De Chirico, trilogia I – 7. Neometafisica e pittura antica, termina il “Film” di Fabio Benzi

di Romano Maria Levante

La 7^ e ultima  puntata del  “Film” di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera” – così definito da noi  anche per le immagini che come “fotogrammi” accompagnano l’accurata ricostruzione del monumentale libro  – è il coronamento di una storia movimentata e appassionante, anche per come è ricostruita e scritta: non solo un saggio molto ben documentato ma il “Film della mia vita”, direbbe il Maestro. Dal punto di vista esistenziale, i molti trasferimenti e viaggi in Europa e in America, con le due guerre, e dal punto di vista artistico l’evoluzione  e i ritorni dalla prima Metafisica con la variante “ferrarese” al  classicismo e  “romanticismo”, dal surrealismo all’aspra rottura con il suo alfiere e l’approdo al classicismo mediterraneo con gli archeologi e i gladiatori, poi  il teatro e le nuove forme di classicismo moderno fino alla Metafisica del mondo nuovo e il periodo della guerra.

“Piazza d’Italia” , 1926-27 ca.

Per comprendere appieno l’arte di de Chirico e interpretare le vicende non solo artistiche in cui è stato coinvolto, va ricordata la sua vena di letterato attento, con cui  teorizzava le proprie creazioni, quindi entrando nel vivo del dibattito tra i critici, lui artista; e la vena di polemista agguerrito, ironico e graffiante.

La “ripetizione differente” della prima Metafisica

Nella vicenda delle repliche della sua prima Metafisica, dopo quanto abbiamo già ricordato in precedenza, ci sono ulteriori sviluppi nei decenni successivi. Ripetiamo che inizia nel 1924 con la replica di “Le Muse inquietanti” , per Breton, il capofila dei surrealisti che insisteva nella richiesta  apprezzando molto la Metafisica, pur negandolo poi, in una ritrattazione su cui si basò per attaccare violentemente il Maestro con l’accusa di falso quando lasciò la Metafisica per il Classicismo. Fu la prima replica identica,  anche se “con una materia più bella e una tecnica più conforme”;  prima  era tornato su temi consueti con dipinti che replicavano titoli come “Il figliuol prodigo” e “Trovatore”, “Il filosofo” ed “Ettore ed Andromaca”, ma  del tutto rielaborati; seguono, negli anni ’20,  poche  altre varianti di soggetti metafisici.

Intanto la feroce polemica con Breton,  che lo definiva “un morto che copia se stesso” gli diede un ulteriore stimolo per la svolta classicista – condannata dall’alfiere del surrealismo sebbene avesse aspetti surrealisti – in cui entravano il sogno e l’inconscio in una visione moderna con tracce di tecnica “all’antica”.

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“Il figliol prodigo”, 1922

“Poi, dopo la terribile crisi economica del 1929, quando il mercato si fa rarefatto e l’artista non vende più la quantità di dipinti che fino a quel momento gli era stata richiesta (e che persino faticava a soddisfare) probabilmente ritorna a meditare sulla convenienza di rifare i suoi dipinti metafisici, che avevano comunque un mercato più attivo”.  Sono parole di Benzi, ad ulteriore dimostrazione che la ricostruzione dell’esponente della Fondazione Giorgio e  Isa de Chirico è totalmente fedele e per nulla edulcorata nel punto forse più controverso di una storia gloriosa.

Ma precisa subito che alla base c’era “la convinzione di farli ‘meglio di allora’, perché considerava che nel frattempo la sua abilità pittorica si era affinata”. E non poteva essere altrimenti dato che alla creazione della prima Metafisica, con “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”,  aveva solo 22 anni. Una prova che mancava qualunque intento mistificatorio è  data dal fatto che utilizzava la tecnica corrente al momento della replica, quindi riconoscibilissima per la differenza con quella degli anni ’10.  C’era in tutto questo una sfida ai critici e ai collezionisti rimasti legati a un’epoca passata, quasi per una sorta di “feticismo” artistico, con il suo temperamento polemico, pronto allo scontro. D’altra parte, anche suoi contemporanei facevano la stessa cosa, Mario Sironi con retrodatazioni e postdatazioni, in un vero “labirinto cronologico”, poi negli anni ’40 e ’50  anche Carrà e Severini.

Le repliche di de Chirico dei primi anni ’30  sono reinterpretazioni molto difformi, come  “Ricordi d’Italia”, “L’ouef dans la rue” e “La téte en platre” in una inedita quanto originale visione cinematografica, a parte i titoli anch’essi del tutto nuovi.  Tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40, il suo ritorno alla “pittura antica” lo porta ai primi “rifacimenti mimetici”, pur se ben distinguibili dagli originali, con delle prime retrodatazioni.  Sempre Benzi lo spiega, nella sua consueta franchezza,  con le difficoltà economiche intervenute a causa della  guerra, che provocarono il trasferimento da Parigi a Milano con la moglie ebrea, che “devono averlo indotto  a una piccola produzione ‘metafisica’, di facile  immediata commercializzazione, per assicurarsi una protezione economica in vista di ulteriori avversità”.

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“Ettore e Andromeda””, 1924

Questa produzione marginale e occasionale divenne rilevante come reazione di uno spirito quanto mai agguerrito e pronto a raccogliere la sfida, non solo a livello di polemica, allorché nel 1948, alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra, alla mostra sulla Metafisica i suoi aspri detrattori Carrà  e il critico Longhi membri del  Comitato organizzatore, ignorarono totalmente lui che ne era il padre, ed esposero come unica sua opera  “Malinconia torinese”, 1939 datato 1915, un falso.

“Di fronte a tale tentativo di deprivazione di un primato oggettivo – afferma Benzi – de Chirico risponde moltiplicando le immagini delle piazze metafisiche, inaugurandone  una produzione vasta e distinta dal suo stile attuale; quadri che attestano caparbiamente, con la loro diffusione, l’identificazione dell’artista con la ‘sua’  Metafisica, anche in senso mediatico”. Realizzati con una diversa tecnica, nella loro  datazione erratica, a parte la reazione polemica che non giustificherebbe la persistenza, vogliono anche, e forse soprattutto, dare corpo all’idea di “un’arte assoluta fuori dal tempo”, in linea con il pensiero di Nietzsche, della “contemporaneità, o meglio atemporalità dell’arte”. L’“eterno ritorno”  come araba fenice, in questo caso di de Chirico,  lo testimonia Andy Warhol che fa della Metafisica, in particolare delle “Piazze d’Italia” con “Arianna”, una versione da Pop Art, con una riproduzione fedele a immagini quadruplicate nel suo modo inconfondibile. 

La “ripetizione differente” della Metafisica accompagna l’altra sua produzione, rivolta all’antico.

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“La téte en platre” 1935 ca.

Il ritorno all’antico nel gusto seicentesco di una nuova Arcadia

Nella sua impostazione dagli anni ’30 in poi la tecnica pittorica, come si è accennato, prevale sui contenuti, la “bella pittura” è senza tempo, quindi  anche moderna, come la Metafisica nelle sue riprese tardive.  Poiché le avanguardie, e in particolare i surrealisti, avversavano tale concezione, il suo spirito polemico lo portava a insistere pervicacemente e portarla alle estreme conseguenze con le repliche delle opere degli antichi Maestri, considerate fuori dal tempo, cita Rubens e Velasquez, Ribera e Il Greco, Goya e Delacroix. In questo ha un alleato inatteso, Picasso, che si ispira ai pittori del passato anche con rifacimenti, nella sua critica ai moderni lo salva, pur se è molto diverso da lui.

Quindi le sue opere sono “immagini di pura fantasia pittorica, in cui la realtà non trova alcun interesse o riscontro, salvo che nei ritratti”, il mito viene evocato per il suo valore universale, eterno. Vediamo “Ippolito e i suoi compagni sulla riva dell’Egeo” e “Cavalli spaventati dopo la batttglia”, del 1945,  scene di massa nelle quali ci sembra di riscontrare quanto osserva Briganti sulla posizione di de Chirico che declama sulla “bella pittura” mentre invece “la materia è viscida, morta, confusa, la pennellata imprecisa, il disegno sempre accademico, ma sempre manierato e casuale”. Un altro fronte si apre al combattivo Maestro, non più sulla svolta classicista e sulle repliche metafisiche, bensì sul tema a cui teneva molto, la tecnica pittorica sopra ogni altra cosa.

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“Ippolito e i suoi compagni sulla riva dell’Egeo”, 1945 ca.

E’ “un leone costretto nell’arena” che si difende con “una derivazione quasi duchampiana, ma in realtà una preconizzazione di oltre vent’anni dell’arte concettuale”. Lo afferma Benzi che spiega: “E’ proprio questo l’ultimo paradosso polemico di de Chirico, genio cattivo e sublime, surreale e dadaista ante litteram, polemista  a oltranza, che spesso dichiara il contrario di ciò che realmente intende”. Con una precisazione molto significativa: “E forse tutto il periodo di resistenza alle  avanguardie del secondo dopoguerra andrà interpretato in questo senso, in un senso assolutamente dadaista assai conforme al suo carattere, che ha sempre nascosto, più che svelato i suoi più profondi motivi ispiratori”. 

Le pitture seicentesche e gli “Autoritratti” in costume di varie epoche, come le scene mitologiche e i decori sono una pittura che “rende immobile il tempo”; ma in quanto osteggiate ferocemente dalle avanguardie, “divengono paradossalmente un mezzo usato per oltraggiare e irritare i suoi avversari”, che non sanno leggere la trama “al rovescio” della sua opera.

Una pittura di “antiavanguardia” di chi “l’avanguardia l’aveva davvero inventata, influenzando del resto buona parte dell’arte di questo secolo”, come per Picabia, tanto che il neobarocco, nato come approdo del Classicismo, “negli anni cinquanta e sessanta diviene addirittura una bandiera, un atto di esplicito disprezzo per chi lo disprezzava: il mito immanente si trasformava così in mitologia classica, atemporale, contrapposta alla contingenza e mancanza di miti dell’arte contemporanea”. Sono parole di Benzi sulla sofferta polemica, nell’arte e nella vita, tra de Chirico e i suoi detrattori.

“Trovatore”, 1948

“Vita silente” e barocco, nella persecuzione dei falsi

Abbiamo accennato alle traversie del periodo bellico con i trasferimenti  insieme alla moglie ebrea,  fonte di preoccupazioni. Nell’arte abbiamo visto l’accostamento agli antichi Maestri per i motivi anzidetti, ai quali si aggiunge l’evasione in un mondo arcadico: si interessa alla “natura morta”, che chiama “vita silente” nel modo tedesco e anglosassone, com’è anche nella sua essenza pittorica espressa da forma e volume senza scosse, a parte la mano umana  che può muovere  le vite silenziose e lo fa nei suoi dipinti intimi anch’essi al di fuori del tempo e degli eventi. Vediamo“Natura morta con pomodoretti”, del 1948, e “Vita silente (frutta di paese)”, del 1955-56,  non si notano i 7-8 anni che li separano, stesso cromatismo neutro, e analoga forma compositiva con i piccoli pomodori, uva e pomi al centro, altra frutta sparsa a terra, alberi ed edifici di varia grandezza nello sfondo; mentre “Vita silente di oggetti su un tavolo”, del 1959, rappresenta in un interno una tavola imbandita con pane, posate e frutta, due vasi e un busto antico in grande evidenza. 

Il ritorno a Roma nel dopoguerra diviene definitivo, si stabilisce in un bel palazzo a Piazza di Spagna, l’attuale Casa Museo con la sede della Fondazione:  ha 60 anni,  nella città eterna oltre alle antichità c’è il barocco, l’ambiente ideale per le sue reminiscenze classiche e il suo nuovo orientamento pittorico. Arrivano i riconoscimenti internazionali, tra gli altri viene nominato nel 1948 Accademico della Royal Society of British Artists, nel 1974 Accademico di Francia, nel 1975 riceve la croce di Grande Ufficiale della Repubblica Federale Tedesca.

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“Autoritratto in costume nero”, 1948

Ma non si placa la sua vis polemica che dirige verso l’arte moderna,  e in particolare verso le  avanguardie, mentre si difende dagli attacchi alla sua figura di artista iniziati da Breton con il sodale Soby  che ne hanno contestato alla radice il valore definendolo addirittura “un morto che imita se stesso”, dopo che le falsità sulla duplicazione delle “Muse inquietanti” si sono diffuse a macchia d’olio.  La miglior difesa è l’attacco, si dice, però in qualche caso de Chirico non riesce a frenare il suo temperamento e va sopra le righe, se Benzi arriva a dire che “non sempre le sue affermazioni sono efficaci, anzi, lo sbilanciamento fa nettamente slittare le sue considerazioni sul recupero della tradizione su una piattaforma di conservatorismo oltranzista, apparentemente vieto e rétro”.

E’ obiettivo e non di parte l’autore, come di consueto, e ne dà subito l’immancabile spiegazione aggiungendo trattarsi di una posizione “che possiamo sì comprendere psicologicamente, dato l’accerchiamento su più fronti che deve subire, ma dà vita anche, talvolta, a operazioni di respiro polemico inevitabilmente marginale”. Una di queste è l’“Antibiennale” del 1950, come reazione alla Biennale del 1948 in cui era stato ignorato per di più con la presentazione di un falso dipinto  metafisico; la sua personale veneziana con altri artisti fece scandalo per lo slogan dadaista “Biennale a fuoco” che riecheggiava quello futurista iconoclasta dei musei, e poteva essere preso come vero allarme.

Riesplode la questione dei falsi, con de Chirico ancora una volta all’attacco anche sul piano legale, ma in modo tardivo perché con la sua vita girovaga non aveva potuto accorgersi che ormai i falsi dilagavano.  Lo dimostra il fatto che è del 1967 il suo Rapporto al capo della Polizia in cui fa risalire al  l926-30 l’inizio delle falsificazioni che potrebbe addirittura essere datato al 1921-22, con l’acquisto a prezzo irrisorio, dopo che aveva lasciato Parigi, da parte di Breton dei suoi lavori rimasti nell’atelier incompiuti e poi fatti terminare da altri per venderli. Analogamente a quanto era avvenuto,  lo ha sottolineato lo stesso de Chirico, ai danni di Rousseau “il doganiere”, come abbiamo già ricordato ripercorrendo l’accurata ricostruzione di Benzi. 

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“Natura morta con pomodoretti”, 1948

L’entità del fenomeno appare evidente nella sua dimensione se si pensa che alla mostra parigina del 1946 alla Galerie Allard, su 28 dipinti esposti ve n’erano 20 metafisici falsi, opera del surrealista Oscar Dominguez amico di Breton, di cui vediamo il manichino di “Trovatore” falso, e l’improbabile “Télephone et revolver” altrettanto falso; come era opera di un falsario sconosciuto “Cavalli selvaggi (The Folly of Horses)”, esposto  l’anno successivo alla mostra di de Chirico a New York nel 1947. La dichiarazione di de Chirico secondo cui i 20 quadri presentati a Parigi erano falsi prima non fu presa sul serio, poi fu ribaltata contro di lui come se li avesse fatti falsificare per poi ricattare la galleria minacciando di rivelarne la falsità.

Non si limita alla pittura metafisica l’azione dei falsari, investe anche le opere più recenti, come quelle esposte alla mostra del 1946 a New York, dove erano state spedite quelle autentiche, poi sostituite dai falsari durante il viaggio; il mistero non fu chiarito, ma l’organizzatore Bellini dubitò anche di de Chirico. L’artista, per il  falso esposto alla Biennale di Venezia del 1948, fu accusato da Breton addirittura di non riconoscere artatamente le proprie opere  dichiarando false anche quelle autentiche. Un attacco volgare, cui non fu estraneo Soby – il critico americano vicino a Breton – il quale però si ricredette, tanto che negli anni ’70 confessò a Schmied: “Dovremmo fare attenzione a cosa de Chirico stesso ha detto: nei casi in cui dichiara falso un quadro a lui attribuito, ha generalmente ragione”.

Sembrerebbe un’ovvietà, ma nel clima avvelenato da sospetti reciproci questa ammissione di uno degli “untori” è rivelatrice. Tra l’altro, l’ammirevole obiettività di Benzi non nasconde nulla di quelle intricate vicende, arrivando a dire: “Va tuttavia notato che un circoscritto numero di opere autentiche e documentabili come tali vengono dichiarate false dall’artista”. Aveva ragione Breton ed era sbagliato il ripensamento di Soby? No, l’autore lo spiega almeno per alcune opere: “L’appartenenza originaria a un nemico mortale come Breton potrebbe inoltre aver causato di per sé una vendetta personale, anche a scapito di un’opera da lui concepita e dipinta (del resto Breton non si era comportato con più limpida moralità nei suoi confronti)”.  Per il resto “forse, nell’impotenza che sentiva di fronte  a un’ostilità generale, questo gli sarà parso l’unico strumento che gli era rimasto per regolare conti segreti”.  D’altra parte, era così assediato dai falsi che ricorse alle autentiche notarili, esse stesse inquinate dalle possibili alterazioni da parte dei falsari della sua attestazione come dalla certificazione notarile: una persecuzione che lo ha segnato profondamente.

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“Cavallo bianco nel bosco (Arione))”, 1948

La conclusione della storia infinita di de Chirico con l’eterno ritorno

Ma lasciamo queste miserie ed ammiriamo la bellezza delle sue opere barocche, dal “Cavallo bianco nel bosco (Arione)”  del 1948, ad “Angelica e Ruggero” del 1950, nelle loro rotondità ridondanti; per i paesaggi, dal “Paese con cavaliere e contadini” a “Venezia – Ponte di Rialto” e “Venezia (Isola di San Giorgio)”, della metà degli anni ’50,  nel cromatismo neutro di questo periodo, ravvivato dalla rossa fioritura in primo piano nell’“Isola con ghirlanda di fiori” del 1969.  Alla precisione calligrafica è unita  una  morbidezza nella linea oltre che nei colori, la stessa che si nota in “Lo sbarco di Alessandro”, del 1959-62, oltre che negli “Autoritratti” in costume.

Il  “Film” della vita e dell’opera di de Chirico entra nell’ultimo decennio, gli anni ’70  con dei prodromi negli anni ’60, soprattutto nella seconda metà. Dopo tante invenzioni e svolte pittoriche e tanti cambiamenti di residenza, si potrebbe pensare che si adagiasse sugli allori, anche se cosparsi di spine, di un’esistenza per molti versi tormentata ma gloriosa, anche per l’esaurimento dello spirito creativo.  Ma ancora una volta il Maestro non manca di sorprendere con la sua vitalità artistica.

Le suggestioni nostalgiche hanno la meglio sulla vis polemica che aveva utilizzato la pittura neobarocca come risposta provocatrice agli attacchi inusitati dei surrealisti e delle avanguardie, proprio perché totalmente alternativa rispetto alle nuove tendenze, ancora più del classicismo abbracciato dopo l’abbandono della prima Metafisica e così aspramente combattuto.  Invece di accanirsi in quella che Benzi definisce “battaglia neodadaista”, abbandona lo strumento pittorico che utilizzava quale arma impropria per seguire l’ispirazione, “qualcosa di nuovo, anzi d’antico” per dirla con Pascoli. Di nuovo c’è l’atteggiamento, l’animus con cui si abbandona al nuovo corso, e la tecnica pittorica,  d’antico la forma espressiva con il ritorno alla Metafisica.

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“Il trovatore stanco”, 1960

Ma non è una semplice ripresa più o meno fedele di quei temi, e tanto meno una replica, è un ciclo totalmente nuovo con l’atteggiamento non più ansioso e quasi sgomento dinanzi all’imponderabile metafisico, bensì sereno, al punto che la definizione di  “Neometafisica” è stata qualificata nella mostra a Campobasso del 2017 come “gioiosa Neometafisica”.

“Anche il tessuto pittorico si fa più chiaro e più magro, leggero, dimenticando le paste lavorate e spesse del periodo ‘barocco’ – precisa Benzi – aggiungendo che “stesure di colore quasi trasparente velano le tele con una modernità e velocità di campitura che ricorda la pittura degli anni sessanta”. E cita i suoi contemporanei, dalla Scuola romana di Piazza del Popolo di Schifano e Festa, a Warhol, che abbiamo ricordato per l’opera celebrativa dei “Bagni misteriosi” espressa in multipli; e anche “l’epoca degli anni venti parigini. Una luminescenza quasi perlacea alona i nuovi dipinti”, anche qui qualcosa di nuovo e d’antico, ma non il ritorno alla “tempera” dei Maestri classici che lo aveva appassionato nella prima svolta.

Questa nuova svolta non è indolore, e ciò dimostra la convinzione, anzi l’accanimento con cui l’ha intrapresa. Infatti gli costa 60 milioni di lire di allora, corrispondenti a 700.000 euro odierni, tale fu la penale pagata alla Galleria dei Russo, la “Barcaccia”, con cui aveva un impegno vincolante di fornire ogni mese 2 dipinti – anzi, erano 3 prima del 1964 –  oltre ad alcuni acquerelli, impegno che non si sentiva più di rispettare avendo ripudiato lo stile neobarocco; mentre si impegnò con il mercante milanese Bruno Grossetti per 25 dipinti delle “Piazze d’Italia”,  ne fornirà 18.

“Il rimorso di Oreste”, 1969

Dunque, tornano le “Piazze d’Italia”, ma in forme nuove come “Il grande gioco (Piazze d’Italia)”, del 1971, con la sorpresa delle squadre da disegno ”ferraresi” in primo piano, anticipate in “Interno metafisico con profilo di statua” del 1962 e in “Interno metafisico con mano di David”, del 1968,  nel quale una finestra si apre su due casette all’esterno, ne compare un gran numero in “Figure sulla città” ai limiti di una piazza con i passanti soli o  a coppie in formato lillipuziano, mentre  due uomini giganteschi in vestito e cravatta, novelli Gulliver, dominano la scena.

Tornano anche i “manichini”, come in “Orfeo, il trovatore stanco” e “La tristezza della primavera”, del 1970, ammorbiditi e umanizzati soprattutto nel precedente  “Il ritorno di Oreste”,  del 1969, con l’innovativa  ombra segmentata come le sagome di “Il ritorno al castello avito” e “Battaglia sul ponte” dello stesso 1969.   Segmentazione che corrisponde alla raggiera con cui illustrò la copertina di “Calligrammes” di Apollinaire, il poeta suo mentore, e altre parti come “Le vigneron champenois”, prendendo l’idea addirittura da un ventilatore della Marelli. Si era nel 1930, la raggiera è diventata, dopo quarant’anni, il nuovo sole con la sua ombra, la seghettatura scura, in “Tempo del sole”, Interno metafisico con sole spento” e “Spettacolo misterioso”, tutti del 1971: nuovo e antico ancora compresenti nell’ispirazione e nella rappresentazione.

Non mancano neppure i templi, come in “Termopili”, del 1971, e i busti classici apollinei, come in “Il mistero di Manhattan” e “Muse della lirica”, del 1973, il primo con la vista dei grattacieli, il secondo con squadre da disegno e teste di legno da manichino, tutti tra due tende da sipario teatrale.

A questi elementi caratteristici delle fasi metafisiche, la prima e quella “ferrarese”,  se ne aggiungono altri, come in “Il meditatore”, del 1971, più avviluppato di un archeologo, e “Testa di un animale misterioso”, del 1975, composta di templi e rovine come mai in forma così invasiva.

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“Il ritorno al castello avito”,1969

The End, il senso della vita di de Chirico nella metafora finale

De Chirico pesca nella galleria inesauribile dei temi delle sue creazioni, come faceva Picasso, “componendoli, smontandoli e ricomponendoli con un senso di gioco sostenuto dalla certezza della propria strada. Le immagini che aveva inventato diventano un repertorio cui attingere con lo scanzonato vigore di un creatore che fa i conti con la vita che termina”,  entrando “paradossalmente in dialogo  con la visione ‘post-moderna’” in cui ricomporre “elementi del passato sedimentati nella memoria e nella cultura”.

A questa interpretazione di Benzi facciamo seguire quella di Maurizio Calvesi: “I suoi personaggi, i suoi manichini, i suoi oggetti, le sue architetture sono in realtà divenuti giocattoli e il senso del gioco – che pure era già segretamente latente in qualche angolo della prima Metafisica – trionfa ora come chiave creativa del tutto nuova, vitalizzata da un’assoluta coscienza di libertà  e dominio sul proprio mondo poetico e perfino psichico, da cui non è più sopraffatto ma di cui diviene  il disincantato regista; o se si vuole il burattinaio di una recita ricca di sorprese; il prestidigitatore di segreti ben conosciuti”, Un’altra notazione di Benzi completa il quadro: “Ma ciò che emerge più chiaramente, da quelle scene di ambiguità sottile e indecifrabile, è il non-senso della vita, e il gioco (se di gioco si tratta) nasconde una melanconia cosmica, profonda, oscura quanto, in fondo, stoica e serena”.

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“Orfeo, il trovatore stanco”, 1970

La metafora  di tutto questo  viene trovata nei dipinti “Il ritorno di Ulisse” del 1968, e cinque anni dopo nel consimile “Ritorno di Ebdomeros” , 1973, ai quali ben si adattano le parole di Benzi: “Il mito torna ad animare con vivacità le scene di quei quadri, che sono visioni fortemente autobiografiche, e che proprio in questa chiave riprendono giocosamente spunti dello stile che egli stesso aveva inventato”. Nel primo, il viaggiatore de Chirico,  impersonato nell’eroe omerico,  ormai vecchio immagina di viaggiare ancora, come in tutta la sua vita,  remando su una barchetta nella propria stanza con nella parete sinistra un quadro della sua metafisica, nella destra una finestra con vista su un tempio della sua Ellade e dietro una porta socchiusa il buio dell’Ade; nel secondo, il tempio greco è addirittura dentro la stanza, e la visione è più serena, invece della porta socchiusa sul buio una tenda azzurra, invece della piccola sedia un comodo divano, dalla finestra si vede il mare. “Alla fine – commenta Benzi – il grande mare della vita appare piccolo come un tappeto, e tutto il percorso pieno di avventure, pericoli e conoscenze non ha maggiore dimensione e significato di un viaggio in una stanza. Il mito conclude il senso di una vicenda che col mito era iniziata”.

Così si conclude anche la nostra rivisitazione dello straordinario artista  e protagonista del ‘900,  Giorgio de Chirico, in quello che abbiamo chiamato “Il  Film della mia vita” dal grande libro di  Fabio Benzi, nelle 7 puntate dell’immaginaria “fiction” in cui abbiamo diviso la prima parte della trilogia dechirichiana nel quarantennale dalla scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità. Seguiranno le altre due parti dedicate alla mostra di Genova sul “Volto della Metafisica” e di Torino sul “Ritorno al futuro”.

L’imponente lavoro di Benzi si è tradotto in “un’essenziale’, ‘chiara’ e ‘verificata’ esposizione”, come sottolinea il presidente della Fondazione Paolo Picozza, che ha il merito di aver dissipato tanti misteri e decifrato tanti enigmi della vita e dell’opera del Maestro. Una pietra miliare preziosa e insostituibile. 

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“Spettacolo misterioso”, 1971

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: con questo articolo sul libro di Benzi, dopo quelli dei giorni 3, 5, 7, 9, 11, 13, si conclude la I parte della trilogia; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – usciranno il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, Futuristi 7 marzo 2018, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Sironi, 1, 14, 29 dicembre 2014, Warhol 15, 22 settembre 2014, Cubisti 16 maggio 2013; in cultura.inabruzzo.it, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009, Picasso 4 febbraio 2009; guidaconsumatore.fotografia, Schifano 15 novembre 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Piazza d’Italia” 1926-27 ca.; seguono, “Il figliol prodigo” 1922, e “Ettore e Andromeda” 1924; poi, “La téte en platre” 1935 ca. e “Ippolito e i suoi compagni sulla riva dell’Egeo” 1945 ca.; quindi, “Trovatore” e “Autoritratto in costume nero” 1948; inoltre, “Natura morta con pomodoretti” e “Cavallo bianco nel bosco (Arione))” 1948; ancora, “Il trovatore stanco” 1960, e “Il rimorso di Oreste” 1969; continua, “”Il ritorno al castello avito” 1969, e “Orfeo, il trovatore stanco” 1970; infine, “Spettacolo misterioso” 1971 e, in chiusura, “Ritorno di Ebdomeros” 1973.

