la formazione dei suoi insegnanti del Politecnico, avvenuta all’Accademia delle Belle Arti di Monaco, rinsaldava il nesso con la cultura tedesca già emerso in Nietzsche, in direzione di un rinnovamento che nella pittura apriva l’arte greca al di là dalle icone tradizionali. De Chirico si collegava agli artisti greci d’avanguardia, oltre che all’ambiente letterario e filosofico; poi verranno gli innovatori,  Picasso, Kandinskji e Marinetti.

Da Atene e Vados a Monaco di Baviera, il salto avvenne nell’ottobre 1906, meno di un anno e mezzo dopo la morte del padre, lui aveva meno di 17 anni, il fratello Savinio era tredicenne,  orientato alla musica. La madre volle trasferirsi nella città tedesca alla ricerca della migliore Accademia d’arte per lui, da cui provenivano  i maestri del Politecnico, mentre per il fratello c’era la prospettiva musicale in Italia dove andò dopo 5 mesi accompagnato dalla madre, che rimase con lui. Giorgio restò a Monaco, una pietra miliare sul piano artistico perché conobbe la pittura di Bocklin, le incisioni di Klinger, definito “il campione delle Secessioni”, e altri come Feuerbach e von Marèes; mentre sul piano filosofico si addentrò nella filosofia di Nietzsche e Schopenhauer che leggeva nei testi originali, conoscendo il tedesco, e assimilò temi e concezioni nel suo mondo interiore che troverà lo sbocco geniale dell’espressione metafisica.

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La partenza degli Argonauti” , inverno 1909

L’insegnamento accademico, tuttavia, alieno da ogni sperimentazione, costituiva pur sempre una sorta di cappa alla quale cercava di sfuggire con gli approfondimenti personali ora citati di tutt’altro orientamento, finché lasciò l’Accademia prima di terminare gli studi per seguire “l’altra strada”.  

Ma è a Milano – dove si trasferisce a 20 anni raggiungendo madre e fratello dopo due anni e mezzo vissuti da solo, senza portare con sé quanto dipinto a Monaco ritenuto inadeguato – che nascono i primi dipinti  “bockliniani”, come “Tritone e sirena” e “Prometeo”, “Lotta di Centauri” e “Centauro morente”, fino a “La partenza degli Argonauti”, tutti dell’autunno  1909. Un “mondo ancestrale, sospeso tra natura primigenia e mitologia antica, sorgente dell’umanità –  commenta Benzi – un’aurora dell’uomo  in cui ogni cosa stupisce e il tempo è fermo, circolare, un presente ancora senza storia dove è possibile l’eterno ritorno nietzschiano”.

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Serenata”, primavera-estate 1910

A Firenze, l’illuminazione metafisica con i suoi enigmi

E’ molto breve la parentesi milanese, nel 1910 è Firenze ad accogliere lui ventiduenne  con il fervore culturale e artistico cittadino, conosce Soffici e Papini il cui pensiero gli apre finalmente “l’altra strada”, che si traduce nella visione metafisica. Questa pur fondamentale circostanza non basta ad interpretare compiutamente le opere ispirate al nuovo sistema poetico-filosofico se non si trova anche la matrice della forma rappresentativa radicalmente diversa da quella di ispirazione blockiniana.  Infatti “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” e “L’enigma dell’oracolo”, entrambi dell’ottobre-novembre 1910, con la nettezza e precisione delle campiture, sono lontanissimi dallo stile in cui sono dipinti i Centauri, Tritoni, Argonauti,  delle opere milanesi prima citate le cui vibrazioni pittoriche, assenti negli “enigmi fiorentini”, sono date da pennellate “minuziose e strisciate, pastose e tremolanti”.  Ebbene,  l’autore trova la nuova matrice pittorica delle primissime opere metafisiche nello stile di Henri Rousseau, a sua volta ispirato da Paolo Uccello, conosciuto attraverso un articolo di Soffici – che aveva acquistato due quadri del Doganiere – pubblicato subito dopo la morte del pittore francese; anzi, individua nelle due figure dell’”Enigma di un pomeriggio d’autunno” una citazione della “Musa che  ispira il poeta Apollinaire” di uno dei due quadri di Rousseau riprodotti in bianco  e nero  nell’articolo di Soffici, che potrebbe aver visto al naturale visitando la sua casa.

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“Processione su un monte” , settembre-ottobre 1910

Entra così in campo il poeta Apollinaire, che in un primo tempo sembra accreditare il riferimento a Rousseau, poi si ricrede, divenne sodale di de Chirico, sul quale – osserva l’autore con la sua libertà di pensiero aliena da intenti agiografici – “possiamo esser certi che non avrebbe mai confessato ad Apollinaire o ad altri il suo debito fugace ma determinante nei confronti del Doganiere”. Altrettanto libera e coraggiosa l’osservazione sui contenuti appoggiata a una citazione di brani  di Soffici su Rousseau: “L’impressionante linguaggio di Soffici, che sembra una descrizione dei quadri dechirichiani enunciata ancor prima che essi siano stati dipinti, ci dà una misura di come, appena uno o due mesi prima della sua intuizione, de Chirico dovesse aver letto quelle pagine, sentendole cariche di un presagio ancora non realizzato: descrizione di piazze deserte,  e di oggetti privati di significato, di lirismo spogliato di razionalità”.  A ciò fanno eco le affermazioni di de Chirico metafisico con riscontri tra parole, poetiche e concetti definiti “impressionanti”.

Il clima di malinconia nasce dallo “Stimmung”, posto da de Chirico alla base della sua visione metafisica come “stato d’animo”  che lui stesso, traendolo da Nietzsche, definisce “atmosfera nel senso morale”. Si traduce nell’espressione pittorica conseguente così definita: “Le nuove stesure divengono ampie e monocrome, rialzate da leggere pennellate chiare o scure per dare volume alle forme”  rispetto al precedente “sfrigolante tessuto”  di “pennellate sovrapposte”. In tal modo “riesce a rappresentare un mondo in cui l’astrazione del colore dona alle forme  un’assolutezza noumenica, astrattiva, mentale, che realizza una visione interiore e sintetica”.

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“L’enigma d’un pomeriggio d’autunno”, ottobre-novembre 1910

Ecco come lo giudica Soffici dopo un breve accenno a Paolo Uccello che ritira subito negando una “somiglianza essenziale” con de Chirico, anzi aggiungendo che “la sua opera non somiglia a nessun’altra, antica o moderna, che sia formata su cotesti elementi”. Per concludere: “La pittura di de Chirico non è pittura, nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni… egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, dì immobilità di stasi che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo nella nostra anima quasi addormentata”.

Siamo entrati così nel bel mezzo della visione metafisica, nei suoi aspetti contenutistici ed espressivi, e dopo aver citato le due prime opere in cui essi appaiono con chiarezza, ne citiamo una definita  “quadro proto metafisico”, che precede le prime due di un mese, “Processione su un monte”, settembre-ottobre 1910, un  paesaggio greco con tre coppie “infagottate” in cammino lungo un sentiero in salita verso una chiesetta lontana: il confronto con la composizione del 1908 di Camillo Innocenti, “Al rosario”, mostra le notevoli differenze ma anche l’analogia compositiva, mentre viene sottolineata “la somiglianza certo ancora più pregnante di questo quadro con quelli di Rousseau”, altra sconfessione del “genio isolato” avulso dall’ambiente artistico del suo tempo. Costituisce “il primo esperimento, ancora acerbo ma destinato rapidamente a condensarsi nella nuova visione, nella direzione dell’invenzione metafisica”.

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“L’enigma dell’oracolo”, ottobre-dicembre 1910

Ma si passa subito, un mese dopo, al “primo enigma metafisico”, cioè “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”, ottobre-novembre 2010, quando a Firenze, in Piazza Santa Croce, come racconta lui stesso, seduto su una panchina da convalescente, davanti alla statua in marmo di Dante al centro della piazza, ebbe ”la strana impressione” di vedere “tutte le cose per la prima volta”: “E la composizione del quadro mi apparve in mente… Mi piace chiamare anche l’opera che ne risulta un enigma”. 

L’atmosfera è quella dello “Stimmung”, lo stato d’animo  che spoglia le cose del significato consueto per far affiorare il mistero della loro vera natura, e non manca il riferimento a Rousseau al quale Soffici attribuisce un “senso d’ irreparabile, quotidiana, diuturna malinconia”. Mentre de Chirico si entusiasma a ciò che di nuovo ha creato definendolo – in una lettera a Fritz Gartz, amico-collega di Monaco – “non grande o profondo (nel vecchio senso della parola) ma terribile” e cita Nietzsche come “il poeta più profondo”, mentre la profondità  “si trova da tutt’altra parte  rispetto a dove la si è cercata finora”. Fino ad esclamare: “I miei quadri sono piccoli, ma ognuno è un enigma, ognuno contiene una poesia, un’atmosfera (‘Stimmung’)… una promessa che lei non potrebbe trovare in altri quadri. E’ una terribile gioia per me averli dipinti”.

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L’enigma dell’ora” , ottobre-dicembre 1910

Seguono, entrambi di ottobre-dicembre 2010, altri due enigmi. In “L’enigma dell’oracolo” la figura arroccata in alto si staglia su uno sfondo lontano, tipico panorama che evoca il Partenone, mentre sulla destra c’è la statua del dio seminascosta da una tenda nera, che evoca a sua volta l’iconostasi posta nelle chiese ortodosse per separare la parte della chiesa dedicata alla divinità da quella con i fedeli. Al riguardo lui stesso scrive: “Una delle sensazioni più strane  e profonde che ci abbia lasciato la preistoria  è la sensazione del presagio. Essa esisterà sempre. E’ come una prova eterna del non senso dell’universo”. In merito al quadro precisa: “E’ l’ora ghiacciata dell’aurora di un giorno chiaro, alla fine della primavera”.

Poi si passa a “L’enigma dell’ora”, a chiusura di questa prima fase metafisica fiorentina, con riferimento al mistero del “meriggio” che nella tradizione greca e nei paesi mediterranei è “l’ora dei fantasmi, delle visioni, dei deliqui divinatori”, e nei paesi nordici corrisponde alla mezzanotte. Un ritorno alla cultura ancestrale greca a riprova che continua a premere su di lui, insieme alla poetica di Palamis, ai temi filosofici di Nietzsche e Schopenauer, al pensiero di Papini e Soffici.

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Ritratto dl fratello”, gennaio-marzo 1910

Così, riassume l’autore, “la meditazione paradigmatica rappresentata dalle due prime tele metafisiche, basate su Firenze e Atene, va ampliandosi a piazze più mediterranee in senso lato, che svilupperà  ampiamente  a Parigi, gravato dal senso di primordio greco che all’illuminazione  offertagli dalla filosofia  e poesia di Nietzsche aggiunge le proprie coordinate personali”. Con questo risultato: “L’enigma del tempo, aggiungendosi agli altri enigmi del mondo delle cose e dell’esistenza, viene condensato in quell’ora fatale che permette, facendo vacillare la mente razionale, l’applicazione dell’’eterno ritorno’ nietzschiano in un presente senza storia, in una consapevolezza in cui il futuro coincide col passato, in cui l’uomo è presenza che si può solo interrogare, senza darsi risposta, sul perché del mondo”.

Siamo solo agli inizi, l’artista ha 22 anni, andrà a Parigi dove la sua “metafisica” assumerà  nuove forme, dalle piazze d’Italia con la statua di Arianna ai manichini, fino all’apparentemente insensato assemblaggio di oggetti; il racconto proseguirà nella  2^ puntata di “Il Film della mia vita” di de Chirico visto come una fiction televisiva, il “regista” Benzi darà le spiegazioni e svelerà misteri che sembrano impenetrabili. Ne parleremo prossimamente, senza anticipare per ora i contenuti delle successive cinque puntate, anch’essi quanto mai intriganti e appassionanti come il resto del “film”.

“Ritratto della madre”, primavera 1911

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 6 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale – la I parte della trilogia – nei giorni 5, 7, 9,11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Cfr. i nostri articoli precedenti su de Chirico: in www.arteculturaoggi.com, nel 2016, “De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione” 17 dicembre; “De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura” 21 dicembre; sulle mostre: nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e la mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. Sugli artisti citati del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito, Leonardo 2, 4 giugno 2019, Cambellotti 5 aprile 2019; in www.arteculturaoggi.com Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Secessionisti 21 gennaio 2015, Marinetti 2 marzo 2013; in cultura.inabruzzo.it, Picasso 4 febbraio 2009.

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto” 1920 (dalla copertina del libro); seguono, Un dipinto di de Chirico con dinanzi l’autore a 19 anni 1907, e “Tritone e sirena” estate-autunno 1909; poi, “Lotta di centauri” e “Centauro morente” estate-autunno 1909; quindi, “Prometeo” e “La partenza degli Argonauti” inverno 1909; inoltre, “Serenata” primavera-estate 1910, e “Processione su un monte” settembre-ottobre 1910; ancora, “L’enigma d’un pomeriggio d’autunno” ottobre-novembre 1910, e “L’enigma dell’oracolo” ottobre-dicembre 2010; continua, “L’enigma dell’ora” ottobre-dicembre 1910 e “Ritratto dl fratello” “gennaio-marzo 1910; infine, “Ritratto della madre” autunno 1911e, in chiusura, “Autoritratto” marzo 1911.

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“Autoritratto”, primavera 1911

Pietracamela, 2019, 2. Il Borgo in Arte, pittura e musica, teatro e tradizioni

di Romano Maria Levante

L’agosto che nei primi giorni ha sollecitato memoria e nostalgia con il ricordo della mitica Luigina a Ponte Arno, l’antica “stazione di posta” al bivio sulla Statale ’80,  negli ultimi giorni ha fatto appello all’arte e alle tradizioni. Il “Borgo in Arte” è diventato un appuntamento costante, quest’anno anticipato al 17 agosto, il giorno dopo la festa di San Rocco del 16, in un abbinamento significativo. Infatti sono nel DNA e nelle tradizioni del borgo arte e cultura, unite alla forte religiosità espressa nella antica  devozione per il santo, sentito come patrono, insieme a San Leucio cui è intitolata la chiesa madre, la chiesetta di San Rocco è posta alla sommità del paese, sulla “Via degli Aquilotti del Gran Sasso” che sale verso la montagna.

La “locandina” del “Borgo in Arte” 2019

L’Arte è impersonata dal pittore Guido Montauti, di cui lo scorso anno è stato celebrato il centenario della nascita, scomparso nel 1979 lasciando una forte impronta con i suoi dipinti evocativi di un “quarto stato montanaro” – come lo abbiamo chiamato – sagome assorte tra le rocce, poi i cespugli, le bande oblique, e la rarefazione finale fino all’Empireo, con due delle ultime opere  in cui torna quasi figurativo per lasciare il testamento pittorico, “Lettera”  e “Pastori”, non più sagome assorte quasi assenti nella loro attesa paziente, ma volti di una comunità consapevole, ben delineati, compunti e in ascolto.

E poi la cultura, che ha una storia, ce la ricorda acutamente Lidia Montauti, l’ideatrice e curatrice anche con sacrificio personale delle due mostre fotografiche di alcuni anni fa “I matrimoni di una volta” e “I bambini di una volta” : ha osservato che le maestre e i maestri di Pietracamela nel ‘900  hanno “alfabetizzato” il comprensorio del Gran Sasso e Monti della Laga, insegnando nei paesi e borghi, anche i più isolati, dove si fermavano in modo stabile nei lunghi inverni sotto la neve, e ne abbiamo avuto esperienza diretta anche a livello familiare.

Su queste antiche radici sono nati nel tempo i libri di autori pretaroli: i libri sulla montagna, dall’antico saggio su Corno Piccolo ristampato di recente di un precursore, fondatore del gruppo “Aquilotti del Gran Sasso”, il primo in Italia, gruppo celebrato nel “Borgo in Arte” dello scorso anno,  alle appassionate rievocazioni di una vita sul Gran Sasso di altri due grandi alpinisti pretaroli, oltre al libro sugli “Aquilotti del Gran Sasso”,  con le conquiste degli alpinisti locali, di un tempo lontano e attuali; i libri sulle memorie e storie  del paese, dai personaggi controversi come Manodoro e dalle  leggende montanare e memorie personali all’epopea dell’emigrazione; i libri su temi di interesse generale, storici sull’Unità d’Italia e sui Carabinieri nella storia italiana, religiosi-filosofici  su Gesù come uomo, sulle contraddizioni e gli interrogativi in merito alla fede e dell’esistenza fino a Dio,  economici sulla globalizzazione, d’inchiesta sul D’Annunzio del Vittoriale nel suo profilo interiore e nella storia d’Italia,  con riferimenti paesani anche premonitori, in particolare alla novella dannunziana “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola”.

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Forse un’idea meritevole di essere tenuta presente per le prossime edizioni della manifestazione può essere l’esibizione di questo giacimento culturale paesano, che non sembra modesto;  e, per la novella dannunziana, semplice da rappresentare quanto spettacolare, la messa in scena – anche nel “teatro da strada”- di una versione tra le case di pietra del centro storico, con una voce narrante e due personaggi, il pittore Fiamignano che dipinge un ritratto,  la “marchesa di Pietracamela” che posa e si scambiano poche intense battute, fino all’intrigante quanto suggestiva visione  conclusiva. Il Presidente della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”, Giordano Bruno Guerri, potrebbe non essere indifferente a una simile iniziativa, avendo rappresentato Van Gogh al Vittoriano a Roma, figurarsi per D’Annunzio del quale – oltre ad essere custode appassionato e dinamico della memoria con continue iniziative culturali  e biografo dell’”amante guerriero” –   sembra la reincarnazione.

Naturalmente, la produzione culturale andrebbe esibita a fianco di quella tradizionale artigiana, è cultura  anch’essa, e  nella festa di quest’anno prodotti artigiani sono stati di nuovo sciorinati: sarebbero i versanti della cultura locale in una felice sinergia.

Romolo Intini impersona il versante artigiano in varie forme, quest’anno  non ha partecipato come maestro cardatore, tuttavia ha esposto  lavori in legno ammirati da tutti, tra cui una scena da osteria di ieri, un tavolo e 4 avventori. Ma ci sono state anche altre esposizioni di semplici appassionate,  nei cui occhi si leggeva la fierezza di presentare oggetti preparati con amore in una tradizione rappresentata anche da loro, che suscita un senso di nostalgia.

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Nulla di nostalgico, ma di molto moderno, invece, nel complesso musicale “Le Galassie” che ha vivacizzato la serata nel “Belvedere Guido Montauti”; anche qui voglia di condividere le proprie emozioni, questa volta musicali, nell’impegno dei musicisti  e delle due cantanti, diverse nell’abito,  nero l’una,  bianco l’altra, ma unite nella passione con cui hanno sciorinato un repertorio travolgente, mentre la notte portava un’aria sempre più fresca che però non raffreddava il pubblico infervorato.

 “Borgo in Arte”  è anche questo, ma è soprattutto Arte. E qui, pur non essendo in senso stretto “Street Art” perché le opere esposte in strada erano compiute e non “in fieri”, si aveva questa sensazione, di vederle nascere “in loco”, essendo in carattere con l’ambiente montanaro.  L’esposizione si è svolta come sempre  nel centro storico, dal largo con vista panoramica sulla vallata di un verde di straordinaria intensità, alla scalinata sotto l’arco che porta alla vecchia sede del Municipio, fino al dedalo di vicoli divenuti una sede espositiva quanto mai pittoresca.

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Tra i pittori nel “Borgo in Arte” c’è la costante di Paolo Foglia, rimastoci impresso per la sua iniziale simbiosi con il poeta Francesco Bernabei, che negli anni scorsi avevamo ritrovato come lettore poetico e narratore di storie, come quelle montanare degli “Aquilotti del Gran Sasso”;  un  “performer”  che con la folta barba di quest’anno ha accresciuto il suo impatto carismatico, e ha scelto il monologo di “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin, con qualche malizioso riferimento alle polemiche politiche accese nell’estate. Un momento suggestivo di forte emozione per tutti, anche per lui  che ha detto successivamente di essersi espresso “nella rabbia della mia voce, nella tristezza del cuore” perché “l’attualità delle parole è terribile, come è terribile tutto quello che l’umanità è divenuta. Circondati da dotti medici e sapienti perdiamo di vista la nostra umanità, restiamo quindi in questo stallo, miopi al vedere avanti, reclusi nelle nostre ruote da criceto”.  Anche nel “dopo performance” c’è la declamazione appassionata con il carisma del profeta.

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Infine le fotografie, non vanno considerate secondarie, sono nel cuore della festa. In primo luogo quelle “storiche”, dove i paesani possono riconoscersi:  Vittorio Giardetti, tornato come ogni anno dalla sua residenza americana sull”Ontario – per una vita è stato tecnico del governo alle cascate del Niagara – ci indica la sua foto da bambino con la madre, “la Stella”, in una vecchia immagine ingrandita; come Aligi Bonaduce, solo lui poteva riconoscersi, si vede in parte la sua testa con la fronte fino agli occhi in una scampagnata ai Prati di Tivo, davanti al padre Francesco che suona la chitarra in un duo con Berardino Giardetti, l’autore di 4 dei libri citati all’inizio,  al mandolino, e tanti intorno, tra cui Osvaldo Trinetti, Mamung, la piccola Rina Filippi figlia del  “guardaboschi” Gianni e della “levatrice” Giuseppina di un’epoca  lontana nel tempo e nei costumi. Lo scorso anno Celestina De Luca si riconobbe in una delle due ceste in groppa a un mulo, nell’altra il fratellino, al lato i genitori, quest’anno Vittorio e poi Aligi.

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Qualcosa si deve aggiungere su Aligi, di cui abbiamo appena parlato citando la foto che ne ritrae parte del viso da bambino, è suo l'”Archivio Bonaduce” accessibile su Facebook. La parte antica dell’Archivio, ci ha confidato, è riuscito a costruirla  negli anni,  presentandosi nelle case degli anziani del paese con uno “scanner”, altrimenti per timore che le vecchie foto si perdessero o non fossero restituite per dimenticanza sarebbe stato difficile averle in prestito, le scansionava in loro presenza, mentre la parte moderna si deve alla passione unita alla maestria sua e del figlio Flavio. Vediamo esposte immagini suggestive del Gran Sasso che assume tante vesti,  e inquadrature speciali come quella in cui il paese è ripreso in una cornice di fronde cariche di neve, e un’altra in cui il “mare di nuvole” sembra la prosecuzione del pianoro innevato, fino a quella con le impronte sulla neve fresca e la montagna di sfondo, una metafisica montanara.

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Vittorio Giardetti indica la sua immagine di bambino davanti alla madre, “la Stella”

Un grande merito di Aligi – oltre al suo nome dannunziano – è la sequenza di immagini del pittore Guido Montauti ripreso al “Grottone”,   ne sono esposte tre di un’ampia serie che lo segue nella sua ascesa alla grotta e nella discesa, poi fino a Vena  Grande; un servizio fotografico il cui già elevato valore è moltiplicato dal fatto che proprio il “Grottone” dove viene immortalato – è il caso di dirlo – tre decenni dopo è crollato nella vallata distruggendo gran parte delle  “Pitture rupestri” – tre si sono salvate e sono state restaurate –  realizzate da lui con il gruppo del “Pastore bianco”,  cui diede un significato simbolico, per cui la sua figura in alto resta come nume tutelare.

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Nella foto in alto a sin. Berardino Giardetti al mandolino, davanti Francesco Bonaduce alla chitarra con, in primo piano, a sin,. la fronte del piccolo Aligi

La parte dell’esposizione fotografica in chiave paesana ci fa ripensare alle due mostre sopra citate svoltesi a Pietracamela negli anni scorsi, nel mese di agosto – con la cura appassionata di Lidia Montauti insieme a volenterose collaboratrici – abbinate all’esposizione di oggetti coevi, specchio di tradizioni secolari.

Il Museo delle Genti e delle Tradizioni Popolari, che si trova nella sede comunale inagibile in attesa di definitiva sistemazione, andrebbe vitalizzato e integrato con un’esposizione permanente delle fotografie presentate nelle due mostre sui matrimoni e i bambini di una volta e di quelle che potrebbero fare oggetto di altre mostre continuando la serie ora interrotta. Perché gli oggetti di una volta, pur evocativi, da soli non rendono ciò che la fotografia trasmette: il senso della vita, della vita di allora.

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Le altre fotografie, tante, fissate sulle porte soprattutto antiche del centro storico, e  sulle pareti esterne in pietra delle abitazioni, spaziano su vari temi, la montagna è presente ma non solo, alcune sono istantanee nate dall’impulso del momento, altre molto ricercate nei loro effetti pittorici.

Arte e tradizioni, musica e cultura, anche fotografica,  dunque. Ma non  poteva mancare la parte culinaria, del resto è cultura la tradizione enogastronomica, molto viva anche nell’antico “nido delle aquile”, come fu definito il borgo di Pietracamela. E non è mancata, con la tavolata nel largo che immette nel centro storico, ovviamente all’insegna della tradizione.

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Al centro Guido Montauti, a sin. una delle “Pitture rupestri” del suo gruppo pittorico “Il Pastore bianco” distrutte dalla frana del “Grottone” dove l’artista è ritratto a dx

Dal  “Borgo in Arte” una prova di vitalità e uno stimolo per il rilancio

Non finisce qui l’impatto della manifestazione, è stato  anche un momento di riflessione, che desideriamo condividere con chi ha a cuore il futuro del paese. Il borgo sta curando le ferite del terremoto, ma senza  cantieri troppo vistosi, a parte alcune ricostruzioni radicali; ci sono passaggi protetti e passaggi interdetti, nel segno dell’ordine e del decoro che trova il Comune molto attento, anche all’erba che cresce nelle aree trascurate per la quale ha emesso apposita ordinanza;  e, sul piano della pulizia stradale, l’addetto comunale Carlo, scrupoloso per formazione familiare, non vuole trascurare neppure l’erbetta ai bordi, nessuna cartaccia, nessun rifiuto, soprattutto per chi viene da Roma come noi  è un miracolo. Anche l’”isola ecologica” all’ingresso del borgo rientra in questa attenzione scrupolosa e benemerita.

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Pietracamela soffre dello spopolamento di quasi tutti i piccoli borghi montani, ma non è abbandonato come molti di essi, abbiamo già sottolineato come la Ruzzo Reti abbia installato lo scorso anno più di 800  contatori rispetto ai residenti stabili che sono poche diecine. Questo perché la nuova forma di presenza dei cittadini, gli autoctoni definiti qui “i naturali”,  è  “a rete”, dal piccolo nucleo dei residenti stabili ai cerchi concentrici che si allargano alla provincia e alla regione, alla nazione e all’estero con gli emigrati. 

