I giovani e la cultura, 2. I “Millenians” nell’XI Rapporto di Civita

di Romano Maria Levante

Concludiamo il nostro resoconto della presentazione, avvenuta il 4 aprile 2019  presso la  Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, dell’XI Rapporto di Civita dal titolo “Millennials e Cultura nell’era digitale. Consumi e progettualità culturale tra presente e futuro” sui risultati dell’accurata indagine sul mondo giovanile svolta dal  Centro studi “Gianfranco Imperatori” di Civita con la collaborazione di “Baba Consulting”.  Abbiamo già riportato in estrema sintesi i principali  contenuti dell’intervento di apertura del Presidente di Civita Gianni Letta seguito dal Direttore Generale Musei del MiBAC Antonio Lampis, e delle presentazioni dei risultati della ricerca da parte di Civita, negli interventi del Segretario Generale dell’Associazione Nicola Maccanico e del Responsabile ricerche del  Centro studi  “Gianfranco Imperatori” Alfredo Valeri; quindi  i contributi sul tema “Progettualità culturale tra innovazione e creatività”. Passiamo ora ai contributi su “Millennials sotto la lente”, moderati da Francesco Castelnuovo, di Sky, fino alle proposte di Civita.


Il Segretario generale di Civita, Nicola Maccanico, introduce le relazioni sulla ricerca del Centro Studi dell’associazione

La “social community”,  rilevanza, realtà e  potenzialità

Dei tanti temi analizzati nella ricerca di Civita,  oltre a quelli già ricordati in precedenza, alla Galleria Nazionale gli estensori del Rapporto ne hanno evidenziato altri di particolare rilievo.

Claudio Calveri,  Digital strategist DeRev, ha scandagliato l'”ecosistema della produzione e del consumo culturale digitale  dei giovani”, soffermandosi sulle “social community”, cioè sul luogo elettivo dell’interazione digitale dove si manifestano  gli interessi e le passioni dei giovani in un “consumo culturale personalizzato e connotato da una dimensione collettiva”, ossimoro certamente intrigante. 

Per un maggiore coinvolgimento sono state individuate a livello europeo tre prospettive: attirare nuovi utenti dallo stesso profilo socio-demografico; approfondire le relazioni con il pubblico esistente valorizzandone le esperienze culturali e aprendolo a nuove esperienze; diversificare il pubblico con soggetti di diverso profilo socio-demografico, soprattutto se lontani da arte e cultura.  

I social network più “partecipati” sono Youtube, Facebook e Whatsapp ciascuno con il 60% circa,  (e 34 milioni di utenti nel 2018, + 10% rispetto all’anno precedente), mentre Istagram si attesta sul 33% e Google e Twitter rispettivamente sul 25 e 23%; quasi il 50% degli utenti è tra 25 e 45 anni, mentre solo il 4% è nella fascia 13-17 anni, a dispetto del convincimento diffuso riguardo ai giovanissimi.  

Un’altra notazione importante è che nonostante i tentativi di organismi anche istituzionali per la promozione dei beni culturali, questi non riescono “ad assolvere in maniera realmente efficace (in termini di frequentazione e interazione) alla funzione di catalizzare e coinvolgere le energie creative e partecipative di ragazzi”, presenti in misura ridotta, soprattutto se giovanissimi; mentre si assiste a “un proliferare di aggregazioni legate a soggetti privati o all’autorganizzazione degli utenti”.

Confortante invece è la preferenza del pubblico per i canali di “community” impegnati nella “curation”, cioè nella selezione di notizie  sul segmento culturale di riferimento, di cui è evidente l’importanza ai fini della diffusione e penetrazione dei messaggi sull’offerta culturale.

Sono esplorati anche i “social network”  internazionali relativi alla produzione creativa, in cui i giovanissimi  si esercitano nella scrittura di storie e romanzi cercando il feedback in “una meravigliosa dinamica del tempo della creazione, che si fa sempre più collettiva, partecipata e condivisa”: il maggiore di questi, il canadese Wattpad, ha ben 65 milioni di utenti mensili, con la selezione più recente di 280.000 storie. Vengono pubblicate in modo progressivo, capitolo per capitolo, “in un dialogo con l’autore del tutto orizzontale” dal quale nasce “una sintonizzazione che diventa co-creazione a tutto tondo, trasparente e documentata in tutto il suo percorso,  con migliaia di commenti in itinere che rimangono ‘agli atti’ sul singolo profilo dell’opera”. Gli editori seguono questo processo interessati ad acquisire storie che hanno già un vasto consenso.  

Nonostante la condivisione delle “community”, tuttavia, “l’asseverazione dell’identità  è precondizione se non condizione stessa del valore che nella rete si esprime sulla base di  reputazione, competenze o anche solo posizionamento acquisito”. E’ la  “dimensione umana” sottolineata da Gianni Letta,  che oltre a resistere all’urto della tecnologia regge anche all’impatto della globalizzazione mediatica dei “social network”. 

Di qui nascono gli “influencer”, che possono essere anche persone comuni, emerse per la capacità di  orientare e catalizzare i comportamenti degli utenti dialogando “on line” con loro; è prevista anche l’assegnazione di ruoli di “Top Fan” sulla base delle discussioni attivate per la presa sulla “community” sfociate in commenti e reazioni”. Sono formule di coinvolgimento i che hanno la caratteristica di stimolare i partecipanti a un ruolo attivo e non soltanto di fruitori passivi, cosa di estremo interesse perché dall’impulso all’azione nasce la creatività.

L’esplorazione a largo raggio compiuta porta ad alcune considerazioni in chiave propositiva per uno sviluppo delle attività “social”  volto ad accrescere il favore  soprattutto dei giovani. A tal fine “è bene riempire di senso la presenza proponendo innanzitutto agli utenti un’utilità concreta, da calibrare  naturalmente in coerenza con la propria missione specifica”.  Va potenziata la “curation” che seleziona i contenuti aderenti agli interessi, e insieme va lasciato spazio per  l’interlocuzione degli utenti e va promossa la valorizzazione dei contenuti generati da stimolare e raccogliere in modi semplici ma tali da valorizzare gli utenti più attivi. L’azione degli “influencer” va inserita  nella dimensione globale senza prevaricare l’insieme del sistema. Infine va colta la possibilità di  misurare con i “social network” i risultati delle politiche di comunicazione. 

Il  reponsabile attività di ricerca del Centro Studi di Civita,  Alfredo Valeri, presenta i risultati delle indagini svolte  

Un’indagine compiuta su un campione di giovani, “Giffoni Big Data 2017”,  nell’ambito della vasta partecipazione giovanile all’annuale “Festival Giffoni Experience”,  ha fornito ulteriori elementi sull’approccio giovanile alla cultura.  La stragrande maggioranza dialoga su temi culturali, ma il 20%  lo fa in modo incostante, e  vive “in maniera del tutto personale il consumo culturale, inducendo a riflettere molto bene  chiunque si occupi di audience engagement (ma anche di audience development) nel settore culturale sulle effettive modalità di potenziale coinvolgimento e sulla sensibilità dei giovanissimi, ancora da esplorare in molti dei suoi aspetti”.  

Un aspetto accertato è che, contrariamente a quanto si possa pensare, non sono i “social network” e il “Web” le sedi preferite per sfogare le proprie passioni e condividere i propri interessi, ma vie oltremodo tradizionali, lo abbiamo rilevato all’inizio: il dialogo con amici, anche in modo digitale, con parenti, e insegnanti. Il Web torna ad essere privilegiato, invece, rispetto agli altri media, compresa la televisione, e questo conferma che deve essere il campo in cui impegnarsi per un efficace  dialogo con i giovani. In fondo, anche la ricerca dei rapporti personali si trasferisce sul web e sulle piattaforme digitali.  

 Le  vie del marketing per i  “Millennians”

Quanto detto fin qui sull’identità giovanile e sulla loro intensa attività nel mondo del Web e della “social community” indica che la generazione dei “Millennianl” si muove in un terreno sul quale devono misurarsi istituzioni e privati per stimolarli e coinvolgerli nei campi di interesse. Abbiamo parlato nella prima parte del nostro resoconto della cultura, cui è dedicata la ricerca di Civita, ma naturalmente i giovani sono anche nel “mirino” delle attività di marketing dei gruppi privati.

L’analisi diSimonetta Pattuglia, Professore aggregato di  Marketing, comunicazione e media  alla facoltà di Economia dell’Università romana di Tor Vrgata, ha approfondito l’importanza dei giovani nelle strategie delle imprese. All’interesse a comunicare, di cui abbiamo detto, si aggiunge quello a  proporre e distribuire prodotti, servizi, e idee  a una generazione che ha molte collocazioni: consumatrice ed elettrice, telespettatrice e lettrice, navigatrice “on line” e lavoratrice.  Una comune classificazione generazionale dei diversi gruppi di età sottintende comunanza di esperienze e di eventi vissuti, di situazioni economiche collettive e valori sociali; ma i giovani sono anche “egocentrici, duttili, assertivi, animali sociali ‘speciali'”,  quindi è molto complesso interpretarli.   