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Ritorno di Ebdomeros”, 1973

De Chirico, trilogia I – 6. L’eterno ritorno, nuovo classicismo e nuova Metafisica

di Romano Maria Levante

Siamo alla 6^ e penultima puntata di quello che, per la spettacolarità unita al rigore,  abbiamo chiamato il “Film” di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”. Le precedenti 5 puntate hanno ripercorso la sua vita tra Grecia e Monaco,  Milano  e Parigi, Roma, Torino e Firenze, poi ancora Parigi; e l’arte,  dalla Metafisica originaria a quella “ferrarese”, dal classicismo e  “romanticismo” al surrealismo, la rottura con Breton e il classicismo mediterraneo con gli archeologi e i gladiatori. La nostra “fiction” ideale prosegue con le nuove forme di classicismo moderno fino alla Metafisica del mondo nuovo e il periodo della guerra.

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Una nuova sorpresa, delle tante che risvegliano di continuo l’interesse, facendo superare la complessità e il senso di appagamento che suscita una vicenda artistica e umana interminabile: spunta una nuova idea di classicismo moderno, dopo l’esaltazione classicista del 1919, con l’abdicazione dalla Metafisica di cui con la “trilogia dechirichiana” si celebra il centenario.

Questa idea viene dall’interesse per Renoir, che nasce sin dal “ritorno all’ordine” del 1920, all’insegna del classicismo per i volumi  rotondi espressi nelle “Bagnanti”. Poi si acuisce quando Waldemar George – sostenitore di de Chirico con gli  “Italiens de Paris” di cui era critico e difensore – nel 1929, in una mostra della collezione di Guillaume, altro personaggio vicino a de Chirico, presenta una lettura del pittore francese distaccatosi dall’impressionismo, che lo considera d’avanguardia con una “pittura di tradizione”. Renoir era considerato colui che rinnovava i valori antichi nella direzione di Derain, Braque e Picasso nelle loro espressioni neoclassiche, in alternativa alla linea che attribuiva il rinnovamento a Cézanne, artefice degli sviluppi dell’arte moderna.

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“San Juan les Pins”, 1930

 Non è soltanto un interesse critico, sebbene de Chirico si esprimesse anche su questo piano, ma un diretto interesse pittorico, che si vede già nei “Gladiatori” del 1927-28, con “i primi accenni di una pittura ‘renoiriana’  sfiaccata, leggera e trasparente, dai tocchi intrecciati”, nelle parole di Benzi; primi accenni che diventano ben più espliciti nei nudi  del 1930, ”Nudo di donna (con rupe e tempio)”, e del 1932, “Nudo di donna coricata (Il riposo di Alcmena)”, entrambi di forme e toni  morbidi e immersi nella natura come quelli di Renoir,  ma senza alberi, con il mare sul fondo,  il Mediterraneo della sua Ellade, nel primo nudo con un tempio a picco sulla scogliera.

Magritte si riconobbe nella posizione di de Chirico, e non volle firmare il proclama contro di lui dei surrealisti belgi pur continuando a far parte del loro gruppo,  e il suo  “Le principe d’incertude”, del 1944, nella morbidezza e nella linea leggera, richiama i nudi dechirichiani del 1930. E anche Derain, in quanto, nelle parole di George, “come Giano, il dio a doppia faccia, ha presente allo spirito il passato e l’avvenire”, allo stesso modo di de Chirico che in “San Juan les Pins” del 1930 si ispira sia pure lontanamente, al suo ”Le gros arbre” di poco anteriore.

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“Autoritratto nello studio”, 1930

Lo stesso tocco morbido e leggero nelle opere su altri temi dal 1930 al 1933,  in sequenza, dall’“Autoritratto nello studio” ai manichini della “Canzone meridionale”, dalla “Natura morta con coltello” ai “Cavalli in riva al mare”.

Non si ferma qui l’ attenzione al tocco e agli altri aspetti tecnici di quella pittura, dopo che nel primo passaggio al classicismo aveva provato la tempera degli antichi Maestri. Nel 1928 aveva scritto il “Piccolo trattato di tecnica pittorica” nel quale, pur non facendo prevalere la tecnica sulla genialità nel risultato finale, sosteneva che un vero pittore, antico o moderno, non può ignorarla.

La crisi economica del 1929 lo costrinse a lasciare Parigi, salvo brevi ritorni, poi fece una serie di viaggi tra Italia, Stati Uniti e Francia, in un periodo che lo vide impegnato in opere su temi già trattati nel decennio precedente in forme rinnovate o su nuovi temi: tornano gli archeologi e i gladiatori, i cavalli sulle spiagge e i paesaggi nel chiuso delle stanze, oltre a  interpretazioni in un inedito realismo alla Velasquez, entrano in scena i Bagni misteriosi” e nuovi  impegni teatrali.

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“Cavalli in riva al mare”, 1933 ca.

In questo periodo abbiamo sue composizioni in cui, vicino ad oggetti presi dalla vita reale, se ne trovano di mitologici già presenti negli anni ’20, e  fantasiosi inventati di tipo metafisico, come i suddetti Bagni misteriosi”, nei quali la realtà è trasfigurata dall’immaginazione, cosa che suscitò polemiche alla Quadriennale di Roma del 1935.  E’ il suo il tentativo di  rendere, come i pittori antichi, non la realtà ma l’apparenza della realtà, interpretando però, in chiave realistica, anche le sue invenzioni passate, “cosa che comporta uno ‘scollamento’ tra l’apparenza reale e l’invenzione surreale”, secondo il giudizio di Benzi. 

Così anche le creazioni più fantastiche sono calate nella realtà come fossero vere. Lo vediamo in “Cavalieri e cavalli in riva al mare”, del 1933, e in “Puritani e centauro in riva al mare”, “I Dioscuri con i compagni in riva al mare”, del 1934-35,  mentre  i due nudi  del 1934 “Sera d’estate” e “Bagnanti sulla spiaggia” sono veri ma sembrano fantastici per il contesto di tipo mitologico  in cui sono inseriti. Anche le invenzioni metafisiche dei manichini assumono un aspetto vicino alla realtà, si vede nelle opere del 1933, “Nobili e Borghesi”, addirittura con vestito, camicia e cravatta, e nei “Manichini coloniali”, dalle movenze umane nelle mani  e nei piedi, mentre gli orpelli che sembrerebbero “incorporati” come negli “Archeologi”, invece sono sovrapposti alle giubbe, quali aggiunte ornamentali.  Anche “Ruines étranges (I contemplatori di rovine)”, 1934, pur nella loro rigidità metafisica sono umanizzati nei volti, negli arti, nella figura.

“Manichini coloniali”, 1933 ca.

Sempre nel 1934, mentre scriveva al suo amico Nino Bertoletti che continuava a perfezionare la tecnica pittorica pur “in mezzo ai guai”, come un monaco medievale, disegnava le illustrazioni del libro “Mythologie” di Cocteau, del quale abbiamo ricordato la vicinanza. Così nacquero i “Bagni misteriosi”, un’invenzione  che scaturisce dai ricordi d’infanzia dei bagni del paese natale Volos,  cui si aggiunge la visione surrealista di un parquet così lucido da sembrare fatto di acqua dove poteva sprofondare chi vi camminava sopra. Sempre dalle memorie infantili affiorava l’impressione data dalle figure vestite, come statue maestose, e i nuotatori  spogliati,  come inermi  e indifesi. A questi motivi se ne aggiungono altri propriamente artistici: un’incisione di Klinger – alla cui “Storia di un guanto” si era già ispirato venti anni prima per il celebre “Le chant d’amour” – con la stessa ambiguità irreale-reale tra la superficie dell’acqua e ciò che sta sopra, nell’incisione un pianista; mosaici romani tunisini  e libici con l’acqua su cui si muovono figure marine a zig zag. A questo ciclo appartengono “I bagni misteriosi”, “Le cabine misteriose”, “Il cigno misterioso” , del 1934-35. 

Negli anni successivi la sua fama cresce, non solo in Italia ma in Europa e negli Stati Uniti, dove vengono organizzate numerose mostre. Intanto nella pittura alterna la proposizione di immagini reali  in chiave metafisica e viceversa, come abbiamo visto, e nel contempo  approfondisce la rivisitazione della tecnica utilizzata tornando sempre più all’antico. Attua il proclamato “ritorno al mestiere”  identificandosi con gli antichi Maestri, ma anche per la polemica verso le avanguardie attribuisce loro la grandezza che viene riconosciuta alla perfezione tecnica piuttosto che ai contenuti. Si distacca dalla rappresentazione della realtà ma anche delle visioni metafisiche e verranno privilegiati da lui paesaggi idilliaci. barocchi e favolosi. In tal modo”mescola realismo e fantasia pittorica con citazioni eterogenee da secoli differenti – precisa Benzi –  gli archeologi si trasformano in cavalieri in vesti araldiche e nobili in borghese, personaggi da melodramma scesi da un palcoscenico e incapaci di accorgersi dello straniamento della realtà”.

“Ruines étranges (I contemplatori di rovine)”, 1934 ca.

L’arte teatrale e gli Autoritratti

Il palcoscenico virtuale evocato dall’autore era stato reale già dieci anni prima  con l’ingresso di de Chirico nel teatro, quello vero, nel 1924, con le scene e i costumi del balletto La Jarre di Luigi Pirandello al Théatre des Champs-Elisées di Parigi, seguito dal lavoro per una “piece” del fratello Savinio nel 1925  e dalle scene per i Balletti Russi di Diagilev, gli stessi per i quali lavorò Picasso venendo appositamente in Italia a Roma e a Napoli, altro motivo di accostamento tra i due maestri.

Seguiranno Pulcinella  a Londra e Bacco e Arianna a Parigi nel 1931, e I Puritani al Maggio musicale fiorentino nella prima edizione del 1933, gli spettatori furono sconcertati dai  costumi araldici a forti colori che ingessavano i personaggi,  come avvenne a Picasso per i rigidi e monumentali costumi cubisti che disegnò per i Balletti russi. Per la manifestazione fiorentina curerà anche scene e costumi di Don Giovanni nel 1944,  Medea e Orfeo nel 1949,  Ifigenia nel 1951 e Don Chisciotte nel 1952.  Nel teatro anche a Roma, per La figlia di Jorio di Gabriele d’Annunzio con la regia di Luigi Pirandello nel 1934 e per Otello nel 1964; a Milano per Anfione  nel 1942 e La leggenda di Giuseppe nel 1951, Mefistofele nel 1952 e Apollo musagète nel 1956; e ad Atene, per il Festival,  Oreste e Le Baccanti, Il Minotauro ed Edipo  nel 1939,  spettacoli non realizzati: sono i principali spettacoli di cui ha curato scene e costumi.  La scenografia per i “Puritani” è classica e austera, mentre quelle per “Don Chisciotte” e  “Otello”, in particolare il Siparietto, sono visioni arcadiche aperte e ariose.

“Puritani e centauro in riva al mare”, 1934 ca.

“Un’arte teatrale” viene definita ben a ragione da Benzi quella che riflette tali  esperienze ma esprime anche la sua attitudine, tanto che anche nella sua prima Metafisica venivano visti aspetti teatrali, considerati apparenti dall’artista che li rifiutava richiamandosi al sogno e all’assurdo. “L’attività per il teatro, che nel quarto decennio si fa  in effetti più intensa e serrata, uniforma  con la sua visione il palcoscenico della vita, che si immedesima con la messa in scena della pittura stessa”. Non solo l’abbinamento arte-vita, dunque, ma anche la presenza in entrambe attraverso il teatro.

Come per le altre svolte artistiche, non manca di teorizzare anche questa nel Discorso sullo spettacolo teatrale poco dopo il 1940, il teatro entra nella sua pittura con sipari e quinte scenografiche virtuali che inquadrano le composizioni, spesso cavalleresche. Poi  gli “Autoritratti”  in costumi teatrali spesso presi dagli spettacoli, che non si comprenderebbero senza collegarli al suo impegno teatrale di cui sono espressione. Vediamo, tra il 1940 e il 1942, “Autoritratto in costume orientale”  e “Autoritratto  in costume cinquecentesco”, “Autoritratto in costume da torero” e“Autoritratto in costume (con pennello)”,  nel 1943 “Autoritratto nudo” che è stato preso da Giulio Paolini come punto di arrivo di un avvicinamento progressivo nella mostra del 2010 “L’enigma dell’ora” al Palazzo Esposizioni, parallela alla mostra “De Chirico  e la natura”; nel 1948  “Autoritratto in costume nero”, nel 1959 “Autoritratto nel parco”,  gli ultimi due a figura intera, con intorno elementi arcadici.

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, “Bagnanti sopra una spieggia” , 1934

Il fascino dell’America, “l’altro mondo”

Intanto la sua fama si diffonde, in Europa oltre che in Francia e Germania in Cecoslovacchia e nel mondo anglosassone. In Inghilterra va cinque volte, negli anni ’20, ’30 e ’40, farà 4 mostre personali e parteciperà a circa 30 mostre collettive, esercitando una certa influenza sull’arte inglese, tra gli altri gli è debitore Henry Moore, il cui amico Penrose aveva molte sue opere. Arriva negli Stati Uniti al porto di New York sul transatlantico Roma il 27 agosto 1936, si fermerà un anno e 4 mesi.

Era già conosciuto, nel 1926 erano stati presentati al Brooklyn Museum di New York 3 suoi quadri metafisici in una mostra con Duchamp, già nel 1923 il noto collezionista Barnes aveva acquistato un suo quadro, arriverà a 20. Fu accolto alla grande negli ambienti mondani, con sua immediata condiscendenza, e nello stesso anno dell’arrivo gli furono  commissionati due  grandi pannelli pubblicitari dalla casa di moda Helena Rubinstein e dal sarto Benno Scheiner, copertine e altro dalla rivista “Vogue”.  Ne è tanto preso che gli balena l’idea di un trasferimento definitivo, ma verrà a scadere il permesso di soggiorno.

Straordinaria l’impressione che riceve da quello che chiama  “un altro mondo”, e Benzi vira in “mondo nuovo”, dato che lui ritiene superato chiamarlo “nuovo mondo”  essendo già così sviluppato.  Perché, a differenza dell’Europa,  “in modo impercettibile tutto è cambiato”, e nel dire questo cita non solo gli elementi più vistosi, parlando del “caleidoscopio inverosimile  delle sue vetrine, delle sue torri trasparenti, dei suoi splendidi bazar, delle sue bacheche” nelle quali già  immagina “gli ineffabili dioscuri appoggiati ai petti dei loro cavalli affaticati”; ma cita anche l’atmosfera perché “luce e temperatura sono differenti… In America uomini e oggetti perdono la loro ombra”, e sappiamo l’importanza che aveva per lui nella pittura metafisica. Ma non lo turba, anzi  esalta New York come “città splendida di sogno nel sogno, città di Bacheche , Città-Bacheca, Città-Vetrina, nelle cui vetrine sfilano giorno e notte… tutte le cose dell’oscura umanità”.  Vi trova anche “le maschere gigantesche degli dei antichi”, e perfino “l’immensa solitudine del Partenone nelle notti d’estate, sotto il grande cielo tutto sfavillante di stelle”.  Questa sua descrizione  è datata 29 gennaio 1938,  il suo viaggio di ritorno era iniziato il 5 gennaio con il pittore Corrado Cagli e la gallerista Pezzi Blunt sul transatlantico Rex, la sua sembra una visione felliniana ante litteram.

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“I Dioscuri con i compagni in riva al mare”, 1934-35

“Questa stagione, queste nuove suggestioni visive e ambientali – commenta Benzi – … introducono una nuova aria nella sua arte. I bagni misteriosi si popolano di grattacieli… dei e dee  si travestono con pepli e chitoni di un glamour sofisticato, i cavalli hanno pose aggraziate di danza,  elementi di ruderi antichi si mescolano a reminiscenze  di oggetti metafisici trasformati in quinte teatrali”.  C’è “un nuovo mondo di colori virati  e di scene dove il Mediterraneo si mescola a un’atmosfera eterea e rarefatta, dai toni ghiacciati. Anche nei dipinti più ‘realisti’ prevale un’eleganza solida ma ben composta, soggetti di un tono pittoresco alto e ben definito”.

Lo riscontriamo nelle opere del 1936-37,  “Visione di New York” con un cavallo vicino a un triclinio, mentre “Cavalli e sibille con velari in riva al mare” è una specie di monumento vivente con le criniere svettanti dei nobili animali, che in “Horses of Tragedy” sono in due arcate, con tenda e una piccola piscina, e in “Divinità in riva al mare” scalpitano in una commistione con le antichità, dal segno leggero e colore sfumato nel pannello per il salone di Helena Rubinstein, con un accenno di tempio a destra. Il tempio diviene solido e completo in “Eroi di Omero”, con  elmi  e lance in riva al mare. Molto diverse le illustrazioni per “Vogue”,  “Le Femme antique”, con le ben note nuvolette orizzontali in un cielo che tende all’arancio e una figura femminile ieratica al centro, tra separè dietro i quali si intravedono teste di donne, sulla destra lo scorcio di tempio antico.

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“I bagni misteriosi”, 1934-35

Non mancano i manichini, “The Lovers”, la coppia richiama “Les consolateurs” del 1929 nelle mani che si stringono, ma sono più umanizzati anche nelle vesti, salvo le teste a uovo sono figure normali, dietro cui c’è una grande finestra con le nuvolette orizzontali nel cielo azzurro. E i grattacieli? Eccoli che si stagliano sulla sinistra in “Petronio e l’Adone moderno in frac”, ma l’elemento dominante è il giovane sulla destra nell’abito da cerimonia mentre al centro c’è un cavaliere e in lontananza un tempietto. Fanno da sfondo allineati in gran numero in “Bagni misteriosi a Manhattan”, la grande figura vestita e la piccola nuda sono sbarcati in America. “ll sognatore poetico”, un viso giovane  con la testa turrita di casotti balneari con bandierine, chiude questa piccola galleria americana.

Anni difficili, la scultura, lo stile teatrale e neobarocco

Nel gennaio 1938 in una sosta a Roma passa dall’impressione americana a quella romana, lo colpiscono positivamente via dell’Impero e le novità architettoniche di una Roma città moderna.  Torna a Milano dove tiene una mostra di successo cui seguono mostre a Genova e Venezia;  va anche a Parigi e Londra per altre mostre con successo crescente. Su questo momento felice si abbattono le leggi razziali ed essendo la moglie ebrea cominciano le peripezie. Va a Parigi dove al Louvre ha un ritorno di fiamma per la pittura dei Maestri dell’antichità, poi deve lasciarla per la minaccia della guerra, va a Cannes e Vichy, varca la frontiera con l’aiuto di un collezionista  e approda a Milano dopo essere stato bloccato a Nizza. È l’entrata in guerra, l’Europa è in fiamme.

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“Le cabine misteriose“, 1934-35

Di quest’anno così tormentato abbiamo immagini che lo sono altrettanto, con un cromatismo inedito senza contrasti, in tutte quelle che citiamo vi sono cavalli. Così i classicheggianti “Dioscuri” e “Chevaux effrayés”, la visione paesistica monumentale di “Guerriero in riposo con cavallo che beve in un pozzo”, i primi piani equini, a dispetto dei titoli,  di “Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro” e “L’uomo dal berretto”.

Dalle leggi razziali alla guerra, la vita a Milano  è minacciata dai bombardamenti, nel 1942 si trasferisce a Firenze  con Isabella, sua compagna, e alla Biennale di Venezia in una sala a lui dedicata presenta le sue novità in una tecnica che, mentre fa brillare la superficie pittorica, consente velature e chiaroscuri misteriosi; la sua arte è sempre più orientata sullo stile  teatrale e barocco. 

“Cavalli antichi spaventati dalla voce dell’oracolo”, 1935

Raffaele Carrieri commenta “questo ormai evidente mutamento di rotta che coincide in realtà con una drammatica introiezione psicologica  indotta dalla guerra ormai deflagrata, quasi un colloquio intimo, solipsistico e visionario, una forma di ascesi mistica”, ricorda  Benzi. Ecco alcune espressioni del noto critico: ”Egli dipinge tutto con la medesima intensità…  va in cerca di pesche e di costumi d’opera per i prossimi quadri… Dipinge ritratti. Dipinge autoritratti… Dipinge di tutto”.

Gli  “Autoritratti” nei costumi  più diversi li abbiamo citati in precedenza riguardo all’“arte teatrale”, ora aggiungiamo “Natura morta con cestino di mele” e “Natura morta di frutta con castello”, “L’oca spiumata”   e “Battaglia presso un castello”: la prima con cromatismo brillante, le altre con tinte velate, e in tutte, salvo “l’oca piumata”, un castello o un rudere, un richiamo classico. Di ispirazione classica anche “Perseo libera Andromeda”,  con l’uccisione del Minotauro sullo sfondo e il nodo di Andromeda in primo piano, intimista “Le amiche”, due volti pensosi.

La vita di de Chirico si svolge tra Milano, Firenze e Roma, e in un momento così movimentato – siamo all’inizio degli anni ’40 – si interessa alla scultura, come sempre anche sul piano teorico con il testo Brevis pro plastica oratio. Vi si legge che  “lo scultore è  il creatore per eccellenza… Egli scava per tirar fuori, nel blocco di creta o di marmo, con fiuto di rabdomante, comincia  frugare, e già quello che c’è dentro… comincia a sobbollire alla superficie, comincia ad agitarsi…”. E ancora: “La scultura dev’essere morbida e calda, e della pittura avrà non solo tutte le morbidezze, ma anche tutti i colori: una bella scultura è sempre pittorica”. E sono morbide e calde le sculture dei suoi temi, “Arianna” e “Archeologi” del filone metafisico, “Ippolito e il suo cavallo” del filone  classico. 

“Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro”,1938

Le difficoltà create dalla guerra ostacoleranno questa nuova attività artistica, che  riprenderà soltanto nel 1966 per non lasciarla più: “Ettore e Andromaca” sarà la sua opera maggiore, ma va ricordata anche la scultura-fontana “Bagni misteriosi” del 1973 per la XV Triennale di Milano.

Naturalmente la pittura prosegue, a Firenze sperimenta una nuova tecnica affine all’emulsione e la applica all’“Autoritratto nudo”,  che definisce  “la pittura più completa che io abbia eseguito finora”,  poi si trasferisce definitivamente a Roma, è il 1943.  Un nuovo cambiamento si manifesterà nel dopoguerra, con la pittura neobarocca, antinaturalistica, ispirata  a una pagina di Schopenauer  “sul senso metafisico di certe calme nature e paesaggi olandesi”, una metafisica che Mucci definisce “più sottile  e più qualitativamente pittorica di quella più famosa”.  Gli “Autoritratti” di questo periodo sono una prima manifestazione della sua nuova pittura barocca, come travestimento teatrale in ambientazione antica, una finzione spiazzante.

“L’esordio del periodo barocco – conclude Benzi – è calibrato equamente sullo spiazzamento metafisico, sulla finzione teatrale pervasiva e ‘non vera’ , sulla polemica con i critici modernisti e con i surrealisti che non sono capaci di vedere oltre il ‘non vero’, nel senso profondo della Metafisica del mondo”. Ne vedremo prossimamente gli sviluppi e la successiva evoluzione dell’arte di de Chirico in un cambiamento continuo con espressioni artistiche sempre nuove  e sorprendenti.

“Natura morta con cestino di mele”,1940

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: l’articolo restante sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3, 5, 7, 9, 11 – la I parte della trilogia – nel giorno 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Duchamp, 16 gennaio 2014, Cézanne 24, 31 dicembre 2013, Dalì 2, 18 dicembre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Paolini, 10 luglio 2010, Dada e Surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Canzone meridionale” 1931 ca.; seguono, “San Juan les Pins” e Autoritratto nello studio” 1930; poi, “”Cavalli in riva al mare” e “Manichini coloniali” 1933 ca.; quindi, “Ruines étranges (I contemplatori di rovine)” e “Puritani e centauro in riva al mare” 1934 ca; inoltre, “Bagnanti sopra una spieggia” 1934, e “I Dioscuri con i compagni in riva al mare” 1934-35; ancora, “I bagni misteriosi” e “Le cabine misteriose” 1934-35; continua, “Cavalli antichi spaventati dalla voce dell’oracolo” 1935, e “Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro” 1938; infine, “Natura morta con cestino di mele” 1940 e, in chiusura, “Autoritratto in costume di torero” 1941.

Autoritratto in costume di torero”, 1941

De Chirico, trilogia I – 5. Classicismo mediterraneo, con archeologi e gladiatori

di Romano Maria Levante

“Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, di Fabio Benzi continua a dipanarsi come un “Film” che ricostruisce una vicenda artistica e umana appassionante, dando sempre una risposta precisa ai mille interrogativi che pongono espressioni pittoriche quanto mai geniali e sorprendenti nella loro singolarità. Nelle 4 puntate precedenti della nostra “fiction” quanto mai vera e reale, la vita  è stata movimentata, nei trasferimenti dalla Grecia a Monaco, da Milano  a Parigi, da Roma a Torino e Firenze, poi di nuovo a Parigi; l’arte,  dalla Metafisica in evoluzione con la variante “ferrarese”, al classicismo, poi al “romanticismo” delle ville romane e al surrealismo, fino alla rottura con Breton, passato dall’esaltazione ammirata alla più spudorata denigrazione basata su falsità. La risposta di de Chirico nella vita è stata evocata, ora quella nell’arte, e il seguito è ancora una volta imprevedibile.

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“Le consolateur” , 1929

La risposta a Breton, l’arroccamento nel Museo in chiave moderna

De Chirico, ferito nella propria dignità di uomo e di artista dalla gratuita diffamazione di Breton – che lo ha accusato di spacciare copie di opere della prima Metafisica anche retrodatate, dopo aver esaltato la sua arte e averlo accolto nel Surrealismo – reagisce nella vita, e lo abbiamo ricordato, ma anche nell’espressione e collocazione artistica. Si arrocca nel “Museo”, la cittadella sempre più sottoposta agli assalti dei suoi precedenti alleati surrealisti nella loro furia iconoclasta contro la tradizione; che invece ha alimentato non solo l’arte ma anche la vita di de Chirico con la sua nascita nella Grecia delle antichità classiche, nel Museo raccolte e custodite. E si sono impresse nella sua psiche risultando in lui la matrice che nei surrealisti invece è la loro negazione, il loro rifiuto; ed esprimendosi nella sua arte, anche nella forma metafisica imbevuta di retaggi classicisti, poi portati sempre più alla luce.

La sua ispirazione alla base della Metafisica, oltre ai ricordati Nietzsche e Apollinaire con Guillaume, nasceva dalle opere di Salomon Reinach sulla religione, la storia antica e soprattutto l’archeologia, cosa sfuggita all’ “incomprensibile ignoranza dei surrealisti” che invece volevano farne piazza pulita all’insegna dell’automatismo onirico senza radici, tanto meno nel passato; e non capivano – osserva Benzi –  “il vero senso della pittura dechirichiana, anche quella metafisica che essi stessi esaltavano”. Per cui la risposta è stata “la calcolata enfatizzazione di de Chirico di un’antichità archeologica attualizzata, peraltro in perfetta sintonia con gli spiriti classicisti che percorrevano l’intera Europa negli anni venti”, come rilevato da JeamCocteau che ha saputo cogliere con lucidità il rapporto tra la Metafisica, l’antichità greca e il Rinascimento italiano. Non tutti i surrealisti seguirono Breton nei suoi attacchi, molti lo lasciarono beccandosi insulti come quelli da lui scagliati su de Chirico; altri come Duchamp, Picabia ed Ernst mantennero i rapporti con il pittore metafisico, i suoi mercanti Rosemberg e Guillaume li rafforzarono, e così Paulhaun e Cocteau.  

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“La famille du peintre”, 1926

Dopo le feroci quanto penose diatribe di Breton basate sulla voluta falsificazione della realtà da parte del mercante surrealista e non sulla presunta quanto inesistente duplicazione in falsi d’artista da parte di de Chirico, semmai da parte dello stesso Breton, ci si eleva nei cieli non solo del Mediterraneo, ma della storia umana, della civiltà antica e della cultura classica,  sempre l’alimento e l’ispirazione del grande artista greco, divenuto cosmopolita e approdato in Italia da preclaro cittadino.

In questa visione superiore, proprio Cocteau “colloca nitidamente de Chirico sul palcoscenico parigino – sono parole dell’autore – come l’alter ego, a lui complementare, di Picasso: i due giganti solitari del secolo”, le cui espressioni artistiche pur molto diverse avevano radici comuni, e da questa implicita intesa di fondo nasceva una reciproca, profonda considerazione. Ma prendiamo, fior da fiore, alcune espressioni di Cocteau su questo parallelismo: “De Chirico è un pittore del mistero. Picasso è un pittore misterioso… L’opera di Picasso appare travestita e mascherata e come tale intrigante e misteriosa. De Chirico è invece pittore di misteri. Egli sostituisce alla rappresentazione dei miracoli con cui i primitivi riescono a stupirci, i miracoli che vengono da lui solo”. Con questa diversità: “Le collere di Picasso contro la pittura innalzano autentiche crocifissioni. Opere terribili, fatte di chiodi, di lenzuoli, di strappi, di lego, di sangue. De Chirico non monta mai in collera. La calma della sua opera è quella degli arcieri che nelle tele dei primitivi, assistono al supplizio e guardano fuori del quadro”. E così via, con riferimento, per de Chirico,  non solo alla pittura metafisica ma anche, e forse di più,  ai temi  recenti.