Sono così affezionati che uno di loro – Gino Di Venanzo, “nick name” Geppetto – ogni anno torna  e pianta per tre mesi le bandiere di Italia ed Europa, Canada e Stati Uniti su Vena Grande, la roccia identitaria a forma di cammello che domina il paese cui sembra abbia dato  il nome, come segno del proprio attaccamento. Le avevamo criticate come “banderillas” sul  cammello quasi fosse un toro da “matare” credendole un qualcosa di stabile e istituzionale che deforma una scultura naturale, come le pale eoliche sfregiano i contorni del paesaggio in molti altri luoghi, per fortuna non in questi; ma conosciutane l’ origine, diamo atto che per i tre mesi di ritorno dell’emigrato marcano invece una  identità paesana che non si perde in una vita all’estero e viene meritoriamente riaffermata con forza. Bravo, Geppetto, il tuo Pinocchio  di bandiere è un atto d’amore che ti fa onore e rende onore a quelli che come te tornano al paese delle loro origini. Tra questi Matteo Giardetti, con i figli Matthews, Mark, Donna  e famiglie, i nostri nonni emigrarono insieme per le “lontane Americhe” nel giugno 1906 sulla nave “Sicilian Prince”, il sito di Ellis Island ci ha fornito il foglio d’imbarco.

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Si potrebbe  integrare nel Museo delle Genti e delle Tradizioni Popolari un Museo dell’Emigrazione con tante storie di vita e di successo, sarebbe istruttivo ed esaltante per i tanti che sono fieri del loro coraggio e della loro abnegazione. Iniziative per celebrare gli emigrati – i quali rappresentano la storia e l’anima del borgo trasferita da decenni all’estero – accogliendoli con tutti gli onori, sono altamente auspicabili. 

E allora, riprendendo l’intervento a Ponte Arno del presidente della Provincia di Teramo, Diego Di Bonaventura, il territorio dovrebbe diventare il riferimento per ogni iniziativa, né le poche diecine di residenti possono provvedere da soli a tutelarlo, occorre fare molto di più da parte delle istituzioni. E operare senza lo scarico di responsabilità, come avviene tra Parco e Comune sulla manutenzione dei sentieri, indicati da belle frecce in legno con tanto di tempi di percorrenza ma spesso impraticabili.

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I residenti sono una risorsa, un presidio minimo ma indispensabile, e vanno sostenuti nella loro scelta di restare, coraggiosa e meritevole, anche con esenzioni fiscali; da riservare, in particolare, anche alle scarse attività economiche seguendo la via milanese di aiuto ai comuni spopolati, così da creare anche le condizioni per il ripristino del “Bar del Parco” che animava la piazza del paese.

Anche in questo sta il valore dell’annuale “Borgo in Arte” di Paolo di Giosia, nell’esprimere la vitalità del borgo e nel ricordare la sua storia e le sue tradizioni, la sua cultura e la sua arte; ma non soltanto in senso rievocativo, bensì come stimolo ad operare perché torni ai fasti di un tempo nelle nuove condizioni imposte dallo spopolamento.

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Il turismo è sempre stato una leva importante per il benessere della popolazione, quando il numero di abitanti era consistente, ora deve esserlo anche per la salvaguardia del territorio, affinché da paese spopolato non decada in paese abbandonato.  Le energie ci sono e la volontà non manca, “Borgo in Arte” ne è una evidente espressione, il merito è della genialità e della cultura dell’ideatore e curatore – che continuerà ad organizzare la manifestazione sostenuta dal Comune anche dopo aver lasciato la presidenza della Pro Loco – ma anche dello “spiritus loci” che aleggia nelle persone e nelle case di pietra di questo “quarto stato montanaro”.

A Ponte Arno si è detto che non siamo  a un punto di arrivo, ma di partenza, di un nuovo inizio, proposito che ha accomunato tutte le autorità presenti, a ogni livello, anche la massima autorità religiosa. Chi vivrà vedrà, appuntamento al prossimo “Borgo in Arte” del 2020, ma andranno posti in essere programmi efficaci e concreti da parte delle istituzioni competenti  per dare corpo al “punto di partenza”, al “nuovo inizio”. Per ora ha dichiarato di volersi impegnare subito, lo ripetiamo, e speriamo concretamente, il presidente della Provincia di Teramo con i sindaci dei comuni interessati, Pietracamela (che include la frazione Intermesoli), Fano Adriano e Crognaleto, dal Gran Sasso ai Monti della Laga.

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Nell’immediato si dovrà riattare, dopo anni e anni di interruzione, la strada panoramica Fano Adriano-Intermesoli, che oltre a ripristinare il collegamento vitale tra le due località fornisce ai turisti un itinerario per Pietracamela con una spettacolare vista del Gran Sasso,  crediamo sia alla portata se si superano le pastoie che finora lo hanno impedito, come per tanti cantieri bloccati dalla burocrazia.  A livello generale si dovranno creare le condizioni, su tutti i piani, compreso quello promozionale, per il ritorno dei flussi turistici, inariditisi soprattutto dopo il sisma del 2009, nelle nuove accresciute condizioni di sicurezza del borgo dalle incomparabili attrattive naturalistiche. Negli anni ‘60 venivano a villeggiare Marina Berti e Claudio Gora, poi Peppino di Capri e Carla Gravina, perché non invitare nel borgo Andrea Giordana che da ragazzo giocava con i coetanei pretaroli?   

Il divario tra l’offerta di bellezze ambientali e la domanda turistica è troppo elevato, un paese di fiaba merita molto di più, di essere conosciuto e apprezzato come quando entrò nel club Anci dei “Borghi più belli d’Italia” per diventare due anni dopo “Borgo dell’anno”. Si era rispettivamente nel 2005 e  2007, tornare ai fasti di allora deve essere più di un obiettivo, un impegno concreto per tutti.

Il complesso “Le Galassie” nel “Belvedere Guido Montauti”, a sin. la fontana che evoca le sagome montanare del pittore locale di fama internazionale cui il luogo è dedicato

Info

I libri di autori pretaroli cui si è accennato nel testo, a parte involontarie omissioni, sono: sulla montagna, Ernesto Sivitilli, “Il Corno Piccolo. Gruppo del Gran Sasso d’Italia”,  Ricerche & Redazioni, 2013 (ristampa anastatica dal 1930), pp. 120;  “ Aquilotti del Gran Sasso. Pietracamela  1925-75” a cura della “Pro loco” di Pietracamela, 1976, pp.140  (nel cinquantenario, storie e ricordi dei pionieri, poi ristampa anastatica con integrazioni nel 2006, a cura di Lino D’Angelo e Filippo Di Donato),  Clorindo Narducci, “Un vecchio zaino di ricordi”, Andromeda Editrice, Castelli (Te), 2008, pp. 112,  Lino D’Angelo, “Le alte vie di una vita”, Verdone Editore, Castelli, 2009, pp. 160; sulle memorie e storie del paese; Berardino Giardetti, “Memoria su Matteo Manodoro da Pietracamela, generale dei briganti, 1762-1812”, Solfanelli Editore, Chieti, 1981, pp. 143,  “Incontro col diavolo e altri racconti montanari”, Ponte Nuovo, Bologna, 1990, pp. 222 (ristampato), ” Le memorie di un ottuagenario qualunque. Alla ricerca della coscienza”, Ponte Nuovo, Bologna, 1992, pp. 368;  Clorindo Narducci, (Pjitto) “Pietracamela. Tra storia e leggenda”,  Demian Edizioni, Teramo, 2014, pp. 80; Romano M. Levante, “Rolando e i suoi fratelli. L’America!”, Andromeda Editrice, Castelli, 2006, pp. 360;  su temi generali:  storici, Berardino Giardetti, “Grandezza e miserie dell’Unità d’Italia”, Ponte Nuovo, Bologna, 1992, pp. 458, Gelasio Giardetti,  “I Carabinieri nella storia italiana” , Associazione Nazionale Carabinieri Editrice, Roma, 2018, pp. 394; religiosi-filosofici, Gelasio Giardetti”, “Gesù l’uomo”, Andromeda Editrice, Castelli, 2008, pp. 320, “Dio, fede e inganno”,  2013, pp. 242  e  “L’uomo, il virus di Dio”,  2014, pp. 188,   entrambi Arduino Sacco Editore, Roma;  economici, Romano M. Levante (con Luciano Radi), “La macchina planetaria. Quali regole per la corsa alla globalizzazione)”, Franco Angeli, Milano, 2000, pp. 112;  d’inchiesta, con riferimenti al paese, Romano M. Levante, “D’Annunzio, l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Castelli, 1998, pp. 528 (la novella dannunziana citata nel libro e ricordata nel nostro articolo,  “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola” è del  27 ottobre 1887,  da “Grotteschi e rabeschi” del “Duca Minimo” 18 ottobre – 10 novembre 1879). Cfr., in www.arteulturaoggi.com,  i nostri articoli a commento di alcuni dei libri citati: sul libro di Ernesto Sivitilli,  27 agosto 2013, sui libri di Clorindo Narducci, 3 e 7 luglio 2016,  e di Gelasio Giardetti,  4, 6, 8, 10  novembre 2018 per il libro su tema storico, 3, 10 giugno 2015 e 2 febbraio 2014 per due libri su tema religioso-filosofico.            .

Per i nostri servizi su Pietracamela, sulle feste del “Borgo in Arte”  degli scorsi anni e  le mostre sugli antichi costumi del paese, il percorso artistico del pittore Guido Montauti di cui nel 2018 si è celebrato il centenario dalla nascita e il premio “Pitture rupestri” a lui dedicato, v. Info del precedente articolo su Ponte Arno, con indicate le date di pubblicazione dei servizi sul sito www.arteculturaoggi.com e su altri siti.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel corso della manifestazione, si ringraziano gli organizzatori per l’opportunità concessa. In sequenza, dopo la locandina, 4 immagini di quadri esposti nella peculiare “street art”, seguite da 9 immagini di fotografie esposte, nell’alternanza tra foto d’epoca, per lo più dell'”Archivio Bonaduce”, e foto contemporanee di autori vari, seguite da 3 immagini dell’esibizione di prodotti di artigianato tradizionale, e 2 del complesso musicale “Le Galassie”. Ringraziamo gli autori di quadri, fotografie e coloro che hanno presentato i prodotti artigianali che non citiamo limitandoci a sottolineare con didascalie – oltre alla locandina in apertura e alle due immagini di chiusura del complesso musicale – tre immagini, per il loro valore identitario: l’immagine n. 9 in cui Vittorio Giardetti indica la sua foto da piccolo, con dietro la madre; la n. 10, che mostra alla chitarra Berardino Giardetti – l’autore di 4 dei libri citati all’inizio e in modo più specifico in Info – e al mandolino Francesco Bonaduce con davanti Aligi, la n. 12 con Guido Montauti al “Grottone” e la “Pittura rupestre” nel servizio di Aligi Bonaduce.

Complesso “Le Galassie”, un primo piano del batterista e del chitarrista

Pietracamela 2019, 1. Ponte Arno, il ricordo della mitica Luigina

di Romano Maria Levante  

Due momenti accomunati dal legame con il territorio, a Pietracamela, agli estremi del mese di agosto: in chiave nostalgica il primo, il ricordo a Ponte Arno il 6 agosto della mitica Luigina Trentini, dov’era la sua antica “stazione di posta” ora demolita;  in chiave culturale il secondo, il “Borgo in Arte”, il 17 agosto,  promosso dall’Amministrazione comunale, ideato e organizzato da Paolo di Giosa che lo cura da anni con passione chiudendo l’estate in modo spettacolare come con i botti finali degli spettacoli pirotecnici.

Ponte Arno, l’edificio ora demolito, con la “stazione di posta”, in una foto d’epoca

Tra questi due eventi e prima di loro, altri momenti  hanno reso scoppiettante l’estate 2019,  l’arrampicata a Vena Grande e ai muri di pietra delle case del borgo, una sorta di “sport diffuso”  in ogni angolo del “nido di aquile”,  spettacoli di musica e di  “teatro di strada”, laboratori con premio finale per bambini ispirati alle Pitture rupestri di Guido Montauti, nel loro scenario naturale, la festa di San Rocco con banda e processione guidata dal parroco padre Giacobbe, in testa ai fedeli il sindaco Michele Petraccia in fascia tricolore, al termine distribuzione di pani benedetti. Un borgo attrattivo anche per chi cerca momenti di evasione oltre alla bellezza incomparabile del Gran Sasso d’Italia con tutte le sue meraviglie.

La cerimonia a Ponte Arno

Nella mattinata del 6 agosto, come si è accennato, si è svolta la cerimonia  per una demolizione già avvenuta, non per la posa di una prima pietra come si fa di solito.  E non a Pietracamela ma a Ponte Arno, dove inizia la salita che in 9 Km porta al borgo e in altri 6 Km ai Prati di Tivo a contatto con il Gran Sasso, poi a Cima alta dopo ulteriori 4 Km tra i boschi sempre più verso la  montagna.       

Il mondo alla rovescia? No, è stato per ricordare una persona divenuta mitica, Luigina Trentini, che  nell’edificio demolito e nel largo antistante aveva vissuto un’esistenza aperta ai tantissimi che si fermavano in quella che era una volta la “stazione di posta” di Ponte Arno, con la sosta obbligata in attesa della coincidenza della “corriera”: offriva loro calore umano e assistenza materiale, spesso accompagnate da un bicchiere di vino che soprattutto nella stagione fredda era corroborante. Poi, pur con la fine dell’epoca della “stazione di posta”, la fermata a Ponte Arno restava immancabile per chi passava in automobile, e anche solo sporgendosi dal finestrino non mancava di intrattenersi con lei sempre presente, scambiando  qualche parola e ricevendo  notizie, informazioni, curiosità gustose. Una presenza senza tempo la sua,  con il vestito scuro,  la testa leggermente reclinata, il sorriso nel volto, aperta e disponibile.

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Altra foto d’epoca, Luigina con altre fanciulle dai finestrini di una “corriera”

E’ la stessa immagine che vediamo nella targa-ricordo scoperta nella cerimonia, negli anni ’40 davanti all’ufficio postale c’è lei giovane con la  stessa testa reclinata, uguale sorriso sul viso, soltanto l’abito nella foto è chiaro invece del vestito scuro che ha indossato nel passare del tempo;  una targa, peraltro, che risulta poco visibile né comprensibile per chi non ne conosce la genesi e il significato.

Si è ritenuta necessaria la demolizione dello storico edificio perché era pericolante e costituiva una minaccia per l’incolumità pubblica nell’incrocio tra la Statale ’80 e la via provinciale per Pietracamela, dov’era l’antica “stazione di posta”. Un intervento frettoloso per l’emergenza creatasi invece del recupero forse possibile e auspicabile? I pareri sono discordi, la polemica è stata aspra.

Dell’esigenza della demolizione considerata indifferibile hanno parlato le autorità intervenute. Il  Prefetto di Teramo,  Graziella Patrizi, ha insistito sul binomio accoglienza-sicurezza, non riguardo ai migranti ma alla montagna con i suoi pericoli; il Sindaco di Fano Adriano, Luigi Servi,  ha invitato tutti ad accettare il fatto compiuto della demolizione perché inevitabile e a porre fine alle polemiche; il Presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, Tommaso Navarra,  ha  fatto balenare  la speranza di una futura utilizzazione dell’area al servizio del Parco; mentre il Presidente della Provincia, Diego Di Bonaventura, ha rotto il fronte dell’ufficialità con un “j’accuse”  perché “non si è fatto nulla negli ultimi quarant’anni”, si sono ignorati i profondi cambiamenti  che erano dinanzi agli occhi di tutti, perseverando nell’errore di avere come parametro per ogni servizio, provvidenza e quant’altro l’entità della popolazione e non il territorio che si andava sempre più spopolando nell’epocale corsa all’urbanesimo che oltre alla campagna ha coinvolto e sconvolto la montagna con lo spopolamento divenuto inarrestabile.  All’accusa ha fatto seguire  l’impegno a mobilitarsi per superare il degrado che ne è derivato e la decadenza anche in termini di attrattività, realizzando apposite iniziative per rilanciare il territorio da concordare con i sindaci di  Fano Adriano, Pietracamela, Crognaleto, presenti alla manifestazione. 

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Ponte Arno, la foto d’epoca della targa-ricordo con Luigina in abito chiaro al centro

Tutte le autorità hanno reso omaggio alla mitica Luigina, confidando anche ricordi personali. Oltre al Sindaco di Fano Adriano chi si è più immedesimato nel ricordo è stato il Vicecomandante del Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari dell’Arma dei Carabinieri, gen. Davide De Laurentiis, l’ha definita “il Google” di allora, perché dava a tutti le notizie e le informazioni richieste, oltre ad aiutarli concretamente a risolvere i loro problemi, e anche “la banca dati” del territorio perché possedeva la memoria storica e la condivideva con i molti che le chiedevano notizie. Con lei non mancavano di consigliarsi gli uomini del Corpo della Forestale, presidio prezioso del territorio, ai quali è stato rivolto un ringraziamento corale, i paesani li chiamavano “guardiaboschi”, è stato citato anche il maresciallo Villani di Pietracamela. Del resto, pur rientrando  nella circoscrizione amministrativa del Comune di Fano Adriano, il cui bivio è 4 Km più avanti, Ponte Arno segna il bivio con Pietracamela, e il Rio Arno è il fiume del paese, con il minore Rio della Porta, quindi quel luogo è sentito molto dai “pretaroli”. Il sindaco Petraccia ci ha detto “la nostra competenza inizia poco più su, al terzo tornante”, e noi non ci spieghiamo il “capriccio” amministrativo, gli stessi Trentini  sono tra le famiglie di antica origine pretarola.  

Ponte Arno, la targa-ricordo a destra sulla parete, a lato i resti dei cordoli dell’edificio

Per tornare alla manifestazione, un termine moderno come Google, applicato all’antico, è risuonato pure nelle parole del Vescovo di Teramo e Atri,  mons. Lorenzo Leuzzi, per il Gran Sasso definito GPS, dove G sta per i giovani che sono il futuro e devono tornare, P per la pace, in queste zone non si è mai combattuto,  S per scienza, i laboratori del Gran Sasso di livello europeo e mondiale, che prendono il posto del Posizionamento Geo Stazionario, acronimo geniale, significativo di come passato-presente-futuro possono coesistere, alla de Chirico.

Alle sue alate parole, rivolte anche a Luigina, virtuale protagonista della cerimonia,  è seguita la scoperta di un’altra targa con il tracciato planimetrico della via montana San Gabriele-San Giovanni Paolo II, di 39 Km, e della segnaletica storica “GRAN SASSO D’ITALIA m. 2921” nei grandi caratteri in maiuscole bianco e nero che erano scritti sulla parete esterna dell’edificio demolito. Ora spiccano sulla nuda roccia alla quale l’edificio si appoggiava, lasciando con la demolizione  alcuni cordoli  dell’edificio demolito che sembrano ruderi antichi, ma non sono tali, perché tenerli?

Ponte Arno, i “ruderi” rimasti dell’edificio della “stazione di posta” demolita

Le proposte di noi  pretaroli

Non è mancata la cornice di pubblico, tanti paesani commossi come quelli che assistevano alla demolizione del vecchio “Cinema Paradiso” nel film di Giuseppe Tornatore, anche se a Ponte Arno la demolizione era già avvenuta e l’area risistemata alla meglio, si spera in via provvisoria, non risultando quello attuale l’assetto migliore che sembra – lo ripetiamo essendo un elemento vistoso – un improbabile quanto inesistente rudere romano; ma  si celebrava perché tutti, autorità e gente comune, volevano rendere omaggio alla mitica Luigina, un atto sentito con intensa partecipazione.

Ai margini della manifestazione una paesana di Pietracamela, Giovanna Paglialonga, rievocando la dedizione  di Luigina nell’assistere tutti coloro che passavano nella storica “stazione di posta”  di Ponte Arno, ci ha detto che  neppure a lei sembra adeguata la targa-ricordo fotografica esposta, oltretutto con il tempo diventerà sbiadita; da parte nostra aggiungiamo che Luigina è confusa tra le donne fotografate con lei  in abito chiaro, le altre in nero, ma pochi potrebbero individuarla. La sua osservazione ci ha fatto venire una idea, che diventa una proposta alle autorità competenti, sindaco di Fano Adriano in primis, con quello di Pietracamela: alla targa-ricordo fotografica aggiungere la denominazione dell’area creata con la demolizione: “Largo LUIGINA TRENTINI”.

Il Largo – liberato dai “falsi” ruderi romani e aperto al pubblico eliminando il “guard rail” che ora preclude del tutto l’accesso impedendo oltretutto di avvicinarsi alla targa-ricordo  – potrebbe essere attrezzato intanto ad area di sosta, con sedili, tavolini in pietra e panchine, come si è fatto a Pietracamela con il “Belvedere Guido Montauti” e il “Belvedere Bruno Bartolomei”, entrambi celebrativi di due paesani da ricordare per quanto hanno fatto con amore verso il territorio, come nel caso di Luigina; altra proposta ascoltata nei commenti dei paesani  è quella di un eventuale busto commemorativo, che peraltro non appare alternativa alla nostra.  Tutto ciò conferma come Ponte Arno con la mitica Luigina sia sentito come parte della propria storia e della propria vita dai pretaroli, noi compresi. 

Chissà se avremo anche a Ponte Arno un “Nuovo Cinema Paradiso”?  Oltre al Presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga anche il Prefetto di Teramo e Atri e il Sindaco di Fano Adriano hanno detto che il momento celebrativo non è un punto di arrivo ma di partenza: si intende realizzarvi una  nuova struttura per la sosta al  bivio con un servizio collettivo al passo dei tempi ? Anche in tale caso resterebbe valida la proposta del “Largo LUIGINA TRENTINI” .

Il  Presidente della Provincia ha già annunciato la  convocazione dei sindaci del territorio per iniziative di rilancio che facciano tornare i tanti che si sono allontanati dalle incomparabili bellezze naturali del Gran Sasso. Se l’omaggio a Luigina potrà dare l’impulso decisivo in questa direzione sarà un altro grande risultato della dedizione di tutta la sua vita. Non resta che attendere,  le esperienze vissute sono tutt’altro che incoraggianti, ma la  speranza è l’ultima a morire.

D’altra parte Pietracamela, tra i “borghi più belli d’Italia” dell’Anci, dopo qualche tornante si scopre in tutto il suo fascino di “nido delle aquile” immerso nel verde alle falde del Gran Sasso eretto come un altare, e mostra la sua vitalità con le iniziative cui si è accennato all’inizio, in particolare con la festa di fine stagione estiva “Borgo in Arte”. Ne parleremo prossimamente.

Ponte Arno, l’area dopo la demolizione, con le 3 targhe, accesso inibito dal “guard rail”

Info

Su Pietracamela, della cui storia è parte integrate Ponte Arno, cfr. i nostri articoli nel sito www.arteculturaoggi.com: per la precedente festa di fine stagione estiva “Borgo in Arte”, nel 2017 il 25 settembre e 1° ottobre, per  il pittore Guido Montauti  sulla mostra di  celebrazione del centenario del 2018,  il 13, 23  e 29 luglio, l’8, 11 e 19 agosto 2018;  nel 2014, il 2, 4, 9 settembre, 14 agosto, 14 e 17 luglio; nel 2013,  il  9 e 27 agosto. Inoltre nei siti  non più raggiungibili : “cultura.inabruzzo.it” il 9 settembre 2013;  “abruzzo.world it”  sulla mostra fotografica con l’artista nel “Grottone”  in relazione alle sue pitture rupestri il  3 e 14 settembre 2012, sullo stesso tema in “guidaconsumatore.fotografia.it” il 10 settembre 2012,  in “abruzzo.world.it”  22 giugno e 8 gennaio 2009 (gli articoli, che saranno trasferiti su altro sito, sono a disposizione degli eventuali interessati).

Foto

Le prime 3 immagini, tra cui la 3^ della targa-ricordo, sono fotografie d’epoca dell’ “Archivio Bonaduce”, si ringrazia Aligi Bonaduce per averle fornite cortesemente; le 4 successive sono state riprese a Ponte Arno, l’ultima delle quali, fornita da Michele Petraccia che si ringrazia, all’apertura della cerimonia.

Ponte Arno, la presentazione delle autorità intervenute: da sin. il presidente della Provincia di Teramo, il presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, il Vescovo di Teramo e Atri, il Prefetto di Teramo, il vice del Comando dei Carabinieri Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari, il sindaco di Fano Adriano

Fiori e vasi, il loro potere e significato, nella mostra alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

La mostra “On Flowers Power. The Role of the Vase in the Arts, Crafts and Design”n” espone, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea dal  16 luglio  al 29 settembre   2019, una vasta serie di  opere sul potere dei fiori e il ruolo dei vasi nelle arti, nei mestieri e nel design: 300 opere pittoriche, 80 costituite da oggetti di un fine artigianato che sconfina con l’arte e affonda le radici nel costume.  Curata da Marti Guixè, artista lui stesso che ha progettato e disegnato due opere esposta in mostra. Catalogo in inglese  della Corsini Edizioni. 

In primo piano i 100 vasi del “New Romantic Style”, 1992-94, in parete i quadri sui fiori

Il senso della mostra

Una mostra insolita e sorprendente, come lo sono molte esposizioni del direttore Cristina Collu che da tre anni sta innovando con il trasversalismo temporale che pone a confronto, in dialogo tra loro, capolavori di ogni epoca piuttosto che limitarsi all’esibizione cronologica. Del resto, “Time is out of Joint”  con cui ha esordito,  è un messaggio permanente sulla sua originale, rivoluzionaria concezione del tempo.

Come lo è il richiamo al “potere dei fiori” in un’epoca così lontana dal romanticismo, ma che resta sempre attuale. Lei stessa  ne sottolinea l’ispirazione e la portata dichiarando: “Vogliamo raccontare una storia contemporanea, qualcosa che parli di noi e del nostro tempo, sappiamo bene che se a raccontare questa storia è una realtà istituzionale come la Gnam, allora quella storia assume un peso e un valore diversi, decisamente più grandi”. E li assume anche per l’accurata ricerca che ne è alla base, sviscerando i significati reconditi del  soggetto espositivo. Ne è una chiara premessa la recente affermazione di Franco Rella posta a sigillo: partendo dal quadro di Magritte del 1928-29, “Ceci n’est pans une pipe”, dichiara che “la scoperta che i fiori dipinti in un quadro non entreranno mai in un vaso di fiori, che non hanno profumo, ‘che non sono fiori’, è una scoperta rivoluzionaria dell’Ottocento”, introduzione che rende intrigante penetrare il contenuto del “potere dei fiori”.   

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Rolando Monti, “Semprevivi (fiori su vaso di vetro)” , 1942

Come lo è il richiamo al “potere dei fiori” in un’epoca così lontana dal romanticismo, ma che resta sempre attuale. Lei stessa  ne sottolinea l’ispirazione e la portata dichiarando: “Vogliamo raccontare una storia contemporanea, qualcosa che parli di noi e del nostro tempo, sappiamo bene che se a raccontare questa storia è una realtà istituzionale come la Gnam, allora quella storia assume un peso e un valore diversi, decisamente più grandi”. E li assume anche per l’accurata ricerca che ne è alla base, sviscerando i significati reconditi del  soggetto espositivo. Ne è una chiara premessa la recente affermazione di Franco Rella posta a sigillo: partendo dal quadro di Magritte del 1928-29, “Ceci n’est pans une pipe”, dichiara che “la scoperta che i fiori dipinti in un quadro non entreranno mai in un vaso di fiori, che non hanno profumo, ‘che non sono fiori’, è una scoperta rivoluzionaria dell’Ottocento”, introduzione che rende intrigante penetrare il contenuto del “potere dei fiori”.   