I “Millennials” sono la “Great Generation”, Generazione Y  (nati tra il 1980 e il 2000), che viene dopo la Generazione X (nati tra 1964 e 1979), i “digitali adattativi”, a sua volta succeduta ai “Baby Boomers” (anni ’50 e ’60), dopo la “Greatest Generation” dei “Builders” , detta “silente”, vissuta tra le grandi guerre del ‘900; la generazione più recente è la  Generazione Z (nati dal 2000 al 2015), i “nativi digitali”. I “Millennials” in campo digitale si collocano tra gli “adattativi” e i “nativi”. In base alle collocazioni ci sono gradazioni nell’utilizzo dei “social network” e degli “smartphone”: i “nativi” vi passano gran parte del tempo e sono propensi a privilegiare i contatti “on line” nei diversi campi.

Si può dire che, soprattutto per i “nativi digitali”, i confini tra vita “on line” e vita reale spesso non sono distinguibili: questo è sempre più evidente, e a livello di marketing suscita l’interesse delle imprese, considerando che  le loro capacità di spesa sono consistenti attingendo alle famiglie di origine, e che hanno molta influenza sulle scelte di consumo dei familiari, per l’accesso spesso esclusivo alle informazioni e ai canali di acquisto sul Web, come l'”e-commerce”,  che dà loro un ruolo nella famiglia  ben superiore rispetto a quello dei giovani del passato. Il privato familiare, amicale e il pubblico sui “social media” diventano inscindibili perché “la tecnologia ha plasmato e plasma continuamente la vita e l’esperienza pubblica e privata di questa generazione e la fa convergere”.   

Gli “ipercomunicatori” relazionano tendenzialmente attraverso il Web, “ciononostante non si sentono adatti a creare una ‘relazione comunitaria ma sono maggiormente disposti a creare una ‘relazione di scambio’ con basso  coinvolgimento. Il vero impegno affettivo è in ultima istanza rivolto alla famiglia e all’ambiente amicale”, come abbiamo già rilevato. 

Ecco le considerazioni della studiosa sui modi con cui far penetrare nelle giovani generazioni i propri messaggi: “Relazioni, storytelling digitale e reale, creazione di contenuti di qualità, programmazione e formazione, customer care, nuove forme di distribuzione fisica e digitale più coinvolgenti; monitoraggio, misurazione e valutazione costante, sembrano oggi dare le linee-guida di questa nuova empatia verso le nuove generazioni”.   

L’incontro tra domanda e offerta culturale

Annalisa Cicerchia ha tratto una serie di conclusioni in merito a politiche culturali in grado di far incontrare la domanda e l’offerta per le giovani generazioni; Come “primo ricercatore Istat” si basa sugli elementi ricavati con le indagini statistiche che valuta da “economista della cultura”, qualifica che siamo lieti di trovare perché è necessario considerare il lato economico oltre quello identitario;  d’altra parte, è stato vice presidente di Civita fino al 2018  Emmanuele F. M. Emanuele, autore del trattato  “Arte e Finanza”.  

Sul quadro statistico dei consumi culturali citiamo soltanto una constatazione per certi versi sorprendente che risulta da indagini a livello europeo: il forte “gap generazionale” tra la partecipazione culturale dei giovani e quella degli anziani, dato che la prima è quasi doppia, in Italia e in alcuni paesi europei, non in tutti. Ma non va considerata come positiva premessa per una maggiore partecipazione degli anziani di domani che sono i giovani di oggi, tanto che la studiosa osserva addirittura:  “Contrariamente a ciò che accade  in altri paesi europei, in Italia la partecipazione culturale  sembrerebbe una malattia dell’infanzia e della giovinezza, dalla quale si guarisce crescendo”; quindi non viene mantenuta con il passare degli anni: “La Cultura non riesce a sviluppare familiarità permanente, a trasformarsi diffusamente in un’abitudine radicata”.  

Intervengono il Digital strategist DeRev,  l’Eonomista della cultura, la Docente di marketing, comunicazione, media

Si arriva perfino alla “completa inattività culturale”, cioè  a uno stato di totale assenza negli ultimi 12 mesi di spettacoli o intrattenimenti fuori casa e della lettura di quotidiani o libri: ebbene, per gli italiani  oltre 75 anni di età , l’inattività culturale riguarda il 44% , rispetto alla media del 19%, mentre per i giovani fino a 24 anni è limitata al 4-5%, ma poi peggiora molto con gli anni, come si è sopra osservato.

Le iniziative da intraprendere in campo culturale per le nuove generazioni, dunque, oltre a rendere più familiari i beni culturali alla loro età, dovrebbero radicare la positiva abitudine acquisita in quell’età in modo da non perderla con il passare degli anni e gli impegni accresciuti. Vediamo come. 


Una prima considerazione è che va cambiato il modo di vedere la cultura, dato che “la filosofia della cultura come petrolio e del con la cultura non si mangia” sono “due facce della stessa medaglia”, che ne tengono conto solo in termini economici,  per cui si fa più formazione professionale che educazione.  Mentre occorre un’ “educazione culturale”  dei giovani intesa come  “costruzione del gusto”, “coltivazione della creatività personale”,  non come acquisizioni effimere e transitorie, ma consolidate “in abitudini che durino tutta la vita”.  Chi ha questo compito? 

La scuola fa quel che può,  ma poi la sua azione cessa, come lo fanno le biblioteche e  alcuni programmi sul patrimonio culturale presso il MiBAC, nulla di sistematico e incisivo. La “Nuova agenda europea per la cultura” praticamente ignora i giovani mentre la nuova “Strategia sulla gioventù Engaging  Connecting and Empowering Young People” non considera la cultura tra le aree di intervento e neppure tra i relativi strumenti, sebbene la partecipazione ad attività culturali e creative sia definita “una parte vitale della vita dei giovani”, in quanto farebbe sviluppare abilità professionali, acquisire competenze, facilitare la socializzazione e l’integrazione nella comunità.   

Pur se non figura nelle enunciazioni generali, tuttavia, nella “Strategia europea” la Cultura è considerata tra i diversi  temi in cui si articola, con questo solenne proclama: “L’UE sostiene la creatività e l’innovazione dei giovani attraverso l’accesso e la partecipazione alla cultura”, cui seguono una serie di obiettivi, per sostenere e accrescere, facilitare e promuovere, garantire l’accesso: questo con riferimento alla creatività e agli strumenti per stimolarli,  alle nuove tecnologie e ai luoghi deputati, alle sinergie con altri programmi di settore e alle partnership, alla formazione e ai talenti anche per le capacità imprenditoriali, sempre dei giovani, da realizzare mediante i programmi “Creative Europe” ed “Erasmus”.  

Si  tratta, però, di  affermazioni prive di strumenti concreti, per cui, sottolinea la studiosa, emerge che “l’obiettivo dell’accesso alla cultura, motivato come fattore essenziale di crescita umana, sociale e civica dei giovani abbia progressivamente perso di centralità”. E cita il confronto con il 2010  allorché il Consiglio europeo  esortava la Commissione e gli Stati membri “ad agevolare  l’accesso di tutti i giovani alla cultura, riducendo gli ostacoli che vi si frappongono (limitazioni di ordine finanziario, linguistico, geografico e di tempo)” promuovendo l’educazione culturale e artistica dall’infanzia, in una prospettiva di educazione permanente,  incoraggiando il partenariato  tra giovani creativi e soggetti interessati  sostenendo la ricerca nella cultura e creatività giovanile.

Affermazioni, obiettivi ed esortazioni sono rimasti sulla carta, in particolare “lo spazio della cultura nelle politiche giovanili va comprimendosi e si schiaccia sempre di più sulla spendibilità occupazionale delle competenze culturali e creative”  in una pericolosa “retorica dei talenti”, che riducendo la creatività e sensibilità artistica a doni di natura è un alibi all’assenza di percorsi formativi per sviluppare tali competenze con un lavoro in profondità che richiede risorse e impegno.   

Non risultano programmi recenti di promozione culturale del Dipartimento per la Gioventù, mentre programmi interessanti a livello territoriale in campo culturale, artistico, creativo, si riscontrano solo per alcune Regioni, a parte l’attività svolta dalle biblioteche comunali e dalle bande musicali.  Per questo “l’istituzione sulla quale in Italia ricade la parte più grande dell’educazione culturale resta la famiglia”. 

Ma, aggiungiamo noi, vista la disaffezione  con il passare degli anni verso la cultura, considerata “malattia infantile”, non solo non è adeguata e sufficiente, ma crea distorsioni: “oltre che la polverizzazione la  perpetuazione delle disuguaglianze”, che invece dovrebbero essere il primo bersaglio delle politiche culturali, per “la correzione degli squilibri, la riduzione delle distanze, l’inclusione degli esclusi”.

E gli esclusi sono tanti, mentre le barriere sono in primo luogo di ordine economico, come il costo dell’ingresso nei musei e nelle mostre d’arte per la maggioranza dei giovani, a parte determinate classi di età e categorie; perciò sono considerate positivamente le iniziative volte a favorire l’accesso,  come le domeniche gratuite e i bonus culturali,  non soltanto sotto il profilo pratico per i percettori dei redditi più bassi,  ma soprattutto sotto quello più importante di dare valore all’arte e alla cultura promuovendone la diffusione.   