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L’enfant prodigue” 1926

Anche de Chirico valorizzava la propria arte come moderna scrivendo: “Non c’è in Italia alcun movimento d’arte moderna…. La pittura italiana moderna non esiste. Ci siamo Modigliani e io, ma noi siamo quasi francesi. Io amo le cose più avanzate e più nuove”. E questo vale non solo per i contenuti, ma anche per la tecnica pittorica, che dopo la lentezza del ritorno alla “tempera” classica, si è velocizzata con nuovi materiali al punto che il mercante Rosenberg, dinanzi a quadri basati “su tinte piatte e non lavorate” – quelle dei pittori francesi di allora – lo sollecitava “a terminarli il più possibile, poiché piace ormai ovunque la pittura molto rifinita”.

Ma lui stesso, nel “Piccolo trattato di tecnica pittorica” del 1928,  considera superato il ritorno alla pittura “all’antica” del 1919-22 – dopo l’abiura alla metafisica per la classicità – e scrive: “Il sospirare eternamente davanti alle perfezioni degli antichi non mi sembra cosa degna di un pittore moderno. Ebbi anch’io il mio periodo antico e me ne vanto… ma però non ho mai dimenticato che anche la nostra epoca ha in arte le sue perfezioni, i suoi tours de force, per nulla inferiori a quelli degli Antichi”. E’ sua  la maiuscola di Antichi con cui conclude, ecco cosa aveva premesso: “Ogni epoca ha il suo spirito, il suo genere, la sua atmosfera speciale in cui vive e respira, direi quasi la sua morale artistica”.

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“La maison aux volets verts” , 1926

Cocteau individua la fonte della continuità tra la prima Metafisica e il “richiamo all’ordine” del classicismo degli anni ‘20 in “una verità dell’anima che esclude ogni elemento pittoresco, assieme al retroterra in cui trova alimento”. E dopo un’appassionata rassegna delle tante immagini dei quadri dechirichiani conclude: “Talvolta l’unione di prospettiva italiana e  e di miracolo greco mi ha parlato, in de Chirico, quando ormai niente mi parlava più”.  E Duchamp porta la sua continuità almeno fino al 1926, con l’arroccamento nel Museo in funzione antisurrealista e il passaggio, che può sembrare  contraddittorio, a una pittura più moderna e imprevedibile, fino ad affermare: “I suoi ammiratori potrebbero non seguirlo e decidere che il de Chirico della seconda maniera abbia perso la fiamma della prima. Ma la posterità potrebbe avere qualcosa da dire”.

Mobili all’esterno, interni con alberi e case, più altri contenuti della svolta artistica

I contenuti della nuova svolta sono anch’essi spiegati, come sempre, da Benzi, anche quelli del tutto  incomprensibili ai più, come gli interni con piante ed edifici, i mobili all’aperto e altro ancora.    

“Meubles dans une vallée” si intitolano due quadri del 1927,  fuori dall’abitazione letto e poltrona,  specchio e comò, con ruderi e, in uno di essi, il cielo mediterraneo con le sue tipiche nuvolette orizzontali. La spiegazione: in parte retaggio dei ricordi d’infanzia, quando nei terremoti i mobili venivano portati nelle strade; ma soprattutto, in chiave attuale, “i mobili trascinati in strada dai traslochi creano uno spaesamento che li riveste ‘di una strana solitudine’, formano un’isola esotica che li rende come circondati da oceani ostili, personaggi che mostrano tra loro strane intimità, de Chirico li vede anche ‘in una piana della Grecia deserta e coperta di rovine’”. In “La nuit de Périclès”, del 1926, appaiono esposti in una grande apertura verso il buio con vaghi contorni di templi, non mobili ma grosse scatole disegnate.

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“Nus antiques” , 1926

Se i mobili escono dalle abitazioni, vi entrano altrettanto incomprensibilmente edifici, alberi e quant’altro, dopo che negli “interni metafisici” del 1924-25 c’era tutt’altro, oggetti, righe e squadre da disegno, “quadri nel quadro” pur essi improbabili ma non impossibili come avviene ora. La spiegazione di Benzi: “Non c’è dubbio che i templi nella stanza nascano  dai ricordi giovanili, dalla strana presenza classica del Palazzo Reale di Atene (ripreso in diverse opere) o dalle case neoclassiche elleniche, dalla straziante singolarità dell’ara di Pergamo chiusa nella sala eterna di un Museo berlinese”; visione che pone “il Museo, appunto, come raccoglitore di frammenti di vite passate, di culture poliformi, di ricordi infantili e di strane interiorità”. E’ il Museo in cui si è arroccato, come detto all’inizio, per attingere agli elementi vitali impressi in lui dall’infanzia dopo la tempesta-Breton. De Chirico, dopo aver premesso di essersi ispirato, nel creare gli interni, all’“atmosfera metafisica dell’arte greca”, e della natura, da cui nasce “questa familiarità tra gli dei e gli uomini”, aggiunge: “Questa intrusione, che ho tentato di suggerire, della natura all’interno delle abitazioni ricorda quest’alleanza conclusa tra gli dei e gli uomini che impregna tutta l’arte greca”.

Nel triennio 1926-28 vediamo 4 opere sorprendenti che sarebbero incomprensibili senza la chiave interpretativa anzidetta. In ordine cronologico, la “Maison aux volets verts” “ospita”, nelle due stanze collegate da una porta, non una ma due  case con finestre e tetti, dietro una di esse una rupe, dietro l’altra un albero alto come la casa, tutto in un interno; l’“Intérieur forestier (Equinoxe)” è occupato da un gruppo compatto di tronchi d’albero e da un velo di acque  con onde dalla schiuma bianca, e “Paysage dans une chambre” mostra un intero paesaggio nella stanza, un monte con il grande Palazzo Reale e altri edifici; chiude ”Temple et forét dans la chambre”, dalla casa al tempio, dall’albero alla foresta.

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Meubles dans une vallée”, 1927

Ma non è soltanto inanimato il nuovo mondo dechirichiano, anche se l’ “anima” si sente pure nelle immagini senza figure umane, perché nascono dalla spinta dei suoi sentimenti. Cocteau trova in questo mondo “il fascino imperturbabile delle civiltà che si mescolano. Un Buddha dal torso e dai riccioli greci. Le figure di Antinoe, volti romani che sanno tenere gli occhi spalancati sulla morte, come le figure egiziane e i tuffatori nel mare… figure tombali e dormienti ci affascinano nei musei anche quando la stanchezza arriva a fiaccarci… De Chirico, nato in Grecia, non ha più bisogno di dipingere Pegaso. Un cavallo davanti al mare, per via del colore, degli occhi, della bocca acquista l’importanza del mito”.

E’ una descrizione poetica delle opere tra il 1926 e il 1927, riconosciamo i volti e le figure di “Nos antiques” e “L’esprit de domination”, nudi  in interni con il “sigillo” archeologico appena accennato, dalle rotondità mediterranee con riflessi picassiani; con la “figura tombale” di “L’enfant prodigue”, la statua che nell’interno diventa persona a fianco di quella reale seduta. Ma lo spirito mediterraneo dell’artista ha bisogno di correre negli spazi aperti della sua marina. Ed ecco “il cavallo davanti al mare” evocato da Cocteau, anzi i cavalli, in coppia e scalpitanti, in “Chavaux sur une  plage” con un tempio in lontananza, e “Les reproches tardifs” in cui oltre al tempio lontano sul promontorio c’è la colonna spezzata vicina a terra, “La joie soudaine” con più mare e roccia e, del 1929, “Cheval et zebre”, dove non manca il rudere sul fondo e la colonna spezzata vicina.

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“Chevaux sur une plage”, 1927

Queste opere sono il frutto “di una scelta di classicismo ellenico contrapposto al surrealismo”, che ebbe successo, ed è così spiegata dal Maestro: “E io penso ancora all’enigma del cavallo nel senso del dio marino: io mi immaginavo una volta nell’oscurità di un tempio che si erge sulla riva del mare il destriero parlante e vaticinatore che il dio glauco diede al re di Argo”. La matrice classica, con presenze archeologiche è comprovata dai disegni di cavalli inseriti nel “Repertoire de la statuaire greque et romaine” pubblicato a Parigi nel 1909 da Reinach, l’archeologo, e non solo, di cui de Chirico conosceva molto bene le opere e ne traeva  ispirazione.

Gli archeologi e i gladiatori

In questo campo a lui molto caro, l’artista non si è limitato ai templi lontani e alle colonne a terra vicine, vediamo in coppia “Les archéologues”, sempre del 1927, e singolarmente “L’archeologo”, del 1928, in cui celebra questi protagonisti delle ricerche dei resti di antiche civiltà che portano alla luce, li raffigura come se avessero interiorizzato i tanti ruderi nel loro stesso corpo, in una incorporazione chiaramente simbolica.  Lui scrive che si ispirano a “certi personaggi delle sculture gotiche che ci sono nelle cattedrali e che quando sono seduti hanno l’aria molto maestosa perché hanno il corpo grande e le gambe piccole” e sembra non debbano mai alzarsi; i suoi “archeologi” li ha creati così “perché ciò conferisce una sorta di grandezza ai personaggi stessi”.

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“Les archéologues”, 1927

Benzi osserva che, in realtà, “i ‘manichini archeologi’ nascevano anche e soprattutto dalla temperie metafisica (dai manichini delle Muse inquietanti, ad esempio)” e, aggiungiamo noi, precisamente dai manichini seduti con solidi incorporati quali i già citati “Les Jeux terribiles” e “Le peintre” del 1925;  de Chirico si riferisce alle statue medioevali per dare più  rilievo classicista “rifondandone il significato di creature più umanizzate” con i ruderi della memoria che anche lui sentiva dentro di sé.  L’umanizzazione è massima nel più tardo “Le consolateur”, del 1929, in cui il manichino tiene per mano e appoggia la mano sulla spalla di quello alla sua sinistra, non hanno incorporati ruderi ma piccoli elementi ornamentali, il manichino triste addirittura uno spicchio di cielo azzurro con le nuvolette orizzontali, sarà il segno della nostalgia? Vi si identificherà de Chirico? Un precedente significativo in “Le poète triste consolé par sa muse”, antesignano nel 1925  del “Le consolateur”,  quello che viene consolato è accasciato sulla poltrona, il corpo interamente coperto da una tunica.

Dagli archeologi ai gladiatori cambia tutto. A nostro avviso spariscono totalmente i manichini sebbene fosse stato facile e quasi naturale l’adattamento, altro segno che  l’inquietudine del Maestro non lo faceva riposare sugli allori, era sempre alla ricerca dell’innovazione. Benzi, da parte sua, vi vede la “trasposizione del manichino ferrarese attualizzato nel profondo classicismo ‘tardo-antico’”, derivazione metafisica attestata, a suo dire, da riprese iconografiche datate; la derivazione non la discutiamo, solo ci sembrano molto lontani i manichini. E ci è difficile vedere in loro “l’espressione svuotata da ogni psicologia, che ne fa il perfetto parallelo del manichino metafisico, ma calato in una mediterraneità sempre più esplicita e impostata”, forse in questo c’è la differenza della nostra percezione, ci sembra prevalga la mediterraneità che anima i gladiatori. Le loro figure sono umane, non solo antropomorfe,   in folti gruppi con lance e scudi o singole, sempre nude, siamo nel 1927. E il disegno del 1927 con “Testa di gladiatore (Ritratto di Apollinaire)” citato dall’autore, se prova giustamente la derivazione metafisica, ci sembra possa contraddire il riferimento ai manichini con “l’espressione svuotata da ogni psicologia”, era tutt’altro “il grande e indimenticato amico”.    

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“Paysage dans une chambre”, 1927

Le figure in gruppo le vediamo in “Le triomphe”, 1928-29, la testa con criniera e le gambe di un cavallo scalpitante sembrano trascinare nel trionfo una quindicina di armigeri dalle chiome antiche. Le figure singole sono riprese nella lotta, come in “Fin de combat”  e “Léons et gladiateurs”, del 1927, composizioni altamente drammatiche; mentre “Combat”, del 1928, sembra un gruppo araldico, sebbene la figura in piedi e quella a cavallo lottino con i pugnali. Nello stesso anno i “Guerrieri”, immagine diversa da tutte le altre con tre figure centrali in evidenza ed altre due appiattite su di loro in modo inusitato, ma sempre molto “umane”, immerse nei pensieri.

E’ questa una manifestazione di “un’arte mentale, antimaterialista” – in un articolo di Waldemar George su de Chirico, al  quale riservò anche una monografia –  che “ne fa un idioma dello spirito” e vi scopre “il principio generatore di un ordine, di un tipo di civilizzazione che trasformerà il mondo”, cambiandolo dall’interno in quanto “capovolge trasfigura la sua anima”. Per concludere con un riconoscimento di valore straordinario: “Ecco perché credo fermamente che la rivoluzione realizzata da Giorgio de Chirico è più essenziale, più profonda, più attiva della spinta cubista”.

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“Fin de combat”, 1927

Gli “Italiens de Paris”, de Chirico non è più solo

Waldemar George  divenne il capofila degli “Italiens de Paris”, un gruppo di artisti vicino al “Movimento italiano” di Margherita Sarfatti, – tra cui Savinio e Giacometti, de Pisis e Campigli – i quali, guidati da Mario Tozzi, si strinsero intorno a de Chirico e Severini, sostenuti dal mercante Rosenberg, che fece decorare le singole stanze della sua nuova casa vicino al Trocadero affidandone ciascuna ad un artista della sua scuderia, Picabia e Metzinger, Léger ed Herbin, Severini e de Chirico il quale dipinse battaglie di Gladiatori.

Questi artisti italiani che vivevano a Parigi hanno un’identità nazionale e internazionale al contempo, e sono aperti ai linguaggi delle avanguardie, come il Cubismo, con il quale condividono l’avversione verso il pur italianissimo Futurismo; rispetto al  Surrealismo prendono le distanze considerandolo  “la rappresentazione dell’informe, ossia di quello che ancora non ha preso forma, è l’espressione dell’incosciente, ossia di quello che la coscienza non ha ancora organizzato”. Mentre il vero Surrealismo “è esattamente il contrario… perché non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dar forma all’informe e coscienza all’incosciente”.

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“Lion et gladiateurs“, 1927

Sono parole di Savinio, che descrive così le forme di classicismo originario predilette dal gruppo italiano: “Non è ritorno a forme antecedenti, prestabilite e consacrate da un’epoca trascorsa, ma raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica”. Questa forma è la “mediterraneità” di cui parla George, intesa come “un sottile trait d’union tra lo spirito del Mediterraneo e lo spirito europeo tout court… questa arte segna la rivincita della tradizione latina e della sua straordinaria facoltà di astrazione”.

E definisce “reame in sconquasso” “lo stile giudeo romantico dei Soutine e il surrealismo” contro cui schiera idealmente “le legioni gallo romane, composte di elettissimi guerrieri”. Sarebbero i componenti  del gruppo degli “Italiens in Paris”, sempre più conosciuti all’estero, che si pone come alternativa ai surrealisti “giocando simultaneamente – osserva Benzi – le carte della classicità (tutta italiana) e della tradizione metafisica (il cui straordinario primato era peraltro riconosciuto dagli stessi  avversari)”.

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“Combat”, 1928

De Chirico nei suoi “retaggi classici” fa riferimento “a un’Ellade primigenia, i templi quasi sempre in rovina, le statue in frammenti. Non c’è più un luogo riconoscibile, se non quello che li raccoglie e individua tutti, cioè il Museo”, nel quale, come abbiamo visto all’inizio, si è arroccato. 

Ma la capitale francese è talmente aperta agli incontri che il più volte ricordato Rosenberg, “pubblicava (sulla sua bella rivista Bulletin de l’Effort Moderne, che portava lo stesso nome della galleria), esponeva  e vendeva senza preconcetti dipinti  cubisti, surrealisti e italiani classico- surreali”. Del resto queste correnti, se si possono chiamare così, “erano parti attive di un dibattito in fieri, allora considerato alla pari, dove però gli italiani svolgevano un ruolo che a molti sembrava vincente”. Intanto, dopo la rottura con Breton, proprio a Rosenberg, come si è già accennato,  de Chirico diede l’esclusiva di vendita delle proprie opere.

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“Guerrieri”, 1928

Fu una piccola rivincita, come il sostegno di una comunità artistica così qualificata quale quella degli “Italiens de Paris”,  a riparazione dei torti subiti. Come lo fu la pubblicazione nel 1928 di tre monografie su di lui, di Cocteau e George prima citati in Francia, e di Ternoverz in Italia; cui va aggiunta quella dell’anno precedente di Roger Vitrac, surrealista ma che si era staccato con Araud dal movimento che tanto male aveva fatto a de Chirico.

Gli anni ’20 terminano così in bellezza, con gli anni ’30 “una nuova idea di classicismo moderno”, poi la “pittura della realtà” e  “un’arte teatrale”, “la metafisica del mondo nuovo”, i “presagi” e “il periodo della guerra”. Sono altrettanti capitoli del libro di Benzi, ne parleremo prossimamente, prima del gran finale con “la ripresa delle opere metafisiche” e   “il definitivo ritorno della pittura antica” con “il nuovo classicismo”, “la nuova stagione metafisica e l’eterno ritorno”.  Quando si ferma il pendolo metafisica-classicismo.

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“L’archeologo” , 1928

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 2 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3, 5, 7, 9 – la I parte della trilogia – nei giorni 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, per Futuristi 7 marzo 2018, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Modigliani e Soutine 22 febbraio, 5, 7 marzo 2014, Duchamp 16 gennaio 2014, Cubisti 16 maggio 2013; in cultura.inabruzzo.it, per Dada e Surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009, Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Le consolateur” 1929; seguono, “La famille du peintre” e “L’enfant prodigue” 1926; poi, “La maison aux volets verts” e “Nus antiques” 1926; quindi, “Meubles dans une vallée” e “Chevaux sur une plage” 1927; inoltre “Les archéologues” e “Paysage dans une chambre” 1927; ancora, “Fin de combat” e “Lion et gladiateurs” 1927; continua, “Combat” e “Guerrieri” ” 1928; infine, “L’archeologo” 1928 e, in chiusura, “Le triomphe” 1928-29.

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Le triomphe”, 1928-29

De Chirico, trilogia I – 4. Il periodo romantico, surrealismo e rottura con Breton

Romano Maria Levante

Continua il nostro viaggio nel mondo dechirichiano seguendo il monumentale volume “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera” – che chiamiamo il “’Film della mia vita” nella “regia”di Fabio Benzi per l’incalzante taglio cinematografico della sua ricostruzione – basato su un’accurata ricerca avvalendosi di una miriade di fonti interpretate con una logica serrata per penetrare nel processo creativo dell’artista. Nelle tre puntate precedenti di questa che consideriamo una “fiction” vera e reale, abbiamo ripercorso l’educazione in Grecia, i trasferimenti a Monaco, Milano, Parigi e i vari viaggi in Italia a Roma, Torino e Firenze, con la nascita della Metafisica che si esprime attraverso le “Piazze d’Italia”  e i “manichini”,  fino ai biscotti “ferraresi” e agli altri oggetti insensati, in una escalation metafisica che d’improvviso cessa con il passaggio al classicismo. E’ il 1919, de Chirico che ha creato la metafisica a 22 anni, ora ne ha 31, è passato decisamente al classicismo. Lo seguiamo nel suo continuo rinnovarsi e innovare.

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“Le revenant”, 1918-22

Ricordiamo il suo rigore purista dopo la svolta classicista del 1919, di cui si celebra il centenario, tanto che sulla rivista “Valori Plastici” era tra i più accaniti avversari del “secentismo”, finché con la chiusura delle rivista avviene un altro “ribaltone” stilistico e contenutistico: cade l’idea classicista per una visione più aperta verso le espressioni liriche, in una prima fase legate al romanticismo. Bocklin e Courbet i suoi riferimenti ideali, il primo era stato seguito da lui giovanissimo.

Ecco come Benzi introduce la nuova fase: “Bocklin prese  così il sopravvento su Raffaello, Piero della Francesca e Giovanni Bellini, de Chirico si trovò a rimeditare forme  e sistemi rappresentativi che già erano stati fondamentali per l’incubazione e ed elaborazione della Metafisica”. E lo fece recuperando i motivi del passato e seguendo l’ispirazione proveniente dalla realtà, che lo portava ad aprirsi al lirismo, sempre sentito nella sua vena interiore, e per il quale era stato attratto dal lirico Apollinaire e da Nietzsche, il cui pensiero filosofo era espresso in forma lirica, tanto che Savinio scriveva: “Nietzsche è un lirico: é l’esempio più tipico del lirico. E’ l’uomo liricamente più completo che io conosca. Nonché la sua opera, la sua vita stessa è un fatto lirico”. Un lirismo che si esprimeva in particolare nella “Stimmung” di cui abbiamo parlato come atmosfera metafisica, mentre della prevalente idea del Superuomo de Chirico non si è mai interessato.

“Villa romana (Paesaggio romano)”, 1922

I dipinti di questi anni hanno tale nuova ispirazione, le ville richiamano la “Villa am meer”  di Bocklin del 1864, ma nello specifico si riferiscono a Ville romane, con qualche eccezione fiorentina. L’ apripista, “Villa romana (Paesaggio romano)” del 1922, è una veduta dei Monti Parioli con la rupe tufacea e due edifici che quasi si toccano, evidente il riferimento a  Villa Strohl-Fern in cui si riunivano gli artisti, de Chirico compreso, in alto su una nuvola vola Mercurio, un Hebdomeros “ante litteram”. Segue una serie di Ville del 1923, anch’esse per lo più romane, alcune ben identificate, di cui  colpisce l’imponenza e l’eleganza classica, insieme all’ambientazione e alla presenza umana che dà vita all’ambiente; e soprattutto, in alcune di esse, degli alberi fronzuti, l’opposto della lineare essenzialità della metafisica. In “Tibullo e Messalla (Gli addii del poeta)” gli alberi occupano interamente il quadro con le loro chiome folte, incredibile per de Chirico, alla loro ombra due piccole figure, Tibullo a  terra  che saluta l’amico Messalla in partenza per una guerra. Alberi anche in “Villa romana (Paesaggio con cavaliere)” e  “Oreste e Elettra” in due versioni, nella seconda si riconoscono edifici romani e fiorentini “in un collage metafisico in cui tempo e spazio sono annullati”. In  “Ottobrata” ritroviamo l’edificio degli Horti Farnesiani di “Oreste e Elettra” con un’impronta classica molto marcata; altrettanto classico il tempietto di “Partenza dell’avventuriero (seconda versione)” nella trasposizione con edifici fiorentini di una prima versione con edifici romani intitolata “Il ritorno del cavaliere errante”.  

Del 1923 anche 2 nature morte, “Il bicchiere di vino” e “Natura morta con busto classico”, mele e selvaggina, oltre al bicchiere nel primo, melagrane nel secondo, tutti prodotti autunnali, con “l’autunno come topos, come luogo temporale, non meno pregnante del luogo reale ed evocativo delle ville romane”; e la classicità che nel busto della natura morta si erge dominante sulla natura.  

“Villa romana (Paesaggio con cavalieri)”, 1923

Così conclude Benzi  la rievocazione del periodo “romantico”: “In questa ottica i luoghi diventano una complessa categoria dello spirito, un insieme di natura, storia, cultura  e mito, capaci di coagulare lo Stimmung dell’artista. Gli stessi, identici temi della prima Metafisica, le identiche premesse filosofiche e pittoriche sono svolte in modo ora completamente diverso, ma il contenuto rimane di una coerenza impeccabile”. 

La consonanza tra Metafisica e Surrealismo sul piano artistico

Anno nuovo, vita nuova e anche arte nuova, con il 1924,  e poi il 1925,  cambia ancora tutto, perché al legame permanente con la classicità si aggiungono le sollecitazioni della contemporaneità impresse dalla avanguardie. E tra queste il Surrealismo, conosciuto già nel 1910, in particolare il mentore Breton, per il sodalizio con Apollinaire, morto nel 918 e venerato da  entrambi.

De Chirico torna  a Parigi  dopo la lunga parentesi romana, che gli ha ispirato la fase “romantica”, e come si era impegnato con la rivista “Valori Plastici” nella virata classicista, così si impegna con la rivista “La Révolution surrealiste” nella suggestione surrealista: vi pubblica non solo scritti, ma disegni e immagini delle sue nuove opere  che – precisa Benzi – “rivisitano la pittura metafisica in chiave del tutto originale, monumentalmente classica,  in cui fa rivivere elementi della sua nativa cultura ellenica e mediterranea”. Del resto, “gli esordi del suo nuovo stile pittorico ‘parigino’”, come viene definito,  vanno visti alla luce del rinnovamento promosso dalle avanguardie e in particolare dal surrealismo al quale aderisce dopo la rottura di oltre dieci anni prima che interrompeva i contatti con Breton, molto vicino anche lui ad Apollinaire.

“Oreste e Elettra” (prima versione), 1923

Dimenticate le polemiche su tutti i piani, del resto Breton, con cui riprende i contatti nel 1921,  non lesina gli elogi ai dipinti metafisici, come era avvenuto al loro primo apparire sulla scena parigina: il “nuovo stile pittorico” aggiorna i suoi temi con varianti nelle quali si sente anche il “romanticismo” delle “ville romane”. Un esempio è “Il filosofo (Il ritornante)”, che nel 1924 riecheggia “Le revenant” del 1914, analogo edificio sullo sfondo e in primo piano, tenda simile dal lato destro invece che sinistro, ma maggiore morbidezza rispetto all’aspetto raggelato del primo “revenant”; come era avvenuto per la natura morta di “Il bicchiere di vino”  del 1923, rispetto a quella altrettanto raggelata del 1915.

Il rinnovamento, nella continuità ideale di un’ispirazione profonda, si manifesta anche nell’abbandono della tempera “all’antica”,  molto adatta nel ritorno al classicismo, superata dalla nuova tecnica a olio, “chiara e compendiaria come quella degli affreschi pompeiani”, che dà, oltre a una maggiore speditezza realizzativa, una forza cromatica al livello di quella di Picasso.

Come al livello picassiono sono considerate “La ciociara” e  “Figura di donna in riva al mare”, la prima parte di una serie, che suscitò questo commento di Margherita Sarfatti dopo averla vista esposta alla Biennale romana del 1925: “Giorgio de Chirico appare fortemente impressionato dalla pittura classica-sintetista  del più recente Picasso”, riferendosi ovviamente alle sue figure neoclassiche, non a quelle cubiste. Sono, come il sopra citato “Filosofo”, di un figurativo, se si può usare questo aggettivo, rotondo e morbido, come nelle “Ville romane”, e riguardo all’assonanza con Picasso, Benzi osserva: “Il dialogo che de Chirico instaura è voluto, meditato, ma cerca di sottolineare le molteplici riprese di Picasso dalle sue stesse opere, intrattenendo così un rapporto di co-protagonismo, privo di polemica, sul palcoscenico parigino”.

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Tibullo e Messalla (Gli addii del poeta)”, 1923

Così troviamo non solo derivazioni picassiane in de Chirico, ma anche derivazioni dechirichiane in Picasso, come nelle nuvole orizzontali dei cieli mediterranei che vediamo in “Le poète et le philosophe” e “Le double réve de printemps”, della prima metà del 1915. L’autore completa così il suo raffronto: “Insomma, de Chirico ingaggia più che un certame, un dialogo ammiccante con Picasso, replicando ciò che egli stesso aveva già sperimentato, e che lo spagnolo aveva a sua volta ripreso”.

Ma in questo nuovo corso c’è molto di più, torna anche la Metafisica “ferrarese”, così particolare e incomprensibile se non si coglie l’ispirazione dell’ambiente cittadino, in particolare del quartiere ebraico, con le sue povere vetrine ricolme di biscotti e oggetti affastellati. Una metafisica rivista anch’essa in una visione mediterranea, come viene rivisto il “quadro nel quadro”, abituale nelle opere di quel periodo, come si è detto in precedenza. Lo notiamo in “Interno metafisico- L’aprés midi d’eté”, e in “”Nature morte  a la briosce”, entrambi del 1925 con le nuvolette orizzontali mediterranee: nel primo il “quadro nel quadro” è preso da “Caccia ai trichechi”, dipinto  nel 1900 circa dal pittore austriaco Theodor Breidweiser – riferimento individuato dal presidente della Fondazione  de Chirico Paolo Picozza – nel secondo i biscotti “ferraresi” si trasformano nelle briosce, forse in omaggio a Maria Antonietta…   Con “L’automate”, dello stesso anno, le squadre e le righe da disegno della struttura compositiva, ad esempio di “L’ange juif”, di 9 anni prima, diventano elementi  arrotondati, con dietro lo scorcio di un edificio incorniciato e nello sfondo il cielo azzurro con le nuvolette orizzontali che apre alla visione mediterranea.