L’origine e il significato vengono riferiti, sempre dalla Collu, alla  precedente mostra “Ragione e sentimento” che, per il lungo secolo attraversato dagli incendi di due guerre mondiali faceva appello anche alla “pienezza dei sensi”  come vettore di ciò che è e di ciò che sarà.  Con il “potere dei fiori” si porta avanti la ricerca  di come si è sviluppato un processo in cui hanno un ruolo significativo l’”apertura euristica”, la “conoscenza accidentale di questa invenzione”,  l’abilità nel trovarla. Il tutto in un “working in progress” senza certezze, ma lasciando le opportune sospensioni, come nella ricerca dei  concetti “primitivi e intuitivi”  della matematica, legati all’ “esperienza sensitiva”.

Maria Lehel, “Rosa d’ogni mese”, 1933

Di qui significati reconditi, allusioni, metafore,  che nascono da “vibrazioni volatili”, ma tanto intense da poter essere percepite.  Se questa è la visione escatologica che sottende alla mostra,  c’è n’è anche un’altra più aderente alla realtà quotidiana, la evoca il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Alberto Bonisoli,  osservando come i semplici oggetti  come una tazza per il brodo, una sedia per riposare, un vaso per i fiori fanno parte della nostra vita e ogni giorno siamo legati a loro; per questo rappresentano “la storia  e l’evoluzione  del nostro mondo”. Nel senso che “descrivono le condizioni sociali di coloro che li posseggono, il gusto di un’epoca, la sapienza di coloro che li hanno realizzati, la rispondenza alle loro funzioni e l’evoluzione nel tempo non solo rispetto ai cambiamenti culturali ma anche rispetto a quelli produttivi”.  Gli oggetti, quindi, in quanto riprodotti da artisti, incarnano con l’arte la storia civile e industriale, e diventano archetipi delle varie fasi storiche, perché l’attenzione degli artisti si è diretta su di  loro, senza distinguere oggetti d’arte da oggetti industriali:, portatori degli stessi valori identificativi, di qui il prestigio del “design” e dell’”haute couture”.

Il linguaggio dell’arte diventa contiguo  a quello insito in questi oggetti , e la mostra consente di approfondirne la relazione.  Ciò è importante non  solo per capre meglio il mondo presente, ma per proiettarsi  nel futuro che dovrebbe valorizzare le potenzialità attuali e quelle  di un passato glorioso.

Francesco Chiappelli, “Natura morta, dalie”, 1937

I fiori, fascino e significato

Con questa chiave interpretativa cominciamo dal “potere dei fiori” espresso in una galleria di oltre 30 dipinti,  “Nature morte”  , “Fiori” e “Vasi di fiori”. Le “Nature morte” sono di Mario Mafai (con peperoni), 1951, e Toti Scialoja (vaso con fiori ed altri oggetti sopra un tavolo),  1942, Arturo Tosi (con vaso di fiori e con vaso di tulipani), 1940-42,  Angelo Savelli, 1941,  Arnout Colnot, 1925,  Francesco Chiappelli “(Dalie”), 1957. I “Fiori”  di Ilario Rossi, 1940, Vincenzo Colucci, 1941, Pietro Melecchi, 1951, Domenico Caputi, 1940,  Luigi Aversano, 1938;  Felice Carena, 1930, con le specifiche ”Fiori secchi”, Filippo Agostani, 1946-50, e “Fiori di campo”, Maria Lehel, 1933,  “Fiori e frutta” di Baccio Maria Bacci, 1929, “Fiori con bicchiere, di Guido Peyron, 1940,  “Semprevivi” che ricorda la “Vita silente” di de Chirico,  di Rolando Monti, 1942, “Rose e bottiglia”, 1941, e “Garofani”, 1947, di  Mario Mafai, “Zinnie” di Mario Bacchelli, 1938,  “Mimose” di Luigi Aversano, 1939, “Rosa d’ogni mese”, di Maria Lehel, 1933,  “Rose rosse”, di Gabriella Denis-Rault , 1821, e “Rose d’inverno”,  di Enrico Lionne, 1914, “Dalie”, di Gaetano Previati, 1910, “Crisantemi”, di Ugo Bernasconi, 1931, “Rose e conchiglie”, di Pietro Martina, 1941, “Composizione con calle”, di Giuseppe Guzzi¸ 1953, i “Vasi”, da “Vaso di fiori”,  di Giorgio Morandi, 1946-48, a  “Vaso con fiori”,  di Filippo de Pisis, 1939, di Antonio Simeoni, 1938,   di Carlo Siviero (“Antera”), 1917.

Dietro i fiori ci sono spesso delle storie appassionanti, a partire da quella della celebre venditrice di George Bernard Shaw, in Pigmalione, Elisa Doolittle,  ma non solo vicende e personaggi, anche teorie come quella sul taglio del gambo visto come amputazione  di qualcosa di vivente cui si contrappone quella secondo cui sarebbero destinati a deperire sulla pianta, mentre  nel vaso sono alimentati e tenuti in vita dall’acqua, alcune specie anzi sbocciano  nel vaso dopo essere stati recisi. 

Enrico Lionne, “Rose d’inverno”, 1914

L’utilizzazione dei fiori come metafora di buoni sentimenti è stata enfatizzata soprattutto nell’epoca del  Romanticismo in modo particolare dai poeti e dai pittori oltre che nella vita di tutti i giorni. Ma neppure l’epoca moderna scherza, dal “Grazie dei fior” del primo Festival di i Sanremo anni ’50  al “Rose rosse” che lanciò il cantante Massimo Ranieri.

Naturalmente diversi significati vengono attribuiti alle tante varietà di fiori, dalle camelie, celebrate nel melodramma, alle calle della pittrice O’ Keeffe, per citare due significati  allusivi.  Anche il riferimento alle venditrici di fiori per le strade muta, dal simbolo della purezza assume toni ambigui,  con intenti seduttivi fino  al mercimonio di offrire se stesse dietro lo schermo della vendita di fiori, in una vita tormentata e di miseria.

I fiori sono mostrati nei modi più diversi, variano dalla lunghezza del gambo alle composizioni dei “bouquet” nei vasi,  inoltre l’impiego  muta in relazione  al contesto socio-culturale e all’uso rituale. Non ci sono punti di vista privilegiati nell’ammirare un mazzo di fiori, poi quando viene posto nel vaso dalla persona cui è stato donato questa compone un “bouquet” secondo le proprie preferenze.

Gaetano Previati, “Dalie”,1910

Non ispirano soltanto pittori, ma anche narratori, viene citato Le Guin il quale  si sofferma sul gesto di portare nelle abitazioni i prodotti della natura all’interno di un vaso, come per i fiori  e per gli altri frutti e cibi. Il loro significato è nella vita che esprimono  anche dopo essere stati tagliati, sono morti solo apparentemente, ma continuano a vivere ed entrano a far parte della vita familiare con i loro colori e la loro forma come componenti dell’ambiente domestico. “Se il vaso è, in questo senso, la loro tomba, questi fiori esprimono metaforicamente la sintesi di questo trasferimento”, dalla natura alla quotidianità.

I vasi, un  simbolo ancestrale

Dopo i fiori diventano protagonisti della mostra i vasi, e non solo come contenitori dei fiori ma per sè stessi. Vediamo una serie di esemplari esposti dai titoli e dalle forme più diverse, come i recentissimi, del 2019,  “Still Life” di Chiara Bettazzi e  i “Pompitu Vase” e “Anatomia Vase” di Gaetano Pesce,  i “Post digital vase”  di Coudre, e  “Forte Terra” di Nicola Filia: degli anni precedenti “Aircleaninglady”, di Aurora Sander, 2016-17,  e  “Reverie”, di Elena El Asmar, 2016, “Magic Bottles”, di Chiara Bettazzi, 2014, “See you in the Flesh” di Ursula Mayer, 2014 e “Solar Sister”, di Markus Kaiser, 2011, “Breathing “ di Sabine Delafon, 2009, e “Suber”, di Pierluigi Plu, 2009 ; ancora più indietro nel tempo, “Long Neck and Groove Bottles”, di Hella Jongeius, 2000, “Gertrude Stein” e “Nerone”, di Luigi Ontani, 1997.

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Marino Mazzacurati, “Susanna al bagno”, 1946-47

La  FAD Cup Collection   pone i vasi addirittura al centro di una celebrazione rituale. Questa  associazione spagnola con sede a Barcellona riunisce professionisti e operatori  nei campi del “design” in base alla concezione che un suo uso appropriato può migliorare la vita delle persone, e per questo impiega  risorse nella ricerca dell’eccellenza in questo campo e in quelli  collegati. Dal 1917  annualmente viene creata una Coppa  che identifica il singolo anno, e ciò è avvenuto per un secolo eccettuato il quadriennio 1937-40  sconvolto dalla guerra civile spagnola. Abbiamo, quindi, una sfilata di 100 vasi, ognuno rappresentativo dell’anno in cui è stato realizzato e prescelto, in una sequenza quasi ininterrotta nella quale spiccano non solo i maestri vetrai, ma anche gli architetti progettisti di alcune forme particolarmente elaborate.

Abbiamo anche un’altra serie di 100 vasi, il “New Romantic Style”, prodotti in Germania  dalla Seltman Company of  Weiden, tra il novembre 1991 e il febbraio 1992, tutti di porcellana  e con la stessa struttura senza varianti. Mutano i disegni ornamentali nel corpo dello stesso vaso, i 100 decoratori li hanno realizzati in 100 esemplari ciascuno, è  stato “un lavoro corale”, “una costellazione di storie visive”, cento storie singole che compongono un  grande racconto collettivo, “un caleidoscopio  le cui figure globali hanno senso  solo quando gli elementi più piccoli e marginali esprimono la loro identità”.  Sono elementi distinti, ma è come se facessero parte di un unico “puzzle” nel quale il “design” crea differenze nell’identità comune. Ogni vaso reca il nome del decoratore e un numero progressivo, da 1 a 10.000.  C’è stata una seconda fase del progetto,  i vasi di decoratori  preferiti dal pubblico sono stati prodotti successivamente in serie illimitate, a un prezzo più alto di quello dei 10.000 vasi iniziali.

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Hella Jongerius, “Long Neck and Groove Bottles” , 2000

Alla base di tutto ciò un’originale concezione che accosta i prodotti industriali di valore estetico alle specie naturali, agli organismi biologici. Anche loro, infatti, sono costituiti di materiali e colori, hanno pulsazioni e “segni sulla pelle”, quindi si può pensare a un meccanismo di riproduzione.

Perché è stato scelto un vaso per un’operazione industriale così ambiziosa  che sconfina nella visione filosofica  del mondo nella sua essenza primaria?  La spiegazione è semplice: il vaso è prodotto con la terra come materiale, è elementare nell’uso, è uno degli oggetti ancestrali che hanno accompagnato la vita dell’uomo dall’origine, costruito usando una ruota, strumento ancestrale anch’esso, per la sua lunga storia è contenitore di leggende e di riti. Restando al presente evoca la forma di un fiore e viene tenuto stretto dalle mani riunite per bere o per offrire, “trasmette sentimenti e sogni, ansie  e miti”, gli ornamenti trasmettono le vibrazioni della mente, nella loro circolarità non hanno né inizio né fine.  “Le decorazioni sono come pesci nel mare, esistono anche se non si vedono”.

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Gaetano Pesce, “Pompitu II Vase” con “Amazonia Vase”,1996-97

Naturalmente, per quanto si è detto, tutto questo indicato in astratto si materializza in concreto nelle diverse epoche storiche  in varie forme, tipologie e materiali su cui sono impressi i disegni secondo i tempi, “è un contenitore con o senza contenuto”, il suo ruolo può essere “funzionale, simbolico o mistico”, tutto dipende dal cotesto socio-culturale in cui si colloca.       

L’aspetto più qualificante è la sua identificazione con l’essere umano, “è un oggetto antropologico in cui è scritta la storia della nostra civilizzazione”, dell’ “uomo faber” con le sue arti e le sue tecniche. Inoltre è strettamente connesso al fiore – la solidità abbinata alla fragilità –  simbolo di bellezza e di vita che stimola i diversi sensi dalla vista all’olfatto fino al tatto. E fin qui non c’è da stupirsi, ma c’è dell’altro: il vaso di fiori viene visto anche in rapporto a una “perfetta intelligenza artificiale ideale”  in quanto basato su una “costruzione funzionale e solida ma che incorpora empatia”, nel senso di capacità di creare emozioni indipendenti dal ceto e dallo stato sociale. Ed ecco come viene motivata questa ardita equiparazione: “La sua tangibilità rispetto alla immaterialità digitale lo trasforma in un modello formale che nella sua astrazione è ideale per esprimere  o proporre in una forma sintetica tipologie  che ci aiutano a visualizzare e configurare nuovi strumenti  intangibili nel contesto della complessità dei media digitali  e dell’intelligenza artificiale”. Chi lo avrebbe creduto?

Aurora Sander, “Aircleaninglady”, 2016-17

 In termini più semplici un vaso di fiori attraversa diverse discipline, dall’artigianato al “design” all’arte, per cui può essere considerato da una serie di punti di vista che devono convergere in una visione unitaria. Ma dal punto di vista dell’osservatore è semplicemente un contenitore di fiori, quindi portatore di un elemento emozionale, e soprattutto “una presenza quotidiana nel mondo reale, un elemento di ospitalità e di conforto, di benvenuto; è una icona del mondo reale”.

Chiare e lineari, senza colore, le serie: “Trophies”, di Simone Bergamini, 2016-17, e “Una debole luce bianca”, di Marina Bolla,  2013.  Mentre vediamo  oggetti che più che vasi sembrano sculture, come la base su cui si inserisce il gambo, di Franz West, 2003, e l’albero stilizzato  di Tobias Rehberger, 2004;  “Small and yellow mountain”, di Ugo Rondinone, 2016,  rende onore al suo titolo, mentre “3-dimensional model” di Oliver Laric, 2014, è un piccolo monumento; “Rotating Pressures”, di Gabriel Orozco, 2012, è una composizione di più oggetti, e “Marble Podiums od Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma”, di Suiseki Hanagata-Ishi,  conclude la ricca galleria con un omaggio alla sede espositiva.  

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Flower vase emoji made with all existing emojis of flowers
placed inside a plain white vase

La mostra espressione di modernità, trasversalità e di empatia

Sottolinea il curatore che la mostra  “rappresenta una nuova percezione di cosa un vaso di fiori rappresenta, una visione che tenta di proiettare l’oggetto con lo status di soggetto”, e quindi,  “ricontestualizzare il suo significato e porlo al culmine della contemporaneità del 21° secolo”.

Proprio per sottolineare la modernità dell’impostazione ed evitare equivoci ci tiene a sottolineare che il titolo “Il potere dei fiori” non ha alcun riferimento all’analoga intitolazione che fu data al movimento hippy tra gli anni ’60 e ’70,  una variante ecologista e pacifica della contestazione giovanile con gli “indiani metropolitani”  e altre forme che ostentavano il ritorno alla natura contro il consumismo;  per non parlare del “mettete i fiori nei vostri cannoni”, ricordiamo la mostra nella Galleria Nazionale per il cinquantennale dal ’68, con immagini e memorie sulla contestazione.

Ma va ancora oltre nell’evocare il film “2001, Odissea nello spazio”  nel quale il regista Stanley Kubrick con Arthur C. Clarke nel 1968 percorre il più lungo periodo della storia del cinema, 4 milioni di anni, dal primo “homo sapiens”  all’astronauta della navicella spaziale “Discovery”, arco di tempo in cui arte, artigianato e “design” si sono espressi nelle varie epoche nel continuo intento di passare dall’oggetto al soggetto. Conclude che in questo passaggio consiste la sfida del futuro.

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Franz West, “o. T”, 2003

Ecco alcune recenti realizzazioni in chiave moderna con al centro i fiori: nel 2014 una installazione presentata a Francoforte con ritratti di artisti e amici dell’autore, Tobias Rahberger, insieme a dei vasi di fiori, in un empatico incontro tra l’oggetto-vaso con i fiori scelti e il soggetto cui sono stati collegati; nel 2015, con “masquerade” si è trasformato un vaso da oggetto fisico a qualcosa di umanizzato e di emozionante  creando un’empatia artificiale mediante elementi artificiali con un filtro  che aggiunge elementi grafici spettacolari. Sono procedimenti complessi che applicano gli strumenti più avanzati della telematica a qualcosa di antico, anzi ancestrale come il vaso di fiori, in un mix quanto mai intrigante.

La parola “trasversale” viene utilizzata come sintesi della mostra sia perché alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna va in scena il “design”, trasversale rispetto all’arte in senso stretto, sia perché l’oggetto della mostra è trasversale per eccellenza.  Infatti i vasi segnano l’incontro tra arte come espressione, artigianato come produzione,  e “design” come mercato, e il vaso di fiori è insieme “funzionale e intellettuale”, realizza una “partecipazione emozionale, possiede empatia”.

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Gabriel Orozco, “Rotating Pressures”, 2012

Ma questo non solo per la presenza di fiori; anche quando  mancano l’empatia nasce dall’essere il vaso  “qualcosa di mistico, esoterico, rituale, intellettuale, culturale, poetico”, uno “strumento “metaforico costruito da artisti,  artigiani e designer”. E proprio “l’empatetica entità artificiale  la cui eventuale forma è in un vaso da fiori senza fiori è l’oggetto della mostra”.

Dal “potere dei fiori” all’“empatia del vaso senza fiori”, si conclude così un viaggio intrigante in un mondo che rivela aspetti inimmaginabili e potenzialità sconosciute. Non si guarderà più, dopo aver visto la mostra e averne approfondito i contenuti, un vaso di fiori come lo si faceva prima, lo si osserverà con maggiore interesse per scoprirne gli aspetti reconditi che l’esposizione ci ha rivelato.

“The FAD Cup Collection”, vasi simbolo anni da1917 a 1932 “The New Romantic Style” i primi 20 dei 100 vasi, 1992-1993

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00. Catalogo “”On Flower Power. The Role of the Vases in Arts, Crafts and Design”, Corraini Edizioni, luglio 2019, pp. 73, in inglese; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per il design cfr. in www.arteculturaoggi.com. i nostri articoli sulla mostra al Palazzo Esposizioni “La dolce vita, dal Liberty al design” 1, 14, 23 novembre 2015.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, tranne la panoramica di apertura tratta dal sito “on line” www.cieloterradesign.com, si ringraziano l’Editore del Catalogo e il proprietario del sito, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, In primo piano i 100 vasi del “New Romantic Style”, 1992-94, in parete i quadri sui fiori; seguono, Rolando Monti, “Semprevivi (fiori su vaso di vetro)” 1942, e Maria Lehel, “Rosa d’ogni mese” ; poi, Francesco Chiappelli, “Natura morta, dalie” 1937, e Enrico Lionne, “Rose d’inverno” 1914; quindi, Gaetano Previati, “Dalie” 1910, e Marino Mazzacurati, “Susanna al bagno” 1946-47; inoltre, Hella Jongerius, “Long Neck and Groove Bottles” 2000, e Gaetano Pesce, “Pompitu II Vase” con “Amazonia Vase” 1996-97; ancora, Aurora Sander, “Aircleaninglady” 2016-17, e “Flower vase emoji made with all existing emojis of flowers placed inside a plai white vase“,; continua, Franz West, “o. T” 2003, e Gabriel Orozco, “Rotating Pressures” 2012; infine, “The FAD Cup Collection”, vasi simbolo anni da1917 a 1932 e, in chiusura, “The New Romantic Style” i primi 20 dei 100 vasi, novembre 1991- febbraio 1992.

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The New Romantic Style” i primi 20 dei 100 vasi, novembre 1991- febbraio 1992

Fratelli Toso, mezzo secolo di “murrine” artistiche, alla “Casina delle Civette”

di Romano Maria Levante  

Alla “Casina delle Civette” , Musei di Villa Torlonia, dal  18 maggio  al 15 settembre 2019  la mostra “La Fratelli Toso: i vetri storici dal 1930 al 1980” espone oltre 50 pezzi unici o molto rari in vetro, “murrine” della collezione privata dei Fratelli Toso. Promossa da  Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, patrocinata da Associazione AIHV – Association Internationale pour l’Histoire du Verre, organizzata da  “Il mondo del vetro” , con la Fratelli Toso, curatori i rispettivi titolari,  Ivano Balestreri  e  Caterina Toso. Servizi museali di Zétema Progetto Cultura. Sono previsti laboratori didattici per i bambini  e concerti dell’A.GI.MUS di Roma nel Giardino della Casina. Catalogo di “Il mondo del vetro”.

Un angolo della mostra, 4 vetrine con sopra una foto storica e un disegno dell’Archivio

Un’altra mostra  insolita presenta vasi e piatti, non reperti dell’antichità ma opere del secolo scorso, assurte alla dignità artistica per l’elevatissimo livello raggiunto, un celebrazione di cosa può produrre il “made in Italy” portato su un piano di straordinario valore. E ancora una volta l’inserimento nell’ambiente della “Casina delle Civette” è magistrale, perché ai vetri artistici esposti nella “dependance” fanno eco le vetrate artistiche liberty di Cambellotti, grande maestro del settore. Delle precedenti mostre possiamo accostarvi quella sulle ceramiche di Annalisa Amedeo, molto diverse ma con delle affinità elettive.

Questa volta  i vetri veneziani, un vanto del nostro paese, tanto più se si tratta delle “murrine” divenute iconiche per la grande maestria artigianale sublimata dal tocco della genialità artistica. Non abbiamo la consueta  presentazione della direttrice Stefania Severi, che introduce sempre i temi delle mostre da lei organizzate e curate con un  inquadramento storico e culturale, ma vogliamo comunque premettere alcune notizie sulle “murrine” di Venezia, una particolare lavorazione vetraria di eccellenza del nostro paese.

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Le “murrine” veneziane

Risale al  61 a.C. l’introduzione  a Roma di vasi di fluorite, portati da Pompeo al ritorno delle sue missioni orientali ed esposti nel Tempio di Giove,  definiti in “murrha”, cioè “mirra”, profumo,  termine riferito al loro odore profumato, o per le resine utilizzate o per il loro contenuto; furono prodotti per imitazione anche a Roma, poi  nel medioevo la produzione cessò del tutto.

Furono i maestri vetrai di Venezia a realizzare, a partire dal XVI sec., prodotti simili ai murrini romani, ma lo sviluppo effettivo di una  produzione  regolare ci fu alla fine del XIX sec. per merito di Vincenzo Moretti della vetreria Salviati: la “murrina” identifica il prodotto vetrario ottenuto, il termine fu introdotto nel 1878 dall’abate Zanetti nell’ambito del suo rilevante impegno per  risollevare dalla crisi la vetreria di Murano. Resta l’analogia con l’antico prodotto romano, vasi e ciotole in vetro mosaico con disegni  astratti o immagini di fiori, animali, visi, come facevano i vetrai alessandrini.

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Chi ha visitato una vetreria muranese ha visto come procede la spettacolare lavorazione delel “murrine”.  Un operaio  sulla punta di un’asta di ferro prende una piccola quantità di vetro da un crogiolo, e lo ricopre con altra piccola quantità di vetro presa da un secondo crogiolo, di colore diverso dal primo, e così via in modo da sovrapporre starti di colori diversi. Il materiale così formato diventa un cilindro regolare che poi, ad opera di operai chiamati “tiracanna”, sempre con un’asta di ferro viene stirato finché  non si raggiunge la forma voluta. Così si ottiene  il materiale di  una “murrina” con disegni a cerchi concentrici  oppure, attraverso un  apposito stampo recante altri motivi, di una “murrina” con disegno floreale, a stella o a cuore.

Si tratta di  bacchette, dette “canne”  con le quali vengono prodotti piatti, ciotole, perle “mosaico”, cioè “millefiori”,  e  ciondoli. La lavorazione a questo punto è differenziata a seconda del prodotto da ottenere, più semplice per le perle “mosaico” – “millefiori”, e per i ciondoli, più complessa per piatti e ciotole perché occorre la fusione di un disco  che va raffreddato, molato e poi di nuovo portato a fusione per prendere la forma dello stampo, con l’ultima molatura per la rifinitura finale. Mediante lo stampo si ottengono oggetti uguali, altrimenti si hanno esemplari unici più  pregiati.

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Tra i primi  maestri di “murrine” Giovanni Franchini e il figlio Giacomo i quali,  tra il 1830 e il 1860, realizzarono con una speciale tecnica “murrine” con raffigurato il Ponte di Rialto e la gondola, Angelica e Cavour, tra le più note; anche Luigi Moretti,  con un’altra tecnica, nelle sue “murrine” raffigurò personaggi come Cristoforo Colombo, nel 1892, per la Compagnia Veneta Murano che nella festa a Chicago per il 4° centenario della scoperta dell’America, donò a ciascun partecipante un esemplare della “murrina”, furono 400, era presente Luigi Moretti, l’autore. Il padre Vincenzo a sua volta era autore di riproduzioni delle “murrine” romane, in piatti, coppe e altri oggetti presenti nei musei del vetro di molti paesi.

Padre e figlio, dunque, sia nei Franchini che nei Moretti. Nel “Fratelli Toso” il nome non rende la dimensione familiare che coinvolge pari e figli, nipoti e cugini, per i “designer” ma anche per i maestri vetrai. L’inizio corrisponde a quello dei Franchini e dei Moretti, anche per i Toso risale alla metà dell’800.

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Una storia di successo, una grande famiglia con designer e maestri vetrai

La  loro storia prende avvio, infatti, nel 1858, con i sei figli di Pietro, Ferdinando e Carlo Francesco Nicolò, Liberato e Angelo, Giovanni e Gregorio Toso, tutti impegnati nella prima fabbrica, ciascuno con un ruolo diverso ma con una visione comune tramandata attraverso figli e nipoti, una vera “tribù, tutta o quasi , impegnata nell’azienda di famiglia generazione dopo generazione”.

Ricorda  con queste parole la gloriosa saga familiare Caterina Toso – l’ultima “zarina” della famiglia che ne ha raccolto l’eredità e ora la celebra con questa mostra – aggiungendo con legittimo orgoglio:  “Nella tribù Toso ci sono stati infatti abilissimi maestri, tecnici, talentuosi disegnatori, dirigenti per vocazione”; con questi risultati: “una famiglia così ampia garantì una notevole diversificazione delle capacità e delle competenze. Ecco perché raramente incontriamo persone ‘estranee’ alla famiglia in ditta”.

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E’ una storia di successo che dopo l’inizio a metà dell’800 in una prima fase con vetri normali, vede la crescente affermazione della fabbrica soprattutto  a partire dagli anni ’30 del ‘900, quando divenne direttore artistico Ermanno Toso, la cui attività di designer di “murrine” artistiche diede un’impronta precisa  e vincente allo stile aziendale.

Ma Ermanno non è conservatore, tutt’altro. Nel 1948 immette Pollio Perelda, che lo affianca fino al 1964, con uno stile molto diverso dal suo, potremmo chiamarlo “pittorico”, e anche un modo diverso di declinare la forma delle “murrine”, tutt’uno con il colore. E nell’anno successivo si aggiunge Robert Wilson, molto diverso da Perelda, geometrico ed essenziale quanto l’altro era fantasioso ed elaborato, la sua W fu stilizzata nella “murrina”.