Notevoli differenziazioni  emergono tra le varie categorie, dalle famiglie della classe dirigente a quelle degli impiegati e degli operai fino ai pensionati e agli stranieri,  vengono  analizzati i consumi culturali nei vari settori fino al “digital devide” dei meno abbienti e meno evoluti. In complesso, oltre alle differenze tra le varie situazioni socio-economiche,  un altro dato,  senza dubbio allarmante, va evidenziato: nella media delle famiglie tradizionali della provincia italiana, ben il 42% è stata completamente “inattiva” culturalmente  nel 2016, mentre nel 2008 tale percentuale era soltanto del 34%; e solo il 23% ha svolto almeno tre attività culturali, rispetto al 25% di otto anni prima.

Gli interventi delle responsabili del Culturit Network e del progetto Alternanza scuola-lavoto Maxxi A[r]t Work   

Ne sono direttamente investiti i giovani per i quali la pratica e la partecipazione artistica e culturale   rappresenta un modo non solo per migliorare la qualità del loro tempo libero, ma anche per “l’arricchimento delle loro conoscenze, delle loro abilità, delle loro competenze. Alimentano la loro curiosità, la loro fiducia in sé stessi, lo spirito critico e la capacità di immaginazione e di pensiero creativo. Hanno un effetto positivo sul loro senso di benessere e, in qualche caso, perfino sul loro stato di salute percepito”. Inoltre, cosa altrettanto rilevante, “eliminare le disuguaglianze nelle opportunità di pratica e partecipazione culturale e artistica dovute a motivi fisici, economici e sociali , abbattere le barriere di accesso, tangibili  intangibili, è la forma più compiuta di democrazia culturale”. 

Le proposte di Civita

A conclusione della ricerca, Civita ha avanzato  proposte per avvicinare i giovani al mondo della cultura da considerare un mezzo non solo per impiegare proficuamente il tempo libero, ma anche per affrontare le sfide della modernità. Sono “quattro obiettivi  prioritari per ottimizzare le strategie di audience development  rendendole realmente inclusive e massimizzandone  gli impatti diretti e indotti”: “ampliamento dell’offerta culturale” con prodotti e attività a livello locale personalizzati integrando la dimensione culturale con l’intrattenimento; “creazione di contesti idonei e strumenti ad hoc” per la fruizione culturale e  la sperimentazione creativa con strumenti per giovani “iperconnessi”; “facilitare l’accesso alla cultura” abbattendo  le barriere all’accesso, quella economica, quelle sull’accessibilità, dai mezzi pubblici agli orari, ai servizi; “favorire tutorial e supporti finanziari a favore di iniziative culturali e creative” ideate e proposte dai giovani.

Sono proposte essenziali e concrete, con la solida base conoscitiva data dall’XI Rapporto, cui si aggiungono i rapporti  sulle “Industrie culturali e creative” che scandagliano il più vasto contesto imprenditoriale e produttivo.  L’impegno di Civita è ancora più meritorio in quanto esprime gli orientamenti della galassia di imprese associate, ulteriore garanzia di operatività.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Il primo articolo è uscito in questo sito l’11  aprile 2019. “Millennials e Cultura nell’era digitale. Consumi e progettualità culturale tra presente e futuro”,  XI Rapporto Civita, Marsilio-Associazione Civita, dicembre 2018, pp. 174, formato 24 x 21.   Per convegni precedenti di Civita in materia culturale cfr.i nostri articoli:  in questo sito, sul “WeAct per le Gallerie Nazionali d’Arte Antica” 20 dicembre 2018, sulla “Cultura come diritto di cittadinaza” 20 e 25 ottobre 2018, sulle “Imprese culturali e creative”  14, 18 febbraio 2018 e 19 settembre 2014, sul “Soft Power”  11 e 15 febbraio 2018, sulla “Via Francigena”  19 luglio 2018, 18 giugno 2017, 29 agosto 2015, 19 luglio 2014, sul salvataggio di “Civita di Bagnoregio”  20 giugno e 9 luglio 2015, sugli “Itinerari consolari” 16 marzo 2013, sui “Tesori della provincia di Roma” 29 luglio 2013; inoltre, in www.archeorivista.it, sull’ “Archeologia e il suo pubblico” 26 febbraio 2010, e  in cultura.inabruzzo.it, “Appello contro la recessione culturale” 15 luglio 2010,  le “Domus di Palazzo Valemtini”  3 dicembre 2009, “Arte, cultura, territorio” 3 novembre 2009,  la “Via Francigena”  5 ottobre 2009, l'”Hotel della cultura” 17 settembre 2009 (tali siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Foto 

Le immagini del Convegno e quella di chiusura sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea; sono intervallate a riproduzioni di illustrazioni e grafici contenuti nell’XI Rapporto di Civita, si ringraziano le direzioni della Galleria Nazionale e di Civita per l’opportunità offerta. In apertura, il segretario generale di Civita, Nicola Maccanico , introduce le relazioni sulla ricerca del Centro Studi dell’associazione; nella 4^ immagine il  reponsabile attività di ricerca del Centro Studi di Civita,  Alfredo Valeri, presenta i risultati delle indagini svolte; nella 7^ imamgine, intervengono il Digital strategist DeRev,  l’Eonomista della cultura, la Docente di marketing, comunicazione, media; nella 10^  immagine, gli interventi delle responsabili del Culturit Network e del progetto Alternanza scuola-lavoto Maxxi A[r]t Work; in chiusura, l’‘ingresso monumentale della Galleria Nazionale con i “Leoni” di Davide Rivalta. Tra le immagini del Convegno, 4  illustrazioni e 3 grafici dell’XI Rapporto di Civita.

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L’ingresso monumentale della Galleria Nazionale con i “Leoni” di  Davide Rivalta

Cambellotti, la vetrina di un artista poliedrico, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

“Vetrine dall’Archivio di Duilio Cambellotti”  si intitola la mostra aperta dal 16 marzo al 6 aprile 2019 alla Galleria Rusoo, nell’ambito di una stretta collaborazione riguar5dante l’’Archivio che ha sede sopra la galleria e dal 2013 ha assunto una forma definitiva dopo il generoso impegno personale del figlio prima, del nipote in seguito, che ringrazia Fabrizio Russo per i preziosi suggerimenti e per le 3 mostre realizzate in passato. E’ esposta una selezione delle opere nelle sezioni arti applicate e ceramica, illustrazioni e leggende romane, scultura e teatro, fino agli studi dal vero.  Catalogo Manfredi Edizioni, a cura di Daniela Fonti e Frncesco Tetro.

L’importanza degli Archivi, l’Archivio Cambellotti

Una prima considerazione riguarda la funzione  e l’importanza degli Archivi, ne parla usando toni forti Fabrizio Russo dall’alto dell’esperienza maturata sia con l’Archivio Cambellotti, sia con quelli di altri artisti presenti nella sua storica galleria: “L’Archivio è un punto di partenza fondamentale per l’affermazione post mortem dell’artista : senza un Archivio serio, puntuale ed onesto, l’artista di riferimento, seppur importante,  non potrà in alcun modo aver futuro. Futuro non solo inteso come successo di mercato, ma anche come propostculturale, presenza in grandi mostre pubbliche, saggi critici,  ricerca e interesse dei media”. Con questa conseguenza: “Senza un Archivio di riferimento a disposizione per la comunità scientifica non può concretizzarsi una corretta e capillare diffusione culturale”.

Non è semplice organizzare un Archivio valido ed efficace, occorre un lavoro di riordino e catalogazione spesso difficile e oneroso, ma ha come risultato concreto “il rilascio di autentiche: testimonianza principe della propria autorevolezza”.

Per Duilio Cambellotti la realizzazione dell’Archivio è passata per una prima fase in cui, lo ricorda Marco Cambellotti, il figlio minore Lucio  sveva conservato gelosamente l’ingente massa di materiali accumulati dall’artista, ma come in un deposito di cui solo lui conosceva ordine e  contenuto, “L’Archivio lo aveva lui, in testa”,  e  gli “oggetti importati”  li identificava in modo alquanto criptico. Marco, nipote di Duilio, subentra allo zio nel custodire la preziosa eredità artistica, ma va oltre il suo pur generoso impegno, e venti anni fa, ricevuti  “preziosi suggerimenti professionali” da  Fabrizio Russo, si impegna nell’impresa di riordino e catalogazione, restauro e “confezione” del vastissimo materiale, finora quasi 8.000 opere catalogate con cura, è nato così l’Archivio Cambellotti. Ubicato significativamente sopra la Galleria Russo, il cui titolare ne ha accompagnato la genesi oltre a realizzare tre mostre sull’artista, dal 2013 è un istituzione con personale impegnato a tempo pieno, disponibile per la consultazione di studenti e studiosi.

La sua importanza? Il poter seguire il processo creativo partendo dai primi schizzi e appunti, con i ripensamenti e quant’altro, cosa oltremodo importante per la conoscenza dell’artista anche a prescindere dall’aspetto delle autenticazioni, fondamentale sul piano pratico.  E si tratta di un artista quanto mai coinvolgente,  che ha un tocco speciale, così definito da Marco: “Il ‘segno’ di Duilio, quello che si vede e soprattutto quello che si ‘sente’ dalle sue opere, ti incanta, ti  afferra e ti contamina, non ti molla e ne vuoi sempre di più”.