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Natura morta con busto classico”, fine 1923

Se queste sono novità rilevanti, quella nei manichini metafisici è sconvolgente. A parte le teste a uovo sostanzialmente immutate, non più le forme essenziali nella loro composizione di elementi geometrici assemblati ma rigorosamente chiusi con un’impressione di rigore, forza  e solidità; bensì forme  arrotondate e soprattutto aperte nel torace per accogliervi elementi geometrici, precisamente volumi di solidi, cubi e parallelepipedi, piramidi e frammenti, non più le precise squadre e righe “ferraresi” e non ancora i chiari ruderi antichi che troveremo negli “Archeologhi”. Sono figure dolenti come “Le poète triste consolé par sa muse”, e “Les jeux terribile”,  pensierose come “Le peintre”, nelle ultime due la visione si apre sull’azzurro del cielo mediterraneo con le nuvolette orizzontali.

Una “rimeditazione” dei temi metafisici dovuta  all’influenza dei contatti con i surrealisti, in  una “consonanza” del nuovo orientamento dimostrata dagli scritti nei primi numeri della rivista “La Revolution Surrealiste”, a loro volta ispirati dalle originarie visioni della prima metafisica da loro a suo tempo apprezzata. Questo non viene scalfito dall’argomento addotto secondo cui “i surrealisti mirino all’inconscio e de Chirico alla memoria” differenza che porterebbe “all’automatismo e al sogno” i primi e “alla chiarezza e alla visione “ il secondo.

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“Autoritratto”, inverno 1923-24

Benzi le considera “ragioni pretestuose”, anche considerando che “i surrealismi sono di molte specie e spesso assai diversi fra loro”. In particolare “non vi è automatismo in Magritte o in Dalì, e d’altra parte sogno e inconscio emergono… anche dalle opere di de Chirico, come dal suo romanzo Hebdomeros”. E definisce il nuovo corso “un surrealismo sui generis, quindi, ma dalla fine del 19124-26 sviluppatosi nell’alveo di quello ufficiale, nitidamente teorizzato nei primissimi numeri delle rivista”.

L’autore cita al riguardo  l’affermazione di Max Morise secondo cui “è  qui che noi giungiamo a un’attività veramente surrealista – le forme e i colori passano da un oggetto all’altro, si organizzano secondo una legge che sfugge ad ogni premeditazione, si fa e si disfa nello stesso momento in cui si manifesta”, come avviene, ad esempio negli “interni metafisici” del 1924-25 che, sottolinea l’autore, sono “colmi di oggetti imprecisabili in cui le forme e i colori vivacissimi si  compenetrano senza ordine. O ancora, i manichini le cui forme viscerali si materializzano in rovine, giocattoli e squadre non sembrano differire  da quel sogno reso confuso dal recente risveglio di cui parla Aragon”   a proposito dell’”invention”, titolo del suo articolo del 1924 sul tema nel primo numero della Rivista.

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“”Il filosofo (Il ritornante)”, inizi 1924

Il pensiero filosofico di de Chirico – dal quale nasce la Metafisica – non differisce da quello di Aragon il quale considera  gli oggetti “non come vuote astrazioni… ma nella loro forma concreta”, come del resto l’immagine e la poesia. La conoscenza filosofica, negando il reale, crea un rapporto con l’irreale, per poi evaderne senza affermare il reale ma confondendolo con l’irreale. L’invenzione nasce dal sogno, il creatore “riprende questa allucinazione, e per così dire la ricalca, la traduce, la mette alla portata delle mani degli increduli”. Nell’Ebdòmero de Chirico riecheggia questi temi: “Quando avete trovato un segno, voltatelo e rivoltatelo da tutti i lati; guardatelo di faccia e di profilo, di tre quarti e di scorcio; fatelo sparire e  osservate quale forma piglia al suo posto il ricordo del suo aspetto… “.

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‘L’automate”, fine 1924-inizio 1925

Così l’autore conclude l’immersione surrealista: “Seguendo queste premesse, appare evidente che i temi rappresentati nei quadri  di questo periodo siano sostanzialmente ‘invenzioni surreali’, luoghi alcuni già dell’immaginario onirico metafisico, ma riletti in una luce di realtà soffusa, familiare, onirica, che proprio nell’apparente consuetudine borghese degli interni reca l’implicito allarme, lo scollamento tra cosa reale e prodotto dell’immaginazione”.

Dalla consonanza artistica alla rottura sul piano personale con Breton

Tutto bene, dunque, gemellaggio virtuale tra Metafisica e Surrealismo? Sul piano artistico la risposta non può che essere positiva, la consonanza permane;  ma la drastica rottura con Breton, il portabandiera del Surrealismo, che avvenne in modo imprevedibile dati i precedenti di sintonia tra i due, quanto irreversibile, ebbe ripercussioni di lungo termine anche sulla critica d’arte. E questo sebbene la rottura non avvenisse su questioni artistiche ma mercantili, quindi d’interesse, oltretutto banali, almeno in apparenza.

Benzi dedica un ampio capitolo a “questa complessa vicenda, forse a lungo ma credo non inutilmente descritta”, e lo fa ricostruendola con un’indagine certosina in cui verifica accuratamente dichiarazioni e circostanze dimostrando l’infondatezza di alcuni giudizi sommari dati su de Chirico sulla base di presupposti risultati palesemente falsi.

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“La ciociara”, 1925

L’accusa più grave è di aver sistematicamente copiato i propri dipinti della stagione d’oro della prima Metafisica, mentre fece una copia di “Le muse inquietanti”, con l’autorizzazione del proprietario dell’originale, Castelfranco, per accontentare Breton il quale non era riuscito ad acquistare l’opera cui era molto interessato anche per la lievitazione della richiesta economica di quest’ultimo; rassicurava Breton sull’accuratezza della copia delle “Muse” –  e anche dei “Pesci”, altra opera proposta – spiegando in una lettera alla moglie dello stesso che le opere duplicate “non avranno altro difetto che quello di essere eseguite con una materia più bella e tecnica più sapiente”. Ebbene, Breton non volle ammettere di avergli commissionato la copia – che sembra abbia venduto poi come antica – per lanciargli la grave accusa che si è propagata nel tempo e nello spazio, di essere copiatore e falsificatore della pittura metafisica per la quale, oltretutto, attribuisce a Savinio la primazia. E dire che de Chirico gli aveva procurato subito “Le revenant” del 1918, ma non era riuscito a soddisfare le sue pressanti richieste di quadri del primo periodo metafisico!

A questo gravissimo motivo di rottura si aggiungono altri screzi relativi a quanto de Chirico aveva lasciato a Parigi al richiamo militare del 1914: non solo una documentazione preziosa sul suo processo creativo, ma anche “quadri probabilmente non finiti”, il tutto amdato nelle mani di Breton all’irrisoria cifra di 500 franchi per il prolungarsi della guerra che allontanava il ritorno di de Chirico a Parigi. Era ciò che rimaneva di quanto lasciato nel suo studio dopo che opere in numero imprecisato furono raccolte da Ungaretti e portate all’amico comune Paulhan per la vendita.

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Figura di donna in riva al mare”, 1925

Non va sottovalutato il valore anche economico dei quadri incompiuti  perché “la pratica del ‘completamento’ era un elemento inusuale, anche se scorretto” e, di conseguenza, “l’assenza di de Chirico da Parigi, considerata  ormai definitiva, rendeva quell’atteggiamento praticabile e certamente redditizio”. Come esempi vengono indicati “La matinée angoissante”, datato 1912, “dipinto forse incompiuto di de Chirico, compare per la prima volta nel dicembre 1921, e “Composizione metafisica”, dichiarato “dipinto falso, forse incompiuto di de Chirico ma successivamente radicalmente contraffatto”, venduto nel 1925.

De Chirico ha subìto e continua a subire  gravi danni  dal comportamento ostile di Breton il quale invece se ne avvantaggiò, diffamandolo con accuse false. Non va dimenticato che Breton era un collezionista mercante, e per gli interessi di tale attività pubblicò sulla Rivista dei surrealisti, nel marzo 1926, l’”Oreste e Elettra” del 1926 di de Chirico sfregiato; nel numero successivo lo denunciò come “falsario di se stesso [che] ha messo in circolazione un gran numero di falsi caratterizzati, tra i quali delle copie servili, peraltro per la maggior parte antedatate”. Per quali interessi lo spiega Benzi: “E sappiamo che non esiterà, in seguito, a far eseguire, da altri, dipinti falsi, con intento puramente venale oltreché su quello di gettare discredito sull’artista. Lo scopo (oltre a vendicarsi di de Chirico) era quello di divenire, al posto dell’autore, l’arbitro dell’autenticità dei dipinti metafisici”.

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“Les jeux terribles”, 1925

Vendicarsi di cosa? E’ presto detto, de Chirico non porse di certo l’altra guancia, anzi con il suo temperamento focoso passò all’offensiva e nella mostra “La peinture surrealiste”, organizzata da Breton nel novembre 2015,  contestò l’intitolazione di sue opere e soprattutto l’abusivo completamento di altre passate a Breton. Inoltre lo colpì da lato economico: strinse rapporti con un nuovo mercante, Lèonce Rosenberg – presentatogli da Breton –  il quale nel maggio 1925 espose in una mostra subito organizzata l’originale di “Le muse inquietanti”  spiazzando Breton che poteva aver venduto nel 1923 la copia spacciandola per originale, fatto di estrema gravità; ma soprattutto, tornato stabilmente a Parigi, nel novembre 1925 stipulò due contratti  di esclusiva alla vendita delle sue opere, prima con Rosenberg e dopo con Guillaume, il suo mercante della prima ora. Conclude Benzi: “Non sarà ovviamente Breton a gestire il mercato della sua pittura”. Il “follow the money” di Giovanni Falcone sembra valere pure in questo campo.

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” Interno metafisico-L’après midi d’eté”, 1925

Dieci anni dopo, nell’ottobre 1935, si arriva allo scontro fisico, dopo che alla minaccia di de Chirico “che regoleranno presto i loro conti, … Breton, replicando rabbiosamente che li regoleranno invece subito, colpisce con un pugno de Chirico gettandolo a terra, ripetendo cinque o sei volte l’atto  oltraggioso”. Sono ben lontani i tempi della fotografia scattata da Man Ray al “gruppo surrealista”, e pubblicata sulla copertina del primo numero della loro Rivista, che vede Breton e de Chirico  in posa tra i 14 artisti, divisi soltanto da Jacques-André Boiffard!     

Il “Film” di Benzi ci porta presto “in più spirabil aere”: si va dal classicismo mediterraneo a un nuovo classicismo, dalla “pittura della realtà” a un’“arte teatrale”, dalla “Metafisica del mondo nuovo” ai “presagi di guerra”. Ne parleremo nelle prossime puntate della nostra “fiction”, prima del gran finale, con il pendolo che oscilla di nuovo tra la “ripresa delle opere metafisiche” e “il definitivo ritorno all’arte antica”, che non è poi definitivo perché negli ultimi anni abbiamo  “la nuova stagione metafisica”. E’ “l’eterno ritorno” di un artista incommensurabile.

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“Nature morte à la brioche”, 1925

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 3 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3, 5, 7 – la I parte della trilogia – nei giorni 11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Dalì 28 novembre, 2, 18 dicembre 2012 ; in cultura.inabruzzo.it “Il teatro del sogno” 30 settembre, 7 novembre, 1° dicembre 2011, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Bellini e Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte la chiusura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Le revenant” 1918-22; seguono,“Villa romana (Paesaggio romano)” e “Villa romana (Paesaggio con cavalieri)” 1922; poi, ” Oreste e Elettra” ( prima versione) 1923, e “Tibullo e Messalla (Gli addii del poeta)” 1923″; quindi, “Natura morta con busto classico” fine 1923, e “Autoritratto” inverno 1923-24, inoltre, “Il filosofo (Il ritornante)” inizi 1924, e ‘”‘L’automate” fine 1924-inizio 1925; ancora, “La ciociara” e “Figura di donna in riva al mare”” 1925; continua, “Les jeux terribles” e ” Interno metafisico L’après midi d’eté” 1925; infine, “Nature morte à la brioche” 1925 e, in chiusura, “Composizione metafisica”, venduto nel 1925, forse incompiuto di de Chirico, ma poi contraffatto e dichiarato falso da de Chirico.

Composizione metafisica”, venduto nel 1925, forse incompiuto di de Chirico, ma poi contraffatto e dichiarato falso da de Chirico.

De Chirico, trilogia I – 3. Dalla Metafisica “ferrarese” al ritorno al classicismo

di Romano Maria Levante

Prosegue la visione di “Il Film della mia vita”, come abbiamo chiamato, riferendoci al Maestro, il monumentale volume di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, Siamo alla 3^ puntata della “fiction” in cui si snoda, dopo la 1^ dedicata all’educazione in Grecia, ai trasferimenti a  Monaco e Milano, poi Firenze con l’illuminazione metafisica di Piazza Santa Croce; e la 2^ agli sviluppi della Metafisica con il trasferimento a Parigi, dove nascono le Piazze d’Italia, la malinconia di Arianna, le rivoluzioni prospettiche e gli oggetti insensati, fino ai manichini, con la figura ispiratrice di Apollinaire. Un’evoluzione  artistica apparentemente incomprensibile decrittata dall’accurata ricerca di Benzi, che fornisce spiegazioni documentate anche per il seguito, altrettanto criptico nella Metafisica “ferrarese”.

“Le Muse inquietanti” , giugno 1918

La metafisica dei biscotti e oggetti insensati di Ferrara

Abbiamo lasciato de Chirico a Parigi, Apollinaire si è arruolato per la Grande Guerra nell’estate 1914, ma con l’entrata in campo dell’Italia anche lui viene richiamato in patria con il fratello Savinio. E’ il maggio 1915, vanno al distretto militare di Firenze, poi sono assegnati a Ferrara e all’artista vengono date mansioni di “scritturale” che gli permettono di dipingere, dopo una fase di assestamento iniziale, il “Portrait de Paul Guillame”, della prima parte dell’anno: è l’ultimo retaggio parigino, del resto è il mercante al quale ha lasciato i suoi quadri e con cui resterà in continuo contatto. E’ preciso e figurativo, come il “Ritratto di Carlo Cirelli” di ottobre, già sotto la naja; altrettanto figurativi“Natura morta”  e “Les jouets du prince”, stesso periodo, mentre nell’inverno con “Le projects de la jeune fille” torna l’apparente insensatezza del guanto con dei rocchetti in primo piano, ma a sinistra spicca un edificio rosso con la cima turrita.

Dopo la scomparsa di ogni reminiscenza localistica e poi anche di ogni senso logico, Ferrara comincia a entrare con forza nella sua ispirazione, cominciando dai palazzi. E la Metafisica delle piazze, le arcate e i manichini, per non parlare di Arianna? Sembra dimenticata, ma per una nuova Metafisica, quella “ferrarese”, con la quale cerca di “riannodare i fili della sua ispirazione” con “i nuovi segni che Ferrara gli suggerisce – è la chiave con cui Benzi interpreta l’indecifrabile – Vetrine di provincia con oggetti disordinati, dimenticati forse da generazioni, quasi vetrine di una  Wunderkammer dove si annidano stranezze di mondi lontani, oggetti il cui uso è stato apparentemente dimenticato e sembra appartenere ad altre, remore culture”.  Si tratta della cultura ebraica, del ghetto di Ferrara, che risveglia l’interesse di de Chirico coltivato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, con l’ebraismo considerato da Reinach fondante la civiltà occidentale, giudaico-cristiana.

“La nostalgie de l’ingénieur”, prima metà 1916

E gli oggetti che lo colpiscono, esposti nelle vetrine e presenti nelle case, sono soprattutto, nelle sue parole, “dolci e biscotti dalle forme oltremodo metafisiche e strane. A tale periodo appartengono i quadri detti ‘interni metafisici’.  A questi si aggiungono, fino a diventare prevalenti, oggetti geometrici, come squadre e righe da disegnatore, strumenti curvilinei e goniometri che provengono da un’altra “cultura”, le composizioni meccaniche futuriste, del movimento italianissimo da lui preferito, sia pure attribuendogli “molte debolezze”, al  cubismo “eminentemente francese” e al fauvismo. Tutto ciò si manifesta nelle opere della prima metà del 1916, quali  “Composizione metafisica” e “La nostalgie de l’ingénieur”,  “La révolte du sage” e Le fèdele serviteur” , “Le salut de l’ami lontain”, “Le deux après midi” . Mentre, nell’estate successiva, in “L’auge  juif”  torna una composizione da “manichino” formato dall’assemblaggio di righe e squadre da disegno, e in “Interno metafisico con grande officina” le squadre sono il contorno di un “quadro nel quadro”.

Nel settembre-dicembre 1916 un’altra novità, con i contorni dati dagli strumenti del disegnatore troviamo la cartina geografica dell’Istria,  altra manifestazione di italianità – oltre al riconoscimento dato al futurismo, al quale peraltro restò estraneo – dopo la notizia giunta a fine agosto dell’impiccagione da parte degli austriaci dell’irredentista istriano Cesare Battisti catturato sul sommergibile incagliato nel Quarnaro. Anche qui Benzi dà un’interpretazione: “E il coacervo di riquadri con oggetti, di squadre e segmenti tubolari, non è escluso che evochi l’affollato intrico degli interni dei sommergibili della prima guerra”. L’onda emotiva gli fa scrivere a Soffici “il cuore mio sventola ‘spiegato come una bandiera’”, parole del poeta che fa sue, e gli fa inserire una bandierina in “La mélanconie du départ” e in “La politique”,  non in “Natura morta evangelica” e “Le corseire”, nei quali comunque, come nei primi due, c’è la cartina dell’Istria.

“La révolte du sage”, metà 1916

Abbiamo sottolineato il suo riconoscimento del futurismo, al riguardo nacque un sodalizio con Carrà presentatogli da Soffici, peraltro quando entrambi avevano abbandonato il movimento. Carrà, anch’egli sotto le armi, si fece trasferire prima a Pieve di Cento vicino Ferrara, poi nell’aprile 1917 nella stessa Ferrara per stare con de Chirico. Voleva fondare una rivista, anche insieme a Soffici,  a Parigi, con il mercante Guillaume e Apollinaire, la cui morte nel 1918 fece cadere il progetto.

De Chirico è ancora legato ai temi “ferraresi”: nei suoi dipinti tra la primavera  e l’autunno 1917  abbiamo i biscotti in “Natura morta evangelica “, il “quadro nel quadro” con un’officina in “Le jeux du savant” e “Interno metafisico con piccola officina”, dopo quello con la “grande officina” dell’anno precedente, di nuovo il “quadro nel quadro”  in  “Le réve de Tobie” con un pesce  e in  “Interno metafisico con villa”.

“Le fidèle serviteur”, metà 1916

Rivediamo i “manichini” in due opere tra marzo e agosto, “La musa metafisica” eSolitudine”, ma non sono di  de Chirico nonostante i titoli, bensì di Carrà. Cos’è avvenuto?  De Chirico in “La révélation du solitaire” , ai biscotti “ferraresi” dentro un riquadro, ha aggiunto una parvenza di testa di manichino, senza rilievo ma evocativa. E allora, è sempre Benzi che interpreta: “Carrà aderisce entusiasta alle ‘rivelazioni’ dechirichiane, ma con una radice fortemente idealistica, dichiaratamente platonica, che si distacca di netto dal nichilismo vaticinatorio di de Chirico”. Con intenti ambiziosi: “Egli crea una sorta di ‘religione’ dell’arte, in cui tutto si risponde secondo regole armoniche e filosofiche, ma usa e abusa delle immagini e dei segni dechirichiani”. E seguendo queste modalità: “L’adozione entusiastica del tema del manichino, che egli sviluppa in questo momento più del suo inventore de Chirico (dal quale comunque la trasse), lo ricollega  a sue esperienze precedenti… di personaggi meccanici futuristi”.

De Chirico ne è influenzato, abbandona l’assemblaggio di oggetti del secondo periodo “ferrarese” senza tornare alla compressione degli spazi e della prospettiva dell’ultima fase parigina; gli stessi temi “ferraresi” tradizionali, prima citati,  assumono parvenze oniriche e inquietanti; inoltre, con gli strumenti da disegnatore e le carte geografiche istriane, “inizia a comparire con sempre più evidenza qualche squarcio  di natura apparentemente iperrealista”, ma che rappresenta invece un sogno evocato nell’”Autobiografia”, dal quale è nato l’”Interno metafisico con villa”.

“Interno metafisico con grande officina”, estate 1916

Ricompaiono i manichini

Ai manichini bianchi e statuari di Carrà de Chirico risponde, alla fine del 1917, con gli splendidi manichini  compositi e cromatici di “Il trovatore” e la coppia “Ettore e Andromaca”, nei quali restano le squadre ma di contorno, mentre in “Il grande metafisico” sono elementi strutturali.

E’ solo l’inizio, nel giugno 1918 con “Le Muse inquietanti” “trova la sua apoteosi” – osserva Benzi – “in un completo abbandono del sistema di trasfigurazione che de Chirico applicava nella prima fase della metafisica…, ma accrescendo così il senso di realismo oggettivo e straniante che è proprio dei sogni; la sostituzione dei personaggi umani  con i manichini, già elaborati al tempo di Parigi, accresce la ‘disumanizzazione’ e l’onirismo delle scene”. La figura seduta senza testa si ispira a una statua acefala che aveva visto al Museo Archeologico Nazionale di Atene, vicinissimo  all’Accademia di Belle Arti del Politecnico da lui frequentata. Si tratta della dea Artemide, alla base la scritta OMEGA,  come  fine del tempo, letta alla rovescia AGEMO come “Hegemone”, secondo Benzi “dovette fondersi nella sua memoria con l’idea dell’eterno ritorno nietzschiano:  ‘L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere’”, viene evocato anche Eraclito, “il filosofo dei misteri” molto seguito da Nietzsche e da de Chirico.

“Les jeux du savant”, maggio 1917

L’autore fa una considerazione di ordine generale:  “A Ferrara la Metafisica diviene dunque un incrocio potremmo dire ‘fatale’, non un vero  e proprio movimento ma un movimento in nuce, progettato ma mai concluso, un gruppo disomogeneo per quanto ristretto, il quale trasforma l’invenzione pura e autonoma di de Chirico nel linguaggio comune di una piccolissima falange di artisti che si pone in parallelo alle contemporanee sensibilità europee di ‘riforma’ delle avanguardie prebelliche”. E conclude: “La visione di de Chirico si allarga come un cerchio nell’acqua a Carrà, che ne riprende puntualmente i temi salienti (manichini, stanze incubatrici di sogni, oggetti misteriosi, carte geografiche, perfino i biscotti e i pani tratti dalle vetrine di fornai del ghetto di Ferrara) riverberandosi in poco tempo su Giorgio Morandi…, sul giovane Filippo de Pisis, sul fratello di Giorgio, Alberto Savinio, ancora solamente come poeta e critico, e sul nume tutelare di tutti, Ardengo Soffici”.

A Roma il “ritorno all’ordine” verso il classicismo

De Chirico, pur essendo il padre assoluto della pittura Metafisica, ci teneva  a mantenere unita quella “piccolissima falange”, anche per poter meglio penetrare in Italia dove era poco conosciuto avendo maturato a Parigi la propria crescita artistica. Ma questo gli creò dei problemi che vedremo.

“‘Interno metafisico con piccola officina”, primavera-estate 1917

Torniamo al clima che si respirava a Roma alla fine del 1918, ben diverso da quello “di inquieta sospensione” della fase bellica che aveva visto gli artisti disperdersi per il richiamo alle armi. Già nella primavera due mostre contrapposte movimentano l’ambiente romano: a maggio la collettiva alla galleria dell’Epoca con de Chirico e Carrà, che espongono quadri metafisici, Soffici e Prampolini; a giugno la mostra di Piacentini  e Tridenti con 7 giovani di orientamento secessionista.

Sembra in atto la ricerca faticosa di un ritorno all’ordine dopo il caos nell’arte creato dalle avanguardie. Viene fondata la rivista “Valori Plastici” aperta ai contributi degli artisti, apre i battenti la galleria “Casa d’arte Bragaglia”, si succedono le mostre di pittori delle varie correnti, futuristi in testa con Balla e Depero, oltre a de Chirico e Sironi. Non manca Picasso conosciuto ancora come cubista, anche se in Italia aveva riscoperto il classicismo; pure de Chirico a Roma nell’aprile 1918 per la propria mostra sente il fascino del classicismo, sul quale si è aperto un dibattito,  dopo le tante esperienze che lo avevano allontanato dai classici ma solo in parte, restando il richiamo in sottofondo.  Non si limita a discutere, dipinge tra giugno e luglio quello che è stato definito il “dittico amoroso”: la “testa di donna” preannunciata a Soffici per la mostra,  “Alcesti”, che incarna la sua fidanzata, con il riferimento classico degli occhi  rivolti in alto come le Niobidi, e in sequenza, tra luglio e novembre, il proprio  “Autoritratto”.

; inoltre, “Interno metafisico con villa”, estate 1917

C’è un ritorno di fiamma per la metafisica “ferrarese” del “quadro nel quadro” tra righe e squadre da disegno in quest’ultimo mese in “Natura morta con cascata  paesaggio” e “Interno metafisico con faro”,  dove cascata-paesaggio e faro sono incorniciati. E nella mostra del 2 febbraio 1919 espone i quadri metafisici più rappresentativi, dall’”Enigma dell’oracolo” e “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” del 1910, a “ll trovatore”, “il grande metafisico” del 1917 fino alle “Muse inquietanti” del 1918 e al contestuale “Alcesti” che apre il nuovo corso.

Qui un cenno va fatto all’italica tragedia delle gelosie tra artisti,  Carrà, che dall’esperienza futurista aveva appreso l’importanza di un’etichetta artistica efficace come era la Metafisica, cercava di acquisirne il primato, sebbene fosse di de Chirico, al punto di boicottarne la partecipazione a una mostra del 1917 per apparirvi come unico metafisico presente; ma non si fermò qui, indusse l’amico Papini a suggerire a de Chirico Roberto Longhi come critico al quale sollecitare un articolo, mentre era d’accordo con loro per una stroncatura sul giornale “Il Tempo” dal titolo “Il dio ortopedico” uscita il giorno dopo la chiusura della mostra perchè non traesse vantaggi dal clamore suscitato.

Papini arrivò a proporre a Carrà – e non a de Chirico che non vi sarà nemmeno citato, cosa che gli aprirà gli occhi – di scrivere un libro dal titolo “Pittura metafisica”, dopo aver fatto cadere quello che lo considerava amico nella trappola del critico Longhi.  Benzi è molto circostanziato nell’analizzare i vari momenti di questo autentico complotto, dovuto alla frenesia di Carrà per rifarsi dall’uscita dal futurismo con l’aureola del creatore di un nuovo movimento altamente evocativo come  il metafisico, mentre gli avveduti parlavano “senza mezzi termini di plagio”.

“Ettore e Andromaca”, 1917

L’interesse non era del solo Carrà; de Chirico nell’Autobiografia scrive di essersi accorto tardi di essere “al centro di una congiura, e non sta fronteggiando solo l’ambizione del singolo Carrà”, che  godeva di molti appoggi mentre lui era isolato; ci sono anche gli altri, da Papini a Longhi, interessati ad essere protagonisti di un movimento che avrebbe dato “una nuova definizione dell’arte contemporanea”. De Chirico ne subì a lungo gli effetti negativi sulla sua vita artistica.

“Pictor classicus sum”, l’abdicazione alla metafisica 

Prima di riferire della “congiura” metafisica abbiamo accennato al nuovo fascino classicista riemerso tra il 1918 e il 1919, ma ancora “episodico e concettuale”, tanto che all’inizio del 1919 ancora dipinti metafisici di pregio, “I pesci sacri” e “Melanconia ermetica”, spogli ed essenziali senza più le divagazioni oniriche ferraresi e per questo  intensi ed efficaci, una sorta di botto finale.