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Essenziale anche lo stile di Rosanna Toso – cugina  dei figli di Ermanno, Giusto e Renato – la quale negli anni ’60 e ’70  fece parte dei “designer” aziendali richiamandosi alla tradizione di famiglia ma portando significative innovazioni; i fu l’ultima direttrice artistica prima dello scioglimento della società nel 1980, e anche dopo continuò a lavorare nel design.

Anche Giusto e Renato Toso appena citati si sono impegnati come “designer” nella vetreria, il primo nell’illuminazione, il secondo nell’oggettistica, ma dopo la morte del padre nel 1973 hanno lasciato l’azienda continuando a lavorare all’esterno, uno come architetto, l’atro come “designer”. In  questo modo la storia della famiglia si è arricchita di una variante rispetto alla perenne dedizione familiare, ma del resto questa loro decisione ha  precorso di pochi anni lo scioglimento e la fine di una storia gloriosa.

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Una storia alla quale hanno concorso, con un apporto altrettanto importante, i maestri vetrai, integrati nella vita della fabbrica al punto di entrare nella famiglia Toso fin dall’inizio, e impegnarsi per generazioni successive nella fabbrica divenuta anche la “loro” fabbrica.

Il maestro Vittorio Zuffi aveva sposato nel 1888 una figlia di Ferdinando Tsso, il capostipite della dinastia  fondatore della fabbrica, e .i suoi figli Armando e Amleto vi lavorarono  il primo nelle moderne  murrine, il secondo nelle produzioni tradizionali di bicchieri e tipetti  orientati all’antico. Il loro nipote Vittorio Ferro, la cui nonna era una Toso,  affiancò per molti anni lo zio Amleto. Ma è il discendente Licio Zuffi ad affermarsi come il migliore maestro vetraio che traduce in oggetti vetrari di notevole caratura i disegni dei maggiori designer, da Ermanno Toso a Pollio Perelda fino a Robert Wilson che non ammetteva altri maestri nell’utilizzo dei propri disegni.

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Tutti parenti, dunque, designer e maestri? No, abbiamo già citato i designer esterni e il loro apporto innovativo nella creazione di linee diverse dai filoni tradizionali. Per i maestri vetrai ricordiamo Giuseppe Finottello, specializzato nelle murrine fino a raggiungere un livello artistico, e Bruno Fornasier, specializzato nei soffiati e lampadari, con Arnoldo Toso ha creato nuove linee di murrine. Solo loro sopravvivono dei maestri citati, mentre dei designer oltre al fondatore sono scomparsi Ermanno, come già ricordato, e Rosanna.

E’ un esempio positivo della natura familiare di parte della struttura imprenditoriale delle nostra imprese, nella quale le situazioni sono molteplici, dalla concordia e unità di intenti dei fratelli Toso a conflitti risolti con un management esterno e talvolta con finali dirompenti. Situazioni tanto intriganti da aver alimentato un filone narrativo ad opera di chi le conosce molto bene essendo stato consulente di direzione ad alti livelli, ha pubblicato  le storie fantasiose ma non troppo dei Gianselmi e dei Martini, sta per pubblicare quella dei Ferrari,omonimi del “drake” di Maranello

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Nulla di intrigante nella storia della dinastia Toso, una normalità di eccellenza che li ha portati a immettere nell’azienda grandi personalità di disegnatori e di maestri vetrai  lasciandoli liberi di esprimere la loro creatività anche al di là delle loro forme iconiche tradizionali; ma tale da suscitare interesse non meno delle storie romanzate dal maestro del genere, che abbiamo citato; qui siamo nella fucina di Vulcano dei maestri vetrai, con i capolavori grafici e pittorici dei designer, il tutto con lo sfondo incomparabile della Venezia operosa, forte delle sue tradizioni!

I risultati prestigiosi, i Fratelli Toso nella storia del vetro veneziano

Ancora non abbiamo descritto i risultati della loro attività, affascinati dallo storia familiare che  è tutt’uno con la storia aziendale. Dopo quanto abbiamo detto non serve aggiungere che dal vetro comune iniziale passarono al vetro artistico soffiato, una specializzazione particolarmente qualificata. Prima del ‘900 furono tra gli artefici del recupero della “murrina”, una tecnica antica fatta propria fino a diventare  il loro sigillo.

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Le “murrine” sono state sempre presentate alle più importanti mostre in Italia e all’estero, in particolare alle Biennali di Venezia, in una evoluzione continua.  Alle forme tradizionali si sono aggiunte altre linee, fino alle forme  nuove, negli anni ’60 e ’70, di Rosanna Toso, in cristallo e monocromatismo, semplici e  lineari come erano  elaborate le creazioni pittoriche di Perelda, dopo quelle iconiche di Ermanno Toso.

Ivano Balestrieri, curatore della mostra con Caterina Toso, definisce questo “pezzo di storia di Murano” come “il magico mondo” nel quale è entrato preso dalla passione con cui Arnoldo, il padre di Caterina, gli parlava della storia e dell’arte dei fratelli Toso  nelle sue visite all’Archivio della vetreria che lui stesso aveva creato. Ed è il titolare dei “Mondo del vetro”, l’organizzazione molto attiva nel settore del vetro artistico e delle “murrine” in particolare.

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Questo il giudizio che viene dalla sua sperimentata competenza: “L’eleganza dei colori, i colori vivaci delle opere, le tecniche innovative adottate dai maestri della Fratelli Toso, hanno aiutato la vetreria  a divenire parte integrante della storia del vetro veneziano, anticipandone e influenzandone l’evoluzione”.  Dal giudizio altamente positivo e dai contatti con l’Archivio l’idea della mostra, prontamente accettata da Caterina.

Una mostra itinerante che nel 2018 ha fatto già tappa a Pavia e a Novara, e ora approda a Roma, è di tipo cronologico, relativa al periodo 1930-80, per ricostruire la storia della vetreria, anche con i disegni, le foto e i documenti dell’archivio, collegata all’evoluzione del gusto nel mezzo secolo considerato, e con anticipazioni dell’evoluzione successiva. E’ la storia di una produzione artistica italianissima e insieme la storia di una grande famiglia nella quale ai designer più celebrati si sono aggiunti maestri vetrari che hanno dato corpo alla loro arte grafica e pittorica.

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Sono esposti pezzi unici o in serie limitate, realizzati con tecniche e impostazioni diverse a seconda dei singoli autori, con la “murrina” protagonista indiscussa. Riguardo alla compresenza di innovazione e tradizione così Balestrieri: “Nelle opere di Ermanno Toso, Pollio Pereida e Robert Wilson troviamo una nuova modernità, ma alla base delle loro ricerche  e sperimentazioni artistiche emerge sempre la tradizione della vetreria”.

Conclude così: “La mostra è uno spaccato di storia di una delle più importanti vetrerie della storia di Murano che ci permette di fare un importante viaggio nel magico mondo del vetro veneziano”. Abbiamo fatto questo viaggio nella visita guidata con lo stesso Balestrieri e Caterina Toso, cercheremo di ripercorrerne alcuni tratti salienti dando conto delle opere esposte con quello che evocano al visitatore comune.

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Una carrellata sulle rutilanti “murrine” esposte

Raggruppati nelle vetrine, sopra a due di esse delle foto d’epoca, i pezzi esposti mostrano la continua evoluzione stilistica della produzione, dalla severità classica iniziale acromatica alla vivacità crescente di Ermanno Toso e al pittoricismo cromatico di Pollio Perelda, fino allo schematismo di autografato di Robert Wilson e il classicismo in forme nuove di Rosanna Toso. Seguiamo questi quattro designer nelle opere realizzate dai maestri vetrai sui loro  disegni creativi

L’inizio è con le opere di Ermanno Toso a partire dal  1934, e  fino al 1940 vediamo vasi opachi, in qualche caso con foglie d’argento: i nomi, da “Vaso pulegoso” a “Vaso a Spire”  o “A fasce Argento”; poi,  nel 1949  il “Vaso Kiku sommerso” con le margherite dai petali bianchi, rosse al centro, su fondo blu,  introduce forme floreali e colore; nel “Vaso Terrazzo” del 1952 il fondo blu è quasi interamente preso da conformazioni chiare che richiamano le meduse, mentre nel “Vaso Nerox Stellato” nel 1953 prevale il fondo violaceo sulle pochissime  formazioni floreali sparse.

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Il 1953 è  l’anno in cui irrompe il pittoricismo cromatico di Pollio Perelda, vediamo un  “Vaso Stellato” nella tradizionale forma allungata e un altro insolitamente sferico dalla piccola apertura tonda in alto, con formazioni a raggiera che sembrano fluttuare.  La ventata cromatica non poteva non estendersi  sulle opere successive.

Con  Ermanno questo avviene gradualmente. Nel 1954, un altro “Vaso Kiku” presenta i petali bianchi che occupano l’intera superficie blu senza altri colori, e i “Vasi millerighe” sono in un bordeaux molto scuro oppure a fasce alternate. Ma dal 1955 il colore trionfa, prima nei due “Vasi Kiku Murrine Sparse” uno sul rosso l’altro sul celeste molto intensi con rare decorazioni  sempre stellate; poi in una serie di opere tipo “Vaso Kiku”, ne vediamo 3 con l’attributo “Redentore” che nel cromatismo più acceso e variegato ripropongono le  formazioni a margherita del “Vaso Kiku Sommerso” del 1949. Così il “Vaso Nerox Redentore” del 1956 è in continuità ideale con  il “Vaso Nerox Stellato” del 1953, nel fondo violaceo con rare  formazioni circolari.

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Ritroviamo Perelda  con un cromatismo diverso nei “Vasi a fasce” del 1958, tre fasce cromatiche orizzontali su fondo scuro nello stesso anno torna il suo “Vaso Stellato”  ma con formazioni artisticamente commiste rispetto alla precisione del 1953, fino al “Vaso farfalle” e al “Vaso Zebrato”, entrambi del 1962 in cui scompaiono le formazioni nel trionfo del  colore. Una eccezione il  “Vaso Cattedrale” del 1957, Perelda non si è ispirato alle vetrate policrome  e ne ha dato una versione austera con delle formazioni blu tra contorni celesti su fondo nero intenso; anche qui, come nel “Vaso Stellato”, una variante, ora semisferica nelle stesse tonalità molto scure. L’ultima sua opera esposta è del 1964, nel “Vaso Marmorino”non più commistione di colori, ma forte  dominante arancione con forme fluttuanti rosse e pochi motivi ornamentali.

La nostra staffetta continua, torna Ermanno Toso con delle sorprese: Due “Bottiglie Murina Boboli”  dal collo stretto e lungo, e un “Bicchiere Murina Boboli”, del 1959-61,  che segna un ritorno all’antico nella cristallina trasparenza del vetro ma nel contempo è un salto in avanti nella modernità con i centri concentrici quasi dei bersagli policromi.

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Nello stesso periodo, con una piccola sfasatura temporale, vediamo 5 “Vasi Foglie” del 1957-62,  3 sul rosso-arancio-verde, uno sul giallo-blu dove i motivi ornamentali ispirati alle venature e alle forme delle foglie tendono a scomporsi ma senza perdere la conformazione per dissolversi nel colore.  Questo avviene nella parte inferiore del “Vaso Kiku Liberty” del 1960 mentre nella parte superiore i motivi ornamentali, sempre a raggiera,  restano delineati con precisione.

Con la metà degli anni ’60 si arresta la sfilata di opere di Ermanno il quale nel 1962 ci dà nuove sorprese. La  “Bottiglia Nerox a Petoni”, se ha la forma simile alle “Bottiglie Murano Boboli” del 1959-61,  se ne differenzia nettamente: nessuna trasparenza, ma un cromatismo intenso e contrastato nelle formazioni di tipo geometrico che ne ricoprono la superficie. Invece cromatismo omogeneo in unico colore nei 3 “Vasi Murrine a Spirale”, con leggeri motivi circolari di colore arancio, viola  verde che spiccano sul fondo più chiao al punto di apparire monocromatici.

Ma non è un punto di arrivo: nello stesso 1962 i 2 “Vasi Nuvole”  hanno una superficie variegata ma senza colore, e, infine, nel 1964 con il “Vaso Murrine Lattino” tornano le formazioni circolari altrettanto senza colore.  E’ come se si sia voluto così chiudere il cerchio della sua vita artistica.

Resta da ricordare la presenza tra i designer di Robert Wilson, di cui sono esposti 2 “Vasi Murrine Wilson”, fondo unito verde chiaro e granata, con sparsi motivi ornamentali costituiti da W, l’iniziale del cognome è il sigillo della serie, in onore della sua collaborazione di  molti anni. E, per concludere, il segno lasciato da Rosanna Toso, di cui abbiamo già detto che fu l’ultima direttrice artistica fino allo scioglimento del 1980.

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Lo troviamo rilevante perché, sempre nelle opere esposte, non è da poco il passaggio dal “Vaso Contrasto” del 1968, molto scuro, con lo stesso effetto, pur nella forma diversa, del “Vaso Cattedrale”di Perelda,  al “Vaso Masso” e “Piatto Masso” del 1969, fondo bianco luminoso, quasi ceramica, con delicate stilizzazioni floreali dal cromatismo netto ma discreto, evocano il “mazzo” di fiori che, nel dialetto veneziano, dà il titolo a questi oggetti veramente eleganti e raffinati. Come lo sono i 2 “Vasi Foglie”, che non hanno nulla del cromatismo  intenso di quelli creati da Ermanno nel 1957-62, fondo quasi trasparente con le foglie delineate in forme dalle tinte delicate, pur se evidenti.  Siamo nel 1970, l’attività della fabbrica continuerà per un decennio, con slancio e spirito creativo.

Dalla Collezione dei vetri storici all’Archivio

Prima di approdare  a Roma, alla  “Casina delle Civette”,  questa  mostra itinerante  nel 2018 ha fatto già tappa a Pavia e a Orta san Giulio in provincia di Novara,  L’esposizione di tipo cronologico ci ha consentito di ripercorrere, attraverso le opere più significative,  l’evoluzione del gusto e della sua espressione nel periodo più significativo, il cinquantennio 1930.80. Ma per una ricostruzione completa ci sono anche i disegni, le foto e i documenti dell’archivio, con i quali si possono approfondire i particolari dell’attività creativa e produttiva, dal talento dei “designer” alla abilità dei maestri vetrai che hanno dato corpo alla loro arte grafica e pittorica.

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Nella Collezione Toso, i designer e maestri hanno lasciato il segno della loro eccellenza non solo nei prodotti finali, ma nel  ricchissimo materiale preparatorio, costituito da oltre 30.000 disegni numerati in ordine cronologico e da migliaia di fotografie, da cataloghi e altri documenti di vita aziendale  con cui si possono ricostruire le diverse fasi del processo creativo,  dall’ideazione alla progettazione fino alla realizzazione, oltre che certificarne il valore. Un archivio che si deve alla passione di Arnaldo Toso, il quale ha capito che conservando le molteplici espressioni dell’attività svolta ne veniva valorizzato il patrimonio storico e artistico 

E’ questa l’importanza degli archivi, come sostiene con forza Fabrizio Russo, titolare della gloriosa galleria romana nei pressi di piazza di Spagna, che ha contribuito e concorre tuttora all’Archivio Cambellotti, il grande artista designer e non solo; non era il vetro ma la ceramica il materiale preferito per le opere non pittoriche e grafiche, tuttavia le vetrate  realizzate sui suoi disegni, che hanno fatto diventare la “ Casina delle Civette” Museo della vetrata Liberty,  lo qualificano anche in questo campo, nel quale le sue creazioni furono di altissimo livello, oltre agli altri in cui eccelse.

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La mostra itinerante, alla sua terza tappa romana, celebra, quarant’anni dopo, la saga di una famiglia di designer, allargata ai maestri vetrai. Le loro opere danno lustro al “made in Italy” che unisce l’artigianato di eccellenza al raggiungimento di un elevato livello artistico in un campo così particolare ed evocativo come quello del vetro veneziano, Murano e le sue splendide “murrine”.

La mostra itinerante, alla sua terza tappa romana, celebra, quarant’anni dopo, la saga di una famiglia di “designer”, allargata ai maestri vetrai. Le loro opere danno lustro al “made in Italy” che unisce l’artigianato di eccellenza al raggiungimento di un elevato livello artistico in un campo così particolare ed evocativo come quello del vetro veneziano, Murano e le sue splendide “murrine”.

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Info

Casina delle Civette,   Musei di Villa Torlonia, via Nomentana 70, Roma. : Da martedì a domenica ore 9.00-19.00, la biglietteria, presso il Casino Nobile,  chiude 45 minuti prima; lunedì chiuso.  La mostra è parte integrante della visita alla “Casina delle Civette”. Ingresso intero 6 euro, ridotto 5 euro, per i cittadini residenti a Roma  1 euro in meno.  Tel.  06.0608,  http://www.museivillatorlonia.it.  Catalogo: “La Fratelli Toso: i vetri storici dal 1930 al 1980”, “Il Mondo del Vetro”, maggio 2018, pp. 140, formato 21 x 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per i due artisti citati cfr.  i nostri articoli, in questo sito  Cambellotti, aprile 2019; in www.arteculturaoggi.com, “Annalia Amedeo, porcellane artistiche nelle “sinestesie” alla ‘Casina delle Civette'” 30 novembre 2017; nel sito ora citato, per i romanzi sulle imprese familiari,  “Ceccarelli. I Martini e i Gianselmi, storie aziendali e lezioni di vita” 14 gennaio 2017.

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante nella “Casina delle Civette” alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione, con i titolari dei diritti, in particolare Caterina Toso,  per l’opportunità offerta. Nel testo le immagini delle vetrine sono state inserite cercando di rispettare in linea di massima la sequenza in cui le opere in esse contenute sono citate nel testo; tra loro, 5 immagini di opere singole, tratte dal Catalogo.  In apertura, un angolo della mostra, 4 vetrine con sopra una foto storica e un disegno dell’Archivio; seguono, Ermanno Toso, “Vaso Terrazzo” 1952, e “Vaso a Fasce Argento”” 1934, con 3 tipi di “Vaso Pulegoso” 1940; poi, Ermanno Toso, “Vaso Kiku Sommerso” 1949, con “Vaso Nerox” e “Vaso Terrazzo” 1952, e Pollio Perelda, “Vaso Stellato” 1953; quindi, Pollio Perelda, 2 tipi di “Vaso Stellato” 1953, con Ermanno Toso, 2 tipi di “Vaso Millerighe” 1954, ed Ermanno Toso, 3 tipi di “”Vaso Kiku Redentore” con un “Vaso Nerox Redentore” 1956; inoltre, Ermanno Toso, “Vaso Kiku Redentore” 1956,

e “Vaso Stellato” 1953, con “Vaso Kiku” 1954, 2 tipi di “Vaso Kiku Murrine Sparse” 1955; continua, “Vaso Foglie” 1957-62, e 5 tipi di “Vaso Foglie” 1957-62; prosegue, Robert Wilson, 2 tipi di “Vaso Murrina Wilson” 1958-59 con Ermanno Toso, Vaso Kiku Liberty” 1960 e “Bottiglia Nerox a Petoni” 1962, e “Vaso Murrina Wilson” 1958-59; poi, Pollio Perelda, “Vaso Farfalle” con“Vaso Zebrato” 1962 più Ermanno Toso, 2 tipi di “Vaso Nuvole” 1962, ed Ermanno Toso, “Vaso Kiku Redentore” 1956, e 3 tipi di “Vaso Murrina a Spirale” 1962, con 2 tipi di ““Vaso Murrine Lattimo” 1964, Pollio Perleda, “Vaso Marmorino” 1964 e Rosanna Toso, 2 tipi di “Vaso Contrasto” 1968; poi, Pollio Perelda, 2 tipi di “Vaso Cattedrale” 1957 con “Vaso a Fasce” 1958 ed Ermanno Toso, “Vaso Foglie” 1957-62; quindi, Pollio Perelda, “Vaso Stellato” 1958 con 3 tipi di “”Bottiglia Murrina Boboli” 1959-61, eRosanna Toso, “Vaso Foglie” 1970; infine, dall’Archivio un campionario per le “murrine”; come la tavolozza del pittore, in chiusura, un angolo della mostra con 4 vetrine.

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Gianni Testa, la “perfetta sinfonia” cromatica all’ “Otium Hotel” di Roma

di Romano Maria Levante

L’esposizione per un intero anno all’”Otium Hotel “di Roma, di 75 opere del nuovo ciclo di Gianni Testa, “Movimenti astratti”, con una pur ristretta selezione dei cicli precedenti nella fase iniziale, è un evento sia per la caratura dell’artista sia per la sua portata innovativa anche ai fini di facilitare l’incontro dell’arte con il pubblico fuori dai circuiti consueti. Ne abbiamo parlato in precedenza, ripercorrendo l’itinerario artistico di Testa con una prima analisi sull’attuale svolta astrattista; ora andiamo alla ricerca dei suoi motivi reconditi per dare infine una nostra interpretazione del nuovo ciclo di opere.

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Un dipinto esposto sulla terrazza dell'”Otium Hotel”, nelle immagini che seguono
(tranne la n. 11) i “movimenti astratti” esposti lungo i 5 piani dell’Hotel

Sensazioni suscitate e motivi reconditi dei “Movimenti astratti” 

Abbiamo avuto il privilegio di prendere visione diretta dei “Movimenti astratti” di Gianni Testa nel suo atelier, nei pressi di Piazza di Spagna, prima di ritrovarli all’“Otium Hotel”; un atelier, il suo, che ci è apparso all’altezza dei più celebri “Interni d’artista” presentati nella mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna del 2014.

E non è mancata un’ulteriore sorpresa in questi nuovi dipinti  rispetto ai prodromi che abbiamo segnalato: non c’è solo la svolta nei contenuti, ma un vero salto di qualità nelle modalità pittoriche che ne esaltano la resa spettacolare senza perdere la spontaneità del gesto istintivo mosso dall’impulso che si traduce nei movimenti astratti di cui al titolo. 

La superficie dei dipinti appare translucida per un trattamento che ne potenzia l’effetto, mentre anche il colore viene impresso in modo diverso, lo si vede nella delicatezza della trama, dal puntinismo alla diffusione cromatica con le modulazioni e tonalità più varie.

Non basta, sulla superficie dipinta compaiono rilievi astratti dalle configurazioni variegate che vanno da forme arabescate a richiami simbolici, a sigilli enigmatici, ed evocano segnali misteriosi. In questa innovazione, realizzata con particolare cura, i rilievi spiccano con la loro lucentezza sulla superficie traslucida del dipinto, rivestiti in modo discreto di foglia d’oro o d’argento secondo la tonalità cromatica di fondo.

Ma non vogliamo soffermarci sui particolari tecnici, ci interessa piuttosto esternare come  ci sono sembrate queste opere la prima volta, sensazione provata di nuovo e in modo forse ancora più coinvolgente nei 5 piani dell’“Otium Hotel”, proprio perché configurano un vero e proprio itinerario artistico che invita a seguirne e decifrarne la direzione. Riassumiamo la sensazione provata in  due aggettivi: affascinanti e intriganti.

Affascinanti, per la suggestione cromatica che penetra nell’intimo con l’armonia dei colori sorprendente in un artista passato dalle forti pennellate e le tinte intense degli altri cicli alle delicate armonizzazioni attuali raggiungendo effetti di straordinaria efficacia. Qui cambia tutto, e non solo permane l’efficacia cromatica, ma raggiunge il diapason toccando le corde della sensibilità come prima quelle del coinvolgimento nella scena.

Intriganti, per il significato misterioso dei rilievi che intarsiano in vario modo tutti i dipinti astratti divenendo una componente fondamentale dell’effetto d’insieme, novità nella novità della svolta astrattista che ci spinge  a ricercarne  il motivo recondito.

E’ vero che l’arte contemporanea ci presenta le soluzioni più sorprendenti e stravaganti, e questa non è  certo la più sconvolgente; ma qui siamo di fronte a un artista che non ha la spregiudicatezza delle avanguardie spesso provocatrici e si muove nel solco di un’attività artistica coerente svolta per oltre mezzo secolo, per cui ne va cercata la ragione.  

Ci sembra di averne trovato una chiave interpretativa pensando al fatto che, pur nella dimensione pittorica di gran lunga prevalente, c’è stata in lui l’incursione scultorea, “Cavalli”, “Bighe”  e altre figure in piccoli cammei, anelli, spille fusi “a cera persa”.

E allora abbiamo pensato che con questi rilievi sul fondo dipinto nel cromatismo delicato del suo nuovo astrattismo, inconsapevolmente come avviene nell’ispirazione artistica, si sia espressa la sua anima scultorea nel momento in cui quella pittorica si lanciava in una svolta.  Una ”summa” della sua arte che unita vira nell’astrazione.

Il motivo di fondo della svolta astrattista

Lungo questo percorso interpretativo non potevamo non interrogarci sul motivo che ne è alla base, sulla spinta decisiva per questa svolta; e lo abbiamo trovato nella estrema semplificazione espressiva di queste nuove opere.

Non solo per l’assenza di qualsiasi forma figurativa,  neppure in dissolvenza come altre volte in passato, sia nella superficie pittorica sia nel rilievo scultoreo; ma per il cromatismo lasciato libero di esprimersi, ripetiamo, con una modulazione  variegata e un’armonizzazione del tutto nuove

Tutto questo fa pensare alla ricerca dell’essenza, fuori da ogni impegno rappresentativo, ed è evidente che l’essenza del colore risiede nella declinazione delle più diverse espressioni e combinazioni cromatiche,  esplorando soprattutto quelle inconsuete.

Lo vediamo nella straordinario assortimento delle più varie sfumature delle tante cromie nella nutrita serie di rossi, verdi, azzurri, per citarne solo alcuni; e nel susseguirsi altrettanto straordinario delle combinazioni armoniose tra i vari colori in una delicatezza e levità, ripetiamo, inedita per un artista che predilige le “tinte forti”, per così dire.  

Mentre l’essenza nella scultura è identificabile in quei rilievi impressi con immediatezza nell’impulso del momento anch’essi senza condizionamenti né riferimenti figurativi.

Dunque sono compresenti l’essenza nella pittura e l’essenza nella scultura dei rilievi.

Ma cosa ha mosso tutto questo? C’è una ragione diretta, oltre l’evoluzione di cui abbiamo parlato, che giustifica la traversata del Rubicone?

Non si chiedono all’artista questi motivi, ma conversando con lui è emerso un motivo occasionale, del resto anche la scienza delle volte si affida al caso, la stessa scoperta della penicillina è dovuta a un fatto casuale. Un segno tracciato occasionalmente da un famigliare gli ha ispirato d’istinto il primo rilievo senza che gli attribuisse un particolare valore o significato, quasi per gioco. Invece  è stato come la palla di neve da cui nasce  la valanga in un accumulo crescente sospinto da una forza irresistibile.

Identificata l’origine,  abbiamo ricercato da dove è nata la spinta irrefrenabile che dal primo rilievo ha portato ai “Movimenti astratti”. E abbiamo visto inserirsi, sempre per caso, un personaggio che, nella nostra interpretazione, diventa il protagonista della svolta, niente meno che Dante Alighieri.