Il processo creativo e l’arte come progetto educativo

Affacciamoci timidamente nell’Archivio Cambellottti per cercare di entrare nel suo processo creativo. Ebbene, dagli schizzi e appunti vergati e conservati nel suo lungo percorso artistico si vede come l’idea che nasce viene subito fissata con segni immediati e spontanei,  poi ripresi anche anni dopo per nuove idee sullo stesso soggetto fin quando non si ha l’opera finale, Daniela Fonti cita l’esempio del “Buttero”, trovato in numerosi schizzi successivi con tante varianti e soluzioni plastiche della figura a cavallo, ma conservando l’idea originaria, la continuità plastica tar uomo e cavallo.  Viene sottolineata la sua cura nel fissare costantemente in nuovi schizzi idee successive da sviluppare; e la tendenza a trasferire le idee progettuali da una categoria di oggetti a un’altra.

E, a proposito del cavallo, è toccante la xilografia “Duilletto e il Cavallone”, 1936, .che mostra l’artista bambino che prono sul pavimento vi  disegna i contorni dell’animale a grandi dimensioni aiutato dalla quadrettatura delle mattonelle.

Una prima constatazione è che “l’idea plastica arrivava probabilmente  al tavolo di lavoro quando il pensiero inseguiva tutt’altro, ma la matita errando sul foglio fatalmente la coglieva e la fissava  con due segni veloci ma centrati. Poi queste idee, rimaste in seguito fluttuanti nel limbo della frenetica attività del suo lavoro sempre dispiegato su fronti diversi, al momento giusto  prendevano corpo e diventavano la realtà dell’opera finita”.

Opera finita che può avere le espressioni più diverse, pittorica o scultorea, rilievo o bassorilievo, in vari  materiali come la ceramica, per la quale “l’Archivio conserva molte realizzazioni tutte di grande freschezza, Cambellotti disegna centinaia di idee preparatorie riconoscibili perché immancabilmente racchiuse in cerchi, piccoli e grandi, nei quali iscrive  le proprie fantasie:::”.

Ispiratrice è la natura, i pesci e gli animali, ma la sua attenzione va anche alla forma dell’oggetto, del vaso e dell’anfora, il tutto con evidenti riferimenti classici e ad opere di antiche civiltà. .Ne trae, tra l’altro, un orientamento preciso non tanto sulla ricerca plastica della forma dell’oggetto, “ma il perfetto rapporto di equilibrio che si può stabilire tra la decorazione naturalistica e il vuoto della ciotola o della forma del vaso”.

L’arte come progetto educativo collettivo è al centro del suo pensiero, e ha messo in pratica questo proposito dedicandosi anche alla parte più emarginata della  società, le aree del paese più arretrate con la popolazione che lotta per la sopravvivenza. All’ambiente in cui vivono, alle loro misere occupazioni dedica centinaia  di schizzi preparatori di oggetti realizzati in forma plastica o dipinti,  incisi o decorati, disegni  che Metalli, nel suo “Usi e costumi della campagna romana”, ha definito “’ossessive’ illustrazioni”. “Anche  rispetto a questo popolo,  scrive Francesco Tetro,  Cambellotti si avvale di un lavoro collettivo – a partire dal ciclo di letture pubbliche  dantesche rivolte a questa umile umanità”. 

E si impegna nella rivista “La Casa. Rivista quindicinale illustrata. Estetica, decoro e governo della abitazione moderna”, insieme ad altri artisti ed intellettuali, per comunicare un messaggio volto al miglioramento della vita quotidiana attraverso arredamenti e oggetti di uso comune che rispondano ai binomi bellezza-virtù e bellezza-salute, e attraverso , “il principio che la natura debba essere riconosciuta come luogo deputato per meditare e sognare e, soprattutto, come luogo da riscattare se abitato da derelitti”.

Ma è il teatro il campo primario del suo impegno educativo verso il popolo affidato all’arte.

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La visione teatrale come  palestra educativa popolare

L’impegno artistico nel teatro viene concepito in modo  totalizzante,  non parcellizzato ma esteso all’intera “rappresentazione”, come si realizza concretamente nell’approccio al lavoro teatrale, il più qualificante e diffuso nella sua opera, che nella “messa in scena” supera le diverse competenze, di scenografo, regista, costumista, ecc., in una “interpretazione (e non semplicemente rappresentazione)  di un testo da parte di un unico artista, responsabile di ogni atto di quella complessa macchina visuale – la wagneriana ‘opera d’arte totale’ – che prende per mano il pubblico e compie ogni sera il miracolo  di ‘assuefarlo all’atmosfera del dramma’”.

Abbiamo riportato il commento di Tetro, ora citiamo  le parole dell’artista, quanto mai eloquenti: ”Il teatro è l’evocazione rapida di un sogno, di un prodigio a mezzo di materie grossolane  e di uomini spesso di limitata tecnica. Sogno che domani a rappresentazione compiuta  si risolve in un mucchio sordido di materia incoerente. L’attuazione di questo sogno dipende dalla preparazione fatta dall’artista creatore”. E’ lui che compie il miracolo di far sognare preparando la “messa in scena” con un processo creativo che parte da  grafici schematici, poi sempre più definiti e dettagliati, fino al bozzetto plastico esplicativo.

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In modo più preciso l’artista afferma: “Per condurre il pubblico d’oggi all’aperto ed assuefarlo all’atmosfera del dramma, occorre compiere un lavoro preventivo la cui visione lo acclimati e lo educhi ad una diversa sensibilità.  Questo lavoro è riserbato all’artista concettore  ed attuatore di volumi, masse e toni di colore, attuazione di scena insomma, al cui cospetto si svolge la vicenda del dramma”. Così può rivolgersi non più agli abituali frequentatori del teatro come “diversivo dopo le occupazioni del giorno”, ma agli strati popolari come “atto di cultura”.

Nei suoi spettacoli  c’è un pubblico “crescente, folto, plaudente, sempre più pieno di entusiasmo religioso, quasi partecipasse a un rito”. E viene  sottolineato da Tetro che,  sebbene i drammi teatrali si svolgano in epoche antiche, con eroi e divinità, usi e costumi   molto diversi da quelli presenti, le tragedie greche “sono atti di fede, quasi oratori religiosi  e, come tali, possono aver presa in ogni tempo dell’anima popolare, specie in quella siciliana”, è il miracolo dell’allestimento scenico.  

Per lui, spiega la  Fonti,  la scenografia è il “’grembo spaziale’ nel quale si consuma il dramma, la scena prende forma  a poco a poco  definendosi nell’idea generale e nei dettagli, assai pochi quelli di carattere squisitamente archeologico a partire dagli anni trenta, quando prevale in lui la visione architettonica e sintetica di poderosa suggestione”. In tal modo si crea un ambiente armonioso in cui,  dice l’artista, “tutti, autore, attori, cori e danze siano in comunione con il pubblico, al punto che questo possa  avvicinarsi al dramma, o meglio, sentirsi chiuso in esso, diventare partecipe, quasi attore egli stesso”.

Ed ora una rapida carrellata sulle opere esposte nella “vetrina” dell’Archivio, nelle 7 sezioni in cui viene articolata la selezione della sua sterminata quanto poliedrica produzione.

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Le scenografie  teatrali

Iniziamo la carrellata con le opere dedicate al teatro, che è stato tanto importante nella sua produzione artistica e nella sua visione culturale e sociale a vasto raggio. Basti dire che ha solo vent’anni quando nel 1896 realizza il  manifesto “Il teatro  drammatico- Euterpe-Impresa Ugo Falena”;  era nato a Roma il 10 maggio 1876 e aveva frequentato il corso di Decorazione in pittura e disegno applicata alle  industrie artistiche e i Laboratori  della scuola serale del Museo artistico industriale , allievo di macchiati per la grafica, di Morani per la pittura e di Ojetti per l’architettura.  Negli anni successivi, 1898-99 sue composizioni sono utilizzate  per bozzetti teatrali e per uno spettacolo di teatro a Costantinopoli per il quale  fa le decorazioni di una stanza per il Sultano.

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Il suo impegno in campo teatrale si esprime successivamente nel “Giulio Cesare” e “in Re Leat”  per il tetro Stabile di Roma,  poi negli apparati scenici per “La Nave” di D’Annunzio, che lo ringrazia in un suo scritto. Ma l’approdo definitivo avviene nel teatro classico, in particolare il Teatro Greco di Siracusa nel quale rivoluziona la concezione scenica e realizza scenografie, costumi e manifesti, secondo la sua idea di teatro totale in cui, sono parole ancora di Tetro, “la visione plastica e architettonica viene fondata mediante il rapporto  tra spettatore e ambiente naturale”.

Per un intero decennio, dal 1920 al 1930 è impegnato soprattutto a Siracusa, dove lavorerà fino al 1848, nelel scenografie  costumi di  opere quali “Le Baccanti” e “L’Edipo Re”,  “’Orestea” e “I Sette a Tebe”,  “Medea” e “Il Ciclope”, “I satiri alla caccia” e “le Nuvole”;  nel Teatro Romano di  Ostia antica con “I Sette a Tebe” e in quello di Taormina con “Miles gloriosus”; nel Teatro dell’Opera di Roma con “Nerone” e “Aida”, “Dafne”, “Lohengrin” e “Norma”.