Ormai il fascino classicista lo prende, scrive che alla vista di un quadro di Tiziano a Roma, durante la mostra nella galleria di Bragaglia, ebbe  “la rivelazione della grande pittura”. Per questo, dopo una condiscendenza verso il futurismo – ritenuto nella prima metà del 1919 “una necessità indiscutibile, un movimento che giovò immensamente alla nuova arte” – nella seconda parte dell’anno “la sua posizione si ribalta – dichiara Benzi – alla ricerca di un classicismo antiavanguardistico e di un “ritorno al mestiere” degli antichi, per cui ogni futurismo diviene un’aberrazione “che non ha nullamente giovato alla pittura italiana’”, scrive nei “Valori Plastici” a fine 1919.  Ed è questo il “ritorno all’ordine” del dopoguerra conclamato dalla rivista di Broglio.

“I pesci sacri””, inizio 1919,

Devono essere evitati gli accumuli di oggetti senza senso nati da sollecitazioni oniriche per una compostezza ispirata alla pittura rinascimentale, “in una ricostituzione ideale dell’ordine costruttivo dell’antica arte italiana”. Addirittura de Chirico si assoggetta a fare copie di opere antiche e, mentre copia un ritratto di Lorenzo Lotto alla galleria Borghese, ha un malessere fisico del tipo di quello provato quando ebbe l’illuminazione metafisica, ora ha dell’arte una nuova visione classicistica. Il “Ritratto di gentiluomo” di Lotto diventa il suo tenebroso “Ritratto d’uomo”, siamo nel luglio 1919.

Inizialmente è un classicismo che mantiene delle reminiscenze metafisiche, come “Ritratto dell’artista con la madre”, di fine primavera 1919, e anche la rivista “Valori Plastici” pubblica articoli accondiscendenti, di Carrà, Savinio e dello stesso de Chirico, con eventuali contaminazioni siano esse futuriste, metafisiche o altro. Sono dei mesi tra luglio e novembre i dipinti in cui sperimenta  la tecnica ad olio “all’antica”, e per questo “son tutti segnati dalle ossidazioni e dai prosciughi”: “Il ritorno del figliol prodigo” e “La vergine del tempo”, “Natura morta con le zucche (Le zucche)” e “Diana (Vestale)”.

“Il ritorno del figliol prodigo” , luglio-novembre 1919

La transizione non dura molto, presto “Valori Plastici” si irrigidirà, con tutto il suo gruppo, in una concezione molto rigida di classicismo. E dire che ne facevano parte sia Carrà, come si è visto già entusiasta della pittura metafisica al punto di volerla scippare a de Chirico;, sia il re della metafisica in persona, che evidentemente  stava abdicando, tutto preso dal nuovo amore per i classici!. I “valori plastici” secondo lui risiedevano nel Rinascimento, mentre secondo Carrà nel Trecento: prima si “litigavano” la Metafisica, ora il classicismo.

Dal “ritorno all’ordine “ al “richiamo all’ordine”, per così dire, e paradossalmente de Chirico è tra i più rigidi assertori dell’esigenza di una purezza assoluta. Dipinge “Autoritratto con busto antico e pennello”, che Benzi definisce “vero manifesto di un dipingere all’antica”, meglio conservato di quelli appena citati, segno che si è impadronito della tecnica pittorica classica. E’ novembre-dicembre 1919, scrive su “Valori Plastici”: “Mi fregio di tre parole che voglio siano il suggello d’ogni mia opera:  “Pictor classicus sum”. 

“Mercurio e i metafisici (La statua che si è mossa)””, 1920

Termina il 1919, il dado è tratto, la svolta si è compiuta e l’appassionante “Film” di Benzi ne celebra il Centenario. Della pittura metafisica resta solo un ricordo, anche se in qualche caso se ne vede la traccia nell’identificazione dei luoghi, con richiami greci, del resto classicità è anche Grecia antica. E’ il caso di “Il saluto degli Argonauti partenti”, siamo entrati nel 1920,  Benzi lo considera “il manifesto delle intenzioni del nuovo corso classicista dechirichiano” e lo associa all’”Enigma di un pomeriggio d’autunno”, entrambi segnano l’inizio di una fase, il “saluto” per quella classica,  l’”enigma”  per quella metafisica.

Dello stesso anno,  due “Mercurio e i metafisici”, nel primo il corpo nudo del dio sembra materializzarsi da una statua, nel secondo c’è addirittura la statua di Arianna al centro della piazza, ed “Edipo e la  Sfinge (Il tempio di Apollo)”,  non più vaticinatori ma dei: “Dallo stato dionisiaco nietzschiano della Metafisica la visione sembra essersi spostata sulla calma apollinea”, spiega Benzi; mentre in “Lucrezia”, dipinta tra il 1919 e il 1921, si notano segni metafisici nello squarcio di finestra triangolare con nuvolette, e l’incarnato finale è tipicamente classico.  Anche Picasso aveva abbracciato il classicismo, ma senza abbandonare il cubismo, li alternava, pur così diversi; mentre de Chirico diventava sempre più “Pictor classicus”.

“Mercurio e i metafisici”, fine 1920

Il suo entusiasmo per il nuovo corso classico è evidente nella lettera al mercante Guilllaume del 28 dicembre 1921 in cui propone una mostra per presentare la sua “nouvelle picture” ai francesi che pensavano si fosse smarrito, e scrive appassionatamente: “Ho risolto il problema tecnico della pittura in un modo eclatante: vedrete una pittura di una solidità, di una chiarezza, di un fascino e di un mistero meravigliosi”. Ma i francesi non la pensavano così,  e lui lo sapeva avendone scritto a Breton, con il quale avrà nuovi contatti nella fase surrealista.

Concludiamo questo terzo tempo del “Film” di Benzi con i suoi 3 “Autoritratti”, dopo quello del 1919:  la sua testa su fondo verde nel 1920-21, affiancata  a una testa da statua greca, come il “Ritratto d’Apollinaire, la sua figura al lato del Busto di Euripide con la scritta “Nulla sine tragoedia gloria”.

Ma le sorprese non finiscono mai, il rigore classicista si allentò e vennero le contaminazioni anche con un certo secentismo, de Chirico mostrò tutta la sua apertura a sollecitazioni opposte. Si entra nel periodo ‘romantico’”, ma poi verrà il surrealismo, un nuovo classicismo ed altro ancora, fino alla neo-metafisica, nell’evoluzione con rinnovamento continuo ma in una continuità di fondo di un artista irrequieto. Ne parleremo prossimamente nelle successive  puntate della “fiction” appassionante in cui si dipana “Il Film della mia vita” con la “regia” di Fabio Benzi.

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“Il saluto degli Argonauti partenti”,1920

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 4 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3 e 5 – la I parte della trilogia – nei giorni 9, 11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del precedente articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, per Futuristi 7 marzo 2018, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Morandi 17 maggio 2015, Secessione 21 gennaio 2015, Sironi 1, 14, 29 dicembre 2014, Cubisti 16 maggio 2013, Tiziano 10, 15 maggio 2013; in cultura.inabruzzo.it, “Il teatro del sogno” 30 settembre, 7 novembre, 1° dicembre 2011, Lotto 2, 12 giugno 2011, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009, Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, Le Muse inquietanti” giugno 1918; seguono, “La nostalgie de l’ingénieur” prima metà 1916, “e ““La révolte du sage” metà 1916, e “Le fidèle serviteur”, metà 1916; poi, “Le doux après-midi” metà 1916, e “Interno metafisico con grande officina” estate 1916; quindi, “Les jeux du savant” maggio 1917, e “‘Interno metafisico con piccola officina” primavera-estate 1917; inoltre, “Interno metafisico con villa” estate 1917, e “Ettore e Andromaca” 1917; ancora, “I pesci sacri” inizio 1919, e “Il ritorno del figliol prodigo” luglio-novembre 1919; continua, “Mercurio e i metafisici (La statua che si è mossa)” 1920, e “Mercurio e i metafisici” fine 1920; infine, “Il saluto degli Argonauti partenti” 1920 e, in chiusura, “Autoritratto con busto di Euripide” 1922.

Autoritratto con busto di Euripide” 1922

De Chirico, trilogia I – 2. L’evoluzione della pittura Metafisica

di Romano Maria Levante

“Il Film della mia vita”, come direbbe il Maestro se potesse leggere il monumentale volume di Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, dopo l’educazione in Grecia, a Vados e Atene, e i trasferimenti prima a Monaco, poi a Milano e Firenze – dove nasce la prima  Metafisica nella Piazza di Santa Croce davanti al monumento di Dante – si snoda nei mutamenti continui, di sede, con il trasferimento a Parigi, e di espressione artistica, con le forme sempre diverse e intriganti in cui si esprime l’invenzione metafisica. Poi andrà a Roma e con il “ritorno all’ordine” abbraccerà il classicismo, ma sarà la 3^ puntata di questa “fiction” vera e coinvolgente. Prima di “vedere”  la 2^ puntata, ripetiamo che non possiamo ripercorrere l’interminabile itinerario di ricerca e di indagine dell’autore, pur se appassionante come un film poliziesco, ma dobbiamo limitarci ai risultati straordinari che  fanno uscire dal labirinto dechirichiano e decrittare gli intricati enigmi.

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Mystère et melancolie d’une rue”, prima metà 1914

Parigi, la Metafisica della nostalgia

E’ il 14 luglio 1911, da quattro giorni ha compiuto 23 anni, approda a Parigi dove è già andato il fratello Savinio alla continua ricerca del successo musicale invano atteso a Milano e a Monaco. E’   ansioso di entrare in contatto con il gotha dell’arte, ha già conosciuto l’opera di Rousseau, è apprezzato da Apollinaire e da Picasso. Ma non risente degli influssi artistici francesi, è al livello delle avanguardie, dai cubisti agli orfisti, un “vate”  europeo,  non solo italiano o “fiorentino” –  come lo definiva Soffici – aggiungendovi il retaggio culturale della Grecia antica e moderna, di Germania e Francia. Cosmopolita, ma con la malinconia del “senza patria”, il “greculo Chirico” , come lo chiamò poi Carrà, restò legato alle radici elleniche, sognando e amando la sua terra natale.

Del resto, dalla lettura di Nietzsche aveva imparato che “la bella apparizione dei mondi del sogno … è il presupposto di ogni arte figurativa”, e dalla lettura di Schopenhauer che  “contrassegno del pensiero filosofico [è] il dono che altri abbia di vedere in certi momenti gli uomini e le cose come puri fantasmi o ombre di sogno… L’uomo artisticamente sensibile,,, dalle immagini del sogno impara a spiegarsi la vita”. Ma più che i sogni, in quell’estate lo affliggono i disturbi psicosomatici e in autunno, sempre del 1911,  dipinge soltanto il “Ritratto della madre” completando il trittico dell’“Autoritratto” dipinto in primavera, e del “Ritratto del fratello” del 1910.

L’anno dopo, 1912, ad ottobre espone  al Salon d’Automne, quello che Benzi chiama “il ‘dittico’ della ‘rivelazione’”, i due enigmi dell’autunno 1910 visti nel primo tempo del nostro “film”, “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” e “L’enigma dell’oracolo” con un “Autoritratto”.

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Solitude (Malinconia)”, prima metà 1912

Passano pochi mesi e nel marzo 1913 presenta al  Salon des Indèpendans la prima opera parigina, “L’énigme de l’arrivée et de l’après-midi”, realizzata all’inizio del 2012, insieme a “L’énigme del’heure”, che risale al 1910 e abbiamo già citato nel titolo in italiano, e a “La méditation matinale”, della seconda parte del 1912; nei due  dipinti parigini ci sono due figure, come in “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” del 1910, più grandi ma separate, sono notati da Picasso ed Apollinaire. Quest’ultimo dipinto evoca ricordi della Grecia, il vecchio edificio del museo di Olimpia da lui visitato, finestre molto simili dietro le quali si affacciano le antiche statue di divinità, si fa sentire la nostalgia; ma abbiamo detto che ci sono anche due figure, quindi una compresenza umano-divino fonte essa stessa di mistero, accentuato dall’immagine statuaria centrale, come distesa su un triclinio, che anticipa la successiva presenza di Arianna.

Non risulta abbia presentato nella prima mostra dell’ottobre 2012  l’opera la cui datazione la fa ritenere disponibile sin da allora pur avendola esposta nella seconda mostra del 2013; e in nessuna delle due mostre citate risultano esposte altre 4 opere metafisiche, anch’esse riferite al 2012, forse anche qui con un’anticipazione rispetto alla data effettiva, altrimenti le avrebbe presentate. Si tratta di ”Solitude (Melanconia)”, “La lassitude de l’infinì”, “Les plaisirs  du poete”, della prima metà dell’anno, di  “L’arrivée (La mélancolie du départ)”, della seconda metà.

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“L’arrivée (La mélancolie du de depart?)”, seconda metà 1912

Sono  accomunate da una vivace campitura gialla, sembrerebbe accolta l’osservazione di Apollinaire il quale, pur essendo vicino al cubismo dalle basse tonalità cromatiche, nel commentare la mostra pur in termini positivi trovava il  colore dei dipinti “triste”; non solo l’artista ne avrebbe tenuto conto nelle opere successive alla critica, ma avrebbe ritoccato quelle precedenti per renderle più vivaci. In tutte, inoltre, troviamo  gli elementi caratteristici della Metafisica parigina: le arcate più o meno numerose; l’elemento centrale costituito in due dipinti dalla statua, in altri due da motivi diversi;  la locomotiva sbuffante sullo sfondo, tranne in “Solitude” con due piccole figure e un’ombra misteriosa e inquietante.

Di nuovo la nostalgia in “La mélancolie d’une belle journée”, 1913, dopo un anno si esprime nelle colline sullo sfondo che ricordano quelle di Atene dietro la sua casa, dove da bambino giocava con il fratello.

In altri dipinti, più che la nostalgia ritroviamo visioni che lo hanno colpito, come nella visita a Torino del 1911 la Mole Antonelliana, nella cuspide troncata di “La nostalgie de l’infini”, 1913; e, nell’ottobre 1909, a 21 anni, nella visita a Roma la Tomba di Cecilia Metella riconoscibile in “La tour rouge”, aprile-ottobre 1913. Queste due opere, di ispirazione italiana, hanno dato avvio alla serie delle  torri metafisiche.

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“La melancolie d’une belle journée”, 1913

Di Roma gli rimasero impresse le arcate ininterrotte degli acquedotti, di lì è nato il sigillo delle “Piazze d’Italia”. Scrisse: “L’Arcata romana è una fatalità; essa ha una voce che parla attraverso enigmi pieni di una poesia stranamente romana, di ombre sui vecchi muri, e una musica curiosa…”   

E di Parigi? E’ colpito dalle stazioni e dalle alte ciminiere delle periferie di una città operosa, in un rimando alle immagini della Grecia, tra i ricordi infantili del padre ingegnere ferroviario e delle ciminiere  di Atene con l’Acropoli nello sfondo  “proponendo – nota  Benzi – quello stridente e indecifrabile contrasto tra antichità mitica e modernità industriale”.  

L’autore, sugli spunti presi dalla realtà, fa un penetrante rilievo, e ne vedremo in seguito l’importanza: “Dunque molti luoghi apparentemente immaginari  dei quadri dechirichiani sono decodificabili, e questi luoghi  hanno sempre uno speciale significato nella sua filosofia pittorica; sono una localizzazione dello Stimmung, potremmo dire dell’ispirazione stessa di de Chirico, che intende individuare il lato misterioso degli uomini e delle cose”. Tanto che nel 1918 scriverà:  “Bisogna scoprire il ‘demone’ in ogni cosa ”. Sono elementi reali da lui trasfigurati che restano riconoscibili, ma solo in questa fase.

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“La récompense du dévin”, 1913

Arianna e le Piazze d’Italia

Naturalmente non è presa dalla realtà Arianna – la cui figura dolente reclinata a terra compare nelle statue al centro delle “Piazze d’Italia” – né è tratta direttamente dalla poetica di Ovidio sul mito dell’abbandono da parte di Apollo da cui deriva comunque  l’immagine malinconica e desolata, ancora non è sopravvenuto Bacco a consolarla. Nasce da una poesia di Nietzsche – Apollinaire la citerà dopo, nel 1913 – “Lamento di Arianna” : “Fulminata  a terra da te,/ occhio beffardo che dall’oscuro mi guardi!/ Eccomi distesa,/ mi piego, mi dibatto tormentata/ da tutte le torture eterne,/ colpita/ da te, crudelissimo cacciatore,/ sconosciuto – dio…”.  In effetti, così la vediamo, distesa e tormentata nell’atmosfera metafisica delle “Piazze d’Italia”.

In “La ricompense  du dévin”, del 1913, di Nietzsche, oltre ad Arianna ci sono le due palme nello sfondo  dopo l’arcata e al di là del muro di mattoni, su cui il poeta tedesco scriveva: “A me un Europeo sotto le palme/ …e guardo come la palma,/ quasi una danzatrice,/ si piega flessuosa e sull’anca si dondola”.  Anche nel quadro “L’arrivée” c’è la “citazione” artistica  delle palme. 

Ricordiamo l’opera del 1912 , prima metà,  “Solitudine (Melanconia)”, già citata, con Arianna al centro e l’ombra inquietante tra le arcate, ora possiamo identificarla come appartenente al dio Apollo che “dall’oscuro” la guarda dopo averla “fulminata” con l’abbandono.

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“Piazza con Arianna”, metà 1913

Del 1913, ad aprile-ottobre “L’après-midi d’Arianne”,  in cui al motivo di Arianna si aggiungono la nostalgia e l’identificazione: l’alta torre-comignolo richiama, sia pure nel diverso colore rosso, quella del quartiere ateniese di Gazi ad Atene con le ciminiere in vista dell’Acropoli, nella commistione moderno e antico che abbiamo già sottolineato.

Arianna protagonista assoluta nei due dipinti da zoom fotografico, anzi, nel nostro riferimento cinematografico, da sequenza con primo piano finale: “Piazza con Arianna”  e “La statue silencieuse”, entrambi del 1913 in sequenza temporale, il primo a metà anno, l’altro nella seconda metà; vi troviamo i motivi  metafisici, arcate, torri e treno a vapore sbuffante sullo sfondo.

In queste due opere notiamo una prospettiva meno nitida di quelle precedenti, soprattutto nella seconda il primo piano schiaccia tutto il resto; in “Le voyage émouvant”, di fine 1913, addirittura manca la prospettiva, si è dentro le arcate, l’unica apertura l’arcata sinistra con lo sbuffo di vapore dietro il muro rosso, in una composizione quasi claustrofobica.  Nelle opere dell’anno successivo, il 1914, la deformazione si consolida, prima con una prospettiva laterale, poi con punti di fuga molteplici, fino a schiacciamenti in una sorta di scombussolamento senza alcun rapporto con la realtà pur immaginata.

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“La statue silencieuse”, seconda metà 1913

“Anche le rappresentazioni delle Piazze d’Italia, quando ancora compaiono – osserva l’autore – sono scosse da un terremoto interiore e onirico più profondo e minaccioso”, cosa che rende l’insieme   “sempre più evidentemente irreale, vicino alle immagini di un sogno. Le scene sono rivolte  a far emergere dall’interno della psiche nodi associativi che suggeriscano in maniera progressivamente più esplicita l’equivalente dello spaesamento visionario, della ‘rivelazione’ nietzschiana e schopenhauriana”.  Vi rientrano, in deformazione prospettica crescente, 4 opere della prima metà del 1914: “L’énigme d’une journée I”, e “Mystère et mélanconie d’une rue”, “Nature morte. Turin printanière” e “Le jour de féte”, fino al bianco e nero di “Le joie du retour”  le cui componenti sono prive di prospettiva come di spazi, con un effetto ancora più claustrofobico di “Le voyage”.  

I quadri “innovativi e stupefacenti” con oggetti impensati

Non solo piazze in questi anni, vediamo nel 2011 “Autoritratto” e “Ritratto della madre”;  nel 2013  “Portrait de Madame L. Gartzen” e  “Nu (aux cheveux noirs”, “L’incertude du poète”; nella prima metà del 2014 “La conquéte du philosophe” e “L’enigme de la fatalité”, “La revenant (Le cerveau de l’enfan)t”  e “Le  temple fatal”, “La sérenité du savant” e “Le chant d’amour”. A parte i ritratti, elementi disparati ed enigmatici, carciofi e  guanti, palle e  stampi, fino al cannone.

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“L”énigme d’une journée” , prima metà 1914

Anche di questi quadri, che definisce “innovativi e stupefacenti”, l’autore dà una descrizione quanto mai efficace: “Gli oggetti dilagano, monumentali, in spazi incomprensibili e serrati, dove anche i formati  dei dipinti possono deformarsi in inconsueti triangoli o trapezi, completamente alieni rispetto ai canoni della storia dell’arte”.  Ed ecco l’interpretazione: “Sembra quasi inutile cercare significati iconologici in dipinti che rinnegano qualsiasi senso logico. I nessi sono ormai solo psichici: ritroviamo sì i topoi dell’immaginario dechirichiano, ma essi sono contraddetti e messi in crisi da contesti intenzionalmente spiazzanti, a somiglianza di ciò che accade nei sogni più intimi e misteriosi, che ci lasciano al risveglio angosciati e  incapaci di comprenderne il senso”.

Troviamo conferma nelle parole dello stesso de Chirico che, proprio nel 1914-15,  scrive: “Affinché un’opera d’arte sia veramente immortale bisogna che esca completamente dai limiti dell’umano: il buon senso e la logica vi mancheranno. In questo modo essa si avvicinerà al sogno e anche  alla mentalità infantile”.  E Soffici, nel primo scritto su di lui definì la sua pittura “scrittura di sogni”.

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“Nature morte. Turin printanière”, prima metà 1914

La spiegazione non manca neppure dinanzi a visioni inimmaginabili, merito del grande lavoro di ricerca compiuto dall’autore e valore indiscutibile dei risultati del suo sforzo ammirevole, anche per le assonanze che trova con altri artisti e lo portano a riprodurre vicino al dipinto di de Chirico quelli “citati” di Rousseau e Matisse, Picasso e Gauguin, fino a Van Gogh. A scanso di equivoci spiega: “Questi riferimenti scivolano come mercurio sulle immagini assolute e autonome di de Chirico, senza contaminarle, come sosteneva Apollinaire, con riferimenti e debiti leggibili”. Ed ecco la citazione del poeta mentore e sodale di de Chirico: “L’arte di questo giovane pittore è un’arte interiore e celebrale che non ha alcun rapporto con quella dei pittori che si sono rivelati in questi ultimi anni. Non viene né da Matisse né da Picasso; e non deriva dagli impressionisti. Questa originalità è talmente nuova, che essa merita di essere segnalata”. E chiama i suoi dipinti “metafisici”.

I manichini metafisici e Apollinaire

Benzi osserva che lo stringersi dei rapporti con Apollinaire ha coinciso con l’evoluzione di cui si è detto nelle  Piazze metafisiche, allontanatesi sempre più dai luoghi della nostalgia perdendo anche i riferimenti prospettici e l’ ambientazione naturale: “Gli spazi e i contesti  che vanno creandosi sono sempre più vicini a quelli irrazionali dei sogni, in un percorso che era già iniziato con la Metafisica fiorentina, ma che ora va approfondendosi in iconografie sempre più complesse e articolate”.

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“Le chant d’amour”, metà 1914

Ma va ben oltre, nella sua investigazione che, come abbiamo detto, cerca anche di individuare la matrice originaria di quanto è ritenuto frutto di una intuizione personale senza altri padri. Lo vediamo rispetto ai “manichini”, il sigillo di quella parte della Metafisica dechirichiana diversa dalle Piazze d’Italia  e da altre visioni. E trova la matrice in Apollinaire, a conferma di quanto de Chirico ne seguisse gli scritti, che il poeta gli faceva leggere anche prima della pubblicazione quando i loro rapporti si strinsero; e così fu per “Le poète assassiné”, in cui oltre alla descrizione dell’”homme-cible”, cioè bersaglio, c’è “l’uomo calvo”,  una statua di bronzo che parla e si muove,  e un uomo “senza occhi senza naso senza orecchie”, dai quali nasce il manichino di de Chirico; e non – come insinuato maliziosamente da Roberto Longhi, che non ha mai amato de Chirico – dai “Chants de mi mort” di Savino ispiratisi nello stesso periodo alla medesima fonte.

Il primo manichino lo vediamo in “Le tourment du poète”, è solo un prototipo, se possiamo usare questo termine, di tipo sartoriale, della fine del 1914. Ma già all’inizio del 1915 abbiamo i manichini metafisici veri e propri, con due archetipi. “Le vaticinateur”  ne fissa l’immagine e il ruolo “misterico”, quello dell’oracolo. E anche nella funzione, oltre che nella forma di manichino, de Chirico si ispira ad Apollinaire, impegnato sui temi a lui cari, “la ‘preistoria’ dell’umanità e la sensazione del presagio, l’oracolo e il mistero, il non senso che si può esprimere attraverso segni di cui si ignora il significato”. L’autore cita anche i “geroglifici” presenti in opere dell’artista con questa derivazione e significato: nella commistione antico-moderno diventano segni stenografici.

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“Portrait de Guillaume Apollinaire”, estate 1914

L’altro archetipo, “Le duo”,  prelude a una serie di coppie metafisiche – “Ettore e Andromaca”, “Oreste e Pilade”, “Il figliuol prodigo” –  la cui origine, documentata da Benzi con le immagini comparative,  si trova nel gruppo statuario greco del I sec. d. C. “Oreste  e Elettra”. Nella prima  metà del 1915 “Les deux soeurs” ci dà il primo piano delle teste di un “duo” di manichini, quasi una “zoomata” come quella che abbiamo visto nella “Statue silencieuse” di Arianna nel 1913.

Manichino di spalle  sulla destra in “Le poète et la philosophe” e sulla sinistra in”Le double réve du printemps”, accomunati anche da un quadro centrale: nel primo sono delineati i contorni, mentre in “Le pareté d’un réve” c’è anche un quadro al centro, questa volta con un ramo colorato, che dà luce alla composizione con due alte costruzioni ai lati dalle arcate scure e opprimenti.

Siamo nella prima metà del 1915, è anche l’oppressione della guerra alle porte, per la quale l’interpretazione del significato del manichino si incupisce rispetto a quella legata ad Apollinaire: “In continuità col pensiero nietzschiano della prima Metafisica, il manichino assume l’aspetto dell’uomo deprivato della sua coscienza nazionale, parvenza enigmatica in mezzo alle altre enigmatiche presenze del mondo, uomo primordiale all’alba della storia”.  De Chirico è stato testimone di un  bombardamento a Parigi, perciò – scrive Benzi – il manichino “rappresenta il senso dell’alienazione umana causata dal conflitto… come se la classicità ellenica e italica, che sempre aveva permeato i suoi primi dipinti metafisici, fosse stata messa in crisi dalla brutalità cieca della guerra. Tuttavia la visione dechirichiana rimane sempre intatta sullo sfondo, anche in presenza di crisi”.

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“Le vaticinateur”, inizio 1915

Invece Apollinaire partecipò da volontario alla Grande guerra, e fu ferito alla testa da una scheggia di obice nel 1916, nella tempia sinistra dove profeticamente de Chirico aveva tracciato un bersaglio nel “Portrait de Guillaume Apollinaire” dell’estate 1914,  proprio quando il poeta amico lasciò Parigi nel mese di luglio per arruolarsi. Il bersaglio dell’”homme-cible” è nel profilo scuro di fondo della figura,  mentre in primo piano c’è la testa da scultura classica ma con capelli moderni e occhiali scuri che alludono alla veggenza:  un uomo contemporaneo visto come busto classico, l’intrigante commistione antico-moderno. Due formelle per dolci sulla destra, la “carpa”, pesce della malinconia,  per questa che viene definita “musa inquietante” sua e di de Chirico,  e la “conchiglia”  per il pellegrinaggio a San Giacomo di Compostela del quale il poeta parla nel  “Poete assassiné”, una sorta di simbolica autobiografia. Il monumento al protagonista Croniamantial, “nuovo Orfeo”,  è fatto di “nulla”, è una fossa affinché “il vuoto fosse pieno del suo fantasma”, perché qualunque materiale sarebbe inadeguato alla  sua grandezza. come queste  forme vuote: “Una sorta di fossile moderno, memoria di epoche primordiali, la cui forma è conservata dal suo vuoto”. Anche nell’altro ritratto di poco successivo, “La nostalgie du poéte”, estate-autunno 1914, c’è la testa da statua con occhiali, questa volta di profilo, e la “carpa” vuota. Apollinaire definì il ritratto “opera singolare e profonda”, e de Chirico, nel rendergli omaggio dopo la morte prematura nel 1918 scrisse: “Di malinconie ne conosceva più di una; anzitutto quella dei senzapatria”; ricordando  “le spirali della sua cronica malinconia di poeta dal destino triste”.