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Lo abbiamo scoperto altrettanto casualmente, vedendo con sorpresa che il primo gesto istintivo di imprimere il rilievo suggeritogli dal segno del famigliare è avvenuto su un dipinto raffigurante Dante che l’artista ci ha mostrato senza dargli peso.

Da lì la valanga artistica ha prodotto in due anni una novantina di “Movimenti astratti”  tutti con il cromatismo delicato e insieme variegato in tutte le possibili declinazioni e l’altrettanta innovativa presenza dei rilievi, anch’essi con le configurazioni più diverse.

Gianni Testa nel suo atelier mostra l’inizio della sua svolta astrattista, a sin. i primi rilievi impressi su un’immagine di Dante, a dx uno dei suoi “Movimenti astratti”

A questo punto il passo successivo, per quanto ardito possa sembrare anch’esso, considerando che l’ispirazione dell’artista è stata istintiva senza alcun riferimento consapevole. Sono una novantina i dipinti astratti dell’artista, più il rilievo sulla figura di Dante Alighieri; e sappiamo che Gianni Testa è così suggestionato dalla Divina Commedia da avervi dedicato una novantina di dipinti ispirati ai canti danteschi.

Come non pensare che nei nuovi dipinti astratti ci sia questo motivo recondito, con i rilievi scultorei a ricordare nella sintesi astratta l’essenza delle presenze e la superficie pittorica nella sua varietà cromatica ad evocare l’essenza di ambienti ultraterreni? Tanti dipinti con dominante rossa, celeste, intermedia, come non associarli nell’astrazione pittorica alle tre Cantiche dantesche, dal rosso infernale al celeste paradisiaco? Anche se non è così, ci piace pensare che potrebbe esserlo perché è l’impressione da noi avuta nell’immediato e non ci sentiamo di tacerla.

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La sublimazione nell’approdo alla “perfetta sinfonia”

Ma c’è qualcosa in più, e di conclusivo, da dire su questo approdo, al di là della nostra sensazione assolutamente personale che affianca i “Movimenti Astratti” ai suoi dipinti di pari numero realizzati nel ben noto “espressionismo onirico” sulla Divina Commedia.

In questo passo decisivo nell’astrattismo sentiamo la ricerca di qualcosa che va “oltre”, divenuta imperiosa dopo aver esplorato tante strade, pur senza abbandonarle perché, secondo l’artista, vanno mantenute sempre aperte. Una ricerca che ci riporta al percorso di Mondrian nel quale l’approdo alla semplificazione verso l’astrattismo, definitiva e irreversibile,  non nasce da questioni stilistiche ma da un’esigenza spirituale irresistibile. 

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Gianni Testa non ha avuto bisogno di un avvicinamento progressivo, perché la vicinanza c’era sin dall’inizio, e la possibilità dell’approdo all’astrattismo era insita nelle caratteristiche intrinseche della sua pittura.

Aveva tanto da esplorare, finché in una fase quanto mai matura ed avanzata della propria vita artistica e dell’esperienza personale, dopo aver trovato ciò che cercava e averlo rappresentato con la visione della realtà della sua pittura, è scattato il bisogno di andare oltre. Così è avvenuto il passaggio a  una forma d’arte legata ai sentimenti piuttosto che alla realtà, e nei sentimenti si esprime lo spirito senza forma ma con tanto contenuto interiore.

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Ripensiamo a un artista della nostra terra d’Abruzzo, Guido Montauti, del quale è stato celebrato il centenario della nascita nel giugno 2018 con una mostra antologica. Dalle caratteristiche sagome di montanari assorti tra le rocce Montauti è passato – attraverso la semplificazione delle “bande oblique” seguita dalla rarefazione del “periodo bianco” – a un astrattismo con toccanti richiami che lo ha portato addirittura a raggiungere l’Empireo, così abbiamo  definito l’approdo artistico di un quarantennio di pittura. E lo raggiunge anche Gianni Testa con le sue visioni supreme del culmine del Paradiso. 

Nel suo astrattismo sentiamo una analoga ricerca: dopo tanta esplorazione della realtà, l’immersione in mondi superiori dove regna la forza irresistibile dello spirito che non può essere limitata dalle forme ma deve potersi esprimere nella più assoluta libertà.

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Questo avviene con il colore, sempre dominante nell’artista, ma divenuto ora l’unico protagonista: si è  liberato del fardello della forma trasmutando come per magia in cromatismo  delicato, armonioso, perfino etereo.  E’ entrato nel mondo iperuranio dello spirito, e qui il riferimento dantesco venuto spontaneo non sembra affatto eccessivo. 

Come Mondrian approdò alla “perfetta armonia” con il suo astrattismo  geometrico, così Gianni Testa approda alla “perfetta sinfonia” con il suo astrattismo cromatico: la visione coloristica nella nuova modalità espressiva diviene ancora più coinvolgente perché si tratta di condividere sollecitazioni interiori profonde, e lo fa immergendosi in un cromatismo armonioso. Più dell’ armonia, la visione ci dà una vera e propria sinfonia.

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E’ una sinfonia di colori che nella successione delle 75 opere astratte impreziosite dai rilievi argentati e dorati che segnano l’itinerario all’interno dell”Otium Hotel” prende la vista come una calamita e scatena l’immaginazione: invita ad abbandonarsi al richiamo di quelle onde cromatiche che portano lontano, nei mondi iperurani evocati dallo spirito.

Ci saranno ancora – lo ripetiamo per averlo detto espressamente l’artista – le opere tradizionali nel suo “espressionismo onirico” molto personale, ma sarà compresente  la nuova espressione astrattista, ora fissata stabilmente per un anno, e non per il breve periodo delle mostre temporanee,  nella galleria che gli ospiti dell’albergo percorreranno ogni giorno.  

Altri sviluppi sono imprevedibili, con il maestro Gianni Testa le sorprese non finiscono mai.

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Info

“Otium Hotel”, via dell’Ara Coeli, 11, Roma. Il primo articolo sull’evento è uscito in questo sito l’8 giugno scorso. Cfr. i nostri precedenti articoli, in www.arteculturaoggi.com: per Gianni Testa, 3 articoli, “L’espressionismo onirico al Vittoriano”, settembre 2014,  “Gianni Testa, il tour di un anno negli Emirato arabi”, 14 marzo 2015, “Pittori di marina, sei artisti premiati e un libro celebrativo”  (tra loro Gianni Testa), 31 gennaio 2016;  per gli altri artisti citati, su Picasso 3 articoli, 5 e 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, il 1° “In Italia tra cubismo e classicismo, alle Scuderie del Quirinale”, su Guido Montauti 6 articoli 13, 2, 29 luglio, 3, 11, 29 agosto 2018, il 5° “Dal Pastore bianco all’Empireo”,  su Mondrian 2 articoli 13 e 19 novembre 2012, “Il percorso d’arte e di vita” e “L’approdo nella perfetta armonia”, su De Antonis 2 articoli 19 e 29 dicembre 2016,  “Nella fotografia astratta un nuovo realismo” e  “Dai ritratti classici alla fotografia astratta”, sugli “Astrattisti italiani” 5 e 21 novembre 2012. 

Foto

Le immagini dei dipinti dei Movimenti astratti di Gianni Testa esposti nei 5 piani dell’hotel sono state riprese da Romano Maria Levante nell’”Otium Hotel” all’inaugurazione, si ringrazia la direzione dell’hotel con l’artista per l’opportunità offerta. Invece l’immagine n. 11 nella quale l’artista mostra i primi rilievi astratti impressi sulla figura di Dante è stata ripresa nel suo atelier, lo si ringrazia anche per questo.

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Gianni Testa, i “Movimenti astratti” all'”Otium Hotel” di Roma

di Romano Maria Levante

All’”Otium Hotel”,  in via dell’Ara Coeli nel cuore di Roma, le nuove opere di Gianni Testa, “Movimenti astratti”, sono esposte nei 5 piani dell’albergo, vivacizzandone l’atmosfera e nobilitando la già raffinata struttura. L’arte va in questo luogo strategico per restarci, le opere rimarranno esposte per un anno all’Otium Hotel e accoglieranno il flusso di presenti nell’albergo: sono 75 “Movimenti astratti” inediti e, per la fase iniziale, anche 15 opere dei cicli dell’artista, tra cui i “Cavalli”,  i  celebri“ bradi”.

Gianni testa sulla Terrazza dell'”Otiun Hotel”

E’ una esposizione molto particolare, l’arte non attende nella calma di un museo o nella concitazione di una sede espositiva, va dove pulsa la vita, in un luogo di transito di respiro internazionale nel centro storico della città eterna; vicinissimo al Vittoriano, a via dei Fori Imperiali e al Colosseo.

Inaugurazione festosa e affollata c’è stata  il pomeriggio del 17 maggio 2019, nei 5 piani dell’albergo, tra salette, corridoi e rampe di scale, una successione di dipinti ben inseriti nell’ambiente, peraltro molto adatto perché raccolto e discreto; e crediamo che anche in seguito i frequentatori dell’albergo spesso rinunceranno all’ascensore per salire a piedi in un insolito itinerario artistico.

Nella terrazza, con vista sul Vittoriano e il Campidoglio, l’incontro tra Gianni Testa e gli estimatori, amici, critici e appassionati d’arte ai quali ha regalato un’altra sorpresa dopo le tante di una vita dedicata alla pittura.

Citiamo, tra i presenti, Isabel Russinova, da popolare conduttrice televisiva e attrice cinematografica ad operatrice culturale con produzioni nel cinema e nel teatro, oltre che scrittrice e drammaturga, venuta a rendere omaggio all’arte del Maestro; inoltre alcuni dei personaggi del mondo dello spettacolo e dell’arte intervenuti, come Vincenzo Bocciarelli e Rodolfo Martinelli, Daniele de Martino e la critica d’arte Maria Ferloni.

Isabel Roussinova all’inaugurazione

Le sorprese del maestro Gianni Testa

Tornando molto indietro nel tempo, chi avrebbe pensato allora che un artista schivo come lui si fosse prestato per cinque anni ad una doppia esposizione televisiva settimanale dipingendo in diretta per illustrare l’evento di attualità? Erano gli anni ’90, divenne l’attrazione artistica delle trasmissioni del week end “Mattina 2” e “In famiglia” di Michele Guardì che ebbe a definirlo “commosso, ironico, stupito in rapporto alla storia che ascoltava e fissava a colori su tela. Con i suoi tratti asciutti, essenziali, moderni”.

Lo giudicava così: “Sempre efficace senza essere eccessivo. Mai retorico. Quelle copertine sono istantanee scattate col cuore. C’è tutta la passione e l’umanità di un artista vero di fronte a gente semplice che viene accolta con simpatia dalle famiglie che guardano la televisione. Sono momenti di vita quotidiana fermati velocemente, con tecnica incisiva”. Quindi una illustrazione fedele della realtà filtrata dall’umanità e dalla sensibilità dell’artista.

Uno dei “movimenti astratti” esposto all’esterno

E chi avrebbe pensato a un “tour negli Emirati arabi” delle sue opere? E’ avvenuto nel 2015, pochi mesi dopo la grande mostra antologica al Vittoriano del 2014, con  selezioni di opere dei cicli che precedono il recentissimo astrattismo, piccole seelzioni a differenza dell’”opera omnia” attuale dei “Movimenti astratti”. Anche allora l’arte non attendeva i visitatori, è andata loro incontro  nei grandi alberghi internazionali di continuo transito.  

Un’altra sorpresa è stata la serie della “Divina Commedia”, non i pochi dipinti  già noti per essere stati esposti in diverse mostre, ma la completa rappresentazione dei canti dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso in una galleria pittorica di straordinaria intensità Autore il nostro artista che spazia dai “Ritratti” alle “Figure”, dai “Paesaggi” alle “Nature morte”, dal “Sacro” alla sua specialità dei “Cavalli”, un filone artistico a parte per la grande efficacia rappresentativa. Fino agli attuali “Movimenti astratti”.   

Inizia la sfilata all’interno, che prosegue nelle immagini successive

Ma dov’è la nuova sorpresa? Si è aggiunto un ciclo a quelli fin qui prodotti? C’è dell’altro, non è da poco il passaggio di Gianni Testa  all’astrazione, il passo finale oltre il Rubicone, pur nella compresenza dei motivi a lui consueti. “Il pittore deve poter dipingere di tutto” ama dire lui stesso, e peraltro fu proprio Pablo Picasso a mostrare la coesistenza nello stesso artista di diverse forme espressive nel medesimo periodo.

Allora perché parliamo di passo finale e non di un evento improvviso e impensabile? La risposta è semplice, anche se non viene meno la sorpresa:  l’itinerario verso l’astrazione era tracciato nella progressiva evoluzione della sua arte non tanto in termini cronologici ma nell’espressione dei  contenuti in momenti particolarmente significativi.

I prodromi della svolta nell’astrattismo

Questo si spiega se si pone mente alla motivazione dell’arte astratta: l’espressione dei sentimenti dell’artista invece di rappresentare la realtà nelle varie forme – con il realismo figurativo in primis, ma anche il cubismo e simili – e i sentimenti non possono essere compressi in figure con i loro contorni più o meno definiti, devono poter spaziare senza confini.

Anzi, secondo alcuni, con l’astrattismo si ha un’interpretazione perfino più fedele della realtà che non è statica ma muta continuamente e per renderne il dinamismo e movimento non  ci si può limitare a fissarne l’attimo, rispetto alla complessità di  visioni che ne derivano;  questo è stato, in particolare, il percorso di un artista fotografo, De Antonis, passato dalle foto paludate della moda a una fotografia astratta del tutto informale per esprimere la propria visione dinamica della realtà continuamente mutevole.

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Nelle opere dei diversi cicli  di Gianni Testa  si nota la tendenza ad allontanarsi dalla realtà visibile ogni volta che la sua sensibilità è  sollecitata da situazioni particolari; ma anche quando fissa la realtà, il suo non è mai un figurativo puro e semplice, non cura i contorni né la figura bensì usa il cromatismo come forma compositiva e spesso i colori sfuggono al pennello per vivere di vita propria.

Sulle “Nature morte”, la frutta e i pesci sono invitanti, perché realistici, solo i contorni sono indefiniti, immersi in un intenso cromatismo; nei  “Ritratti” questo viene confermato, ma nelle “Figure” già abbiamo un passo importante verso il Rubicone, lo vediamo in “Momento arcaico”  del 1972 e in “Danzatrici” del 1990 dove il cromatismo crea un magma nel quale le figure sono ectoplasmi in dissolvenza.

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Ancora di più nei “Paesaggi”, dove a fronte della figurazione cristallina di alcuni “Velieri” nel ventennio 1988-2009,  corrisponde il magma di altri “Velieri” nel 1970, ai luminosi “Ruderi di notte” del 1968,  la “Sintesi di Roma” in dissolvenza del 1967.

E soprattutto in alcune visioni notturne, come “Vedute di Via del Corso da Piazza Navona” e “Piazza Navona”  del 2000 in cui, tra il celeste e il blu che creano l’atmosfera umbratile, si delineano a stento alcuni contorni.

Mentre in “Undici Settembre” del 2001 il rosso fuoco che avvolge le sagome delle Torri Gemelle esprime più un sentimento che la realtà, le torri non bruciarono ma collassarono. E anche nei suoi celebri cavalli, in certi momenti sulla forma ha prevalso la massa cromatica indefinita, e ciò in vari periodi, da “Battaglia” del 1995 a “Bradi nella notte” del 2006.

Una selezione di 15 dipinti di tali cicli sono stati esposti nella fase iniziale in una saletta al primo piano dell’”Otium Hotel”, così da far seguire l’evoluzione artistica, prima di essere trasferiti a una esposizione all’estero.

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Il sentimento prevale sulla rappresentazione visiva della realtà anche in alcuni dipinti del “Sacro”, come “Mana Hana” del 1999, un celeste-blu con un Crocifisso appena delineato, a differenza di “Crocifissione” del 2007  dove invece è in modo figurativo.

E soprattutto nella “Divina Commedia” che costituisce il penultimo passo, prima di quello decisivo. Tanto per l’Inferno, quanto per il Purgatorio e soprattutto per il Paradiso ci sono canti affidati esclusivamente all’intensità cromatica, e questo non tanto perché non raffigurabili in termini figurativi, quanto perché è il clima, e non i personaggi, a sollecitare la sensibilità dell’artista.

Lui stesso ci ha detto che l’impegno sulla “Divina Commedia” non nasce da una scelta  artistica preordinata, ma da una irresistibile spinta interiore, che viene dagli anni di scuola allorché conobbe e amò le Cantiche dantesche.

Una prima chiave interpretativa dei “Movimenti astratti”

Pensiamo che una prima chiave interpretativa dei nuovi “Movimenti astratti” risieda in questo aspetto: quando la sollecitazione interiore inconscia prevale sulla scelta artistica consapevole, il sentimento si affida al colore che cancella la forma in composizioni in cui  il cromatismo è libero di esprimere  contenuti e significati, e di suscitare emozioni.

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Questo ci sembra spiegare la particolarità del suo approdo all’astrattismo. Non deriva da un progressivo avvicinamento stilistico e di contenuti, le citazioni sopra riportate di opere dei diversi cicli che si allontanano dal figurativo riguardano anche l’inizio degli anni ’70, e si ripetono nel tempo.  C’è stata la compresenza di questo stimolo da sempre, pur in un artista che, ripetiamo, negli anni ’90 ha fatto l’illustratore in diretta per la Televisione con ciò che ne consegue in termini di riconoscibile aderenza alla realtà.

D’altra parte, nel suo cromatismo intenso c’è “in nuce” una spinta evolutiva ad abbandonare anche le forme, già di per sé non imprigionate dai contorni, dilatandole fino a renderle indefinite facendo del colore il protagonista assoluto.

In questo si differenzia dal percorso di Mondrian che parte dal figurativo, poi  tende a semplificarlo sempre più – classico esempio sono i suoi alberi, alla fine trasformati in tralicci e schemi – fino ad approdare, dopo una lunga marcia nel tempo, per questo senza ritorno, a un astrattismo geometrico con una forte intensità espressiva.

Non è confrontabile neppure al percorso di Picasso, nel quale  sono compresenti nello stesso periodo cubismo e neoclassicismo, a riprova che possono coesistere contemporaneamente diversi stili nello stesso artista; e questo perché in Gianni Testa non si può parlare di diversi stili, se non oggi, mentre l’avvicinamento all’astrattismo non è stata una scelta ma un fatto spontaneo e naturale, nel suo uso peculiare del colore.

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Dal cromatismo del tutto personale è nato  un percorso a fisarmonica nel quale la forma di volta in volta, e in varia misura, è stata più o meno soverchiata dal colore che in qualche caso ha annullato i contorni occupando  interamente la superficie del quadro.

Intendiamoci, nulla di sofferto, come invece abbiamo visto nell’artista americano Frank Holliday, la cui mostra in corso a Roma al Museo Bilotti presso l’Aranciera di Villa Borghese, ci ha fatto conoscere il passaggio dall’inferno al paradiso,  in termini di vista e di espressione artistica, dalla condivisione all’inizio degli anni ’80 a New York del “Club 57” con artisti poi falcidiati dall’Aids, alla ricerca di uno sbocco liberatorio trovato nelle “vacanze romane” del 2016 che lo hanno portato all’astrattismo non più cupo e ossessivo ma solare e luminoso, espresso in un cromatismo avvolgente e anche coinvolgente per l’osservatore.

Coinvolgente lo è in modo quanto mai intenso il cromatismo di Testa con l’aggiunta di un qualcosa di particolarmente intrigante, oltre che personalissimo, dei rilievi alla cui presenza abbiamo dato un’interpretazione molto ardita, come diremo prossimamente.

L’esempio da seguire di un nuovo mecenatismo

Intanto, in questa iniziale presentazione vogliamo tornare sull’importanza che le sue opere siano esposte a lungo in un sito così frequentato come un albergo internazionale nel centro della Capitale.

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Può essere un esempio per avvicinare l’arte al pubblico in un mecenatismo di tipo nuovo che – al di là dei risvolti economici, quali essi siano – ottiene un risultato di grande valore per tutti: per l’artista che vede diffondersi la conoscenza delle sue opere, per il sito in cui sono esposte, che ne viene indubbiamente nobilitato, per il pubblico che prende così confidenza con l’arte al di fuori dei rituali delle mostre più o meno paludate.

La galleria romana RVB Arts da parecchi anni svolge una campagna di scoperta di giovani artisti di talento e di valorizzazione di artisti affermati con mostre-mercato all’insegna del principio dell’”Accessibile Art”, accessibile sia in termini economici sia anche di compatibilità con l’inserimento in ambienti familiari, cosa non scontata dati certi eccessi dell’arte contemporanea.

Tale meritoria iniziativa della titolare Michele von Buren, che resta tuttora innovativa nella finalità e nel contenuto, si svolge, tuttavia, nel canale tradizionale, cioè la mostra nella galleria per brevi periodi espositivi, anche se in una successione incalzante nel tempo. Con l’esposizione dei “Movimenti astratti” di Gianni Testa all’”Otium Hotel”, per la durata di un intero anno non in una galleria ma in un qualificato luogo di presenza del pubblico, per di più internazionale,  si compie ora un ulteriore passo, perciò salutiamo l’attuale iniziativa come altrettanto meritoria.

Il nostro augurio è che abbia degli  epigoni, del resto dall’arte nasce la “rigenerazione” anche in termini sociali e civili. Non serve neppure dire di quanto ce ne sia bisogno, nella città eterna e non solo. Prossimamente cercheremo di penetrare nei motivi reconditi dei “Movimenti astratti” di Gianni Testa.

Info

“Otium Hotel”, via dell’Ara Coeli, 11, Roma, Il secondo e ultimo articolo sull’evento uscirà in questo sito il 10 giugno p. v. Cfr. i nostri precedenti articoli, in www.arteculturaoggi.com: per Gianni Testa, 3 articoli, “L’espressionismo onirico al Vittoriano”, settembre 2014,  “Gianni Testa, il tour di un anno negli Emirato arabi”, 14 marzo 2015, “Pittori di marina, sei artisti premiati e un libro celebrativo”  (tra loro Gianni Testa), 31 gennaio 2016;  per gli altri artisti citati, su Picasso 3 articoli, 5 e 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, il 1° “In Italia tra cubismo e classicismo, alle Scuderie del Quirinale”, su Guido Montauti 6 articoli 13, 2, 29 luglio, 3, 11, 29 agosto 2018, il 5° “Dal Pastore bianco all’Empireo”,  su Mondrian 2 articoli 13 e 19 novembre 2012, “Il percorso d’arte e di vita” e “L’approdo nella perfetta armonia”, su De Antonis 2 articoli 19 e 29 dicembre 2016,  “Nella fotografia astratta un nuovo realismo”“Dai ritratti classici alla fotografia astratta”, sugli “Astrattisti italiani” 5 e 21 novembre 2012; sulla Accessible Art” della galleria RVB Arts di Michele von Buren, nel 2018 il 7 aprile, nel 2017 il 3 gennaio, nel  2016 il 26 ottobre, 31 maggio e 23 gennaio, nel 2015 il 25 dicembre, 9 novembre, 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre; infine, in questo sito, su  “Holliday, vacanze romane dall’inferno al paradiso, al Museo Bilotti” 28 giugno 2019.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nell’”Otium Hotel” all’inaugurazione, si ringraziano la direzione dell’Hotel e il Maestro Gianni Testa per l’opportunità offerta. Per le prime due si ringraziano l’artista e Isabel Russinova per la cortese disponibilità; le altre sono tutte del nuovo ciclo “Movimenti astratti” .

Carabinieri, l’arte di salvare l’Arte, da mezzo secolo, al Quirinale

di Romano Maria Levante

Dal 3 maggio al 14 luglio 2019 al Quirinale nella Palazzina Gregoriana  la mostra “L’arte di salvare l’Arte. Frammenti di storia d’Italia”, celebra i 50 anni di attività del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale esponendo una ricca selezione di opere recuperate – dipinti e sculture, oggetti artistici di vario tipo fino a due Crateri a figure rosse  di Eufronio – di cui tre recuperate di recente e già anche in occasione del Bilancio 2018. Per ogni opera la storia del recupero anche molti anni dopo il trafugamento, come risultato di una attività investigativa che si avvale, oltre che della sperimentata specializzazione del personale,  di strumenti efficaci, come l’apposita “Banca Dati dei Beni Culturali  Illecitamente Sottratti”,  in stretta  intesa con la magistratura italiana e le forze di polizia estere attraverso l’Interpol,  con le autorità consolari e i diplomatici del Ministero degli Esteri, La mostra, con due sculture nel loggiato,  è curata da Francesco Buranelli. Inaugurata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con il Ministro per i Beni e le Attività Culturali Alberto Bonisoli , il Comandante generale dell’Arma Giovanni Nistri e il Comandante del Comando Tutela Patrimonio Culturale Fabrizio Parrulli.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in visita alla mostra,
dietro di lui semicoperto il ministro per i Beni e le Attività Colturali Alberto Bonisoli

La mostra segue di poco la presentazione del Bilancio 2018 di attività del Comando, avvenuta nella sede della  caserma di via Anicia, e viene prima della mostra ai Musei Capitolini con una più limitata selezione di opere recuperate, sempre nella celebrazione di mezzo secolo di successi. Di certo la “location” al Quirinale è  suggestiva e carica di significati, è la prova evidente del sommo valore attribuito ad una attività fondamentale per proteggere l’arte esposta a continue minacce e aggressioni, e per  ricollocare le opere recuperate nei luoghi da cui  erano state sottratte.

In tal modo vengono “ricontestualizzate nel territorio o nel tessuto connettivo che le ha generate, restituendo loro la dignità  culturale più vera e profonda di ogni opera d’arte, quella del contesto di appartenenza”. Lo si legge nella presentazione in cui, pur nella consapevolezza che l’opera d’arte appartiene all’intera umanità, si sottolinea giustamente che “essa acquisisce valore di civiltà solo dalla conoscenza e dalla profonda relazione geografica e fisica con i luoghi che l’hanno prodotta, con la cultura  che l’ha generata, con il paesaggio che l’ha suggerita”.

“I Grifoni di Ascoli Satriano”, IV sec. a. C.

E, aggiungiamo noi, c’è una certa reciprocità, per cui i luoghi che l’hanno prodotta, la cultura che l’ha generata, il paesaggio che l’ha suggerita si sentono feriti e privati di qualcosa di vitale quando l’opera d’arte viene sottratta, una lesione che con la restituzione e ricollocazione viene sanata. Tutto ciò fa assumere un valore straordinario ai risultati dell’attività di recupero,  di natura morale, civile e umana che va ben al di là dei contenuti di natura artistica ed anche economica pur se assai rilevanti.

Passiamo in rassegna una serie di esemplari dei diversi generi di opere d’arte esposti, in una ideale “escalation” che va da oggetti di vario tipo a dipinti e sculture, fino ai vasi attici di Eufronio. Intorno ad ogni opera d’arte una storia intrigante, quasi  romanzesca, di furti, indagini e recuperi.