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Sul Teatro, è esposta  una selezione dei Bozzetti di scena per alcuni di questi spettacoli, per l’”Orestea” le scene delle Coefore, delle Eumenidi e di Agamennone, per i “Sette a Tebe” e “Prometeo”  di Eschilo,  “Antigone” di Sofocle.   Sono scenografie ambientali ed architettoniche  in campo lungo con chiaroscuri metafisici , ma vi sono anche interni ravvicinati come per la “Vestale” di Spontini, siamo sul moderno, e  studi per le figure in primo piano, come per la “Fonte delle Danaidi” Non mancano  Bozzetti di costumi, come quelli per “Cleopatra”, e “Figurini” femminili  per “Giulio Cesare”, e di guerrieri per “Norma”, fino alle coreografie di “Danzatrici” e della “Battaglia di Salamina” con l’ombra di Dario, questi ultimi con linee sinuose  e avvolgenti che si aggiungono alla severità geometrica delle altre scenografie e alle figure che si stagliano nette in verticale.

All’attività in campo teatrale si aggiunge quella in campo cinematografico, con arredi e costumi per “Gli ultimi giorni di Pompei” di Carmine Gallone, e altri  di Falena. come “L’ombra del sogno”, “Fratello Sole” e “Giuliano l’Apostata” tra il 1917  e il 1926.   Fino ai cartelloni e raggruppamenti scenici per film quali “Condottieri”, “Fabiola” e il celeberrimo “Scipione l’Africano”.

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Colleghiamo al Teatro la sezione Studi dal vero, con un “Fortilizio”, ripreso durante il viaggio a Costantinopoli, sembra una scenografia teatrale a campo lungo  al pari della “Campagna romana”, come “Studio per Baita” è una visione ravvicinata, come alcuni interni scenografici, e “Nudo di schiena”, 1900, uno degli “Studi per figure femminili” di cui ci sono altri esemplari.

Ha intonazione teatrale anche la sezione Leggende romane, anche se con altra destinazione, come le decorazioni di istituti pubblici con immagini di romanità, leggende coltivate anche nel secondo dopoguerra pur con la cesura bellica e ideologica riflessa anche sull’arte, non più celebrativa. Al riguardo osserviamo che, se un’opera come “Il Sublicio” 1926 può sembrare a prima vista influenzata dalla mistica di regime tipo le opere celebrative di Mario Sironi e, in un certo senso, anche “L’investitura”, ci si ricrede quando si vede che “Il vallo di fuoco o le mura,” “Servio”  e addirittura “Il fascio” hanno la stessa forza plastica, eppure sono del 1910-11, un decennio prima dell’avvento del fascismo. “La strage dei  Centauri (con vangatori)” 1940, la associamo per affinità stilistica nelle linee arrotondati alla “Battaglia di Salamina” del 1930  citata nel Teatro.

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Direttamente collegato alla scenografia delle “Vestali”, anch’essa già citata, troviamo lo studio di metà degli anni ‘20 che raffigura due Vestali sedute dentro l’uguale tempio del bozzetto del 1942.  Diversi sono i disegni riguardanti la Lupa di Roma, Romolo e Remo, “I gemelli del Regillo” ma i due che ci hanno colpito maggiormente, nella loro diversità, sono “Le Carmente” sagome di volti tra cippi, e “La messe Tarquinia”, del 1936, una figura titanica inarcata mirabilmente all’indietro.

Le illustrazioni

E ora l’attività di Illustratore, e autore di manifesti anche a fini pubblicitari. Troviamo fanciulle nude sdraiate  per il manifesto dell’ “Esposizione Fotografica Nazionale e Internazionale di Firenze “  e del  liquore “Strega “ del tipo del citato “Nudo di schiena”,  e le fanciulle-libellula a sostegno della fonte luminosa  per il manifesto della “Società Anonima Incandescenza  a gas- Brevetto Aue”., vince il concorso per il manifesto dell’”Esposizione internazionale di Roma “ del 1911 e il manifesto delle “Mostra sulle Scuole dell’Agro”.  E poi la collaborazione con l’Istituto Editoriale Italiano  nel 2012-13 con l’illustrazione di “Le Mille e una notte”,  “Nel regno del Nord” di Anatole France e “Storie meravigliose” di Hawthorne; seguite da “Il Ferro” di D’Annunzio nel 1913, “la legegnda d’oro di Mollichino” nel 1914 e “Sillabario” di Marcucci nel 1919,  in seguito illustra anche “Le Favole” di Trilussa e “Usi e costumi della campagna romana” di Metalli, “”Siepe di smeraldo” di Cozzani e “I fioretti di San Francesco”.  Nel secondo dopoguerra illustra edizioni scolastiche dell’ “Iliade” e “Odissea”, “Eneide” e “Antologia omerica e virgiliana”, fino a la “Vita di Gesù Cristo” a fumetti.

Nelle opere esposte in questa sezione troviamo alcuni dei titoli citati, come “Usi e costumi della campagna romana”, in particolare “La capanna” e “Il vitello”, “Il vulcano” e “Il pane”, i primi due abbozzati schematicamente, il terzo in nero intenso e il quarto delineato con tratto fine e leggero; per “La campagna romana” di Cervesato “La luce nella capanna” è un libro all’interno di una sorta di traliccio ligneo. Nei “Fioretti di San Francesco” entra il colore,  sfumato e delicato in “Sora acqua” e nelle “Tentazioni di San Francesco”. “Le barozze di Manziana”1950 è praticamente monocromatico, il colore della terra avvolge i buoi e il loro carico di tronchi d’albero.  Così “Terracina bombardata – Anxur”. Colori invece intensi nelle illustrazioni di “Il Palio di Siena” di Misciatelli, in particolare “Le contrade scomparse” , “L’assegnazione” e  ”Le Podesterie”. Cambia di nuovo tutto  nelle illustrazioni del mensile “La conquista della terra”, con la dissolvenza di “I pali” e la statuaria plasticità di “Il carpentiere”,  l’intensità e l’energia di “La fiamma della città” e “Sorriso d’autunno”.

Ci sono anche illustrazioni per il “Sillabario delle scuole di contadini”, quadretti con immagini singole molto semplici probabilmente erano associate alle lettere dell’iniziale della figura, e da “La piccola fonte. Poesie per i Balilla”, deliziose immagini infantili quasi di putti, oltre a eleganti fregi. Disegni dal tratto scuro e deciso per “Il piccolissimo”. Giornale per ragazzi”, appena abbozzati ma eleganti per “Le prime piume. Avventure domestiche per fanciulli”, “Ragazzo che raccoglie le pigne” e “Le zucche”, “Il letto” e “I due monaci”, “Il teatrino”,  “Il sillabario” . e “Il cavallo a dondolo”; e anche il patriottico “I soldati della libertà” del 1917. . Non mancano disegni di animali, dalle rondini nere e i piccioni bianchi di “Ciaramelle d’uccelli” a “Li rospi” con  la candelina, è di trent’anni prima, 1914, Lo scheletro del serpente”un grande primo piano.

Sale il livello estetico e culturale nell’illustrazione dell’”Antologia omerico-virgiliana”dalle linee eleganti con la dolente  immagine  di  Didone  che si trafigge il petto distesa su una catasta di legna, come la pira della cremazione.

Due disegni che sembrano celebrativi, “La tomba”  e “Le fondamenta dell’ipogeo”,  dall’”Ipogeo del tempio della Patria”, non si riferiscono però alla mistica di regime, sono del 1921, un anno prima della Marcia su Roma; del 1917. Facendo un salto nel tempo, nel 1928,  oltre a disegni umoristici per “Il soldato spaccone” di Plauto – i titoli sono eloquenti, Ciancaribella, Pranzolino  e Scavezzacolla –  due disegni da “In capo al mondo” di Sapori, che sembrerebbero rimandare al regime ben consolidato, due “Vanghe con la corona d’alloro” e “L’ara e il fascio”.  Ma è del 1949 il disegno intitolato addirittura “Il fascio”, sono le fascine in testa alla contadina con due capanne sullo sfondo,  sia stata volontaria o involontaria l’intitolazione, certo fu coraggiosa dati i tempi…

Nel 1930 un’immagine travolgente, il profilo molto espressivo di un viso di donna quasi in volo, è intitolato “Angeruna”,  lo accostiamo alla figura mitica maschile di “La messe Tarquinia”. Altri due  straordinari volti femminili, questa volta frontali, che si stagliano al centro di composizioni intriganti,  “Cere Floro” tra viluppi arboreo-floreali in una coinvolgente visione panica.  “La decima Musa”  tra viluppi di pellicole cinematografiche, è per la copertina dell’omonima rivista di cinema. Altrettanto emozionante “Annunciazione”, senza data,  nel contrasto tra il nero di Maria piegata su se stessa e la figura annunciante con le grandi ali, appena delineata ma così compulsiva.

Arti applicate, ceramica e scultura

Dei bozzetti e schizzi per manifesti, vetrate ed altre destinazioni, alcuni sono delineati con un segno sottile come in “Angelo” per la vetrata del duomo di Capranica e negli studi per la< vetrata  della Cappella di Santa Barbara nel sacrario dell’Arma del Genio, per la decorazione pittorica del soffitto della Sala delle bandiere in Castel Sant’Angelo, e delle pareti nell’’Istituto “George Eastman” di Roma; altri con segno più deciso, come quelli per la cartella del film “Condottieri”. 