“Le duo”, inizio 1915

Così Benzi riassume l’importanza del poeta nell’evoluzione dell’artista, ormai trentenne: “Il sodalizio con Apollinaire e l’influenza della sua onirocritique, il metodo del sogno innestato alla poesia, coincide dunque con la sviluppo in de Chirico di spazi sempre più irreali… e contigui allo stato onirico, di non luoghi, o meglio, luoghi della coscienza interiore. Manichini, forme inspiegabili, scritte indecifrabili li popolano da ora in avanti, segni di una coscienza allo stato primordiale, di un vaticinio appena espresso: che invece di rendere più chiaro il mondo, lo rende ancora più imperscrutabile”.

Vedremo nella 3^ puntata della “fiction” vera in cui si snoda “Il Film della mia vita” di de Chirico,  nella magistrale regia di Fabio Benzi, come la sua Metafisica diventi ancora più indecifrabile nel periodo “ferrarese”, e sarà seguita dal  “ritorno all’ordine” e dal classicismo adottato pienamente, nella tecnica e nei contenuti. Nelle puntate successive l’ulteriore evoluzione, il surrealismo e l’arte teatrale, il ritorno della Metafisica, seguita da un nuovo classicismo fino alla neometafisica. C’è ancora molto da vedere e da emozionarsi dinanzi a una vita e un’arte così inquieta e mutevole.   

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“Les deux seurs”, prima metà 1915

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 5 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quello del giorno 3 – la I parte della trilogia – nei giorni 7, 9, 11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del precedente articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, per la mostra su Ovidio, 1, 6, 11 gennaio 2019, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Cubisti 16 maggio 2013, Matisse 23, 26 maggio 2015, in cultura.inabruzzo.it Van Gogh 17, 18 febbraio 201, per l’aspetto onirico “Il teatro del sogno” 30 settembre, 7 novembre, 1° dicembre 2011, Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi tutte meno 4 (perchè in doppia pagina), si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. Le 4 immagini non riprese dal libro sono tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta con la loro disponibilità “on line”, pronti a rimuoverle su semplice loro richiesta: tali siti sono “Engramma” per le immagini n. 2, 3, 7, “Fichr” per la n. 6 In apertura, “Mystère et melancolie d’une rue” , prima metà 1914; seguono “Solitude (Malinconia)” prima metà 1912, e “L’arrivée (La mélancolie du de depart?)” seconda metà 1912; poi, “La melancolie d’une belle journée” e “La récompense du dévin” 1913; quindi, “Piazza con Arianna” metà 1913, e“La statue silencieuse” seconda metà 1913; inoltre, “L”énigme d’une journée” e “Nature morte. Turin printanière” prima metà 1914; ancora, “Le chant d’amour” metà 1914, e “Portrait de Guillaume Apollinaire” estate 1914; continua, “Le vaticinateur” e “Le duo” inizio 1915; infine, “Les deux seurs” e, in chiusura, “Le poète et le philosophe” prima metà del 1915.

“Le poète et le philosophe”, prima metà del 1915

De Chirico, trilogia I – 1. Il Film della vita e dell’arte nella grande ricerca di Fabio Benzi

di Romano Maria Levante

Una nuova  celebrazione di Giorgio de Chirico dopo quella del 2016 dedicata al trentennale della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico: fu una giornata di analisi e riflessioni sulle implicazioni filosofiche del suo pensiero e della sua arte all’Accademia di San Luca con le relazioni  di docenti universitari, oltre che del presidente Paolo Picozza e di Fabio Benzi. Questa celebrazione è dedicata al quarantennale della morte e al centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità con la venuta a Roma dell’artista nel 1919, e si sono fatte le cose in grande. La Fondazione ha prodotto quella che ci piace chiamare una “trilogia” dechirichiana, innovativa anche nelle  componenti più tradizionali, per così dire, le mostre di Genova e di Torino, dove la novità sta nell’ulteriore approfondimento, la prima della “metafisica continua”, la seconda dell’eredità dei posteri con opere ispirate al  Maestro; trilogia iniziata con la grande ricerca di Fabio Benzi.

Autoritratto”, 1920 (dalla copertina del libro)

Il volume di Benzi, un’accurata ricerca nel labirinto e nell’enigma dechirichiano

La massima innovazione l’abbiamo trovata nella prima componente della “trilogia”, la chiave interpretativa delle altre due e dell’intera storia del Maestro l’imponente lavoro ermeneutico, di ricerca e ricostruzione svolto da Fabio Benzi  nel volume “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”. Non l’abbiamo chiamata “biografia”, sarebbe stato non solo riduttivo ma fuorviante, e in questo sta il suo aspetto profondamente innovativo tale da rappresentare un archetipo da seguire per chi avrà la forza di svolgere, come ha fatto Benzi,  un lavoro imponente anche per altri maestri.  

La volontà tuttavia non basta,  è necessaria la vasta documentazione che si trova solo se si sono costituiti Archivi  completi che consentono di ripercorrere l’itinerario creativo intrecciato alla vita dell’artista. La mostra “La vetrina di Cambellotti”  nel marzo scorso ha celebrato il compimento del vasto e documentato Archivio su di lui, ricco di 8000 documenti, a disposizione degli studiosi, e Fabrizio Russo, titolare dell’omonima galleria in cui si è svolta la mostra, ne ha sottolineato l’importanza a tutti gli effetti.

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Un dipinto di de Chirico con dinanzi l’autore a 19 anni, 1907

Benzi ha dimostrato come si possa valorizzare il materiale d’Archivio collegandolo alle opere dell’artista impegnandosi in un lavoro certosino di analisi e verifica  dei molteplici   momenti  creativi tradotti nelle opere collegandoli  con gli altrettanto molteplici momenti di vita per darne interpretazioni sostenute da valutazioni di ordine psicologico tanto più motivate quanto più la ricostruzione è precisa e documentata.

Una ricostruzione  inedita, originale e  innovativa, l’isola che non c’era nel mare delle analisi dechirichiane, con  gli opportuni  riferimenti agli apporti dei critici impegnatisi sui singoli aspetti  di volta considerati,  tratti da una bibliografia che l’autore definisce “immensa”, tale da non poter essere riportata in appendice;  mentre vengono indicate le citazioni utili a comporre un quadro valutativo  documentato in ogni aspetto.

E anche nella parte iconografica l’impegno è stato massimo, accompagnando passo passo la  ricostruzione del percorso artistico e dell’itinerario di vita nella quale particolare rilievo assumono  i contatti e gli incontri per i loro riflessi sul processo creativo dell’artista fatti rivivere con la riproduzione delle opere che ne sono nate. Per questo  il titolo “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”  ci sembra riduttivo, alludendo a una biografia, mentre è molto di più: ripensiamo al libro del Maestro “Le memorie della mia vita”,  nel lavoro di Benzi de Chirico potrà vedere “Il Film della mia vita”, perché le immagini contestuali ai singoli momenti dell’arte e dell’esistenza trasformano la lettura in una visione, appunto cinematografica, quanto mai coinvolgente: sono oltre 300, inserite nelle 550 pagine  del ricco volume, a illustrare ogni momento rivelatore del processo creativo.  

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“Tritone e sirena” , estate-autunno 1909

La lettura delle biografie per lo più si limita a suscitare un interesse conoscitivo facendo restare all’esterno,  mentre la lettura, anzi la visione della rappresentazione di Benzi fa entrare  dentro la scena fino a coinvolgere totalmente con l’ansia di andare avanti: per conoscere, interpretare e soprattutto vedere il prosieguo di una storia sempre più avvincente. Si penetra nelle vicende di una vita movimentata e mutevole e nel processo creativo che, pur nella “metafisica continua” cui si intitola una delle due mostre del quarantennale, è altrettanto movimentato e variabile dando vita ad  opere apparentemente incomprensibili  che la ricostruzione di Benzi riesce a far decifrare dando al lettore la soddisfazione della scoperta.

E come sia stato complesso tutto questo lo anticipano  le due citazioni che l’autore pone in apertura come  “sigilli”:   “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata  a tale fine” ” di Jorge Louis Borges; e “l’enigma dell’arte racchiude in sé quello del mondo, però lo rende formalmente praticabile” di Fabio Mauri.

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“Lotta di centauri” , estate-autunno 1909

Benzi non si è fatto “confondere” dal labirinto dechirichiano in cui ci sono le architetture, con e senza simmetrie;  e si è impegnato nel decrittare “l’enigma dell’arte” rendendo “praticabile” quello del mondo. E lo ha fatto – elemento oltremodo importante e non scontato facendo lui parte della Fondazione – senza alcun intento agiografico, al contrario si impegna strenuamente per far emergere gli influssi e le ispirazioni che il Maestro ha avuto nelle  sue creazioni maggiormente innovative – dalla pittura  metafisica in generale fino ai manichini in particolare – e trova i precedenti in poeti e pensatori, e non solo, in una visione opposta a quella che coltiva il “genio isolato” anticipatore senza alcun debito verso il retroterra culturale.  Sotto questo profilo la sua ricerca è particolarmente accurata, si direbbe accanita: anche dove comunemente viene visto un “prius” assoluto scova antecedenti ispiratori, e riporta le relative immagini a confronto con la rielaborazione del Maestro, sempre innovativa, si tratti di luoghi come pure, in certi casi, perfino di  dipinti.

Ci ha fatto ripensare all’impostazione della mostra alle Scuderie del Quirinale nel quinto centenario della morte di Leonardo, dichiaratamente orientata a “sfatare il mito del genio isolato” da parte del curatore, che dirige il Museo delle macchine leonardesche. Il lavoro di Benzi, esponente della Fondazione de Chirico, sebbene non si propone  questo, fa emergere, con una indagine anche psicologica molto penetrante, i fattori su cui si è costruito quel genio straordinario che ha lasciato un segno profondo nell’arte e nel pensiero del ‘900:  fattori interni, come la formazione adolescenziale e gli spostamenti da una parte all’altra in Europa e nel mondo, fattori esterni nei rapporti con filosofi, poeti, e anche pittori dai quali ha tratto gli elementi per la sua personale rielaborazione.  I suoi copiosi scritti, e quelli dei personaggi con cui è stato in contatto,  sono  una fonte preziosa di validazione e conferma di quanto ricostruito con l’equazione arte-vita.

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“Centauro morente” , estate-autunno 1909

Uno dei maggiori pregi della ricostruzione operata da Benzi sta nel procedimento investigativo con cui ha trattato le sue fonti dalle origini più diverse, ma noi non potremo darne conto per i limiti del nostro scritto, concentrato necessariamente sui punti fermi, e sono molteplici, che riesce a fissare nella sua ricerca instancabile all’interno del labirinto. Riesce sempre a trovare il percorso giusto che gli consente di decifrare gli enigmi più imperscrutabili, nei quali l’arte si intreccia con la filosofia e con altre discipline che l’inesauribile fantasia e l’imponderabile versatilità del Maestro evocano in forme sempre nuove e intriganti. Pagina dopo pagina l’interesse cresce, si resta attoniti e ammirati, seguiremo il suo racconto come il dipanarsi di un film, per questo riprodurremo in parte anche la sequenza di immagini che lo corredano.

Atene, Monaco e Milano, la nascita di un artista colto e irrequieto

La ricostruzione della figura e dell’opera di de Chirico, nato a Vados in Tessaglia il 10 luglio 1888 da famiglia benestante – il padre Evaristo ingegnere civile costruttore di ferrovie in varie nazioni e poliglotta, come sarà anche lui che parlerà cinque lingue – inizia con “l’educazione in Grecia” in un clima cosmopolita per la presenza di espatriati; quindi, apertura internazionale ma intense suggestioni del mito greco, inteso non come mitologia favolistica bensì come simbolo e metafora. Il massimo  poeta ellenico di allora, Kostis Palamis ebbe di certo influenza su di lui, che studiava al Politecnico di Atene, come sui giovani compagni che manifestavano anche in piazza. Il pensiero di Nietzsche, al quale si ispirava il poeta, e la filosofia di Schopenauer, si impressero nel meccanismo formativo  del giovane Giorgio ammodernando ciò che altrimenti sarebbe stato superato e stantio.

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“Prometeo” , inverno 1909

Una compresenza di entrambi i motivi, tradizionale e moderno, si aveva anche nel panorama urbano, con le antiche rovine, si pensi all’Acropoli,  e i moderni edifici industriali, e tutto ciò si rifletterà nelle sue opere, almeno all’inizio.  Come la formazione dei suoi insegnanti del Politecnico, avvenuta all’Accademia delle Belle Arti di Monaco, rinsaldava il nesso con la cultura tedesca già emerso in Nietzsche, in direzione di un rinnovamento che nella pittura apriva l’arte greca al di là dalle icone tradizionali. De Chirico si collegava agli artisti greci d’avanguardia, oltre che all’ambiente letterario e filosofico; poi verranno gli innovatori,  Picasso, Kandinskji e Marinetti.

Da Atene e Vados a Monaco di Baviera, il salto avvenne nell’ottobre 1906, meno di un anno e mezzo dopo la morte del padre, lui aveva meno di 17 anni, il fratello Savinio era tredicenne,  orientato alla musica. La madre volle trasferirsi nella città tedesca alla ricerca della migliore Accademia d’arte per lui, da cui provenivano  i maestri del Politecnico, mentre per il fratello c’era la prospettiva musicale in Italia dove andò dopo 5 mesi accompagnato dalla madre, che rimase con lui. Giorgio restò a Monaco, una pietra miliare sul piano artistico perché conobbe la pittura di Bocklin, le incisioni di Klinger, definito “il campione delle Secessioni”, e altri come Feuerbach e von Marèes; mentre sul piano filosofico si addentrò nella filosofia di Nietzsche e Schopenhauer che leggeva nei testi originali, conoscendo il tedesco, e assimilò temi e concezioni nel suo mondo interiore che troverà lo sbocco geniale dell’espressione metafisica.

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La partenza degli Argonauti” , inverno 1909

L’insegnamento accademico, tuttavia, alieno da ogni sperimentazione, costituiva pur sempre una sorta di cappa alla quale cercava di sfuggire con gli approfondimenti personali ora citati di tutt’altro orientamento, finché lasciò l’Accademia prima di terminare gli studi per seguire “l’altra strada”.  

Ma è a Milano – dove si trasferisce a 20 anni raggiungendo madre e fratello dopo due anni e mezzo vissuti da solo, senza portare con sé quanto dipinto a Monaco ritenuto inadeguato – che nascono i primi dipinti  “bockliniani”, come “Tritone e sirena” e “Prometeo”, “Lotta di Centauri” e “Centauro morente”, fino a “La partenza degli Argonauti”, tutti dell’autunno  1909. Un “mondo ancestrale, sospeso tra natura primigenia e mitologia antica, sorgente dell’umanità –  commenta Benzi – un’aurora dell’uomo  in cui ogni cosa stupisce e il tempo è fermo, circolare, un presente ancora senza storia dove è possibile l’eterno ritorno nietzschiano”.

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Serenata”, primavera-estate 1910

A Firenze, l’illuminazione metafisica con i suoi enigmi

E’ molto breve la parentesi milanese, nel 1910 è Firenze ad accogliere lui ventiduenne  con il fervore culturale e artistico cittadino, conosce Soffici e Papini il cui pensiero gli apre finalmente “l’altra strada”, che si traduce nella visione metafisica. Questa pur fondamentale circostanza non basta ad interpretare compiutamente le opere ispirate al nuovo sistema poetico-filosofico se non si trova anche la matrice della forma rappresentativa radicalmente diversa da quella di ispirazione blockiniana.  Infatti “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” e “L’enigma dell’oracolo”, entrambi dell’ottobre-novembre 1910, con la nettezza e precisione delle campiture, sono lontanissimi dallo stile in cui sono dipinti i Centauri, Tritoni, Argonauti,  delle opere milanesi prima citate le cui vibrazioni pittoriche, assenti negli “enigmi fiorentini”, sono date da pennellate “minuziose e strisciate, pastose e tremolanti”.  Ebbene,  l’autore trova la nuova matrice pittorica delle primissime opere metafisiche nello stile di Henri Rousseau, a sua volta ispirato da Paolo Uccello, conosciuto attraverso un articolo di Soffici – che aveva acquistato due quadri del Doganiere – pubblicato subito dopo la morte del pittore francese; anzi, individua nelle due figure dell’”Enigma di un pomeriggio d’autunno” una citazione della “Musa che  ispira il poeta Apollinaire” di uno dei due quadri di Rousseau riprodotti in bianco  e nero  nell’articolo di Soffici, che potrebbe aver visto al naturale visitando la sua casa.

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“Processione su un monte” , settembre-ottobre 1910

Entra così in campo il poeta Apollinaire, che in un primo tempo sembra accreditare il riferimento a Rousseau, poi si ricrede, divenne sodale di de Chirico, sul quale – osserva l’autore con la sua libertà di pensiero aliena da intenti agiografici – “possiamo esser certi che non avrebbe mai confessato ad Apollinaire o ad altri il suo debito fugace ma determinante nei confronti del Doganiere”. Altrettanto libera e coraggiosa l’osservazione sui contenuti appoggiata a una citazione di brani  di Soffici su Rousseau: “L’impressionante linguaggio di Soffici, che sembra una descrizione dei quadri dechirichiani enunciata ancor prima che essi siano stati dipinti, ci dà una misura di come, appena uno o due mesi prima della sua intuizione, de Chirico dovesse aver letto quelle pagine, sentendole cariche di un presagio ancora non realizzato: descrizione di piazze deserte,  e di oggetti privati di significato, di lirismo spogliato di razionalità”.  A ciò fanno eco le affermazioni di de Chirico metafisico con riscontri tra parole, poetiche e concetti definiti “impressionanti”.

Il clima di malinconia nasce dallo “Stimmung”, posto da de Chirico alla base della sua visione metafisica come “stato d’animo”  che lui stesso, traendolo da Nietzsche, definisce “atmosfera nel senso morale”. Si traduce nell’espressione pittorica conseguente così definita: “Le nuove stesure divengono ampie e monocrome, rialzate da leggere pennellate chiare o scure per dare volume alle forme”  rispetto al precedente “sfrigolante tessuto”  di “pennellate sovrapposte”. In tal modo “riesce a rappresentare un mondo in cui l’astrazione del colore dona alle forme  un’assolutezza noumenica, astrattiva, mentale, che realizza una visione interiore e sintetica”.

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“L’enigma d’un pomeriggio d’autunno”, ottobre-novembre 1910

Ecco come lo giudica Soffici dopo un breve accenno a Paolo Uccello che ritira subito negando una “somiglianza essenziale” con de Chirico, anzi aggiungendo che “la sua opera non somiglia a nessun’altra, antica o moderna, che sia formata su cotesti elementi”. Per concludere: “La pittura di de Chirico non è pittura, nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni… egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, dì immobilità di stasi che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo nella nostra anima quasi addormentata”.

Siamo entrati così nel bel mezzo della visione metafisica, nei suoi aspetti contenutistici ed espressivi, e dopo aver citato le due prime opere in cui essi appaiono con chiarezza, ne citiamo una definita  “quadro proto metafisico”, che precede le prime due di un mese, “Processione su un monte”, settembre-ottobre 1910, un  paesaggio greco con tre coppie “infagottate” in cammino lungo un sentiero in salita verso una chiesetta lontana: il confronto con la composizione del 1908 di Camillo Innocenti, “Al rosario”, mostra le notevoli differenze ma anche l’analogia compositiva, mentre viene sottolineata “la somiglianza certo ancora più pregnante di questo quadro con quelli di Rousseau”, altra sconfessione del “genio isolato” avulso dall’ambiente artistico del suo tempo. Costituisce “il primo esperimento, ancora acerbo ma destinato rapidamente a condensarsi nella nuova visione, nella direzione dell’invenzione metafisica”.

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“L’enigma dell’oracolo”, ottobre-dicembre 1910

Ma si passa subito, un mese dopo, al “primo enigma metafisico”, cioè “L’enigma di un pomeriggio d’autunno”, ottobre-novembre 2010, quando a Firenze, in Piazza Santa Croce, come racconta lui stesso, seduto su una panchina da convalescente, davanti alla statua in marmo di Dante al centro della piazza, ebbe ”la strana impressione” di vedere “tutte le cose per la prima volta”: “E la composizione del quadro mi apparve in mente… Mi piace chiamare anche l’opera che ne risulta un enigma”. 

L’atmosfera è quella dello “Stimmung”, lo stato d’animo  che spoglia le cose del significato consueto per far affiorare il mistero della loro vera natura, e non manca il riferimento a Rousseau al quale Soffici attribuisce un “senso d’ irreparabile, quotidiana, diuturna malinconia”. Mentre de Chirico si entusiasma a ciò che di nuovo ha creato definendolo – in una lettera a Fritz Gartz, amico-collega di Monaco – “non grande o profondo (nel vecchio senso della parola) ma terribile” e cita Nietzsche come “il poeta più profondo”, mentre la profondità  “si trova da tutt’altra parte  rispetto a dove la si è cercata finora”. Fino ad esclamare: “I miei quadri sono piccoli, ma ognuno è un enigma, ognuno contiene una poesia, un’atmosfera (‘Stimmung’)… una promessa che lei non potrebbe trovare in altri quadri. E’ una terribile gioia per me averli dipinti”.

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L’enigma dell’ora” , ottobre-dicembre 1910

Seguono, entrambi di ottobre-dicembre 2010, altri due enigmi. In “L’enigma dell’oracolo” la figura arroccata in alto si staglia su uno sfondo lontano, tipico panorama che evoca il Partenone, mentre sulla destra c’è la statua del dio seminascosta da una tenda nera, che evoca a sua volta l’iconostasi posta nelle chiese ortodosse per separare la parte della chiesa dedicata alla divinità da quella con i fedeli. Al riguardo lui stesso scrive: “Una delle sensazioni più strane  e profonde che ci abbia lasciato la preistoria  è la sensazione del presagio. Essa esisterà sempre. E’ come una prova eterna del non senso dell’universo”. In merito al quadro precisa: “E’ l’ora ghiacciata dell’aurora di un giorno chiaro, alla fine della primavera”.

Poi si passa a “L’enigma dell’ora”, a chiusura di questa prima fase metafisica fiorentina, con riferimento al mistero del “meriggio” che nella tradizione greca e nei paesi mediterranei è “l’ora dei fantasmi, delle visioni, dei deliqui divinatori”, e nei paesi nordici corrisponde alla mezzanotte. Un ritorno alla cultura ancestrale greca a riprova che continua a premere su di lui, insieme alla poetica di Palamis, ai temi filosofici di Nietzsche e Schopenauer, al pensiero di Papini e Soffici.

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Ritratto dl fratello”, gennaio-marzo 1910

Così, riassume l’autore, “la meditazione paradigmatica rappresentata dalle due prime tele metafisiche, basate su Firenze e Atene, va ampliandosi a piazze più mediterranee in senso lato, che svilupperà  ampiamente  a Parigi, gravato dal senso di primordio greco che all’illuminazione  offertagli dalla filosofia  e poesia di Nietzsche aggiunge le proprie coordinate personali”. Con questo risultato: “L’enigma del tempo, aggiungendosi agli altri enigmi del mondo delle cose e dell’esistenza, viene condensato in quell’ora fatale che permette, facendo vacillare la mente razionale, l’applicazione dell’’eterno ritorno’ nietzschiano in un presente senza storia, in una consapevolezza in cui il futuro coincide col passato, in cui l’uomo è presenza che si può solo interrogare, senza darsi risposta, sul perché del mondo”.

Siamo solo agli inizi, l’artista ha 22 anni, andrà a Parigi dove la sua “metafisica” assumerà  nuove forme, dalle piazze d’Italia con la statua di Arianna ai manichini, fino all’apparentemente insensato assemblaggio di oggetti; il racconto proseguirà nella  2^ puntata di “Il Film della mia vita” di de Chirico visto come una fiction televisiva, il “regista” Benzi darà le spiegazioni e svelerà misteri che sembrano impenetrabili. Ne parleremo prossimamente, senza anticipare per ora i contenuti delle successive cinque puntate, anch’essi quanto mai intriganti e appassionanti come il resto del “film”.

“Ritratto della madre”, primavera 1911

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 6 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale – la I parte della trilogia – nei giorni 5, 7, 9,11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Cfr. i nostri articoli precedenti su de Chirico: in www.arteculturaoggi.com, nel 2016, “De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione” 17 dicembre; “De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura” 21 dicembre; sulle mostre: nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e la mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. Sugli artisti citati del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito, Leonardo 2, 4 giugno 2019, Cambellotti 5 aprile 2019; in www.arteculturaoggi.com Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Secessionisti 21 gennaio 2015, Marinetti 2 marzo 2013; in cultura.inabruzzo.it, Picasso 4 febbraio 2009.

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto” 1920 (dalla copertina del libro); seguono, Un dipinto di de Chirico con dinanzi l’autore a 19 anni 1907, e “Tritone e sirena” estate-autunno 1909; poi, “Lotta di centauri” e “Centauro morente” estate-autunno 1909; quindi, “Prometeo” e “La partenza degli Argonauti” inverno 1909; inoltre, “Serenata” primavera-estate 1910, e “Processione su un monte” settembre-ottobre 1910; ancora, “L’enigma d’un pomeriggio d’autunno” ottobre-novembre 1910, e “L’enigma dell’oracolo” ottobre-dicembre 2010; continua, “L’enigma dell’ora” ottobre-dicembre 1910 e “Ritratto dl fratello” “gennaio-marzo 1910; infine, “Ritratto della madre” autunno 1911e, in chiusura, “Autoritratto” marzo 1911.

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“Autoritratto”, primavera 1911

Pietracamela, 2019, 2. Il Borgo in Arte, pittura e musica, teatro e tradizioni

di Romano Maria Levante

L’agosto che nei primi giorni ha sollecitato memoria e nostalgia con il ricordo della mitica Luigina a Ponte Arno, l’antica “stazione di posta” al bivio sulla Statale ’80,  negli ultimi giorni ha fatto appello all’arte e alle tradizioni. Il “Borgo in Arte” è diventato un appuntamento costante, quest’anno anticipato al 17 agosto, il giorno dopo la festa di San Rocco del 16, in un abbinamento significativo. Infatti sono nel DNA e nelle tradizioni del borgo arte e cultura, unite alla forte religiosità espressa nella antica  devozione per il santo, sentito come patrono, insieme a San Leucio cui è intitolata la chiesa madre, la chiesetta di San Rocco è posta alla sommità del paese, sulla “Via degli Aquilotti del Gran Sasso” che sale verso la montagna.

La “locandina” del “Borgo in Arte” 2019

L’Arte è impersonata dal pittore Guido Montauti, di cui lo scorso anno è stato celebrato il centenario della nascita, scomparso nel 1979 lasciando una forte impronta con i suoi dipinti evocativi di un “quarto stato montanaro” – come lo abbiamo chiamato – sagome assorte tra le rocce, poi i cespugli, le bande oblique, e la rarefazione finale fino all’Empireo, con due delle ultime opere  in cui torna quasi figurativo per lasciare il testamento pittorico, “Lettera”  e “Pastori”, non più sagome assorte quasi assenti nella loro attesa paziente, ma volti di una comunità consapevole, ben delineati, compunti e in ascolto.

E poi la cultura, che ha una storia, ce la ricorda acutamente Lidia Montauti, l’ideatrice e curatrice anche con sacrificio personale delle due mostre fotografiche di alcuni anni fa “I matrimoni di una volta” e “I bambini di una volta” : ha osservato che le maestre e i maestri di Pietracamela nel ‘900  hanno “alfabetizzato” il comprensorio del Gran Sasso e Monti della Laga, insegnando nei paesi e borghi, anche i più isolati, dove si fermavano in modo stabile nei lunghi inverni sotto la neve, e ne abbiamo avuto esperienza diretta anche a livello familiare.

Su queste antiche radici sono nati nel tempo i libri di autori pretaroli: i libri sulla montagna, dall’antico saggio su Corno Piccolo ristampato di recente di un precursore, fondatore del gruppo “Aquilotti del Gran Sasso”, il primo in Italia, gruppo celebrato nel “Borgo in Arte” dello scorso anno,  alle appassionate rievocazioni di una vita sul Gran Sasso di altri due grandi alpinisti pretaroli, oltre al libro sugli “Aquilotti del Gran Sasso”,  con le conquiste degli alpinisti locali, di un tempo lontano e attuali; i libri sulle memorie e storie  del paese, dai personaggi controversi come Manodoro e dalle  leggende montanare e memorie personali all’epopea dell’emigrazione; i libri su temi di interesse generale, storici sull’Unità d’Italia e sui Carabinieri nella storia italiana, religiosi-filosofici  su Gesù come uomo, sulle contraddizioni e gli interrogativi in merito alla fede e dell’esistenza fino a Dio,  economici sulla globalizzazione, d’inchiesta sul D’Annunzio del Vittoriale nel suo profilo interiore e nella storia d’Italia,  con riferimenti paesani anche premonitori, in particolare alla novella dannunziana “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola”.