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Un prezioso Codice miniato

Dai documenti preziosi ai gioielli, ai mobili di pregio

Il nostro racconto della mostra non segue l’itinerario espositivo, ma un percorso tutto personale in una “escalation” artistica ed emotiva, evocando le vicissitudini di cui le opere d’arte – citate come casi esemplari di una teoria infinita di storie altrettanto eclatanti – sono state protagoniste: dal trafugamento all’happy end per merito dei carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale.

Questo viaggio nella cronaca che diventa storia inizia con un documento prezioso, l’”Epistola de insulis nuper inventis” , riproduzione della lettera originaria con cui Cristoforo Colombo annuncia  ai Reali di Spagna la scoperta del Nuovo mondo. realizzata in 20 esemplari nel 1493 da un tipografo tedesco a Roma; era stata sottratta alla Biblioteca Riccardiana di Firenze.

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“Opus sectile” a mosaico con serpentino e perfido, II sec. d. C.

Nel commentare il Bilancio 2018 dell’attività del Comando abbiamo sottolineato come nel “vademecum” sulla custodia di opere di valore viene raccomandata  la massima vigilanza in luoghi come le Biblioteche dove è troppo facile sottrarre documenti preziosi. In questo caso non si è trattato di un’indagine mirata, l’Epistola era stata sostituita con un falso per cui non ci si era accorti della sua sottrazione avvenuta in epoca imprecisata. Ma ugualmente  caso la raccolta di informazioni da parte dei carabinieri nel 2012 li mise sulle tracce del documento individuato in una biblioteca di Washington cui era stato donato da un collezionista che a sua volta lo aveva acquistato nel 1992.Venne accertato che proveniva dalla biblioteca di Firenze dove c’era  un falso. Nel 2016 il ritorno  nella biblioteca di Firenze con la collaborazione dell’Homeland Security Investigation.

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Statua di epoca remota

Entriamo nel thriller mozzafiato con la storia del recupero dei 27 gioielli e pietre preziose della Collezione Castellani di grande valore artistico oltre che commerciale. Furono asportati dal Museo Etrusco di Valle Giulia con un’azione da “commandos” la notte del 10 marzo 2013,  i malviventi dal volto coperto, nascosti dai fumogeni  infransero con l’ascia le vetrine e fuggirono portando via i gioielli.  Le indagini dei carabinieri  identificarono una signora  russa committente del furto con le foto dei gioielli, poi seppero in anticipo dell’appuntamento dei ladri con altri possibili compratori in un bar di Fiumicino. Si era nel marzo 2016, una scena da film, accortisi dell’appostamento al bar i ladri fuggirono in automobile  inseguiti dai carabinieri, e gettarono dal finestrino parte dei gioielli subito recuperati dagli inseguitori, che li identificarono e recuperarono il resto della refurtiva.

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Scultura funeraria di Palmira, Siria, recuperata in Italia

La terza storia riguarda un bene molto diverso ma anch’esso  prezioso, una Scrivania a doppio corpo intarsiata di avorio e madreperla, del maestro ebanista Pietro Piffetti, portata via dal Palazzo Chiablese di Torino nel secondo dopoguerra. Le indagini dei carabinieri del Comando Tutela hanno accertato che il  mobile, dopo la Francia e la Svizzera, era approdato negli Stati Uniti ed era stato esposto a fine anni ‘90 in un museo newyorkese. A questo punto è stato identificato come il mobile ideato dall’architetto Benedetto Alfieri e utilizzato in pratica quale componente dell’arredo della sala di Palazzo Chiablese, collocato in una apposita nicchia, per cui è stato restituito spontaneamente dato che, anche se c’era la buona fede, il possesso era irregolare. Come questo, molti altri casi di adesione spontanea alla richiesta, ma sempre dopo che i carabinieri hanno presentato prove inoppugnabili.

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“Diana Cacciatrice”, copia di Bartolomeo Cavaceppi, fine sec. XVIII

Inizia l’“escalation” della galleria espositiva, i rilievi scultorei

Dagli oggetti  preziosi di vario tipo all’arte nella sua espressione tradizionale, in primo luogo sculture e rilevi. Iniziamo con la Madonna col Bambino di Luca e Andrea Della Robbia,   gli artisti del ‘400 specialisti nei rilievi in terracotta invetriata, improntati a un classicismo raffinato. Dopo quasi mezzo secolo dal furto, avvenuto il 9 agosto 1971 nella chiesa di San Giovanni Battista di Scanzano, provincia di Grosseto,  il rilievo è  rientrato in Italia ad aprile 2019, dopo essere stato individuato dai carabinieri del Comando Tutela tra le opere messe in vendita all’asta da una nota casa londinese; il collezionista  che l’aveva comprato in buona fede, lo ha riconsegnato dopo le forti pressioni del  Comando e della nostra ambasciata in Canada e la richiesta di confisca dell’Autorità giudiziaria italiana.

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Luca e Andrea della Robbia, “Madonna col Bambino”

E’ un altro caso esemplare di un’attività a largo raggio, che si avvale dell’impiego :della Banca Dati delle Opere Illecitamente Sottratte, che con le  opportune comparazioni visive ha permesso di identificare nel 2013 l’opera tra quelle messe in vendita da una  importante casa d’arte londinese, il resto è venuto da sé. E pensare che il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale – si chiamava così – era stato istituito solo da due anni, e quello con l’immagine fu il primo Bollettino di ricerche emesso!

Un capitolo a sé il recupero di opere che, a differenza di quelle sottratte alla custodia nei luoghi a ciò deputati, non sono conosciute in quanto risultato di scavi clandestini.  E’ il  caso della Triade capitolina, gruppo scultoreo con gli dei tutelari dell’antica Roma, Giove, Giunone e Minerva, rinvenuto nel 1992  da tombaroli che lo trafugarono vicino a Guidonia Montecelio, in provincia di Roma, portandolo subito in Svizzera dove lo vendettero a un ricettatore; l’importanza del ritrovamento era tale per cui se ne parlava negli ambienti interessati, cosa che non sfuggì ai carabinieri i quali messi, insieme gli elementi per identificare il reperto, li diffusero nel giro degli antiquari in modo da renderne difficile  la vendita, e ancora di  più l’acquisto in buona fede. Riuscirono a individuare i tombaroli e a recuperare un frammento della scultura, impedendo la vendita da parte del ricettatore svizzero a un collezionista americano. Anche qui sono evidenti due aspetti fondamentali dell’attività del Comando Tutela: l’estensione  a livello internazionale e le prove utilizzate con la divulgazione nell’ambiente antiquario al fine di impedire la vendita. E furono così efficaci che dopo due anni, nel 1994, il rilievo fu abbandonato dai ricettatori al confine svizzero; così è stato portato trionfalmente nel Museo archeologico di Guidonia Montecchio.

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Un’opera salvata dal terremoto in Abruzzo

Significativa per altri versi la storia di una scultura con una grande figura  in primo piano e due piccole dietro le sue spalle. E’ una scultura funeraria proveniente da uno scavo clandestino nell’area archeologica di Palmira, in Siria, che i carabinieri sequestrarono in casa di un collezionista di Asti nel 2011, insieme a molti altri reperti. Immediata segnalazione alla polizia siriana che, con l’intervento della Direzione delle Antichità in Siria, confermò la provenienza, di qui la decisione di restituirla alla Siria. Come si fa abitualmente con tanti paesi, ricordiamo che alla visita del presidente cinese sono stati restituiti alla Cina centinaia di reperti rispettandone la provenienza.

Ulteriore “escalation”, dal Perugino a Raffaello, da Piero della Francesca a Van Gogh

Dopo la scultura i dipinti recuperati, cominciando dalle due tavole a cuspide del polittico di Scuola Fiorentina, XIV-XV sec., asportato dalla chiesa di  San Martino a Gangalandi nel comune di Lastra a Signa, provincia di Firenze, il 17 gennaio 1969. Entrarono subito in azione i carabinieri del Nucleo Tutela appena istituito, con un’attività investigativa  di pedinamenti e controlli che in  pochi mesi fece identificare un trafficante venditore delle  tavole. Si finsero interessati all’acquisto e sequestrarono una tavola nella sua abitazione, poi l’altra presso un notaio di Pavia  che lo aveva incaricato della vendita. Indagine lampo, l’anno dopo, 1970,  le due tavole tornarono nella chiesa  dove erano state sottratte, fu la consacrazione sul campo del  Nucleo Tutela.

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Andrea Mantegna, “Sacra Famiglia con una santa”, fine XIV sec.

Ancora più rapido il recupero di 17 dipinti rubati il 19 novembre 2015  al Museo di Castelvecchio di Verona:  un inizio banditesco, un finale rocambolesco, tutto nell’arco di meno di sei mesi. Inizio banditesco: una banda di tre uomini dal volto coperto, con le armi ridusse all’impotenza la guardia giurata, lo fece a museo aperto quindi prima che fosse messo in funzione l’allarme notturno. Le indagini rivelarono la complicità della guardia giurata  e portarono a identificare tutti i componenti della banda. Finale rocambolesco: in Ucraina, dopo il transito dei dipinti  in Moldavia, la destinazione finale in Russia fu impedita dall’azione dei carabinieri che costrinse i responsabili a nascondere le opere in sacchi di plastica lasciati nei cespugli dell’isola ucraina di Turunciuc.  E’ l’11 maggio 2016, fine della “spy story”.

Ed ora un trittico di capolavori di sommi artisti, tra i più grandi,  Raffaello e Piero della Francesca, il Perugino,  Cezanne e Van Gogh!  Soltanto a nominarli si ha un brivido nel pensare che delle loro opere siano finite in mano ai malviventi e potevano essere sottratte per sempre all’ammirazione del pubblico, anzi dell’umanità perché le opere d’arte sono patrimonio dell’umanità.

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Cèzanne, “Le Cabanon de Jourdan” , 1906

Rievochiamo solo alcune storie nell’ordine cronologico della sottrazione, come si fa per l’ordine alfabetico con cui vengono citate le “star” nei cartelloni, precisando che non è un ordine di importanza.

 E’ il 5 febbraio 1975, ladri professionisti asportano dalla Pinacoteca di Urbino tre capolavori di valore incommensurabile,“La muta” di Raffaello, la “Madonna di Senigallia” e la “Flagellazione” di Piero della Francesca. Scattano le indagini dei carabinieri, il Comando Tutela con l’arma territoriale, e dai contatti con gli ambienti antiquari si accerta che vengono offerte in vendita in Svizzera; i carabinieri si fingono compratori  e così vengono messi in contatto con i ricettatori, recuperano tutte le preziose opere a Locarno  e li arrestano, due in Italia, uno in Germania e uno in Svizzera. L’azione si conclude il 29 settembre 1976, dopo solo un anno e 7 mesi. Vediamo esposta la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, un’immagine purissima di incommensurabile serenità e  dolcezza.

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Piero della Francesca, “Madonna di Senigallia”, 1474

Dodici anni dopo da quel furto, il 27 ottobre 1987, i ladri si introducono nella Pinacoteca comunale di Bettona, vicino Perugia, avendo sottratto le chiavi nella segreteria del sindaco dove erano entrati segando le sbarre della finestra. Un colpo grosso, alcune sculture e 29 dipinti asportati tra cui 2 del Perugino, al secolo Piero Vannucci,  tra cui laMadonna della Misericordia con i santi Stefano e Girolamo e committenti”, una predella del Duomo Doni, 2 di di Boccanera e uno di Anton Maria Fabrizi. Bastano 4 mesi per individuare i quattro responsabili, ma le opere sono state portate in Germania;  non solo, nella “spy story”  entra un  potente senatore giamaicano, sospettato di detenere le opere rubate, addirittura  in garanzia di una partita di droga; la rogatoria internazionale non è risolutiva, anzi viene strumentalizzata per impedire le indagini. Dopo due anni, con il ribaltone politico nel governo della Giamaica, cessa la protezione del senatore, non rieletto, a una nuova rogatoria segue la perquisizione della sua abitazione e si recuperano le opere. Il 7 aprile 1991 tornano nella Pinacoteca di Bettona, l’ex senatore giamaicano “fu tratto in arresto e condannato a una pena esemplare”, così il bollettino della vittoria, dopo meno di 4 anni.

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Pietro Vannucci, il Perugino, “Madonna della Misericordia,
con i santi Stefano e Gerolamo, e committenti”, 1512-15

Un salto di 11 anni, siamo al 19 maggio 1998, questa volta in uno dei più importanti musei e centri espositivi italiani, la  Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ed è un attacco impensabile per una capitale moderna. Tre uomini armati si nascondono all’interno e alla chiusura neutralizzano i custodi notturni,  vengono asportati “L’Arlesiana” e “Il Giardiniere” di van Gogh, che vediamo esposto, “Le Cabanon  de Jourdan” di Cézanne. E’ di  tale gravità da far ipotizzare che sia opera della  criminalità organizzata o abbia matrice terroristica, escludendo il furto per la vendita, data la notorietà delle opere e il clamore del caso, e ritenendo possibile invece un furto su commissione. Questa volta si batte ogni record di velocità, bastano pochi giorni per accertare che l’ipotesi valida era quella della criminalità organizzata, è stata una banda operante in Piemonte, Lazio e all’estero, con rapine nelle banche. Ciò richiedeva particolare cautela perché se si fossero accorti di essere stati scoperti  avrebbero potuto perfino distruggere le opere, non essendo del ramo; ma dopo altri due mesi di cauti pedinamenti e intercettazioni telefoniche e ambientali, individuate  le opere rubate, una a Torino e due a Roma, scattano le perquisizioni, vengono sequestrate  insiemea una mitraglietta, 5 pistole e alcuni fucili. Arrestati 8 componenti della banda, tra loro un dipendente della Galleria  Nazionale che aveva fatto da basista, come abbiamo visto per il furto del 2015 nel Museo di Castelvecchio. Come in una “spy story” ,è colpevole  l’insospettabile “maggiordomo”.

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Vincent van Gogh, “Il Giardiniere”, 1889

C’è anche la “Sacra famiglia con una santa” di Andrea Mantegna e altri capolavori con altrettante storie intriganti: abbastanza per rilanciare la proposta di un “serial” televisivo analogo a quello RAI di diecine di anni fa, “Caccia al ladro d’autore”, protagonista Giuliano Gemma: sono presenti tutti gli elementi del romanzo poliziesco, il colpo con destrezza, le indagini in Italia e all’estero, le piste con lo sfondo spettacolare dell’arte ferita. L’interesse non mancherebbe e ci sarebbe anche un importante ritorno culturale: cosa aspetta la RAI  – cui vengono devoluti oltre 2 milioni di euro l’anno dell’imposta sui televisori per la completezza dell’informazione e la cultura – a ispirarsi alla serie già trasmessa nel lontano passato per un nuovo ciclo emozionante ed educativo? Non lo farà, altrimenti avrebbe accolto le sollecitazioni che le abbiamo avanzato in varie circostanze, da dieci anni fa, così è più probabile che lo possa fare “La 7”, ormai vero servizio pubblico televisivo, ci rivolgiamo fiduciosi a Umberto Cairo.

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Recipienti e altri oggetti d’epoca

I  vasi attici, il vaso di Eufronio da New York a Roma, dopo 45 anni

Vogliamo concludere questa carrellata su una selezione delle opere recuperate dai carabinieri del Comando Tutela, esposte al Quirinale, con quello che consideriamo il “clou” a livello personale.

Si tratta del Cratere a figure rosse di Eufronio di fine VI-inizi V  sec. a C. prelevato nei primissimi anni ’70 con scavi clandestini dai tombaroli di Cerveteri dopo la casuale individuazione nella tomba etrusca nella zona di Greppe Sant’Angelo. I carabinieri del Nucleo Tutela appena costituito ne vennero presto a conoscenza, ma fu possibile ricostruirne l’intero percorso soltanto a seguito della denuncia per ritorsione da parte di uno dei tombaroli in dissidio con i complici nella divisione del ricavato,  appena seppe dai giornali il prezzo molto più elevato pagato dal museo di New York che lo aveva acquistato, rispetto ai 125 milioni dati a lui e ai suoi complici dal noto commerciante americano primo acquirente, che lo fece restaurare a Zurigo creando una falsa documentazione sulla sua provenienza. E’ una variante dei dissidi all’interno della stessa banda, questa volta è scattata la “vendetta”  perché il cratere era stato sottopagato  rispetto al valore riconosciuto dal museo.  Le indagini consentirono di denunciare i colpevoli, ma non bastò perché il museo americano non volle restituire il prezioso cratere. Fino a quando il clamore internazionale suscitato da analoghe vicende parecchi anni dopo convinse il museo a collaborare e poi a stipulare un accordo con il Ministero dei Beni e le Attività Culturali il 21 febbraio 2016, al quale seguì la doverosa restituzione del prezioso reperto.

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Eufronio, Cratere con “Sarpedon caduto”, fine VI-inizi V sec. a. C., dal Metropolitan Museum, New York al Quirinale, Roma, 1973-2019

Lo consideriamo il “clou” a livello personale perché un professore del prestigioso MIT, conosciuto per caso al Museo della Liberazione in via Tasso nei giorni della mostra, nel confidarci per “e mail” le sue visite a mostre d’arte nel suo pur breve soggiorno romano, ci ha scritto in perfetto italiano queste parole che citiamo testualmente sulla “straordinaria mostra al Quirinale (Palazzina Gregoriana) che festeggia i 50 anni di quel reparto eccezionale dei Carabinieri messo su per recuperare l’arte, pezzi archeologici, ecc. di ogni genere: fin qui, 2.000.000 recuperi! , ‘L’Arte di Salvare l’Arte’.   Fra un centinaio di altre magnifiche opere, c’è il famoso vaso di Eufronio, col Sarpedon caduto – vaso che abbiamo visto (e fissato per più di un’ ora! – io con mia moglie, da giovani studenti d’archeologia classica) nel febbraio del lontano 1973 al Metropolitan Museum. Il pezzo è arrivato in prima pagina del ‘New York Times’ ogni giorno di quella settimana, dal lunedì al sabato, producendo uno scandalo per il notorio prezzo di un milione di dollari (di allora!) pagato dal museo e, ovviamente, per la vergognosa mancanza di qualsiasi indicazione di autentica provenienza.  Andava senza dire, che era una scoperta di tombaroli a Cerveteri (dove ormai il vaso è tornato a casa, a parte questi soggiorni provvisori altrove), venduto sul mercato privato, con l’aiuto serio di un famigerato commerciante d’arte americano, connazionale nostro – con legami stretti purtroppo  alla nostra molto amata Accademia Americana!  Avendo piazzato apposta nella nuova ‘Sala Eufronio’ un giornalista per riferire della ‘reazione del pubblico’, noi due siamo finiti (colle nostre prevedibili ‘reazioni scandalizzate – da bravi e buoni studenti d’archeologia principianti…) con brevissime parole nostre citate nelle pagine del NYT quel sabato mattina (verso il 20 feb., se non mi sbaglio)”.

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Altri due vasi attici

Questa cronaca così spontanea di “come  eravamo” di Steven E. Ostrow, che ritrova il Cratere di Eufronio al Quirinale nel suo viaggio in Italia più di 46 anni dopo averlo ammirato al Metropolitan Museum di New York ci è apparsa eloquente, anzi istruttiva. Nulla da aggiungere alle parole illuminate del professore americano con cui rievoca la sua indignazione verso  certa colpevole  disinvoltura dei musei del suo paese, e non solo, in acquisti visibilmente incauti, per usare un eufemismo, che  risale al 1973, quindi precede di  33 anni la svolta negli ambienti americani del 2006; gli fa onore come uomo di cultura, amante dell’arte e della storia che sin da allora ha superato l’egoismo nazionale collocandosi nella dimensione più autentica dell’arte, la quale ha valore universale,  ma non va sradicata dal contesto che l’ha ispirata, alimentata e prodotta, dove deve restare ed essere ricollocata se trafugata. I musei dovrebbero essere i primi a volerlo.

Un altro Cratere a figure rosse di Eufronio esposto in mostra è stato ugualmente scoperto all’inizio degli anni ’70 con il trafugamento da parte dei tombaroli di Cerveteri, poi acquistato in buona fede, ma con evidente ingenuità, da una nota collezionista americana la quale nel 1990 ha concesso che fosse esposto in un museo newyorkese. Non poteva sfuggire all’attenzione dei carabinieri del Comando Tutela i quali ne hanno dimostrato la provenienza illecita – con fotografie polaroid sequestrate al trafficante italiano che lo aveva venduto – e hanno poi attivato la diplomazia culturale italiana ed internazionale fino  all’accordo per la restituzione del 16 dicembre 2007.

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Un altro Cratere di Eufronio

Alcune fotografie sequestrate a un trafficante internazionale di beni archeologici hanno consentito di individuare e poi recuperare anche un Cratere a figure rosse di Assteas – raffigurante il ratto di Europa da parte di Zeus – il vaso ritratto accanto a un tombarolo, era la prova inequivocabile della provenienza illecita, il luogo di origine fu identificato in Campania, nell’area di Sant’Agata de’ Goti vicino a  Benevento. La foto rilevatrice è stata trovata dai carabinieri nel 1995, mentre il cratere era esposto  dal  1881 in un museo californiano; ci sono volute rogatorie internazionali nel 1999 e adempimenti legali per dimostrare che il cratere era stato venduto al museo dal mercato clandestino. Non è bastato,  sono passati  altri sei anni, con nuovi accertamenti e trattative, per far tornare nel novembre 2005 il cratere nella terra da cui era stato sottratto, ora è esposto nel Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino di  Montesarchio presso Benevento.  Il prof. Ostrow lo immaginiamo altrettanto indignato anche per questo caso, come lo fu dal lontano 1973 per  il vaso di Eufronio: oltre al riprovevole acquisto dal mercato clandestino c’è l’aggravante di resistere per dieci anni alla doverosa restituzione, dopo averlo esposto per vent’anni.

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Assteas, Cratere, il ratto di Europa da Zeus in sembianze di toro

Il “serial” televisivo che proponiamo potrebbe evidenziare anche questi aspetti deteriori i cui protagonisti sono grandi musei internazionali che dovrebbero essere molto più sensibili alle ragioni dell’arte.

Il Comando Tutela, protagonista di tante storie di successo

Abbiamo cercato di descrivere il Comando Tutela Patrimonio Culturale “in action”, come in una carrellata cinematografica, e per questo abbiamo raccontato alcune operazioni particolarmente eclatanti, per il valore altissimo delle opere recuperate e le intriganti vicende. Nelle quali, oltre alle attività  investigative dirette, hanno un ruolo primario quelle con le altre forze di polizia italiane ed estere tramite  l’Interpol, nonché le azioni svolte con la Magistratura e il Ministero della Giustizia anche mediante rogatorie internazionali;  fino a interessare il Ministero degli Esteri per l’assistenza delle attività consolari e il Ministero per i Beni e le Attività  Culturali in quella che viene chiamata “diplomazia culturale”, spesso determinante per soluzioni extragiudiziali più rapide ed efficaci delle lungaggini giudiziarie che abbiamo visto non essere solo del nostro paese,  almeno nei casi citati.

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Vaso a figure rosse con orecchie

i limitiamo ad alcuni dati, sono 300 i militari formati da appositi corsi,  impegnati nelle attività ricordate,  in 15 nuclei e una Sezione per la Sicilia orientale, inoltre un Reparto Operativo -. con le sezioni Antiquariato, Archeologia, Arte Contemporanea, Falsificazione –  che coordina le indagini sul territorio nazionale e coopera a livello internazionale. Dipendenza gerarchica dal Comando generale dell’Arma, funzionale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, è il polo informativo e di analisi delle altre forze dell’ordine, quali Polizia e Guardia di Finanza, con cui collabora strettamente. Organizza corsi di formazione per le istituzioni interessate, in Italia e all’estero, dove sono molto richiesti, nel dar conto del Bilancio 2018 abbiamo fornito dei dati specifici in merito.

Vassoio a figure rosse

Ricordiamo anche come i successi ottenuti si debbano anche alla “Banca Dati dei Beni Culturali Illecitamente Sottratti”   chiamata Leonardo, costituita nel 1980, il cui database comprende oggi 1.200.000 beni culturali rubati con 615.200 immagini, numeri che danno la misura della vastità del fenomeno;  con uno speciale  algoritmo è consentito comparare le immagini e  scoprire se l’opera è tra quelle denunciate come rubate: non solo agli specialisti del Comando, ma anche a chi vuol accertare la liceità di una vendita  e può accedere dallo “smartphone” a una parte di tale database.

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Statua romana, grandezza naturale, all’uscita dalle sale espositive

Con la competenza acquisita e l’esperienza maturata in Irak e nel Kossovo è stata istituita la “task force”  “Caschi blu della cultura”  che interviene, sotto l’egida dell’Unesco – l’agenzia dell’ONU per la cultura – nelle aree del mondo in cui i beni culturali sono minacciati o colpiti da eventi bellici o calamità  naturali. Sono intervenuti dopo il terremoto del 2016 nell’Italia centrale, recuperando e mettendo al sicuro, con la Protezione civile e i Vigili del fuoco, oltre 30.000 “beni culturali mobili”.

Tra tali beni citiamo l’opera esposta in mostra, di Giovan Battista Tiepolo, “L’Apparizione della Madonna col Bambino a San Filippo Neri”, un dipinto monumentale della chiesa del santo a Camerino, recuperato dopo il terremoto e messo al sicuro.

“L’arte di salvare l’Arte” si applica anche  in queste circostanze,  nel contrasto alle minacce che provengono dalla natura divenuta ostile, come dall’essere umano divenuto nemico della legalità e del rispetto  dovuto all’arte, patrimonio dell’umanità da tutelare per le generazioni future.

I carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale hanno questo compito e lo svolgono nel migliore dei modi, con spirito di abnegazione, efficienza operativa ed efficacia nei risultati. Da mezzo secolo!

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“Triade Capitolina”. con Giove tra Giunone e Minerva, all’uscita delle sale espositive

Info

Palazzo del Quirinale, ingresso in via del Quirinale, all’altezza di via della Consulta. Da martedì a domenica, esclusi giovedì e lunedì, ore 10.00 – 16.00, ultimo ingresso ore 15.00. L’accesso alla mostra non comprende la visita al Palazzo del Quirinale ed è gratuito, previa prenotazione obbligatoria al costo di € 1,50, da effettuare on line sul sito http://palazzo.quirinale.it, o tramite Call Center, tel. 06 39.96.75.57, o presso l’Infopoint, salita di Montecavallo 15. Cfr, il nostro articolo citato nel testo, in questo sito “Carabinieri, la tutela del patrimonio culturale nel 1918” 6 giugno 2019; per i nostri articoli sulle precedenti mostre o presentazioni dedicate al recupero di opere d’arte, cfr. in www.arteculturaoggi.com: nel 2015, “Arte e Stato. Le acquisizioni mirate a Castel Sant’Angelo” 20 ottobre, “La galleria di acquisizioni a Castel sant’Angelo” 25 ottobre, “Arte e Stato. Anche l’arte Orientale a Castel sant’Angelo” 30 ottobre; 2014 “Archeologia, capolavori recuperati a Castel Sant’Angelo”” 8 giugno, 2013, Urne etrusche, 24 recuperate con 3000 altri reperti” 21 luglio, “Arte salvata nel 150° dell’Unità d’Italia” 27 luglio; in www.archeorivista, poi antika.it: nel 2014, Statua di Caligola 20 giugno, nel 2013, 24 urne etrusche 30 giugno, Archeologia a Castel Sant’Angelo 21 luglio; 2012, Bilancio 2011 21 gennaio, 2 statue e 200 reperti 22 gennaio, 200 reperti 12 giugno; 2010, Fossili libanesi con 200 milioni di anni 12 febbraio, Bilancio 2009 15 febbraio, Vanvitelli e Douguet 9 maggio (i siti appena citati di archeologia non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque sono a disposizione su richiesta).