Ma non sono soltanto grafiche delineate con leggerezza, anche bozzetti dal cromatismo intenso pur se spesso quasi monocromatico come nei bozzetti per vetrate  e decorazioni parietali e murali di chiese come “Santa Maria Addolorata” a Roma,  “San Nicola di Bari” a Colonna. Nelle vetrate artistiche fu innovatore, le espose nelle mostre del 1912 e 1921, Francesco Tetro lo definisce “punto d’arrivo del progetto di rinnovamento delle vetrate per forme chiuse e spazi nettamente percepibili, bandite indulgenze narrative con campiture che seguono gli stessi criteri della grafica”.Celebri quelle  della “Casina delle Civette” divenute il “museo del Liberty” a Villa Torlonia.  

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Innovativi anche i bozzetti per i manifesti degli spettacoli teatrali classici, vediamo quelli  su tragedie di  Euripide e Sofocle, del “Mistero Dionisiaco” e delle “Panatee” , di “Giulio Cesare” e del “Mistero di Persefone”, i due ultimi con figure potenti, nel  prima la figura maschile, nel secondo la  figura femminile, che si stagliano sul blu dello sfondo. Altrettanto intensi ed espressivi i bozzetti per i manifesti di film come “Fabiola” di Blasetti. .  Ancora manifesti, per l’”Esposizione universale  di Torino” del 1898 e per i manifesti “Munizionamento” e “L’ulivo”, il primo con molto nero, il secondo con molto blu. Fino ai bozzetti per le scuole in una attività inesauribile.

Progetta anche Fntane monumentali e una serie di Monumenti ai Caduti, a Terracina, Fiuggi, Priverno, nonché componenti architettoniche per edifici pubblici oltre che per i Teatri.

Ne fanno parte anche le sue Sculture  e Bassorilievi, come quelle per Roma, in particolare “La Lupa. Allegoria della città di Roma”,  1938, per il palazzo dell’Anagrafe  e i classici “Angeli per ambone della chiesa dei SS. Pietro e Paolo all’Eur” Anche opere nate dall’osservazione della quotidianità, come la donna che porta “Il pane” e “Il vannino”, rappresentato anche per la “Conca dei tre cavalli”. E non mancano fusioni di “Ciotole”, “Vasi” e “Vasetti”. Ma il “clou” lo raggiunge nel “Condottiero senza mantello” e  nel “Buttero”, il coronamento  di tanti schizzi dell’Archivio.

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Ciotole” e “Ciotoline”, sono  realizzate anche in Ceramica, dal cromatismo intenso, ne vediamo oltre 20 con dipinte figure di animali, – toro e torello, gallo e falchetto, pesce e murice, leone  e cerbiatto, donnola e  aquila, asini e vacche   –  e visi – di donna  e di ragazzo. Troviamo gli animali  anche sulle “”Mattonelle”  e su vasi come la “Veilleuse con capanne e cani” a tinte sempre molto forti.

Si resta senza fiato e senza parole dopo questa carrellata su una “vetrina” così variegata e multiforme, la punta emersa dell’iceberg d’arte e di cultura costituito dal vastissimo Archivio che consente di ricostruire la genesi di tante opere facendo  rivivere il miracolo del processo creativo di un artista poliedrico e geniale.

Info

Galleria Russo, via Alibert  20, Roma. Aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiuso. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com,  Catalogo  “Vetrine dell’Archivio di Duilio Cambellotti”, a cura di Daniela Fonti e Francesco Tetro,   Manfredi Edizioni, marzo 2019, pp. 240, formato 22,5 x 22; 5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Russo alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione della galleria, in particolare il titolare Fabrizio Russo, con i titolari dei diritti, in particolare l’Archivio Cambellotti, per l’opportunità offerta. In apertura, Duilio Cambellotti; seguono, “Allegoria del Circello, la nave salpa” dalla serie “Visioni del Circeo” 1922, e da sin., “Scena dell’Agamennone” dall'”Orestea di Eschilo” 1948, con “Il peplo”, per “Le Panatenee” 1936, “Prometeo e le Oceanine” e “Bozzetto di scena” per “Prometeo” di Eschilo 1928-29; poi, dall’alto, “Servio” con “Salamina, la sconfitta navale” 1930, e dall’alto, “Bozzetto per Mistero Dionisiaco” di Teocrito a Paestum, con “Bozzetto per Sette a Tebe” di Eschilo e “Antigone” di Sofocle; quindi, “Il Sublicio” 1926, e dall’alto “Le fornaci” 1943-44 con “”Il fascio” 1911; inoltre, da sin in alto, “Le Carmente” 1928 con “Gli Auspici” 1927, “Gli Auspici” 1910, “Servio” 1910-11; ancora, da sin. in alto, “Le Vestali” metà anni ’20, con “Acca Laurentia” 1940, “L’investitura” 1926, “Le due madri” 1935; continua, dall’alto in basso, a sin “Il Vallo di fuoco o Le mura” 1910, “Bozzetto per ‘Le tentazioni di San Francesco’” e “Sora acqua” 1926, a dx un “Vaso dello zodiaco” bianco e uno nero 1924, e, dall’alto, “La messe Tarquinia” 1936 con “Il Sublicio ” 1926 e le due matrici nere; prosegue, “La messe Tarquinia” 1936, e “Scritto di D’Annunzio elogiativo per ‘le scene del suo ‘La Nave’ ” 1908; poi, “Bozzetto per il manifesto di Ifigenia in Tauride di Euripide e Le Trachinie di Sofocle” 1933, e “Bozzetto per la copertina della rivista ‘La decima Musa’” 1920; quindi, “Bozzetto del manifesto per l’Esposizione Universale di Torino” 1898, e dall’alto, a sin. “Vaso con quattro coperchi” prima metà anni ’20, “Condottiero senza mantello” 1923, a dx, “Bozzetto del manifesto per ‘Il Mistero’ di Persefone” 1928; inoltre, “Bozzetto per il manifesto ‘Munizionamento'” 1917, e ““Bozzetto del manifesto per ‘Le Panatenee'” 1936; ancora, “L’ulivo” 1920 e, dall’alto, “Bozzetto per ‘Vetratina delle rondini'” 1925, con “Decorazione parietale per la scuola ‘Cristoforo Colombo’ di Roma” 1930, e “Studio per il manifesto del film ‘Condottieri'” 1037; continua, “Studio per il manifesto di ‘Giulio Cesare'” 1928, con a sin. 2 ceramiche “Conca del torello” e “Conca del toro” 1920; infine, “La Lupa. Allegoria della città di Roma per il palazzo dell’Anagrafe” 1938; in chiusura, “Il buttero” 1918-19.

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Alessio Deli, la “magìa silenziosa” delle “Korai”, a Palazzo Valentini

di  Romano Maria Levante

Nella Sala della Pace di Palazzo Valentini, a Roma, dal 24 marzo al 3 aprile 2019,  la mostra “Korai, incipit memoria”, di Alessio Deli,  7 opere scultoree  molto delicate con un materiale insolito per l’autore, gesso e resina, anche se non mancano componenti con il materiale grezzo a  lui consueto, piombo e ferro. La mostra, con il patrocinio  della Città metropolitana di Roma Capitale, che ha sede a Palazzo Valentini, presentata dall’Associazione culturale Tonino Guerra,  è a cura di Michele von Buren  di RVB Arts, a cui si deve l’allestimento. Il giorno dell’inaugurazione, all’atmosfera creata dalle  “Korai” esposte si è aggiunto il suono evocativo  dell’arpa con un effetto quanto mai suggestivo. Catalogo delle “Edizioni Tored”,  con un contributo di Carmelo Occhipinti e presentazioni di Michele von Buren e Renato Mammuccari.   

“Donna della Melagrana”, 2018

 La  “magia silenziosa” delle “Korai” 

Magia silenziosa”, due parole  che esprimono meglio di un lungo commento la suggestione che si prova dinanzi alle “Korai”  di Alessio Deli, e non solo; perché prima delle “Korai” abbiamo avuto “Odusia” e “Warrior”, “Es” e  “Summer”, “e guardandole ci siamo sempre interrogati sull’emozione provata, chiedendoci da dove veniva. Le due parole sono di Michele von Buren, la curatrice dell’esposizione che abbiamo visto ospitare l’artista nelle sue mostre dal 2012, senza mai lasciarlo, tanto che le sue opere sono presenti nella galleria RVB Arts anche quando ci sono altre personali, è la loro casa.  

Ma se la “magia silenziosa” aleggiava anche con le opere precedenti appena citate, con le “Korai” esposte a Palazzo Valentini l’emozione suscitata è ancora maggiore. Forse perché  nella saletta in cui sono collocate sembrano attendere il visitatore per accoglierlo nel loro gineceo, pudiche e discrete, quasi timorose; mentre le due Statue virili, cui si aggiungono Marc’Aurelio e anche Afrodite  nel vasto cortile su cui si affaccia la saletta,  sembrano spavalde nella loro imponenza, per questo il visitatore prova tenerezza per loro destinate a restare sole nelle ore di chiusura con vicini così prepotenti.   

“Donna della Melagrana”, 2018, particolare del volto  

Quindi, un effetto coerente con la loro natura, le opere sono collocate nella giusta dimensione; se poi  si visitano le “Domus” romane nel sottosuolo del Palazzo con la ricostruzione visuale di Paco Lanciano  e il commento evocativo di Piero Angela, l’incanto si arricchisce di altre suggestioni. 