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Forse un’idea meritevole di essere tenuta presente per le prossime edizioni della manifestazione può essere l’esibizione di questo giacimento culturale paesano, che non sembra modesto;  e, per la novella dannunziana, semplice da rappresentare quanto spettacolare, la messa in scena – anche nel “teatro da strada”- di una versione tra le case di pietra del centro storico, con una voce narrante e due personaggi, il pittore Fiamignano che dipinge un ritratto,  la “marchesa di Pietracamela” che posa e si scambiano poche intense battute, fino all’intrigante quanto suggestiva visione  conclusiva. Il Presidente della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”, Giordano Bruno Guerri, potrebbe non essere indifferente a una simile iniziativa, avendo rappresentato Van Gogh al Vittoriano a Roma, figurarsi per D’Annunzio del quale – oltre ad essere custode appassionato e dinamico della memoria con continue iniziative culturali  e biografo dell’”amante guerriero” –   sembra la reincarnazione.

Naturalmente, la produzione culturale andrebbe esibita a fianco di quella tradizionale artigiana, è cultura  anch’essa, e  nella festa di quest’anno prodotti artigiani sono stati di nuovo sciorinati: sarebbero i versanti della cultura locale in una felice sinergia.

Romolo Intini impersona il versante artigiano in varie forme, quest’anno  non ha partecipato come maestro cardatore, tuttavia ha esposto  lavori in legno ammirati da tutti, tra cui una scena da osteria di ieri, un tavolo e 4 avventori. Ma ci sono state anche altre esposizioni di semplici appassionate,  nei cui occhi si leggeva la fierezza di presentare oggetti preparati con amore in una tradizione rappresentata anche da loro, che suscita un senso di nostalgia.

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Nulla di nostalgico, ma di molto moderno, invece, nel complesso musicale “Le Galassie” che ha vivacizzato la serata nel “Belvedere Guido Montauti”; anche qui voglia di condividere le proprie emozioni, questa volta musicali, nell’impegno dei musicisti  e delle due cantanti, diverse nell’abito,  nero l’una,  bianco l’altra, ma unite nella passione con cui hanno sciorinato un repertorio travolgente, mentre la notte portava un’aria sempre più fresca che però non raffreddava il pubblico infervorato.

 “Borgo in Arte”  è anche questo, ma è soprattutto Arte. E qui, pur non essendo in senso stretto “Street Art” perché le opere esposte in strada erano compiute e non “in fieri”, si aveva questa sensazione, di vederle nascere “in loco”, essendo in carattere con l’ambiente montanaro.  L’esposizione si è svolta come sempre  nel centro storico, dal largo con vista panoramica sulla vallata di un verde di straordinaria intensità, alla scalinata sotto l’arco che porta alla vecchia sede del Municipio, fino al dedalo di vicoli divenuti una sede espositiva quanto mai pittoresca.

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Tra i pittori nel “Borgo in Arte” c’è la costante di Paolo Foglia, rimastoci impresso per la sua iniziale simbiosi con il poeta Francesco Bernabei, che negli anni scorsi avevamo ritrovato come lettore poetico e narratore di storie, come quelle montanare degli “Aquilotti del Gran Sasso”;  un  “performer”  che con la folta barba di quest’anno ha accresciuto il suo impatto carismatico, e ha scelto il monologo di “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin, con qualche malizioso riferimento alle polemiche politiche accese nell’estate. Un momento suggestivo di forte emozione per tutti, anche per lui  che ha detto successivamente di essersi espresso “nella rabbia della mia voce, nella tristezza del cuore” perché “l’attualità delle parole è terribile, come è terribile tutto quello che l’umanità è divenuta. Circondati da dotti medici e sapienti perdiamo di vista la nostra umanità, restiamo quindi in questo stallo, miopi al vedere avanti, reclusi nelle nostre ruote da criceto”.  Anche nel “dopo performance” c’è la declamazione appassionata con il carisma del profeta.

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Infine le fotografie, non vanno considerate secondarie, sono nel cuore della festa. In primo luogo quelle “storiche”, dove i paesani possono riconoscersi:  Vittorio Giardetti, tornato come ogni anno dalla sua residenza americana sull”Ontario – per una vita è stato tecnico del governo alle cascate del Niagara – ci indica la sua foto da bambino con la madre, “la Stella”, in una vecchia immagine ingrandita; come Aligi Bonaduce, solo lui poteva riconoscersi, si vede in parte la sua testa con la fronte fino agli occhi in una scampagnata ai Prati di Tivo, davanti al padre Francesco che suona la chitarra in un duo con Berardino Giardetti, l’autore di 4 dei libri citati all’inizio,  al mandolino, e tanti intorno, tra cui Osvaldo Trinetti, Mamung, la piccola Rina Filippi figlia del  “guardaboschi” Gianni e della “levatrice” Giuseppina di un’epoca  lontana nel tempo e nei costumi. Lo scorso anno Celestina De Luca si riconobbe in una delle due ceste in groppa a un mulo, nell’altra il fratellino, al lato i genitori, quest’anno Vittorio e poi Aligi.

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Qualcosa si deve aggiungere su Aligi, di cui abbiamo appena parlato citando la foto che ne ritrae parte del viso da bambino, è suo l'”Archivio Bonaduce” accessibile su Facebook. La parte antica dell’Archivio, ci ha confidato, è riuscito a costruirla  negli anni,  presentandosi nelle case degli anziani del paese con uno “scanner”, altrimenti per timore che le vecchie foto si perdessero o non fossero restituite per dimenticanza sarebbe stato difficile averle in prestito, le scansionava in loro presenza, mentre la parte moderna si deve alla passione unita alla maestria sua e del figlio Flavio. Vediamo esposte immagini suggestive del Gran Sasso che assume tante vesti,  e inquadrature speciali come quella in cui il paese è ripreso in una cornice di fronde cariche di neve, e un’altra in cui il “mare di nuvole” sembra la prosecuzione del pianoro innevato, fino a quella con le impronte sulla neve fresca e la montagna di sfondo, una metafisica montanara.

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Vittorio Giardetti indica la sua immagine di bambino davanti alla madre, “la Stella”

Un grande merito di Aligi – oltre al suo nome dannunziano – è la sequenza di immagini del pittore Guido Montauti ripreso al “Grottone”,   ne sono esposte tre di un’ampia serie che lo segue nella sua ascesa alla grotta e nella discesa, poi fino a Vena  Grande; un servizio fotografico il cui già elevato valore è moltiplicato dal fatto che proprio il “Grottone” dove viene immortalato – è il caso di dirlo – tre decenni dopo è crollato nella vallata distruggendo gran parte delle  “Pitture rupestri” – tre si sono salvate e sono state restaurate –  realizzate da lui con il gruppo del “Pastore bianco”,  cui diede un significato simbolico, per cui la sua figura in alto resta come nume tutelare.

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Nella foto in alto a sin. Berardino Giardetti al mandolino, davanti Francesco Bonaduce alla chitarra con, in primo piano, a sin,. la fronte del piccolo Aligi

La parte dell’esposizione fotografica in chiave paesana ci fa ripensare alle due mostre sopra citate svoltesi a Pietracamela negli anni scorsi, nel mese di agosto – con la cura appassionata di Lidia Montauti insieme a volenterose collaboratrici – abbinate all’esposizione di oggetti coevi, specchio di tradizioni secolari.

Il Museo delle Genti e delle Tradizioni Popolari, che si trova nella sede comunale inagibile in attesa di definitiva sistemazione, andrebbe vitalizzato e integrato con un’esposizione permanente delle fotografie presentate nelle due mostre sui matrimoni e i bambini di una volta e di quelle che potrebbero fare oggetto di altre mostre continuando la serie ora interrotta. Perché gli oggetti di una volta, pur evocativi, da soli non rendono ciò che la fotografia trasmette: il senso della vita, della vita di allora.

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Le altre fotografie, tante, fissate sulle porte soprattutto antiche del centro storico, e  sulle pareti esterne in pietra delle abitazioni, spaziano su vari temi, la montagna è presente ma non solo, alcune sono istantanee nate dall’impulso del momento, altre molto ricercate nei loro effetti pittorici.

Arte e tradizioni, musica e cultura, anche fotografica,  dunque. Ma non  poteva mancare la parte culinaria, del resto è cultura la tradizione enogastronomica, molto viva anche nell’antico “nido delle aquile”, come fu definito il borgo di Pietracamela. E non è mancata, con la tavolata nel largo che immette nel centro storico, ovviamente all’insegna della tradizione.

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Al centro Guido Montauti, a sin. una delle “Pitture rupestri” del suo gruppo pittorico “Il Pastore bianco” distrutte dalla frana del “Grottone” dove l’artista è ritratto a dx

Dal  “Borgo in Arte” una prova di vitalità e uno stimolo per il rilancio

Non finisce qui l’impatto della manifestazione, è stato  anche un momento di riflessione, che desideriamo condividere con chi ha a cuore il futuro del paese. Il borgo sta curando le ferite del terremoto, ma senza  cantieri troppo vistosi, a parte alcune ricostruzioni radicali; ci sono passaggi protetti e passaggi interdetti, nel segno dell’ordine e del decoro che trova il Comune molto attento, anche all’erba che cresce nelle aree trascurate per la quale ha emesso apposita ordinanza;  e, sul piano della pulizia stradale, l’addetto comunale Carlo, scrupoloso per formazione familiare, non vuole trascurare neppure l’erbetta ai bordi, nessuna cartaccia, nessun rifiuto, soprattutto per chi viene da Roma come noi  è un miracolo. Anche l’”isola ecologica” all’ingresso del borgo rientra in questa attenzione scrupolosa e benemerita.

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Pietracamela soffre dello spopolamento di quasi tutti i piccoli borghi montani, ma non è abbandonato come molti di essi, abbiamo già sottolineato come la Ruzzo Reti abbia installato lo scorso anno più di 800  contatori rispetto ai residenti stabili che sono poche diecine. Questo perché la nuova forma di presenza dei cittadini, gli autoctoni definiti qui “i naturali”,  è  “a rete”, dal piccolo nucleo dei residenti stabili ai cerchi concentrici che si allargano alla provincia e alla regione, alla nazione e all’estero con gli emigrati. 

Sono così affezionati che uno di loro – Gino Di Venanzo, “nick name” Geppetto – ogni anno torna  e pianta per tre mesi le bandiere di Italia ed Europa, Canada e Stati Uniti su Vena Grande, la roccia identitaria a forma di cammello che domina il paese cui sembra abbia dato  il nome, come segno del proprio attaccamento. Le avevamo criticate come “banderillas” sul  cammello quasi fosse un toro da “matare” credendole un qualcosa di stabile e istituzionale che deforma una scultura naturale, come le pale eoliche sfregiano i contorni del paesaggio in molti altri luoghi, per fortuna non in questi; ma conosciutane l’ origine, diamo atto che per i tre mesi di ritorno dell’emigrato marcano invece una  identità paesana che non si perde in una vita all’estero e viene meritoriamente riaffermata con forza. Bravo, Geppetto, il tuo Pinocchio  di bandiere è un atto d’amore che ti fa onore e rende onore a quelli che come te tornano al paese delle loro origini. Tra questi Matteo Giardetti, con i figli Matthews, Mark, Donna  e famiglie, i nostri nonni emigrarono insieme per le “lontane Americhe” nel giugno 1906 sulla nave “Sicilian Prince”, il sito di Ellis Island ci ha fornito il foglio d’imbarco.

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Si potrebbe  integrare nel Museo delle Genti e delle Tradizioni Popolari un Museo dell’Emigrazione con tante storie di vita e di successo, sarebbe istruttivo ed esaltante per i tanti che sono fieri del loro coraggio e della loro abnegazione. Iniziative per celebrare gli emigrati – i quali rappresentano la storia e l’anima del borgo trasferita da decenni all’estero – accogliendoli con tutti gli onori, sono altamente auspicabili. 

E allora, riprendendo l’intervento a Ponte Arno del presidente della Provincia di Teramo, Diego Di Bonaventura, il territorio dovrebbe diventare il riferimento per ogni iniziativa, né le poche diecine di residenti possono provvedere da soli a tutelarlo, occorre fare molto di più da parte delle istituzioni. E operare senza lo scarico di responsabilità, come avviene tra Parco e Comune sulla manutenzione dei sentieri, indicati da belle frecce in legno con tanto di tempi di percorrenza ma spesso impraticabili.

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I residenti sono una risorsa, un presidio minimo ma indispensabile, e vanno sostenuti nella loro scelta di restare, coraggiosa e meritevole, anche con esenzioni fiscali; da riservare, in particolare, anche alle scarse attività economiche seguendo la via milanese di aiuto ai comuni spopolati, così da creare anche le condizioni per il ripristino del “Bar del Parco” che animava la piazza del paese.

Anche in questo sta il valore dell’annuale “Borgo in Arte” di Paolo di Giosia, nell’esprimere la vitalità del borgo e nel ricordare la sua storia e le sue tradizioni, la sua cultura e la sua arte; ma non soltanto in senso rievocativo, bensì come stimolo ad operare perché torni ai fasti di un tempo nelle nuove condizioni imposte dallo spopolamento.

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Il turismo è sempre stato una leva importante per il benessere della popolazione, quando il numero di abitanti era consistente, ora deve esserlo anche per la salvaguardia del territorio, affinché da paese spopolato non decada in paese abbandonato.  Le energie ci sono e la volontà non manca, “Borgo in Arte” ne è una evidente espressione, il merito è della genialità e della cultura dell’ideatore e curatore – che continuerà ad organizzare la manifestazione sostenuta dal Comune anche dopo aver lasciato la presidenza della Pro Loco – ma anche dello “spiritus loci” che aleggia nelle persone e nelle case di pietra di questo “quarto stato montanaro”.

A Ponte Arno si è detto che non siamo  a un punto di arrivo, ma di partenza, di un nuovo inizio, proposito che ha accomunato tutte le autorità presenti, a ogni livello, anche la massima autorità religiosa. Chi vivrà vedrà, appuntamento al prossimo “Borgo in Arte” del 2020, ma andranno posti in essere programmi efficaci e concreti da parte delle istituzioni competenti  per dare corpo al “punto di partenza”, al “nuovo inizio”. Per ora ha dichiarato di volersi impegnare subito, lo ripetiamo, e speriamo concretamente, il presidente della Provincia di Teramo con i sindaci dei comuni interessati, Pietracamela (che include la frazione Intermesoli), Fano Adriano e Crognaleto, dal Gran Sasso ai Monti della Laga.

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Nell’immediato si dovrà riattare, dopo anni e anni di interruzione, la strada panoramica Fano Adriano-Intermesoli, che oltre a ripristinare il collegamento vitale tra le due località fornisce ai turisti un itinerario per Pietracamela con una spettacolare vista del Gran Sasso,  crediamo sia alla portata se si superano le pastoie che finora lo hanno impedito, come per tanti cantieri bloccati dalla burocrazia.  A livello generale si dovranno creare le condizioni, su tutti i piani, compreso quello promozionale, per il ritorno dei flussi turistici, inariditisi soprattutto dopo il sisma del 2009, nelle nuove accresciute condizioni di sicurezza del borgo dalle incomparabili attrattive naturalistiche. Negli anni ‘60 venivano a villeggiare Marina Berti e Claudio Gora, poi Peppino di Capri e Carla Gravina, perché non invitare nel borgo Andrea Giordana che da ragazzo giocava con i coetanei pretaroli?   

Il divario tra l’offerta di bellezze ambientali e la domanda turistica è troppo elevato, un paese di fiaba merita molto di più, di essere conosciuto e apprezzato come quando entrò nel club Anci dei “Borghi più belli d’Italia” per diventare due anni dopo “Borgo dell’anno”. Si era rispettivamente nel 2005 e  2007, tornare ai fasti di allora deve essere più di un obiettivo, un impegno concreto per tutti.

Il complesso “Le Galassie” nel “Belvedere Guido Montauti”, a sin. la fontana che evoca le sagome montanare del pittore locale di fama internazionale cui il luogo è dedicato

Info

I libri di autori pretaroli cui si è accennato nel testo, a parte involontarie omissioni, sono: sulla montagna, Ernesto Sivitilli, “Il Corno Piccolo. Gruppo del Gran Sasso d’Italia”,  Ricerche & Redazioni, 2013 (ristampa anastatica dal 1930), pp. 120;  “ Aquilotti del Gran Sasso. Pietracamela  1925-75” a cura della “Pro loco” di Pietracamela, 1976, pp.140  (nel cinquantenario, storie e ricordi dei pionieri, poi ristampa anastatica con integrazioni nel 2006, a cura di Lino D’Angelo e Filippo Di Donato),  Clorindo Narducci, “Un vecchio zaino di ricordi”, Andromeda Editrice, Castelli (Te), 2008, pp. 112,  Lino D’Angelo, “Le alte vie di una vita”, Verdone Editore, Castelli, 2009, pp. 160; sulle memorie e storie del paese; Berardino Giardetti, “Memoria su Matteo Manodoro da Pietracamela, generale dei briganti, 1762-1812”, Solfanelli Editore, Chieti, 1981, pp. 143,  “Incontro col diavolo e altri racconti montanari”, Ponte Nuovo, Bologna, 1990, pp. 222 (ristampato), ” Le memorie di un ottuagenario qualunque. Alla ricerca della coscienza”, Ponte Nuovo, Bologna, 1992, pp. 368;  Clorindo Narducci, (Pjitto) “Pietracamela. Tra storia e leggenda”,  Demian Edizioni, Teramo, 2014, pp. 80; Romano M. Levante, “Rolando e i suoi fratelli. L’America!”, Andromeda Editrice, Castelli, 2006, pp. 360;  su temi generali:  storici, Berardino Giardetti, “Grandezza e miserie dell’Unità d’Italia”, Ponte Nuovo, Bologna, 1992, pp. 458, Gelasio Giardetti,  “I Carabinieri nella storia italiana” , Associazione Nazionale Carabinieri Editrice, Roma, 2018, pp. 394; religiosi-filosofici, Gelasio Giardetti”, “Gesù l’uomo”, Andromeda Editrice, Castelli, 2008, pp. 320, “Dio, fede e inganno”,  2013, pp. 242  e  “L’uomo, il virus di Dio”,  2014, pp. 188,   entrambi Arduino Sacco Editore, Roma;  economici, Romano M. Levante (con Luciano Radi), “La macchina planetaria. Quali regole per la corsa alla globalizzazione)”, Franco Angeli, Milano, 2000, pp. 112;  d’inchiesta, con riferimenti al paese, Romano M. Levante, “D’Annunzio, l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Castelli, 1998, pp. 528 (la novella dannunziana citata nel libro e ricordata nel nostro articolo,  “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola” è del  27 ottobre 1887,  da “Grotteschi e rabeschi” del “Duca Minimo” 18 ottobre – 10 novembre 1879). Cfr., in www.arteulturaoggi.com,  i nostri articoli a commento di alcuni dei libri citati: sul libro di Ernesto Sivitilli,  27 agosto 2013, sui libri di Clorindo Narducci, 3 e 7 luglio 2016,  e di Gelasio Giardetti,  4, 6, 8, 10  novembre 2018 per il libro su tema storico, 3, 10 giugno 2015 e 2 febbraio 2014 per due libri su tema religioso-filosofico.            .

Per i nostri servizi su Pietracamela, sulle feste del “Borgo in Arte”  degli scorsi anni e  le mostre sugli antichi costumi del paese, il percorso artistico del pittore Guido Montauti di cui nel 2018 si è celebrato il centenario dalla nascita e il premio “Pitture rupestri” a lui dedicato, v. Info del precedente articolo su Ponte Arno, con indicate le date di pubblicazione dei servizi sul sito www.arteculturaoggi.com e su altri siti.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel corso della manifestazione, si ringraziano gli organizzatori per l’opportunità concessa. In sequenza, dopo la locandina, 4 immagini di quadri esposti nella peculiare “street art”, seguite da 9 immagini di fotografie esposte, nell’alternanza tra foto d’epoca, per lo più dell'”Archivio Bonaduce”, e foto contemporanee di autori vari, seguite da 3 immagini dell’esibizione di prodotti di artigianato tradizionale, e 2 del complesso musicale “Le Galassie”. Ringraziamo gli autori di quadri, fotografie e coloro che hanno presentato i prodotti artigianali che non citiamo limitandoci a sottolineare con didascalie – oltre alla locandina in apertura e alle due immagini di chiusura del complesso musicale – tre immagini, per il loro valore identitario: l’immagine n. 9 in cui Vittorio Giardetti indica la sua foto da piccolo, con dietro la madre; la n. 10, che mostra alla chitarra Berardino Giardetti – l’autore di 4 dei libri citati all’inizio e in modo più specifico in Info – e al mandolino Francesco Bonaduce con davanti Aligi, la n. 12 con Guido Montauti al “Grottone” e la “Pittura rupestre” nel servizio di Aligi Bonaduce.

Complesso “Le Galassie”, un primo piano del batterista e del chitarrista

Pietracamela 2019, 1. Ponte Arno, il ricordo della mitica Luigina

di Romano Maria Levante  

Due momenti accomunati dal legame con il territorio, a Pietracamela, agli estremi del mese di agosto: in chiave nostalgica il primo, il ricordo a Ponte Arno il 6 agosto della mitica Luigina Trentini, dov’era la sua antica “stazione di posta” ora demolita;  in chiave culturale il secondo, il “Borgo in Arte”, il 17 agosto,  promosso dall’Amministrazione comunale, ideato e organizzato da Paolo di Giosa che lo cura da anni con passione chiudendo l’estate in modo spettacolare come con i botti finali degli spettacoli pirotecnici.

Ponte Arno, l’edificio ora demolito, con la “stazione di posta”, in una foto d’epoca

Tra questi due eventi e prima di loro, altri momenti  hanno reso scoppiettante l’estate 2019,  l’arrampicata a Vena Grande e ai muri di pietra delle case del borgo, una sorta di “sport diffuso”  in ogni angolo del “nido di aquile”,  spettacoli di musica e di  “teatro di strada”, laboratori con premio finale per bambini ispirati alle Pitture rupestri di Guido Montauti, nel loro scenario naturale, la festa di San Rocco con banda e processione guidata dal parroco padre Giacobbe, in testa ai fedeli il sindaco Michele Petraccia in fascia tricolore, al termine distribuzione di pani benedetti. Un borgo attrattivo anche per chi cerca momenti di evasione oltre alla bellezza incomparabile del Gran Sasso d’Italia con tutte le sue meraviglie.

La cerimonia a Ponte Arno

Nella mattinata del 6 agosto, come si è accennato, si è svolta la cerimonia  per una demolizione già avvenuta, non per la posa di una prima pietra come si fa di solito.  E non a Pietracamela ma a Ponte Arno, dove inizia la salita che in 9 Km porta al borgo e in altri 6 Km ai Prati di Tivo a contatto con il Gran Sasso, poi a Cima alta dopo ulteriori 4 Km tra i boschi sempre più verso la  montagna.       

Il mondo alla rovescia? No, è stato per ricordare una persona divenuta mitica, Luigina Trentini, che  nell’edificio demolito e nel largo antistante aveva vissuto un’esistenza aperta ai tantissimi che si fermavano in quella che era una volta la “stazione di posta” di Ponte Arno, con la sosta obbligata in attesa della coincidenza della “corriera”: offriva loro calore umano e assistenza materiale, spesso accompagnate da un bicchiere di vino che soprattutto nella stagione fredda era corroborante. Poi, pur con la fine dell’epoca della “stazione di posta”, la fermata a Ponte Arno restava immancabile per chi passava in automobile, e anche solo sporgendosi dal finestrino non mancava di intrattenersi con lei sempre presente, scambiando  qualche parola e ricevendo  notizie, informazioni, curiosità gustose. Una presenza senza tempo la sua,  con il vestito scuro,  la testa leggermente reclinata, il sorriso nel volto, aperta e disponibile.

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Altra foto d’epoca, Luigina con altre fanciulle dai finestrini di una “corriera”

E’ la stessa immagine che vediamo nella targa-ricordo scoperta nella cerimonia, negli anni ’40 davanti all’ufficio postale c’è lei giovane con la  stessa testa reclinata, uguale sorriso sul viso, soltanto l’abito nella foto è chiaro invece del vestito scuro che ha indossato nel passare del tempo;  una targa, peraltro, che risulta poco visibile né comprensibile per chi non ne conosce la genesi e il significato.

Si è ritenuta necessaria la demolizione dello storico edificio perché era pericolante e costituiva una minaccia per l’incolumità pubblica nell’incrocio tra la Statale ’80 e la via provinciale per Pietracamela, dov’era l’antica “stazione di posta”. Un intervento frettoloso per l’emergenza creatasi invece del recupero forse possibile e auspicabile? I pareri sono discordi, la polemica è stata aspra.

Dell’esigenza della demolizione considerata indifferibile hanno parlato le autorità intervenute. Il  Prefetto di Teramo,  Graziella Patrizi, ha insistito sul binomio accoglienza-sicurezza, non riguardo ai migranti ma alla montagna con i suoi pericoli; il Sindaco di Fano Adriano, Luigi Servi,  ha invitato tutti ad accettare il fatto compiuto della demolizione perché inevitabile e a porre fine alle polemiche; il Presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, Tommaso Navarra,  ha  fatto balenare  la speranza di una futura utilizzazione dell’area al servizio del Parco; mentre il Presidente della Provincia, Diego Di Bonaventura, ha rotto il fronte dell’ufficialità con un “j’accuse”  perché “non si è fatto nulla negli ultimi quarant’anni”, si sono ignorati i profondi cambiamenti  che erano dinanzi agli occhi di tutti, perseverando nell’errore di avere come parametro per ogni servizio, provvidenza e quant’altro l’entità della popolazione e non il territorio che si andava sempre più spopolando nell’epocale corsa all’urbanesimo che oltre alla campagna ha coinvolto e sconvolto la montagna con lo spopolamento divenuto inarrestabile.  All’accusa ha fatto seguire  l’impegno a mobilitarsi per superare il degrado che ne è derivato e la decadenza anche in termini di attrattività, realizzando apposite iniziative per rilanciare il territorio da concordare con i sindaci di  Fano Adriano, Pietracamela, Crognaleto, presenti alla manifestazione. 

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Ponte Arno, la foto d’epoca della targa-ricordo con Luigina in abito chiaro al centro

Tutte le autorità hanno reso omaggio alla mitica Luigina, confidando anche ricordi personali. Oltre al Sindaco di Fano Adriano chi si è più immedesimato nel ricordo è stato il Vicecomandante del Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari dell’Arma dei Carabinieri, gen. Davide De Laurentiis, l’ha definita “il Google” di allora, perché dava a tutti le notizie e le informazioni richieste, oltre ad aiutarli concretamente a risolvere i loro problemi, e anche “la banca dati” del territorio perché possedeva la memoria storica e la condivideva con i molti che le chiedevano notizie. Con lei non mancavano di consigliarsi gli uomini del Corpo della Forestale, presidio prezioso del territorio, ai quali è stato rivolto un ringraziamento corale, i paesani li chiamavano “guardiaboschi”, è stato citato anche il maresciallo Villani di Pietracamela. Del resto, pur rientrando  nella circoscrizione amministrativa del Comune di Fano Adriano, il cui bivio è 4 Km più avanti, Ponte Arno segna il bivio con Pietracamela, e il Rio Arno è il fiume del paese, con il minore Rio della Porta, quindi quel luogo è sentito molto dai “pretaroli”. Il sindaco Petraccia ci ha detto “la nostra competenza inizia poco più su, al terzo tornante”, e noi non ci spieghiamo il “capriccio” amministrativo, gli stessi Trentini  sono tra le famiglie di antica origine pretarola.  

Ponte Arno, la targa-ricordo a destra sulla parete, a lato i resti dei cordoli dell’edificio

Per tornare alla manifestazione, un termine moderno come Google, applicato all’antico, è risuonato pure nelle parole del Vescovo di Teramo e Atri,  mons. Lorenzo Leuzzi, per il Gran Sasso definito GPS, dove G sta per i giovani che sono il futuro e devono tornare, P per la pace, in queste zone non si è mai combattuto,  S per scienza, i laboratori del Gran Sasso di livello europeo e mondiale, che prendono il posto del Posizionamento Geo Stazionario, acronimo geniale, significativo di come passato-presente-futuro possono coesistere, alla de Chirico.

Alle sue alate parole, rivolte anche a Luigina, virtuale protagonista della cerimonia,  è seguita la scoperta di un’altra targa con il tracciato planimetrico della via montana San Gabriele-San Giovanni Paolo II, di 39 Km, e della segnaletica storica “GRAN SASSO D’ITALIA m. 2921” nei grandi caratteri in maiuscole bianco e nero che erano scritti sulla parete esterna dell’edificio demolito. Ora spiccano sulla nuda roccia alla quale l’edificio si appoggiava, lasciando con la demolizione  alcuni cordoli  dell’edificio demolito che sembrano ruderi antichi, ma non sono tali, perché tenerli?