Foto

Le immagini – ad eccezione della 1^, 10, 11,^ 12^, 16 ^ tratte dal sito palazzo.quirinale.it, e la 13^ dal sito comune.senigallia.an.it – sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori e i gestori dei siti citati, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono riportate nell’ordine dei commenti del testo, che ne cita solo alcune: gli oggetti preziosi e i rilievi e sculture, i dipinti e i crateri e vasi attici. In apertura, Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in visita alla mostra, dietro di lui semicoperto il ministro per i Beni e le Attività Culturali Alberto Bonisoli; seguono, “I Grifoni di Ascoli Satriano” IV sec. a. C., e un prezioso Codice miniato; poi, “Opus sectile” a mosaico con serpentino e porfido II sec. d. C., e una Statua di epoca remota; quindi, Scultura funeraria di Palmira, Siria e “Diana Cacciatrice”, copia di Bartolomeo Cavaceppi fine sec. XVIII; inoltre, Luca e Andrea della Robbia, “Madonna col Bambino, e un’opera salvata dal terremoto in Abruzzo; ancora, Andrea Mantegna, “Sacra Famiglia con una santa” fine XIV sec., e Cèzanne, “Le Cabanon de Jourdan” 1906; continua, Piero della Francesca, “Madonna di Senigallia” 1474, e Pietro Vannucci, il Perugino, “Madonna della Misericordia, con i santi Stefano e Girolamo, e committenti” 1512-15; prosegue, Vincent van Gogh, “Il Giardiniere” 1889, e Recipienti e altri oggetti d’epoca; poi, Eufronio, Cratere con “Sarpedon caduto”, fine VI-inizi V sec. a. C., dal Metropolitan Museum, New York al Quirinale, Roma, 1973-2019, e altri due Vasi attici, quindi, un altro Cratere di Eufronio e Assteas, Cratere, il ratto di Europa da Zeus in sembianze di toro; ancora, Vaso a figure rosse con orecchie, e Vassoio a figure rosse; continua, Statua romana a grandezza naturale, all’uscita dalle sale espositive, e “Triade Capitolina”. con Giove tra Giunone e Minerva, all’uscita delle sale espositive, in chiusura, Quirinale, il grande cortile con il loggiato nel giorno della presentazione della mostra.

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Quirinale, il grande cortile con il loggiato nel giorno della presentazione della mostra

Holliday, vacanze romane dall’inferno al paradiso, al Museo Bilotti

di Romano Maria Levante

La mostra “Frank Holliday in Rome” espone al Museo Bilotti, all’Arancera di Villa Borghese, dal 20 giugno al 13 ottobre 2019, oltre 30  dipinti  di grande formato,  alcuni monumentali, realizzati dall’artista americano a Roma nel  2016. Segue la mostra dell’aprile 2018 al MoMa di New York  sul “Club 57”, il locale newyorkese  dell’East Village  nel quale dal 1978 al 1983 si sono avute le prime espressioni controcorrente di Holliday e di altri artisti nella musica e nell’arte. La mostra, promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale, organizzata dalla Galleria Mucciaccia di Roma con i servizi museali di Zétema Progetto Cultura, è a cura di Cesare Biasini Selvaggi, che ha accompagnato l’artista nella visita guidata di presentazione della mostra. Catalogo bilingue italiano-inglese di Carlo Cambi Editore.

Magical Thinking”, con l’artista, Frank Holliday

Una mostra intrigante, che invita  ad andare “oltre”,  da diversi punti di vista. Il primo è tutto interno all’esposizione, e riguarda il modo di guardare le opere e soprattutto di interpretarle; avviene di frequente ma non nella misura e con l’intensità di questa mostra. Gli altri punti di vista riguardano le opere esposte e l’itinerario artistico e di vita del protagonista.

Immaginare per interpretare

Ci troviamo dinanzi a  tele a olio, l’autore dichiara che per il solvente si è ispirato alla pittura di Tiziano e aggiunge di usare “qualunque cosa che possa essermi utile per finire il lavoro”:  pennelli grandi   e stracci, spatole di metallo e anche le dita.  Sono dipinti spettacolari  accomunati  dal modo personalissimo di unire una serie di colori dalle tonalità più varie in composizioni dove forme indistinte sembrano fluttuare per essere poi risucchiate nel vortice cromatico. L’osservatore  è preso dalla forte sollecitazione visiva mentre cerca di dare una logica all’addensarsi e rarefarsi  delle macchie di colore che sembrano in continuo movimento, come le nubi in un cielo tempestoso. 

“Settembre”

I titoli  aggiungono la sfida  di interpretare il significato specifico della composizione inseguendo le vaghe somiglianze delle formazioni cromatiche a  forme intellegibili.  Ma sono soltanto il  motivo che ha sollecitato l’artista, poi l’impulso di partenza si è tradotto nella libera espressione  in cui non vi è più traccia dello spunto originario, anche quando la spinta iniziale ha accompagnato l’intera creazione, cosa improbabile allorché il tempo di realizzazione si protrae nel tempo, non trattandosi dell’immediatezza dell’”action painting” che da opera d’arte vira in “performance” .

L’artista rivela  come si svolge la fase creativa:  “Sto lì e  metto la pittura sulla tela, immagino ci sia un processo, ma non una formula. Ho l’impressione di ciò che voglio, ma devo trovarlo, guardarlo e scoprirlo nel momento stesso in cui  dipingo. Ci vuole molto tempo per costruire la superficie, la luce, il tempo, il colore e lo spazio”. Quindi conferma che non c’è immediatezza ma maturazione, però sempre  con spontaneità: “Vado a studio ogni giorno, ascolto i dipinti e prendo le decisioni nel momento in cui vengono alla luce. Non c’è un’unica soluzione, c’è molto da guardare  e da dipingere fino a quando, a un certo punto, il dipinto ha tutto e, allora, è concluso”.

“Elektron”

Così descrive l’effetto d’insieme il curatore Cesare Biasini Selvaggi: “La bellezza del colore controbilancia la solidità del gesto pittorico, in un susseguirsi di paradossi dove luci e ombre , cadute e ascese,  assenze e presenze diventano inscindibili”.

E  Carter Ratcliff analizza le onde cromatiche di singole opere  con l’occhio dell’osservatore che voglia “limitarsi solamente a crogiolarsi dinanzi a questi colori sontuosi, questi ricchi impasti e le sorprendenti modulazioni”. Ma non basta, perché “il quadro ci guarda mentre noi lo osserviamo”, e nel fare così ci trasmette un’emozione;  in fondo le “strisce e impennate” cromatiche sono i gesti del pittore,  “ricchi strati di colore verso la medesima alta tonalità di immediatezza. E di complessità”.

Infatti  è complesso, pur nell’apparente semplicità compositiva, percepire cosa c’è dietro la “miscela di elementi” che cambia ogni volta conferendo una diversa identità all’opera e rinnovando la sfida all’osservatore di prevedere quale delle masse cromatiche possa prevalere nell’alternanza dell’onda cromatica. “La tela non è soltanto un soggetto, bensì un surrogato della presenza stessa dell’artista”, quindi non è solo il racconto di un qualcosa che cerchiamo di decifrare con difficoltà dal momento che siamo nell’informale. Difficoltà  anche per trasmettere solo la sua emozione, dato che è difficile la sua permanenza  durante l’intero processo  di creazione dell’opera.

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“Faces in Golden Rays”

Quindi è inutile investigare, ma si può immaginare: ”I significati di un dipinto di Holliday sono quelli che creiamo  noi stessi quando osserviamo il suo mondo, impigliandoci nella sua scala, nel suo ritmo e nella grana – la consistenza della sua energia e dello stile raffinato delle sue modulazioni”. E allora ci potrà sembrare di vedere il gesto dell’autore, descritto in precedenza con le sue parole,  dietro le “strisce e impennate” cromatiche.

Ratcliff non si ferma a questa sensazione, si spinge più avanti: “La presenza dell’artista affiora man mano che si percepisce che ha un suo modo di occupare questo mondo pittorico che, in fondo, egli è questo mondo. E’ proprio questa unione tra artista e opera che ci porta  dichiarare che l’osservato osserva a sua volta”. E non è cosa da poco perché “evocare questa unicità  vuol dire attribuire a un’opera  l’incommensurabile complessità di una persona, un essere capace di  sentimenti infiniti – e infinitamente sfumati”.

I titoli delle opere  e l’espressione artistica

Cerchiamo di addentrarci in questa complessità cominciando dall’osservazione apparentemente più semplice e scontata: i  titoli che pone alle sue opere rispetto al modo con cui dà ad essi forma visiva. E’ solo una fase della nostra esplorazione, consapevoli che nell’informale non si può cercare la corrispondenza figurativa, ma soltanto delle tracce dell’ispirazione che ha dato il titolo; qualcosa che “rimane nella memoria” e quindi  può lasciare il segno nelle “strisce e impennate” cromatiche.

“Sunset Strip”

Guardiamo prima i cromatismi più luminosi con giallo dominante che vira nell’ocra, li  troviamo in “”Settembre” e “Magical Thinking”, “Elektron” e “Faces in Golden Rays”, “Sunset Strip” e “Yellow Jacket””, fino a “Medusa:  i “raggi dorati”  e le linee avvolgenti della “medusa”  si possono cogliere, ma è il colore con le sue modulazioni ad esprimere il contenuto. Per gli altri titoli rinunciamo all’interpretazione.

Dal colore altrettanto deciso, ma sul rosso, “Sizzle” e “”Phoenix Rising”, non si coglie il rapporto tra il colore e lo “sfrigolio” del titolo, mentre  la “resurrezione della fenice” può essere evocata dal passaggio cromatico, dal giallo e arancio al rosso finale.  Alla destra del dipinto la “vampata” rossa di Blaze” e il “rossore” di “Blush”, nel primo dopo una massa gialla e grossi filamenti ocra, nel secondo il resto ha un’intonazione neutra, pudore o vergogna? Anche in “Femme Fatale” c’è una macchia rossa a destra, vicina a una blu, poi l’intreccio compositivo può evocare la “donna fatale”. Il rosso ancora a destra, il bianco nell’angolo alto e i toni di giallo arancio in “Battle Cries and Champagne”, nell’insolito abbinamento  tra “grido di battaglia e champagne” . Nell’“Electric Eye”  il rosso, con le varianti  arancioni e gialle incombe sulla  parte del dipinto  in bianco-celeste.

“Medusa”

Le tinte chiare, tra bianco e celeste, sono più rare,  le troviamo in   “”Blu Angel “, due sagome vagamente antropomorfe in un  colore  celestiale sembrano evocare l’”angelo”,  in “”F”ountain Blue”, anch’esso con evocazioni peraltro quasi impercettibili della “fontana”, e in “Naked Doves”i “colombi nudi” sono evocati dal biancore  sulla sinistra, mentre a destra si ha un viola inconsueto.  

In White Petalstrionfa il bianco, i “petali” sono evocati ma non delineati dal viola sulla destra,  c’è molto bianco anche in Cold fire”, il “freddo” è nel celeste che trascolora nel bianco, il “fuoco” nel rosso e arancio in alto.  in Jump” il bianco-celeste sta al centro nelle figure fluttuanti nel “salto”  del titolo, tra pesanti masse scure. Il “cielo geloso” di Jealous Sky” lo vediamo solo nella parte destra in alto, il resto è in giallo-arancio e rosso. E’ in basso, tendente al verde, il cielo che si immagina in Wind of Others”, le “ali degli altri” sono visualizzate nelle forme ondeggianti nella parte superiore.

Ed ora i più scuri. Strisce marroni intervallate  da giallo e bianco-celeste in “Burning Desire”, diverso dagli altri dipinti per la verticalità delle strisce, mentre per lo più  il cromatismo è circolare e avvolgente; che sia il “desiderio bruciante”  a dare all’artista quest’altra direzione?  Verticalità anche in East Wind Skies”, nella perturbazione del “vento dell’Est”  che sconvolge i “cieli”. In “Cowboy”   la verticalità è meno spiccata, nelle forme pur confuse un qualcosa che evoca vagamente il titolo. Nelle  “Cascades”  è appena percepibile l’acqua che cade nei filamenti a sinistra, in True Berry” ci sembra misterioso anche il significato del titolo. Una grande massa scura  che scolora nel giallo fino a un bordo azzurro in “”Smoke and Mirrors”, l’interpretazione resta aperta, come in Treasure Ground”, anche qui masse scure che scolorano.   In “Bite and Chew” delle strisce concatenate evocano il “morso” e la “masticazione”.

Phoenx Rising”

Titoli molto espliciti nei due dipinti più grandi, addirittura monumentali: “Run Moon Run”, quasi 3 metri per più di 2, mostra la “corsa della luna”  nel passaggio dal biancore al blu-nero: dall’alba alla notte?  E  Nights of Tiber”, oltre 2,50 per 4,50 metri,  evoca le “notti del Tevere” non solo con il suo blu notturno, ma con le sagome che si intravedono. Sono le  notti dell’artista a Roma, nella lunga “vacanza romana” del 2016 nella quale ha prodotto tutte le esposte. Un lavoro gigantesco realizzato con una forte spinta interiore, forse è quella espressa da “Spark of Soul”, la “scintilla dell’anima” resa in una sinfonia di colori con immagini fluttuanti, quelle dalle quali evidentemente nascevano le sue ispirazioni.

Il soggiorno romano nel  2016 e lo spirito creativo

Questa esplorazione, che ci ha fatto entrare in contatto con gli enigmi di un mondo reso in un cromatismo magistrale  sostitutivo della forma nell’espressione compositiva,   ci porta  a volerne sapere di più del suo soggiorno romano. Ci aiuta il  recentissimo colloquio dell’artista con Anney Bonney nel quale, poco prima della mostra, nello scorso mese di maggio, rievocava quel  periodo.

“Blaze”

Sono le sue “vacanze romane”, in un straordinaria “residenza” personale così intensa  e feconda.  “Vivevo abbastanza da monaco. Lo studio era dietro una chiesa ed era stato ricavato da un vecchio box auto dalla capienza di una vettura. Era sprovvisto di finestre e io ci abitavo direttamente sopra”. Vediamo delle fotografie in mostra, compresa la bicicletta con cui si spostava, ci sembra tutto molto  povero, ma l’artista esclama: “Era bellissimo”.  Forse lo giudicava così perché  sapeva che nelle vicinanze aveva avuto lo studio Caravaggio, per di più di lì  poteva andare facilmente ad ammirare  le sue opere della Cappella  Contarelli  “che aveva più o meno le dimensioni del mio studio. Stavo in piedi davanti ai dipinti e mi lasciavo invadere dalla loro potenza e, poi, tornavo nello studio per continuare a lavorare”.   

Dal suo racconto lo vediamo come in “trance”: “Ero concentrato e assorbito mentre stavo in piedi davanti ai miei dipinti. Cercavo di intercettare la forza dell’arte che vedevo tutto intorno a me , dappertutto, nelle fontane, nelle strade e nelle chiese”.  La luce che pioveva dalle vetrate delle chiese  lo ha aiutato a  “scoprire come illuminare dall’interno”, è rimasto ammirato dalla “grandiosità del barocco”. Così, esclama, ”lo studio cominciò a trasformarsi in un calderone”.

“Blush”

 Ma non solo in senso cromatico ed espressivo, c’è qualcosa di più profondo. Già l’osservazione dei soffitti  affrescati, in particolare da Tiepolo, con “il loro spazio infinito e senza tempo racchiuso in una cupola fisica”  gli aveva  dato “la sensazione di essere senza peso, di fluttuare”;  in studio faceva “ruotare la tela sul muro” fino a raggiungere “ la sensazione di essere  senza peso, anche se la materialità del colore lotta  per ristabilire il predominio della forza di gravita”; lo stesso effetto, spiega, che Pollock raggiungeva dipingendo sulla tela posta a terra con una sorta di danza ispirata.

Di qui è venuta per lui la rivelazione: “Ho scoperto che ci sono tre zone: c’è il paradiso, che di solito è luminoso, arioso e senza peso – qualcosa che non possiamo avere, ma di cui possiamo farci un’idea. E poi c’è la terra. Quindi l’inferno. E l’inferno è la forza di gravità, che cerca sempre di aggrapparsi a noi per tirarci giù. E noi siamo incastrati tra i due”.  Da Bernini viene l’aiuto decisivo, lo definisce “geniale” perché nelle sue opere “si avvertono l’attrazione del peso della terra e la ricerca della spiritualità nella pietra. Nei miei dipinti affronto questo spazio intermedio artigliandolo e gattonando. Annaspo tra l’inferno e il paradiso, nel mezzo”.

“Battleground”

Così l’artista  ricorda  Roma  nel colloquio avvenuto nel suo studio newyorkese. E non poteva non pensare all’inferno, quello che ha attraversato in New York  dal punto di vista umano e non solo artistico, fino all’approdo nel suo “phoenix risng”,  che per noi è il “paradiso romano”.

L’itinerario artistico e umano, la morte  e l’inferno nella vita e nell’arte

Ma c’è un’ulteriore  esplorazione che va fatta per capire come l’artista parli di inferno e paradiso in modo così personale e intenso che non sembra trattarsi di metafora, quanto di vita vissuta. Possiamo farla attingendo alla miniera di  notizie contenute nella ricostruzione  quanto mai dettagliata operata del curatore Biasini Sslvaggi che fa rivivere i tempi eroici e tragici delle inquiete avanguardie “underground”  di cui Holliday ha fatto parte e le vie percorse dall’artista, molto diverse dalle forme espressive attuali. 

Fino al  2010, allorché  con “The Gold Gold”   vediamo apparire un cromatismo compositivo con dominante gialla del tipo di quello che vediamo nella mostra di Roma, dopo che nel 2014, con “Rumors” ed “Ever”  ha avuto altre espressioni cromatiche, culminate nell’azzurro  di “Fly Away”, quando l’artista spicca il volo, se ne avverte il senso di sollievo.   Il  2016, con la “total immersion” in una Roma così coinvolgente per lui, dà alla sua svolta un valore quasi liberatorio. Che risulta ormai permanente, stando alle composizioni dello stesso tipo, anche se in un cromatismo meno aereo e sfumato, realizzate dopo il ritorno a New York, nel 2017 e 2018.

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Da sin., “Femme Fatale” e “Battle Cries and Champagne”

Il suo percorso artistico  inizia con “la spontanea celebrazione dell’attimo”  per dare espressione allo “slancio vitale”  nell’accezione di Bergson, che ispirò la sua visione dall’inizio degli anni ’80, quando a New York  il suo studio era in una piccola stanza gelida divisa in due da una tenda nera perché lo condivideva con l’artista Carl Apfelschnitt; non potevano che derivarne  dipinti neri, “minimali”, come i “Black Mirror”, lo specchio che riflette l’immagine inquietante di se stesso.

E’  l’ora del “Club 57”, aperto nel 1978 nell’interrato di una chiesa nell’East Village,  culla delle avanguardie pop  e delle sperimentazioni nei più diversi generi artistici con le “drag performance”. Nel 1980 la doppia personale “New Paintings by Keith Haring and Frank Holliday”, Haring era stato suo compagno in un corso di semiotica alla School of Visual Art di New York; di Holliday, “Black Mirror” e  il polittico “TVC 15” ispirato alla canzone di David Bowie dello stesso titolo.

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“Bite and Chew”

E qui irrompe la vita in tutta la sua drammaticità: “I dipinti – osserva Biasini Selvaggi –  rappresentano una premonizione dell’AIDS  e della sua lunga ombra, ripristinando i valori materiali della pittura, ridefinendo  il disegno come parte del processo pittorico  e dimostrando di guardare già al di là del postmodernismo  per riacquistare la pienezza della pittura intesa come arte principale”.  Questo contro  “la dittatura di Clement Greesnberg”  – così intitolava la sua critica Kay Larson nel 1987 – le cui concezioni sull’arte priva di ogni contenuto avevano segnato la morte della pittura negli anni ’60, la paralisi dell’arte all’inizio degli anni ’70 e la reazione postmodernista.

Holliday passa dal nero al bianco,per sentirsi circondato dalla luce, ma con la metafora della morte: “Volevo trasmettere il senso di perdita e al tempo stesso di sicurezza e di pericolo” e, nelle parole del curatore, “il senso, cioè, della morte nella vita e della vita nella morte”.  Sempre nel “Club 57” si impegna nelle scenografie teatrali malvolentieri, “per me erano installazioni, ma furono liquidate come elementi scenografici”. Non era soltanto questa l’anomalia, “al ‘Club 57’ c’erano droghe e promiscuità: era una grande famiglia orgiastica”  ha ammesso Kenny Scharf, così non solo non poteva durare a lungo, tanto che chiuse all’inizio del 1983, ma i suoi frequentatori furono falcidiati dall’AIDS:  “Keith Haring è solo uno dei tanti artisti che morirono a causa del virus Hiv – ricorda Biasini Selvaggi –  Frank Holliday ne è, invece, uno dei pochi superstiti”.

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Da sin., “Threasure Ground” e East Wind Skies” 

In quegli anni la sua pittura aveva toni ossessivi, “erano un teatro della crudeltà, in cui la qualità del colore era espressionista, l’atteggiamento vero l’intero piano pittorico era formale,  e il proprio immaginario pervaso di morte, violenza e negatività. Scene prese dalla sua vita underground”.

Per questo forse anche ora parla di inferno, come abbiamo visto, descrivendo se stesso mentre annaspa nell’area intermedia che porta al paradiso. Allora ha raffigurato in modo metaforico nell’inferno e nella morte il crollo del suo mondo colpito dall’Hiv con la relativa riprovazione morale, e le tragedie dei tanti amici portati via dall’AIDS; ma è un sopravvissuto, quindi “la sua arte celebra tuttavia nello stesso tempo pure la vita, la gioia di vivere”.   

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”Run Moon Run” , 295 x 214 cm

L’artista va alla ricerca di una “poetica della pittura. Una poetica che raccogliesse argomenti ampi, come la memoria e la presenza, la morte e la vita, la dannazione e la resurrezione, la materialità e la trascendenza”, i temi che metaforicamente riaffiorano nell’evocazione di inferno e paradiso. In questa dicotomia artistica ed esistenziale convivono opere che nascono dall’“esplorazione”  di  grandi artisti, come Tiziano e Tiepolo, Caravaggio  e Van Gogh, Manet e Rembrandt, e opere  astratte come le immagini totemiche, i volti e i riflessi di “Wah-Wah”.

Alla fine  degli anni ’90 “la ricerca pittorica dell’artista è inghiottita da una sorta di horror vacui compositivo”,  nascono opere “claustrofobiche”, con “gli occhi degli amici morti dallo sguardo penetrante, in modo da generare una reazione psicologica inconsueta nello spettatore, agendo sul suo inconscio ed esprimendo il mondo interiore dell’artista, a partire dal suo emisfero affettivo più prossimo”.

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“Nights of the Tiber”, 266 x 457 cm

Dal puro astrattismo agli effetti psichedelici  con forme sgocciolate alla Pollock, sono gli ultimi fuochi prima della svolta che abbiamo già ricordato in precedenza citando “Gold Gold” del 2010, fino a “Fly Away” del 2014. Svolta che nelle “vacanze romane” del 2016 ha avuto la consacrazione più alta nell’arte e nella vita. Abbiamo visto l’artista illuminarsi quando gli abbiamo fatto notare come il Ninfeo dell’Aranciera di Villa Borghese – che nella mostra fa da scenario spettacolare alle  due opere monumentali – dà un significato  simbolico alle sue opere solari, evoca il  paradiso. Ha annuito con gioia, non solo a parole, la luce dei suoi occhi era più eloquente di ogni spiegazione.  

La pittura di Holliday, una cura dopo la malattia

Siamo tornati, così, alla mostra romana, e ci fa meditare la conclusione di Ratcliff:  “I flussi di  colore che inondano i dipinti di Holliday ricordano gli splendori che tutti riconosciamo perché, come lui, anche noi abbiamo sperimentato il senso di unione con loro. L’immediatezza e la penetrante energia con cui  l’artista presenta questi colori ci aiutano a immaginare un mondo ancora più intenso, più ricco di profondi significati di quello che conosciamo”. 

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Da sin,. “Sweet Blinness,”, “Cold Fire”, e “Wing of Others”

Il commentatore va oltre: “O forse sarebbe più esatto dire che ci dimostra, con l’esempio delle sue opere, come vivere più intensamente il nostro mondo di quanto siamo normalmente capaci”. Ma non ci indica una direzione, tutt’altro: “Se diventa proprio irrinunciabile ricavare un messaggio  da uno dei suoi dipinti, potrebbe essere questo: non c’è messaggio, non c’è morale della favola. Perché non c’è una storia, perlomeno non una con un inizio, uno sviluppo e una fine; si tratta piuttosto di un campo di inesauribili possibilità”. 

Ma forse  un  messaggio c’è, e  viene da un  artista la cui storia  ha avuto un inizio, uno sviluppo e un lieto fine nell’approdo romano, mentre  il “campo di inesauribili possibilità”  aperto per tutti, e anche per lui, oltre a un messaggio è una speranza che aiuta a vivere.

Proprio per questo ci permettiamo di invitarlo a rivedere il suo motto “Painting is a disease or a curse”  togliendo la “s”  a  “curse”, maledizione, trasformandola in “cure”, cioè cura. Ebbene, crediamo che per lui “la pittura è una malattia o una cura”, anzi  è stata entrambe le cose nella successione degli eventi della sua vita. Comunque,  dopo le “Roman Holliday” del 2016 ci sentiamo di dire che ha cessato di essere una maledizione. Ed ora può affermare di sentirsi “libero di essere dannato e carino quanto serve, di fluttuare, di cadere e rialzarmi allo stesso tempo”.  E’ la prova che la cura è stata efficace, eccome!

Un angolo dell’esposizione

Info

Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese, Via Fiorello la Guardia 6, Roma. Da martedì a venerdì e festivi ore 13,00-19,00  (ottobre-maggio  ore 10-16),  sabato e domenica  10,00-19,00; lunedì chiuso; ingresso fino a mezz’ora prima della chiusura). Info 06.06.08, www.museocarlobilotti.it, www.museiincomune.it.  Catalogo “Frank Holliday”, a cura di Cesare Biasini Selvaggi, Carlo Cambi Editore, giugno 2019, pp 216, formato 24,5 x 28,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli sull’arte americana: in questo sito, “Lachapelle, l’artista scenografo con nuove opere, alla Galleria Mucciaccia” 24 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com nel 2015: “Lachapelle, la fotografia da set teatrale al Palazzo Esposizioni” 12 luglio; nel 2014: “Warhol. L’artista totale del XX secolo, alla Fondazione Roma” 15 settembre e ”Warhol. Tra la quotidianità e il mito, alla Fondazione Roma” 22 settembre; nel 2013: “Empire, l’arte americana oggi al Palazzo Esposizioni” 31 maggio; nel 2012: sul Guggenheim: “Il museo mecenate dell’avanguardia artistica americana” 22 novembre, “Dall’espressionismo astratto alla Pop Art” 29 novembre, “Dal Minimalismo al Fotorealismo” 11 dicembre; vi si trovano inoltre molti articoli sugli artisti citati nel testo in riferimento a Holliday.