Dal “recupero della materia” al “recupero della memoria”

Un ritorno all’antico di un artista  non ancora quarantenne, già molto sperimentato, che compie un’ulteriore evoluzione  nel suo percorso artistico,  passando dal “recupero della materia” al “recupero della memoria”. Perché le opere precedenti erano realizzate utilizzando materiali di risulta presi dalle discariche con un impegno pervicace nel ridare vita a ciò che era rifiutato dalla società dei consumi come ormai inservibile, inutile. C’è stata  un’idea, e forse un’ideologia, alla base della sua ricerca di cose da salvare, alle quali ha restituito la vita che avevano perduto, facendo rinascere ciò che era buttato,  abbandonato, respinto;  ma le ha fatte assurgere a una dignità artistica tale da nobilitarle quando erano scartate, rottamate, e dunque distrutte.  

Kore # 1″, 2017-18, a dx la suonatrice di cetra all’inaugurazione    

Ci si deve soffermare su questa sua ricerca, carica di significati profondi,  per capire il diverso, ma coerente  percorso  seguito dall’ispirazione che ha portato  alle Korai. Per le opere precedenti, la sua visita alle discariche nasceva da un’idea artistica che aveva in mente e per la quale voleva trovare i materiali di risulta adeguati; una volta individuati li districava dal  groviglio in cui spesso erano imprigionati, quasi  che liberasse l’opera, che aveva chiara in mente, dal materiale superfluo, in senso michelangiolesco; ma  quando gli abbiamo detto questo ci ha risposto che non arriva a tanto. Altre volte l’ispirazione nasce dalla vista di particolari forme dei rottami per cui utilizzandoli crea un’opera non concepita prima: non solo i materiali dismessi  e degradati sono riportati alla luce e alla vita, ma diventano essi stessi una forza creatrice, uno stimolo artistico.   

Il pensiero va a due artisti che utilizzano anch’essi materiale di recupero, ma cemergono notevoli differenze con Deli. Il libico Wak Wak, di cui ricordiamo la mostra al Vittoriano del 2013, si è servito dei residuati bellici della guerra in Libia, oggetti usati per dare la morte reimpiegati in immagini di pace, come animali, o in composizioni di denuncia della guerra. L’artista russa. americana di adozione, Louise Nevelson, che ha esposto  nello stesso 2013 alla Fondazione Roma,  più semplicemente utilizza materiali lignei dismessi, raccolti nelle strade e assemblati in  composizioni anche spettacolari, l’intento è essenzialmente estetico pur restando il valore salvifico del recupero.  

Kore # 1″, 2017-18, particolare del volto   

In Deli – la cui “personale” alla galleria RVB Arts c’è stata nel 2013, in significativa coincidenza con le due mostre appena citate –  troviamo qualcosa di peculiare, considerando i materiali recuperati nelle  discariche “espressione dell’uomo contemporaneo, delle sue abitudini, dei suoi sogni, dei suoi viaggi”. Così  questi materiali per la mano artistica, e anche di alto artigianato di Deli, sono diventati testimonianze della realtà odierna.   

Nelle opere precedenti  prevaleva il “recupero della materia”, ora  il “recupero della memoria”, un itinerario artistico che culmina, al momento attuale,  nel mondo tenero e suggestivo delle “Korai”.  

Il “recupero della materia” ci ha dato sculture delle  dimensioni e tipologie delle “Korai”. Statue a grandezza naturale, come “Saul“, 2007,  “Exodus”   e “Summer”, 2010,  “Odusia” ed “Es”,  2012, “Big Warrior” e “Muse”, 2013,  fino a “Iron Age”, 2014-15, installazione di 3 elementi scultorei, uomo, donna e bambino, che prelude in qualche misura al gruppo ugualmente coordinato delle “Korai”; nel quale, oltre a 4 statue naturali,  ci sono anche 2  busti e 1 tondo, al pari di “Warrior”, 2011, e “Ulixes”, 2012,  troviamo i volti anche in “Mirror”, come allo specchio  Ci sono altri temi nella sua produzione scultorea, ne citiamo solo alcuni, dai “Seagull” ai “Machine Gun”, cioè dai gabbiani ai mitra realizzati ironicamente con serrature e altri componenti inoffensivi, dal “ReCycle” , la bicicletta assemblata simbolo altrettanto ironico del suo “riciclaggio” artistico, fino alle piante come “Tree”, “Agave”, e “Urban Forest”; e poi i disegni, molti dei quali preparatori di opere scultoree, e  quadri materici che segnano il passaggio tra la pittura e la sua “scultura magmatica”, come l’ha definita Maria Luisa Perilli. 

Kore # 2″, 2018  

Ma poi l’evoluzione artistica di Deli lo ha portato  a creare una figura femminile, avvolta nel suo lungo peplo di acciaio, non più con l’asprezza delle precedenti ma con una levigatezza che esprime una gentilezza  e una grazia nuova, si direbbe rinascimentale.  Questa statua, “Donna della ruggine”, realizzata nel 2016 – dopo “Summer” e “Warrior” e prima delle “Korai”  – postain un angolo raccolto della galleria RVB Arts,  ha accompagnato le ultime mostre  di altri artisti con una presenza discreta e  suggestiva. Ne siamo stati colpiti, non sapevamo ancora che era antesignana delle “Korai”, con le quali l’artista entra in una dimensione nuova, anche se in continuità con i richiami precedenti sempre classici, ma più duri e aspri.

Sulle “Korai” abbiamo anche una serie di simulazioni fotografiche dell’ambientazione in una fabbrica dismessa, al Museo Ara Pacis e al MAXXI, tre luoghi apaprentemente alternativi scelti dall’artista per studiare i vari tipi di collocazione, in tutti e tre  si inseriscono perfettamente, nel rapporto antico-mondo contemporaneo che gli sta sempre a cuore.   

In queste ultime opere è marginale il materiale di risulta, ora  limitato alle vesti mentre nelle opere precedenti investiva l’intera figura; ma non rinuncia ad inserirlo in contrasto con la levigatezza della resina e del gesso perché, lo dice lui stesso, va nelle discariche  “alla ricerca di una bellezza particolare… quella del tempo” con questo intento:  “Testimoniare l’esistenza dell’uomo nel suo passaggio sulla terra. Procedere in questa direzione significa per me la riscoperta di un  archetipo”.    

“Clipeate # 1”,   2018-19

Alla base di tutto c’è la classicità,  che troviamo nella sua formazione, dagli  studi all’Accademia di Belle Arti di Carrara, il tempio della scultura, dove si è diplomato con il massimo dei voti, e ha  vinto due concorsi di scultura poco più che ventenne; e in una adesione ideale fortemente sentita.  

Le “palpebre abbassate” nel pudore virginale delle “Korai”  

Ed ora siamo tornati  al cospetto delle “Korai”, alla loro “magia silenziosa”, per ripetere le due parole che  interpretano la suggestione che si prova alla loro vista, ancora più intensa di quella suscitata dalle  eroine cui ha dato vita  in precedenza, sensazione cui cerchiamo di dare una risposta. 

Ci aiutano a trovarla  le parole di Carmelo Occhipinti che oltre ad analizzare con gli strumenti del critico d’arte le opere di Deli, ne ha descritto anche la genesi raccontando con dovizia di particolari la visita nella “fucina di Vulcano” – l'”officina” romana in un pittoresco seminterrato dalla volta a botte vicino al Gasometro, l’impianto che ha ritratto in quadricromie del 2014 – nella quale vengono creaste  e forgiate.  Ebbene, il critico ricorda che “Kore in greco antico si diceva la fanciulla vergine”; mentre “oggi gli storici dell’arte chiamano Kore la figura stante di  giovane donna, di provenienza votiva o funeraria,  generalmente di epoca greca arcaica”; quindi, aggiungiamo, non necessariamente  “fanciulla vergine”. Lo si vede dalla statuaria greca antica, le “Korai” hanno volti aperti e decisi, spesso sorridenti, diversi da quelli delle “Korai” di Deli.  

“Kore #  3”, 2018     

E’  una precisazione che ci sembra fondamentale per interpretare le opere esposte, fa capire che  nel suo “incipit memoria” l’artista abbia voluto risalire alle origini prime  della “Kore”, cioè alla “fanciulla  vergine” opportunamente evocata da Occhipinti. come  definizione archetipa.  Ed è proprio  al pudore virginale che rimandano quelle palpebre abbassate, mentre  le Korai nell’accezione odierna degli storici dell’arte di normali  giovinette non hanno simile pudore.  Il “recupero della memoria” porta anche a questo, saltare  le fasi successive per tornare alla radice. 

Il critico riferisce che l’ispirazione delle palpebre abbassate  è venuta a Deli essendogli “capitata per caso una riproduzione della testa addormentata della ‘Nobildonna’ del Laurana  la quale – non disse proprio così  ma il senso era questo – dovette di soprassalto ridestarglisi  tra le mani…”. Proseguiamo nella citazione osservando però che  l’immagine “spalancando per un attimo quelle sue tenere palpebre abbassate  e suggerendogli con la forza di uno sguardo l’idea definitiva delle Korai”, sembra annullare o almeno contrastare quella precedente nella quale, a  nostro avviso, si può trovare  il motivo ispiratore colto da Deli: le tenere “palpebre abbassate” nel pudore virginale. Non è lo sguardo della Nobildonna che crediamo lo abbia  colpito, l'”eureka” forse è venuto dalle “palpebre abbassate”, è stato questo il messaggio ricevuto dalla visione dell’opera di Laurana, che certamente non poteva venire da una Nobildonna ma da una sollecitazione visiva nella  ricerca della memoria.  