Ponte Arno, i “ruderi” rimasti dell’edificio della “stazione di posta” demolita

Le proposte di noi  pretaroli

Non è mancata la cornice di pubblico, tanti paesani commossi come quelli che assistevano alla demolizione del vecchio “Cinema Paradiso” nel film di Giuseppe Tornatore, anche se a Ponte Arno la demolizione era già avvenuta e l’area risistemata alla meglio, si spera in via provvisoria, non risultando quello attuale l’assetto migliore che sembra – lo ripetiamo essendo un elemento vistoso – un improbabile quanto inesistente rudere romano; ma  si celebrava perché tutti, autorità e gente comune, volevano rendere omaggio alla mitica Luigina, un atto sentito con intensa partecipazione.

Ai margini della manifestazione una paesana di Pietracamela, Giovanna Paglialonga, rievocando la dedizione  di Luigina nell’assistere tutti coloro che passavano nella storica “stazione di posta”  di Ponte Arno, ci ha detto che  neppure a lei sembra adeguata la targa-ricordo fotografica esposta, oltretutto con il tempo diventerà sbiadita; da parte nostra aggiungiamo che Luigina è confusa tra le donne fotografate con lei  in abito chiaro, le altre in nero, ma pochi potrebbero individuarla. La sua osservazione ci ha fatto venire una idea, che diventa una proposta alle autorità competenti, sindaco di Fano Adriano in primis, con quello di Pietracamela: alla targa-ricordo fotografica aggiungere la denominazione dell’area creata con la demolizione: “Largo LUIGINA TRENTINI”.

Il Largo – liberato dai “falsi” ruderi romani e aperto al pubblico eliminando il “guard rail” che ora preclude del tutto l’accesso impedendo oltretutto di avvicinarsi alla targa-ricordo  – potrebbe essere attrezzato intanto ad area di sosta, con sedili, tavolini in pietra e panchine, come si è fatto a Pietracamela con il “Belvedere Guido Montauti” e il “Belvedere Bruno Bartolomei”, entrambi celebrativi di due paesani da ricordare per quanto hanno fatto con amore verso il territorio, come nel caso di Luigina; altra proposta ascoltata nei commenti dei paesani  è quella di un eventuale busto commemorativo, che peraltro non appare alternativa alla nostra.  Tutto ciò conferma come Ponte Arno con la mitica Luigina sia sentito come parte della propria storia e della propria vita dai pretaroli, noi compresi. 

Chissà se avremo anche a Ponte Arno un “Nuovo Cinema Paradiso”?  Oltre al Presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga anche il Prefetto di Teramo e Atri e il Sindaco di Fano Adriano hanno detto che il momento celebrativo non è un punto di arrivo ma di partenza: si intende realizzarvi una  nuova struttura per la sosta al  bivio con un servizio collettivo al passo dei tempi ? Anche in tale caso resterebbe valida la proposta del “Largo LUIGINA TRENTINI” .

Il  Presidente della Provincia ha già annunciato la  convocazione dei sindaci del territorio per iniziative di rilancio che facciano tornare i tanti che si sono allontanati dalle incomparabili bellezze naturali del Gran Sasso. Se l’omaggio a Luigina potrà dare l’impulso decisivo in questa direzione sarà un altro grande risultato della dedizione di tutta la sua vita. Non resta che attendere,  le esperienze vissute sono tutt’altro che incoraggianti, ma la  speranza è l’ultima a morire.

D’altra parte Pietracamela, tra i “borghi più belli d’Italia” dell’Anci, dopo qualche tornante si scopre in tutto il suo fascino di “nido delle aquile” immerso nel verde alle falde del Gran Sasso eretto come un altare, e mostra la sua vitalità con le iniziative cui si è accennato all’inizio, in particolare con la festa di fine stagione estiva “Borgo in Arte”. Ne parleremo prossimamente.

Ponte Arno, l’area dopo la demolizione, con le 3 targhe, accesso inibito dal “guard rail”

Info

Su Pietracamela, della cui storia è parte integrate Ponte Arno, cfr. i nostri articoli nel sito www.arteculturaoggi.com: per la precedente festa di fine stagione estiva “Borgo in Arte”, nel 2017 il 25 settembre e 1° ottobre, per  il pittore Guido Montauti  sulla mostra di  celebrazione del centenario del 2018,  il 13, 23  e 29 luglio, l’8, 11 e 19 agosto 2018;  nel 2014, il 2, 4, 9 settembre, 14 agosto, 14 e 17 luglio; nel 2013,  il  9 e 27 agosto. Inoltre nei siti  non più raggiungibili : “cultura.inabruzzo.it” il 9 settembre 2013;  “abruzzo.world it”  sulla mostra fotografica con l’artista nel “Grottone”  in relazione alle sue pitture rupestri il  3 e 14 settembre 2012, sullo stesso tema in “guidaconsumatore.fotografia.it” il 10 settembre 2012,  in “abruzzo.world.it”  22 giugno e 8 gennaio 2009 (gli articoli, che saranno trasferiti su altro sito, sono a disposizione degli eventuali interessati).

Foto

Le prime 3 immagini, tra cui la 3^ della targa-ricordo, sono fotografie d’epoca dell’ “Archivio Bonaduce”, si ringrazia Aligi Bonaduce per averle fornite cortesemente; le 4 successive sono state riprese a Ponte Arno, l’ultima delle quali, fornita da Michele Petraccia che si ringrazia, all’apertura della cerimonia.

Ponte Arno, la presentazione delle autorità intervenute: da sin. il presidente della Provincia di Teramo, il presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, il Vescovo di Teramo e Atri, il Prefetto di Teramo, il vice del Comando dei Carabinieri Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari, il sindaco di Fano Adriano

Fiori e vasi, il loro potere e significato, nella mostra alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

La mostra “On Flowers Power. The Role of the Vase in the Arts, Crafts and Design”n” espone, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea dal  16 luglio  al 29 settembre   2019, una vasta serie di  opere sul potere dei fiori e il ruolo dei vasi nelle arti, nei mestieri e nel design: 300 opere pittoriche, 80 costituite da oggetti di un fine artigianato che sconfina con l’arte e affonda le radici nel costume.  Curata da Marti Guixè, artista lui stesso che ha progettato e disegnato due opere esposta in mostra. Catalogo in inglese  della Corsini Edizioni. 

In primo piano i 100 vasi del “New Romantic Style”, 1992-94, in parete i quadri sui fiori

Il senso della mostra

Una mostra insolita e sorprendente, come lo sono molte esposizioni del direttore Cristina Collu che da tre anni sta innovando con il trasversalismo temporale che pone a confronto, in dialogo tra loro, capolavori di ogni epoca piuttosto che limitarsi all’esibizione cronologica. Del resto, “Time is out of Joint”  con cui ha esordito,  è un messaggio permanente sulla sua originale, rivoluzionaria concezione del tempo.

Come lo è il richiamo al “potere dei fiori” in un’epoca così lontana dal romanticismo, ma che resta sempre attuale. Lei stessa  ne sottolinea l’ispirazione e la portata dichiarando: “Vogliamo raccontare una storia contemporanea, qualcosa che parli di noi e del nostro tempo, sappiamo bene che se a raccontare questa storia è una realtà istituzionale come la Gnam, allora quella storia assume un peso e un valore diversi, decisamente più grandi”. E li assume anche per l’accurata ricerca che ne è alla base, sviscerando i significati reconditi del  soggetto espositivo. Ne è una chiara premessa la recente affermazione di Franco Rella posta a sigillo: partendo dal quadro di Magritte del 1928-29, “Ceci n’est pans une pipe”, dichiara che “la scoperta che i fiori dipinti in un quadro non entreranno mai in un vaso di fiori, che non hanno profumo, ‘che non sono fiori’, è una scoperta rivoluzionaria dell’Ottocento”, introduzione che rende intrigante penetrare il contenuto del “potere dei fiori”.   

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Rolando Monti, “Semprevivi (fiori su vaso di vetro)” , 1942

Come lo è il richiamo al “potere dei fiori” in un’epoca così lontana dal romanticismo, ma che resta sempre attuale. Lei stessa  ne sottolinea l’ispirazione e la portata dichiarando: “Vogliamo raccontare una storia contemporanea, qualcosa che parli di noi e del nostro tempo, sappiamo bene che se a raccontare questa storia è una realtà istituzionale come la Gnam, allora quella storia assume un peso e un valore diversi, decisamente più grandi”. E li assume anche per l’accurata ricerca che ne è alla base, sviscerando i significati reconditi del  soggetto espositivo. Ne è una chiara premessa la recente affermazione di Franco Rella posta a sigillo: partendo dal quadro di Magritte del 1928-29, “Ceci n’est pans une pipe”, dichiara che “la scoperta che i fiori dipinti in un quadro non entreranno mai in un vaso di fiori, che non hanno profumo, ‘che non sono fiori’, è una scoperta rivoluzionaria dell’Ottocento”, introduzione che rende intrigante penetrare il contenuto del “potere dei fiori”.   

L’origine e il significato vengono riferiti, sempre dalla Collu, alla  precedente mostra “Ragione e sentimento” che, per il lungo secolo attraversato dagli incendi di due guerre mondiali faceva appello anche alla “pienezza dei sensi”  come vettore di ciò che è e di ciò che sarà.  Con il “potere dei fiori” si porta avanti la ricerca  di come si è sviluppato un processo in cui hanno un ruolo significativo l’”apertura euristica”, la “conoscenza accidentale di questa invenzione”,  l’abilità nel trovarla. Il tutto in un “working in progress” senza certezze, ma lasciando le opportune sospensioni, come nella ricerca dei  concetti “primitivi e intuitivi”  della matematica, legati all’ “esperienza sensitiva”.

Maria Lehel, “Rosa d’ogni mese”, 1933

Di qui significati reconditi, allusioni, metafore,  che nascono da “vibrazioni volatili”, ma tanto intense da poter essere percepite.  Se questa è la visione escatologica che sottende alla mostra,  c’è n’è anche un’altra più aderente alla realtà quotidiana, la evoca il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Alberto Bonisoli,  osservando come i semplici oggetti  come una tazza per il brodo, una sedia per riposare, un vaso per i fiori fanno parte della nostra vita e ogni giorno siamo legati a loro; per questo rappresentano “la storia  e l’evoluzione  del nostro mondo”. Nel senso che “descrivono le condizioni sociali di coloro che li posseggono, il gusto di un’epoca, la sapienza di coloro che li hanno realizzati, la rispondenza alle loro funzioni e l’evoluzione nel tempo non solo rispetto ai cambiamenti culturali ma anche rispetto a quelli produttivi”.  Gli oggetti, quindi, in quanto riprodotti da artisti, incarnano con l’arte la storia civile e industriale, e diventano archetipi delle varie fasi storiche, perché l’attenzione degli artisti si è diretta su di  loro, senza distinguere oggetti d’arte da oggetti industriali:, portatori degli stessi valori identificativi, di qui il prestigio del “design” e dell’”haute couture”.

Il linguaggio dell’arte diventa contiguo  a quello insito in questi oggetti , e la mostra consente di approfondirne la relazione.  Ciò è importante non  solo per capre meglio il mondo presente, ma per proiettarsi  nel futuro che dovrebbe valorizzare le potenzialità attuali e quelle  di un passato glorioso.

Francesco Chiappelli, “Natura morta, dalie”, 1937

I fiori, fascino e significato

Con questa chiave interpretativa cominciamo dal “potere dei fiori” espresso in una galleria di oltre 30 dipinti,  “Nature morte”  , “Fiori” e “Vasi di fiori”. Le “Nature morte” sono di Mario Mafai (con peperoni), 1951, e Toti Scialoja (vaso con fiori ed altri oggetti sopra un tavolo),  1942, Arturo Tosi (con vaso di fiori e con vaso di tulipani), 1940-42,  Angelo Savelli, 1941,  Arnout Colnot, 1925,  Francesco Chiappelli “(Dalie”), 1957. I “Fiori”  di Ilario Rossi, 1940, Vincenzo Colucci, 1941, Pietro Melecchi, 1951, Domenico Caputi, 1940,  Luigi Aversano, 1938;  Felice Carena, 1930, con le specifiche ”Fiori secchi”, Filippo Agostani, 1946-50, e “Fiori di campo”, Maria Lehel, 1933,  “Fiori e frutta” di Baccio Maria Bacci, 1929, “Fiori con bicchiere, di Guido Peyron, 1940,  “Semprevivi” che ricorda la “Vita silente” di de Chirico,  di Rolando Monti, 1942, “Rose e bottiglia”, 1941, e “Garofani”, 1947, di  Mario Mafai, “Zinnie” di Mario Bacchelli, 1938,  “Mimose” di Luigi Aversano, 1939, “Rosa d’ogni mese”, di Maria Lehel, 1933,  “Rose rosse”, di Gabriella Denis-Rault , 1821, e “Rose d’inverno”,  di Enrico Lionne, 1914, “Dalie”, di Gaetano Previati, 1910, “Crisantemi”, di Ugo Bernasconi, 1931, “Rose e conchiglie”, di Pietro Martina, 1941, “Composizione con calle”, di Giuseppe Guzzi¸ 1953, i “Vasi”, da “Vaso di fiori”,  di Giorgio Morandi, 1946-48, a  “Vaso con fiori”,  di Filippo de Pisis, 1939, di Antonio Simeoni, 1938,   di Carlo Siviero (“Antera”), 1917.

Dietro i fiori ci sono spesso delle storie appassionanti, a partire da quella della celebre venditrice di George Bernard Shaw, in Pigmalione, Elisa Doolittle,  ma non solo vicende e personaggi, anche teorie come quella sul taglio del gambo visto come amputazione  di qualcosa di vivente cui si contrappone quella secondo cui sarebbero destinati a deperire sulla pianta, mentre  nel vaso sono alimentati e tenuti in vita dall’acqua, alcune specie anzi sbocciano  nel vaso dopo essere stati recisi. 

Enrico Lionne, “Rose d’inverno”, 1914

L’utilizzazione dei fiori come metafora di buoni sentimenti è stata enfatizzata soprattutto nell’epoca del  Romanticismo in modo particolare dai poeti e dai pittori oltre che nella vita di tutti i giorni. Ma neppure l’epoca moderna scherza, dal “Grazie dei fior” del primo Festival di i Sanremo anni ’50  al “Rose rosse” che lanciò il cantante Massimo Ranieri.

Naturalmente diversi significati vengono attribuiti alle tante varietà di fiori, dalle camelie, celebrate nel melodramma, alle calle della pittrice O’ Keeffe, per citare due significati  allusivi.  Anche il riferimento alle venditrici di fiori per le strade muta, dal simbolo della purezza assume toni ambigui,  con intenti seduttivi fino  al mercimonio di offrire se stesse dietro lo schermo della vendita di fiori, in una vita tormentata e di miseria.

I fiori sono mostrati nei modi più diversi, variano dalla lunghezza del gambo alle composizioni dei “bouquet” nei vasi,  inoltre l’impiego  muta in relazione  al contesto socio-culturale e all’uso rituale. Non ci sono punti di vista privilegiati nell’ammirare un mazzo di fiori, poi quando viene posto nel vaso dalla persona cui è stato donato questa compone un “bouquet” secondo le proprie preferenze.

Gaetano Previati, “Dalie”,1910

Non ispirano soltanto pittori, ma anche narratori, viene citato Le Guin il quale  si sofferma sul gesto di portare nelle abitazioni i prodotti della natura all’interno di un vaso, come per i fiori  e per gli altri frutti e cibi. Il loro significato è nella vita che esprimono  anche dopo essere stati tagliati, sono morti solo apparentemente, ma continuano a vivere ed entrano a far parte della vita familiare con i loro colori e la loro forma come componenti dell’ambiente domestico. “Se il vaso è, in questo senso, la loro tomba, questi fiori esprimono metaforicamente la sintesi di questo trasferimento”, dalla natura alla quotidianità.

I vasi, un  simbolo ancestrale

Dopo i fiori diventano protagonisti della mostra i vasi, e non solo come contenitori dei fiori ma per sè stessi. Vediamo una serie di esemplari esposti dai titoli e dalle forme più diverse, come i recentissimi, del 2019,  “Still Life” di Chiara Bettazzi e  i “Pompitu Vase” e “Anatomia Vase” di Gaetano Pesce,  i “Post digital vase”  di Coudre, e  “Forte Terra” di Nicola Filia: degli anni precedenti “Aircleaninglady”, di Aurora Sander, 2016-17,  e  “Reverie”, di Elena El Asmar, 2016, “Magic Bottles”, di Chiara Bettazzi, 2014, “See you in the Flesh” di Ursula Mayer, 2014 e “Solar Sister”, di Markus Kaiser, 2011, “Breathing “ di Sabine Delafon, 2009, e “Suber”, di Pierluigi Plu, 2009 ; ancora più indietro nel tempo, “Long Neck and Groove Bottles”, di Hella Jongeius, 2000, “Gertrude Stein” e “Nerone”, di Luigi Ontani, 1997.

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Marino Mazzacurati, “Susanna al bagno”, 1946-47

La  FAD Cup Collection   pone i vasi addirittura al centro di una celebrazione rituale. Questa  associazione spagnola con sede a Barcellona riunisce professionisti e operatori  nei campi del “design” in base alla concezione che un suo uso appropriato può migliorare la vita delle persone, e per questo impiega  risorse nella ricerca dell’eccellenza in questo campo e in quelli  collegati. Dal 1917  annualmente viene creata una Coppa  che identifica il singolo anno, e ciò è avvenuto per un secolo eccettuato il quadriennio 1937-40  sconvolto dalla guerra civile spagnola. Abbiamo, quindi, una sfilata di 100 vasi, ognuno rappresentativo dell’anno in cui è stato realizzato e prescelto, in una sequenza quasi ininterrotta nella quale spiccano non solo i maestri vetrai, ma anche gli architetti progettisti di alcune forme particolarmente elaborate.

Abbiamo anche un’altra serie di 100 vasi, il “New Romantic Style”, prodotti in Germania  dalla Seltman Company of  Weiden, tra il novembre 1991 e il febbraio 1992, tutti di porcellana  e con la stessa struttura senza varianti. Mutano i disegni ornamentali nel corpo dello stesso vaso, i 100 decoratori li hanno realizzati in 100 esemplari ciascuno, è  stato “un lavoro corale”, “una costellazione di storie visive”, cento storie singole che compongono un  grande racconto collettivo, “un caleidoscopio  le cui figure globali hanno senso  solo quando gli elementi più piccoli e marginali esprimono la loro identità”.  Sono elementi distinti, ma è come se facessero parte di un unico “puzzle” nel quale il “design” crea differenze nell’identità comune. Ogni vaso reca il nome del decoratore e un numero progressivo, da 1 a 10.000.  C’è stata una seconda fase del progetto,  i vasi di decoratori  preferiti dal pubblico sono stati prodotti successivamente in serie illimitate, a un prezzo più alto di quello dei 10.000 vasi iniziali.

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Hella Jongerius, “Long Neck and Groove Bottles” , 2000

Alla base di tutto ciò un’originale concezione che accosta i prodotti industriali di valore estetico alle specie naturali, agli organismi biologici. Anche loro, infatti, sono costituiti di materiali e colori, hanno pulsazioni e “segni sulla pelle”, quindi si può pensare a un meccanismo di riproduzione.

Perché è stato scelto un vaso per un’operazione industriale così ambiziosa  che sconfina nella visione filosofica  del mondo nella sua essenza primaria?  La spiegazione è semplice: il vaso è prodotto con la terra come materiale, è elementare nell’uso, è uno degli oggetti ancestrali che hanno accompagnato la vita dell’uomo dall’origine, costruito usando una ruota, strumento ancestrale anch’esso, per la sua lunga storia è contenitore di leggende e di riti. Restando al presente evoca la forma di un fiore e viene tenuto stretto dalle mani riunite per bere o per offrire, “trasmette sentimenti e sogni, ansie  e miti”, gli ornamenti trasmettono le vibrazioni della mente, nella loro circolarità non hanno né inizio né fine.  “Le decorazioni sono come pesci nel mare, esistono anche se non si vedono”.

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Gaetano Pesce, “Pompitu II Vase” con “Amazonia Vase”,1996-97

Naturalmente, per quanto si è detto, tutto questo indicato in astratto si materializza in concreto nelle diverse epoche storiche  in varie forme, tipologie e materiali su cui sono impressi i disegni secondo i tempi, “è un contenitore con o senza contenuto”, il suo ruolo può essere “funzionale, simbolico o mistico”, tutto dipende dal cotesto socio-culturale in cui si colloca.       

L’aspetto più qualificante è la sua identificazione con l’essere umano, “è un oggetto antropologico in cui è scritta la storia della nostra civilizzazione”, dell’ “uomo faber” con le sue arti e le sue tecniche. Inoltre è strettamente connesso al fiore – la solidità abbinata alla fragilità –  simbolo di bellezza e di vita che stimola i diversi sensi dalla vista all’olfatto fino al tatto. E fin qui non c’è da stupirsi, ma c’è dell’altro: il vaso di fiori viene visto anche in rapporto a una “perfetta intelligenza artificiale ideale”  in quanto basato su una “costruzione funzionale e solida ma che incorpora empatia”, nel senso di capacità di creare emozioni indipendenti dal ceto e dallo stato sociale. Ed ecco come viene motivata questa ardita equiparazione: “La sua tangibilità rispetto alla immaterialità digitale lo trasforma in un modello formale che nella sua astrazione è ideale per esprimere  o proporre in una forma sintetica tipologie  che ci aiutano a visualizzare e configurare nuovi strumenti  intangibili nel contesto della complessità dei media digitali  e dell’intelligenza artificiale”. Chi lo avrebbe creduto?

Aurora Sander, “Aircleaninglady”, 2016-17

 In termini più semplici un vaso di fiori attraversa diverse discipline, dall’artigianato al “design” all’arte, per cui può essere considerato da una serie di punti di vista che devono convergere in una visione unitaria. Ma dal punto di vista dell’osservatore è semplicemente un contenitore di fiori, quindi portatore di un elemento emozionale, e soprattutto “una presenza quotidiana nel mondo reale, un elemento di ospitalità e di conforto, di benvenuto; è una icona del mondo reale”.

Chiare e lineari, senza colore, le serie: “Trophies”, di Simone Bergamini, 2016-17, e “Una debole luce bianca”, di Marina Bolla,  2013.  Mentre vediamo  oggetti che più che vasi sembrano sculture, come la base su cui si inserisce il gambo, di Franz West, 2003, e l’albero stilizzato  di Tobias Rehberger, 2004;  “Small and yellow mountain”, di Ugo Rondinone, 2016,  rende onore al suo titolo, mentre “3-dimensional model” di Oliver Laric, 2014, è un piccolo monumento; “Rotating Pressures”, di Gabriel Orozco, 2012, è una composizione di più oggetti, e “Marble Podiums od Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma”, di Suiseki Hanagata-Ishi,  conclude la ricca galleria con un omaggio alla sede espositiva.  

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Flower vase emoji made with all existing emojis of flowers
placed inside a plain white vase

La mostra espressione di modernità, trasversalità e di empatia

Sottolinea il curatore che la mostra  “rappresenta una nuova percezione di cosa un vaso di fiori rappresenta, una visione che tenta di proiettare l’oggetto con lo status di soggetto”, e quindi,  “ricontestualizzare il suo significato e porlo al culmine della contemporaneità del 21° secolo”.

Proprio per sottolineare la modernità dell’impostazione ed evitare equivoci ci tiene a sottolineare che il titolo “Il potere dei fiori” non ha alcun riferimento all’analoga intitolazione che fu data al movimento hippy tra gli anni ’60 e ’70,  una variante ecologista e pacifica della contestazione giovanile con gli “indiani metropolitani”  e altre forme che ostentavano il ritorno alla natura contro il consumismo;  per non parlare del “mettete i fiori nei vostri cannoni”, ricordiamo la mostra nella Galleria Nazionale per il cinquantennale dal ’68, con immagini e memorie sulla contestazione.

Ma va ancora oltre nell’evocare il film “2001, Odissea nello spazio”  nel quale il regista Stanley Kubrick con Arthur C. Clarke nel 1968 percorre il più lungo periodo della storia del cinema, 4 milioni di anni, dal primo “homo sapiens”  all’astronauta della navicella spaziale “Discovery”, arco di tempo in cui arte, artigianato e “design” si sono espressi nelle varie epoche nel continuo intento di passare dall’oggetto al soggetto. Conclude che in questo passaggio consiste la sfida del futuro.

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Franz West, “o. T”, 2003

Ecco alcune recenti realizzazioni in chiave moderna con al centro i fiori: nel 2014 una installazione presentata a Francoforte con ritratti di artisti e amici dell’autore, Tobias Rahberger, insieme a dei vasi di fiori, in un empatico incontro tra l’oggetto-vaso con i fiori scelti e il soggetto cui sono stati collegati; nel 2015, con “masquerade” si è trasformato un vaso da oggetto fisico a qualcosa di umanizzato e di emozionante  creando un’empatia artificiale mediante elementi artificiali con un filtro  che aggiunge elementi grafici spettacolari. Sono procedimenti complessi che applicano gli strumenti più avanzati della telematica a qualcosa di antico, anzi ancestrale come il vaso di fiori, in un mix quanto mai intrigante.

La parola “trasversale” viene utilizzata come sintesi della mostra sia perché alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna va in scena il “design”, trasversale rispetto all’arte in senso stretto, sia perché l’oggetto della mostra è trasversale per eccellenza.  Infatti i vasi segnano l’incontro tra arte come espressione, artigianato come produzione,  e “design” come mercato, e il vaso di fiori è insieme “funzionale e intellettuale”, realizza una “partecipazione emozionale, possiede empatia”.

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Gabriel Orozco, “Rotating Pressures”, 2012

Ma questo non solo per la presenza di fiori; anche quando  mancano l’empatia nasce dall’essere il vaso  “qualcosa di mistico, esoterico, rituale, intellettuale, culturale, poetico”, uno “strumento “metaforico costruito da artisti,  artigiani e designer”. E proprio “l’empatetica entità artificiale  la cui eventuale forma è in un vaso da fiori senza fiori è l’oggetto della mostra”.

Dal “potere dei fiori” all’“empatia del vaso senza fiori”, si conclude così un viaggio intrigante in un mondo che rivela aspetti inimmaginabili e potenzialità sconosciute. Non si guarderà più, dopo aver visto la mostra e averne approfondito i contenuti, un vaso di fiori come lo si faceva prima, lo si osserverà con maggiore interesse per scoprirne gli aspetti reconditi che l’esposizione ci ha rivelato.

“The FAD Cup Collection”, vasi simbolo anni da1917 a 1932 “The New Romantic Style” i primi 20 dei 100 vasi, 1992-1993

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00. Catalogo “”On Flower Power. The Role of the Vases in Arts, Crafts and Design”, Corraini Edizioni, luglio 2019, pp. 73, in inglese; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per il design cfr. in www.arteculturaoggi.com. i nostri articoli sulla mostra al Palazzo Esposizioni “La dolce vita, dal Liberty al design” 1, 14, 23 novembre 2015.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, tranne la panoramica di apertura tratta dal sito “on line” www.cieloterradesign.com, si ringraziano l’Editore del Catalogo e il proprietario del sito, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, In primo piano i 100 vasi del “New Romantic Style”, 1992-94, in parete i quadri sui fiori; seguono, Rolando Monti, “Semprevivi (fiori su vaso di vetro)” 1942, e Maria Lehel, “Rosa d’ogni mese” ; poi, Francesco Chiappelli, “Natura morta, dalie” 1937, e Enrico Lionne, “Rose d’inverno” 1914; quindi, Gaetano Previati, “Dalie” 1910, e Marino Mazzacurati, “Susanna al bagno” 1946-47; inoltre, Hella Jongerius, “Long Neck and Groove Bottles” 2000, e Gaetano Pesce, “Pompitu II Vase” con “Amazonia Vase” 1996-97; ancora, Aurora Sander, “Aircleaninglady” 2016-17, e “Flower vase emoji made with all existing emojis of flowers placed inside a plai white vase“,; continua, Franz West, “o. T” 2003, e Gabriel Orozco, “Rotating Pressures” 2012; infine, “The FAD Cup Collection”, vasi simbolo anni da1917 a 1932 e, in chiusura, “The New Romantic Style” i primi 20 dei 100 vasi, novembre 1991- febbraio 1992.

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The New Romantic Style” i primi 20 dei 100 vasi, novembre 1991- febbraio 1992