Immagini

Le immagini delle opere di Frank Holliday, tutte del 2016, sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo Carlo Bilotti alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti – in particolare l’artista, anche per essersi fatto riprendere su nostra richiesta vicino a una sua opera – per l’opportunità offerta; la foto di chiusura del Ninfeo è tratta dal sito web “culture future.net”, si ringraziano i titolari. In apertura, “Magical Thinking”, con l’artista, Frank Holliday; seguono, “Settembre” ed “Elektron”; poi, ““Faces in Golden Rays”  e “Sunset Strip” ; quindi, “Medusa” e “Phoenx Rising”; inoltre, “Blaze” e “Blush”; ancora, “Battleground” e ” “Femme Fatale” con “Battle Cries and Champagne”“; continua, “Bite and Chew” e “”Threasure Ground” con “East Wind Skies” ; prosegue, ”Run Moon Run”, 295 x 214 cm, e “Nights of the Tiber”, 266 x 457 cm infine.“Sweet Blindness” con “Cold Fire”, più “Wing of Others“, e un angolo dell’esposizione; in chiusura, il Ninfeo dell’Aranciera di Villa Borghese  visto dall’interno del salone con le opere monumentali.

Il Ninfeo dell’Aranciera di Villa Borghese visto dal salone con le opere monumentali

Aftermodernism, Husby e Samson alla Galleria Mucciaccia

di Romano Maria Levante

La  mostra “Aftermodernism. A perspective on Contemporary Art. Chapter 1. – James Busby-Justin Samson”, alla Galleria Mucciaccia di Roma dal 9 aprile al 29 giugno 2019  espone 25 opere dei due artisti nell’ambito della collezione di Hurbert Newmann, grande rabdomante di talenti  che ha segnato il passaggio nell’arte dalla dimensione modernista dell’opera “chiusa” a quella non-modernista dell’opera “aperta” cui ha dato l’efficace definizione di “aftermodernism”. Curatore della mostra Cesare Biasini Selvaggi, catalogo bilingue italiano-inglese di Carlo Cambi Editore.

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James Busby, da sin,. “Ocean Eyes”, “Sweep” 2018 e “Sweet Sun”, 2019

Il grande collezionista Newmann, arte “aperta” contro le “chiusure”

La mostra non si limita ai due artisti di cui è esposta una selezione di opere, ma fa piena luce sui movimenti che si agitano intorno all’arte contemporanea e trovano nel grande collezionista Hubert Newman un innovatore forte delle sue intuizioni nell’individuare tra i tanti artisti conosciuti e frequentati quelli dalle potenzialità nascoste che sarebbero esplose. In questo figlio d’arte, per così dire, dato che il padre  Morton agli inizi del ‘900 a Parigi frequentava giovani artisti allora sconosciuti ma che apprezzava; basta citare alcuni nomi per ammirare il felice intuito del collezionista di allora, imprenditore nel campo della cosmetica, si tratta di Picasso e Braque, Mirò e Giacometti. 

Con un simile genitore, agli inizi degli anni ’50 Hubert diventa collezionista seguendo lo stesso principio di seguire giovani sconosciuti nei quali percepiva il talento. Il curatore Cesare Biasini Selvaggi, profondo conoscitoredel mondo artistico americano nel quale è molto addentro,  riporta quanto gli ha detto Newman su questo principio, nel corso di un incontro nella sua residenza all’Upper Side di New York: “Tutta la collezione si basa sull’idea  di comprare opere non ritenute importanti e sottovalutate  dal sistema dell’arte al momento della loro realizzazione”.  Nacque così anche il Guggenheim, con un approccio che a parte l’aspetto economico ha la veste di un mecenatismo “sui generis”.

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James Busby, “Diamonds and Gasoline”, 2019

Ma seguiamo le confidenze a Biasini Selvaggi: “Mio padre ed io sapevamo che gli Espressionisti Astratti si ritrovavano a Ney York. Frequentammo diversi incontri al 9th Street Club, come anche al Cedar Bar. Era quella la scena artistica. La domenica pomeriggio gli artisti si incontravano  al ristorante all’ultimo piano del Museum of Modern Art. Eravamo attratti da Franz Kline, nonostante molti ne denigrassero i lavori perché non erano colorati  e perché utilizzava vernici da edilizia. Franz faceva molta fatica a vendere le sue opere”.  Risultato: acquistano un grande dipinto per 1000 dollari, in 4 rate di 250 dollari perché Kline non li spendesse subito in alcolici, poco dopo vinse un premio di 3.000 dollari, “e questo ci rese molto felici”,  sentimento suscitato più che dal vantaggio economico dal successo di un artista sconosciuto ma da loro apprezzato.  Anche Giacometti entrò nella loro collezione quando “le sculture di questo artista geniale” non avevano il riconoscimento meritato e poi ottenuto come espressione dell’esistenzialismo.

La capacità di sentire lo spirito del tempo, lo “Zeigest”, è stata alla base dell’attività collezionistica della coppia Morton-Hubert in passato, e di Hubert negli ultimi 30 anni, con il nome di “Aftermodernism”  dato alla tendenza percepita negli artisti  selezionati.

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James Busby, “Gold Panda”, 2019

Qual è questo spirito? Lo spiega Biasini Selvaggi: “Il collezionista Hubert Newmann crede che la migliore arte prodotta oggi rifletta la cacofonia , l’asimmetria e l’indeterminatezza della nostra società”.  Che non trova espressione nell’arte tradizionale, anche modernista,  le cui opere vanno “intese come oggetto con un’identità estetica, formale o materiale rigida, definita una volta per tutte, suggerendo così un mondo di valori altrettanto coerente, ordinato e univoco”, la “dimensione della chiusura”.  “Ma se si guarda al tempo attuale – sono parole di Newmann – con Internet, che è probabilmente il maggiore traguardo conseguito dall’uomo, ci si accorge che l’opera d’arte contemporanea soggiace, invece, a tali fattori di variabilità da essere diventata sempre più aperta , un campo di possibilità senza precedenti”.

Apertura equivale a indeterminatezza e variabilità, come nelle sculture riflettenti di Koons che offrono osservazioni sempre diverse  ogni volta che cambia il riflesso: “Non è possibile cogliere, pertanto, alcuna chiusura nell’opera/dell’opera che, infatti, non si presenta mai identica a se stessa”, precisa Newmann.  Questo dà un ruolo attivo all’osservatore nel considerare l’opera in modo del tutto personale con visioni diverse del tutto asimmetriche che possono divergere dalla stessa interpretazione di base dell’autore.  Biasini Selvaggi commenta: “Tuttavia, è opportuno chiarire, nessuna delle molteplici forme che assume può essere considerata ‘migliore’ di un’altra o più vicina ad esprimere l’essenza dell’opera. Il concetto di apertura riguarda infinite nuove idee anche in altri ambiti di ricerca, dalla filosofia alla matematica, dal cinema all’architettura, dalla musica alla letteratura”. Nella stessa direzione la fotografia astratta, che contesta la “chiusura” dell’immagine in un preciso momento, per immagini “aperte” alle continue modificazioni della realtà, come nelle opere del fotografo-artista De Antonis passato all’astrazione.

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James Busby, “Get Low”, 2019

Il curatore non a caso cita le altre discipline, perché Newmann  è stato sempre consapevole che una civiltà è definita dalla propria filosofia, scienza e arte,  in rapporto tra loro.  E proprio dall’evoluzione del pensiero filosofico,  matematico e scientifico rispetto alla nascita di nuovi linguaggi visivi  è nata in lui la percezione della “rottura”  rispetto al passato  e l’interesse per gli artisti con orientamento “post-moderno”, quindi nell’ottica dell’”aftermodernism”.

Le mostre “The Incomplete” con artisti di “rottura”

E’ una sigla che nasce nel 2013, mentre la percezione della “rottura” risale al 1985, tradotta in un’attività collezionistica  coerente, con la scelta  di artisti operanti in contrasto con l’estetica modernista. Ma, una volta messo insieme un vasto assortimento di artisti ed opere del nuovo corso,, il collezionista diventa anche organizzazione e curatore di mostre innovative dell’arte “aperta”.

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James Busby, “Simple Song””, 2019

Tra l’ottobre 2007 e il gennaio 2008  la mostra al Chelsea Art Museum presenta, oltre a 5 artisti già noti, altri 30, Newmann sostiene che non è indirizzata al mercato ma  fa conoscere “opere d’arte che rispecchiano la nostra nuova società aperta”. Dopo aver dichiarato che  “rispecchia alcuni concetti filosofici particolari, quali la lacuna, gli antagonismi, la sottrazione, la molteplicità discordante”,  ammette subito dopo che “di primo acchito, la presentazione potrebbe disorientare un po’. E’ certamente un’esperienza complicata”.  Per questo si rivolge così  al visitatore: “Inizia pure dove ti pare e la comprensione dovrebbe crescere man mano. Cerca di considerarla come una rampa di lancio”. E conclude: “Ci auguriamo che il pubblico che verrà alla mostra possa considerarla l’inizio di una lunga indagine sul momento”. Un messaggio che riteniamo valido per ogni esposizione di arte contemporanea, perché il visitatore anche se è disorientato deve sentirsi nello stesso tempo stimolato a capire. La mostra ebbe nel 2010 una trasposizione europea, a Parigi con 29 artisti e 45 opere.

Titolo delle due mostre “The Incomplete”, per trasmettere il senso di incompiutezza delle opere, in quanto “aperte”; ma presto Newmann si accorse che il nuovo corso non poteva restare incompiuto. Così utilizza il  termine “Aftermodernism” che pur nella sua definizione almeno temporale, aveva pur sempre  una doppia indeterminatezza, come rivela a Biasini Selvaggi: La prima:  “Lo trovo suggestivo perché, attraverso la sua natura ambigua, oppone resistenza alla dimensione di chiusura. E’ ambiguo in primo luogo perché la preposizione after ha due significati [dietro e dopo , n.d.a]”; la seconda: “Inoltre, il concetto di modernism (modernismo) nessuno sa bene cosa sia con esattezza. Alcuni sono arrivati persino alla conclusione che il modernismo non sia mai esistito”.

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James Busby, “Always Alright”, 2019

L’Antimodernismo si presenta con una trilogia espositiva

Nel 2013 e 2014  “Aftermodernism”  diventa il titolo di tre mostre successive al Nassau Country Museum of  Art di New York. La prima, con AM  premessa alla fatidica parola, da giugno a ottobre del 1913,  con 5 artisti di cui viene sottolineata la “policromia” e la combinazione di “elementi tanto astratti quanto figurativi in modalità nuove e innovative”.

 La seconda, da ottobre  a febbraio 2014, presenta 19 artisti, di cui 4 della mostra precedente, tra loro anche Justine Samson dell’esposizione attuale, di cui  diremo più avanti. Le opere su carta, bozzetti, appunti, studi preparatori,  cui è riservata la mostra, per loro stessa natura ne accentuano il carattere personale e asimmetrico e  rendono così  l’immediatezza dell’espressione.

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James Busby, “One Red Thread”, 2019

Solo 3 artisti nella terza mostra dal marzo al  luglio 2014, tra loro James Busby, le cui opere, di cui parleremo,  sono esposte alla Mucciaccia con quelle di Samson. Biasini Selvaggi commenta: “Le loro opere illustrano il concetto chiave che anima ’Aftermodernism, quello cioè di visioni artistiche fratturate, asimmetriche, e portano questo nuovo linguaggio verso territori inediti , abbracciando tutto lo spettro dal neo-oggettivismo  al realismo più spinto, senza mai rinunciare all’importanza dell’astrazione”. Questo significa che nelle loro opere,  “in una nuova morfologia di arte minimalista” si può trovare “in modi spesso inediti e  innovativi  la sintesi tra l’astrazione e la figurazione, tra linguaggi iconici e anticonici”.

Un decisivo  passo in avanti nel 2016, dopo la trilogia espositiva terminata due anni prima. Viene aperta  nell’Upper Side a New York una nuova galleria d’arte contemporanea, la Newmann Wolfson Art, da due collezioniste, una delle tre figlie di Hubert Newmann, Belinda, e una delle organizzatrici della trilogia espositiva dell’”Aftermodernism” al Nassau Centrum, Alisdon Wolfson. Addirittura la galleria è dedicata agli artisti “accomunati dalla ricerca di una nuova visione del mondo attuale”. Così, tra luglio e settembre dell’anno di apertura della galleria, subito una collettiva di 33  pittori e scultori, intitolata “AftermodernisM in the Hamptons”, presentata con parole che riecheggiano quelle di Hubert Newmann: “ Viviamo in un mondo frammentario e incoerente. Pertanto è fondamentale prendere in esame questo filone della ricerca artistica contemporanea che riflette questa assenza di organicità e sistematicità”.

Tale frammentarietà si riflette sull’osservatore, al quale l’artista presenta un’opera “aperta” suscettibile di una visione molteplice personale: “Dove ogni fruizione è così un’interpretazione e un’esecuzione poiché in ogni fruizione l’opera d’arte rivive in una prospettiva originale”.

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Justin Samson: “Gegenschein”, 2012

La casa-museo di Newmann e l’accordo con la Galleria Mucciaccia

La figlia di Hubert, dunque, continua l’opera del padre, che ha messo insieme una collezione di oltre 2.600 opere, con capolavori del Cubismo e dell’Espressionismo, dell’Astrattismo europeo e americano, della Pop Art e altre correnti, troviamo anche Picasso e Mirò, Kandisky e Giocometti, oltre a Rauschenberg e Liechtenstein, Haring e Basquiat.

Un ventesimo di queste opere è nella sua residenza newyorkese – 5 piani in pietra calcarea nell’Upper East Side –  che  Biasini Selvaggi descrive  dopo una visita al collezionista concludendo con queste parole: ”Un’esposizione fluida orizzontale, eternamente presente, pertanto, quella di questa casa-museo, in cui l’arte moderna  contemporanea  è offerta alla vista come un intreccio di suggestioni divaricabili quanto intercambiabili, in una galassia di opzione ready-made che veicolano altrettanti messaggi ready-made, esito di una visione del tutto personale…”. E anche “opinabile”, come è giusto che sia.

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Justin Samson, “Gegenschein # 22”, 2012

Si comincia con James Busby e Justin Samson, che hanno esposto  nelle due mostre di “Aftermodernism”  del 2014 e nella mostra “The Incomplete” del 2007, sono presenti nelle stesse collezioni di New York, le due Newmann ovviamente e Museum of Modern Arts, Minneapolis e Miami, fino ad una collezione di Atene. Di entrambi un gran numero di mostre collettive a partire dal 2001; ne abbiamo contate oltre 50 per Busby e oltre 80 per Samson, mentre per le personali il rapporto si inverte, 20 per Busby e 8 per Samson. Interpretano l’”Aftermodernismo”  con delle  notevoli peculiarità nell’impostazione e delle evidenti differenze nei materiali utilizzati e nell’uso particolare che ne fanno, come vedremo descrivendo la personale abbinata, con 10 opere di Busby e 15 di Samson.

James Busby, il lavoro sui materiali

L’”Aftermodernismo” di Busby, nato nel 1973 e operante in South Carolina, viene così descritto da Biasini Selvaggi: ”L’ambivalenza tra  scultura e pittura è sempre stato un catalizzatore dei suoi lavori. La qualità riflettente della grafite che impiega in abbondanza altera la percezione  dello spazio, richiedendo  allo spettatore di muoversi. Le opere, infatti, suggeriscono un numero pressoché infinito di esperienze,  ogni qual volta un riflesso cambia”. Proprio la caratteristica primaria dell’”Aftermodernismo” con al centro il fruitore nelle molteplici visioni che può avere dai mutevoli punti di vista dati dai riflessi cangianti.

Il curatore va oltre: “Il traguardo per l’artista è quello di  condurre lo spettatore alla consapevolezza dell’irrealtà del mondo, del suo carattere transitorio e, in qualche modo, arbitrario, in perfetta armonia con l’insaziabile ricerca  di un linguaggio inverosimile e, a sua volta, di un’apertura a sogni esaltati”.

Li vediamo nei titoli, “Ocean Eyes”, con gli “occhi dell’oceano” in una miriade di fori su una superficie argentata, e “One Red Thread”, il filo rosso delineato in alto  sopra due forme triangolari giustapposte;  Sweet Sun, il “sole dolce” nella macchia gialla in basso a sinistra a fronte di due masse nere che tendono a congiungersi, e  “Sweep”,  la “spazzata” forse evoca il bisogno di pulizia nei tre semicerchi bianchi in fondo alla superficie nera solcata da segni chiari, “Diamonds and Gasoline” , “Get Low” e “Always Alright” , tre dischi  gemelli con diversi segni cromatici e vibrazioni, “Gold Panda”, il bianco-nero del simbolo del rischio di estinzione, sia pure a strisce, evocato dal titolo, con il giallo dell’oro, e Slow Burn”, la “bruciatura lenta” in uno stick sottile nero, dala punta gialla e nera. MentreSimple Song”, il “semplice canto” è reso con una forma nera con riflessi verdi che evoca un profilo.

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Justin Samson, “Acropolis on Pergamon”, 2016

I singoli titoli  non sempre aiutano nell’interpretazione, forse sono il motivo di partenza, come abbiamo visto nella mostra attualmente in corso al Museo Bilotti, su Frank Holliday, ma poi l’artista è preso da altre  sollecitazioni. A differenza  di Holliday, nel quale domina il cromatismo, qui sono i materiali ad avere la prevalenza su qualunque altro elemento. E, si badi bene, non solo i materiali utilizzati, ma la lavorazione cui sono sottoposti.

Sono compresenti nelle opere appena citate gesso e grafite, olio e acrilico nella pittura spray su legno, utilizzati con un’estrema attenzione alla fattura, lo spiega il curatore: “Il suo rigore esecutivo ricalca  lo stesso processo della scultura, perché si compie per sottrazione. Anche se la superficie finale dei suoi lavori sembra liscia e del tutto finita, molte volte rappresenta l’esito di una costante pratica decostruttiva. Allo stesso modo di un disegno  che passa per diverse fasi di cancellatura”.

Le fasi di realizzazione  sono molteplici, dalla sovrapposizione di  strati di gesso, uno al giorno perché si devono asciugare,  alla levigatura e alla lucidatura, con attrezzi artigianali, che determinano l’effetto riflettente, fondamentale per l’”Aftermodernismo”, senza uso di vernici, ma con ore di lavorazione; completa l’opera la pittura spray su fogli acrilici e l’inchiostro, il tutto in dimensione tridimensionale. Per i tempi di attesa porta avanti più opere contemporaneamente che vedranno la luce al termine del processo.

Le opere vanno  considerate in modo unitario, come del resto sembra suggerire il curatore: “L’intervento dell’artista si disloca nello spazio secondo la misura rigorosa,  eppure libera, delle sue sequenze che danno vita nel loro insieme a un’unica installazione in cui ciascun elemento è legato e rimanda al successivo”.

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Justin Samson, “Inhabitant” , 2018

James Samson, cromatismo e collage nella nuova pittura

Se i materiali sono l’elemento distintivo delle opere di Busby, il cromatismo lo è per le  opere di Justine Samson, classe 1979, dal Connecticut. Artisti in famiglia,  zio e nonno  pittori, sin da piccolo vissuto tra tele e colori, frequenta l’Istituto d’arte, la considera la sua vocazione, ammira i Fauves e Derain. Ma nell’adolescenza la passione per la musica punk e per le idee politiche del movimento lo prende, e anche di recente, ha confidato al curatore, ha riascoltato  quei gruppi.

“Il suo modo di fare arte – spiega Biasini Selvaggi – e le conseguenti modalità di esposizione, mantengono tracce indelebili della cultura del fai da te e della filosofia antisistema del movimento punk”. A questo si aggiunge l’influsso anche delle altre forme musicali, dal Jazz alle più sofisticate, con il concetto di “opera aperta”  che attinge alle varie discipline in modo libero, fuori dai tabù, anche quelli delle avanguardie, compreso quello del linguaggio che, nel suo caso, porta al recupero della  pittura rifuggendo dalle suggestioni della tecnologia.

Recupero ma nel rinnovamento, perchè “i meccanismi del colore non sono stati ancora sfruttati a fondo. C’è, insomma, ancora molto da inventare,  a partire dalla  contrapposizione dei medium più contrastanti (olio e acrilico, vernice spray, ecc)”. Il curatore descrive  così i risultati: “I suoi sono combine-works in cui la sovrapposizione eclettica di supporti, l’assemblaggio di materiali irrituali, o lo strano accostamento di immagini ritagliate e incollate direttamente… e l’effetto rappresentano una modificazione del medium pittorico, di cui non si riesce, infatti, ad averne una percezione chiusa definita, compiuta”.

Guardiamo le opere esposte per verificare un’operazione artistica collegata all’immagine di società incompiuta e “indefinita” della società contemporanea come è stata percepita da Newmann – lo si è visto all’inizio – e tradotta in opere dai suoi artisti, da Samson in lavori soprattutto pittorici.

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Justin Samson, da sin., “Farvieewer” ,2914 e
“Feltzen on the Rhine”, 2019

La sua nuova pittura utilizza  gli oli e acrilici su tela, ne  vediamo esposte delle serie molto colorate, a differenza di Busby, con dei titoli dichiaratamente esplicativi.

Nella prima serie, del 2018,  abbiamo 6 dipinti di piccole dimensioni, 42 per 35 cm, con piccole figure di vario tipo ritagliate e incollate su fondi a tinta unita,  gialla e blu, rossa e verde. I titoli sono descrittivi di situazioni illustrate dai ritagli figurativi: An Essay on the Picturesque” e A Description of  the Scenery of the Lakes  in the North”, “Interior of Tintern Abbey”   e “Frost at Midnoght”,  “A Description of Keswick” eShe Dwelt among the  Untrodden  Ways.

Molto più grandi 4 opere, con sovrapposizione di supporti, evidente in “Gegenschein”, 2012, e “Acropolis of Pergamon”,  2016, quasi 2 metri per lato, mentre in A Farmhouse near the Water’s Edge”, 2016, e “Gegenschein #22”, 2012  metri 1,30-40 per 1,10 tornano i comparti.

Un’altra serie presenta dipinti verticali, con diversi comparti, che ci ricordano alcune opere di Sergio Ceccotti, come  “Avventura e mistero” e “Scena notturna”, del 1966-68. per la divisione in comparti  con scene di vita, soprattutto Inhabitants”, 2018, lo accostiamo a Ceccotti, pur nella radicale differenza nella rappresentazione, qui nessuna pistola ma volti e oggetti ritagliati; mentre in Farviewer”,  2014, e “Feltzen on the Rhine”, 2019,  nei comparti vi sono figure geometriche dai colori brillanti fortemente contrastanti.

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Justin Samson, “Time and Space #13”, 2011

Questo viene esaltato nel “quadro-scultura” “Time and Space #13”, 2011, con molti materiali, dal legno  alla stoffa fino alla pelliccia sintetica, ma quello che spicca sono i cerchi rosso e blu, il triangolo rosa su uno sfondo che va dal giallo al rosa, dal verde al blu, netti e intensi, quasi un’installazione.

Una vera installazione campeggia all’ingresso della mostra, nel centro della prima sala, Gemini 1”, 2018, c’è il cerchio azzurro in un’alzata  con intense macchie cromatiche, molto spettacolare.

Un “tourbillon” di sensazioni resta negli occhi del visitatore, immagini staccate che si sovrappongono. Forse per questo Biasini Selvaggi conclude che “non è possibile ricordarsi dell’opera, di come sia,  una volta che si smette di guardarla”. 

Ma non è un dato negativo: “Viviamo in una società incompiuta e questa sua mancanza di definizione o di chiusura  nella sua leggibilità si riflette in un campo di possibilità senza precedenti su cui insistono tutti gli aspetti della nostra vita, che nutrono e perpetuano quell’organismo in continua mutazione che è diventato il mondo dell’arte contemporanea”.

Lo vedremo nelle prossime mostre sull’”Aftermodernism” previste nel programma concordato dalla Galleria Mucciaccia con il grande collezionista  Hubert Newmann; ora abbiamo avuto il “1° Capitolo.

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Justin Samson, “Gemini 1”, 2018

Info

Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella Borghese 89, Roma Da  lunedì a sabato, ore  10.00 – 19.30; domenica chiuso Tel.  06 69923801, segreteria@galleriamucciaccia.it| www.galleriamucciaccia.com. Catalogo “Aftermodernism, a Perspective on Contemporary Art – James Busby – Justin Samson” “, a cura di Cesare Biasini Selvaggi, Carlo Cambi Editore, aprile 2019, pp. 74, formato 17 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli sull’arte americana: in questo sito, “Lachapelle, l’artista scenografo con nuove opere, alla Galleria Mucciaccia” 24 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com nel 2015: “Lachapelle, la fotografia da set teatrale al Palazzo Esposizioni” 12 luglio; nel 2014: “Warhol. L’artista totale del XX secolo, alla Fondazione Roma” 15 settembre e ”Warhol. Tra la quotidianità e il mito, alla Fondazione Roma” 22 settembre; nel 2013: “Empire, l’arte americana oggi al Palazzo Esposizioni” 31 maggio; nel 2012: sul Guggenheim: “Il museo mecenate dell’avanguardia artistica americana” 22 novembre, “Dall’espressionismo astratto alla Pop Art” 29 novembre, “Dal Minimalismo al Fotorealismo” 11 dicembre. Per Ceccotti e l’artista-fotografo citato nel testo: nel 2018: “Ceccotti, la “finestra sul cortile” e il “rebus” nella pittura, al Palazzo Esposizioni” 26 settembre; nel 2016: “De Antonis. Nella fotografia astratta un nuovo realismo” 19 dicembre, “De Antonis. Dai ritratti classici alla fotografia astratta” 25 dicembre. Ci sono molti articoli, dal 2012 in poi, sugli artisti della collezione citati nel testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Mucciaccia, si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 7 immagini ritraggono opere di Busby, tutte del 2019 meno una espressamente indicata; le successive 8 opere sono di Samson, in varie date. James Busby: in apertura, “Ocean Eyes”, con “Sweep” 2018 e “Sweet Sun” ; seguono, “Diamonds and Gasoline” e “Gold Panda”; poi, “Get Low” e “Simple Song””; quindi, “Always Alright” e “One Red Thread”. Justin Samson: “Gegenschein” e “Gegenschein # 22” 2012; poi, “Acropolis on Pergamon” 2016, e “Inhabitant” 2018; quindi, “Farvieewer” 2914, con “Feltzen on the Rhine”2019; inoltre, “Time and Space #13” 2011, e “Gemini 1” 2018; in chiusura, “An Essay on the Picturesque””, con “Interiorr of Tintern Abbey” e “A Description of Keswick” , del 2018.

Justin Samson, da sin., “An Essay on the Picturesque””, “Interiorr of Tintern Abbey” e
“A Description of Keswick” tutte del 2018