“Kore # 3”, 2018, particolare del volto    

D‘altra parte,  per rendere il pudore della “fanciulla vergine” di cui alla definizione archetipa di “Korai” richiamata dal critico, la Nobildonna di per sè, in via di principio sarebbe il riferimento meno indicato, per quanto di vissuto, autorevole e matronale c’è nella sua immagine, come attestano secoli di arte, in particolare di pittura; il Laurana, in effetti, ne ha ingentilito il volto, sia nel busto dell’anonima Nobildonna del Bode Museum di Berlino, sia in quelli delle Principesse aragonesi, ispirandosi presumibilmente a figure classiche se non a Madonne quattrocentesche pittoriche, come le Madonne “lattanti”. dove si trovano espressioni così tenere  e pudiche,  mentre le nobildonne sono ben diversamente effigiate. 

Quindi, da semplici cronisti, non  crediamo che Deli abbia voluto fare “un omaggio a Laurana”, né che la sua sia una “citazione”, intesa come “appropriazione “,  dando all’immagine “un’altra vita pur continuando  a vivere la vita precedente “. E, sempre senza pretese di critici ma  dalla parte del visitatore, non ci sentiamo di vedere le “Korai” di Deli come “la ‘citazione’ che si replica due, tre, quattro e più volte” e tanto meno di associarle,  anche se per escludere l’accostamento, ai multipli di Warhol; come non crediamo in “Laurana entrato nelle Korai di Deli”:  una Nobildonna addormentata non può entrare nel pudore delle fanciulle vergini, quale che sia l’apparenza esteriore. Se mai nelle”Korai” di Deli è entrato il riflesso di un filone pittorico rinascimentale e classico, non riconducibile alle nobildonne ma alle Madonne e e alle figure mitiche tenere e dolci, evocate – questo , sì, lo crediamo – dalla vista delle “palpebre abbassate” della riproduzione del Laurana. 

“Kore # 4”, 2018-19     

Ci vengono in mente al riguardo le parole usate da Michele Ainis, il costituzionalista osservatore appassionato e raffinato interprete di eventi artistici e culturali, che in altra circostanza ha espresso con molta chiarezza un concetto incontestabile:  “Nell’arte, come nella cultura in genere, non c’è mai nulla del tutto nuovo: siamo tutti nani sulle spalle dei giganti. Ciascuno, tuttavia, vi aggiunge un elemento, una variante, un’interpretazione. E quest’ultima diventa atto creativo”.     

Il “recupero della memoria” è anche questo, se riferito a una memoria condivisa nei secoli, piuttosto che a un’opera ben precisa di tutt’altro tema, quasi ci trovassimo dinanzi a dei “d’aprés”, cosa che non ci sembra assolutamente. Come non ci sembrano espressioni ripetute, il pudore virginale delle “palpebre abbassate”nelle “Korai” di Deli è lo stesso, ma l’artista riesce a differenziarne le espressioni con varianti  sottili quanto evidenti della loro innocenza, come variano i vestimenti; le braccia, quando non mutile, sono distese come nelle “Korai” classiche, a parte il busto  della “Donna della Melagrana”. 

Per questo la “magia silenziosa”  che emanano le 7 immagini si manifesta in una coralità che non è ripetizione, ma espressione identitaria delle “Korai” nell’accezione archetipa, opportunamente evocata dal critico, di “fanciulle vergini”, e non semplici giovinette.  


“Kore # 4”, 2018-19, particolare del volto  

“Incipit memoria” nelle “Korai”   

Il recupero  “ab initio”, insito nel titolo della mostra,  “incipit memoria”,  implica la trasposizione nella realtà odierna, di qui  le vesti anche a maniche corte, ben diverse dalle tuniche classiche delle “Korai” greche,  ma in carattere con la freschezza delle fanciulle raffigurate.  La purezze virginale di ieri portata  al tempo attuale, in una innocenza pudica e timorosa, oggi forse sparita, ma proprio per questo il suo recupero è significativo anche al di là dell’aspetto artistico, sotto il profilo umano. 

Maria  Luisa Perilli, nel catalogo di una mostra di Deli del 2012, trovava nelle sue opere l'”occasione di riscatto dell’essere, possibilità di ricrearsi incessantemente, di recuperare quella spiritualità del ‘tempo e del mestiere di vivere’ usurpata, offesa dal relativismo dilagante dell’odierna società”. E’ straordinario come queste parole,  riferite ai materiali e ai processi utilizzati per il “recupero della materia” , aderiscano perfettamente al “recupero della memoria”  delle nuove  “Korai”, che con le loro “palpebre abbassate” nel pudore virginale trasmettono l’innocenza e la spiritualità oggi offese se non perdute.    

“Donna del Damascato # 2”, 2018

Gli  abiti moderni , con la loro leggerezza giovanile – anche se utilizza piombo e ferro, nel residuo “recupero della materia”,  ma non lo dimostrano – non configgono con  i volti, tutt’altro, sono più in carattere che se fossero  gli improbabili chitoni o pepli  che vestivano le “Korai” antiche; ai piedi vediamo la melagrana, simbolo di abbondanza, fertilità, buona fortuna, nella “Kore # 4” delle cinte a terra, come fossero legami da cui liberarsi; le braccia distese come nelle “Korai” classiche, alcune dal viso eroso o  mutile di un braccio, destro o sinistro, in una completa identificazione con il repsrto antico.

Anche a questo riguardo troviamo una anticipazione, nel commento di  Viviana Quattrini alla mostra di Deli dell’aprile 2013:“Oscillando tra soluzioni nuove e ritorni alla tradizione, Deli elabora un’originale ricerca di nessi tra scultura e ambiente. Panneggi di lamiera corrosa dalla ruggine si modellano intorno a figure di resina che godono di quella naturale grazia che diventa elemento umanizzante”. Era riferita a  “Big Warrior”, si attaglia  alle attuali “Korai” in merito alle vesti di piombo patinato rispetto ai volti di resina e gesso, volti levigati rispetto alla figura frammentata.     

“Donna del Damascato # 2”, 2018, particolare del volto      

Su tali contrapposizioni si sofferma Luisa Grigoletto nel presentare la mostra: “Nella tensione tra questi due poli si sviluppa un rapporto dinamico tra il contemporaneo e il ritorno alla statuaria classica – se non arcaica. In questo viaggio a ritroso, che parte dal presente e affonda le sue radici negli archetipi della tradizione – passando dagli artisti italiani  del dopoguerra, come Arturo Marini e Marino Marini, fino a esponenti del Rinascimento come Luca della Robbia – Deli recupera anche un’arte altra, considerata spesso minore, come quella devozionale, dove  la manualità dell’artista riveste un ruolo fondamentale”.  E,  aggiungiamo noi, l’arte devozionale delle celebri Madonne, riferendoci ai “giganti” evocati da Michele Ains.  “Nascono così – commentava sempre la Quattrini nel 2013 – opere che esprimono allo stesso tempo fragilità e forza interiore”, come le “Korai” e non solo le “Summer” e “Warrior” cui allora si riferiva. 

Dalle “Korai” ai miti ovidiani, le vie infinite della classicità  

A parte le valutazioni critiche sopra riportate, che testimoniano di una continuità di fondo nel passaggio dal “recupero della materia” al “recupero della memoria”, ciò che abbiamo osservato fin qui con l’occhio del cronista  vicino al visitatore  – al di fuori di ogni presunzione critica del tutto assente, lo ribadiamo  – vuol essere la premessa ad una associazione di idee che ci sentiamo di esprimere.    

“Donna della ruggine”, 2016 

La recente mostra alle Scuderie del Quirinale per ilBimillenario di Ovidio ha evocato i suoi miti immortali – eroi e divinità nelle loro gesta e nei loro amori –  nelle interpretazioni artistiche, dall’epoca classica a quella rinascimentale, fino al ‘700 e ‘800.  Mancano versioni moderne che ne recuperino il fascino mitico in chiave contemporanea.  Sono miti anche vicini – si pensi a Narciso, a Piramo e Tisbe, i “Romeo e Giulietta” dell’antichità – quindi si prestano anche loro a un  “recupero della memoria” che ha visto Deli cimentarsi con le “Korai”. Perché fermarsi e prendere le “Korai” come punto di arrivo,  anche se  segnano per ora  il culmine dell’evoluzione che abbiamo sottolineato? E non farne un  nuovo inizio per un “recupero della memoria”  ancora più ricco ed evocativo? Gli spunti sono molteplici, la mostra  su Ovidio li ha riproposti copiosamente.   

Le “Korai” possono essere viste come l’ “incipit” di una memoria che può essere declinata ulteriormente, riferendosi all’inesauribile giacimento culturale del mondo classico.  Non è né un suggerimento, che non ci sentiremmo di avanzare, né tanto meno un invito, ci mancherebbe! Ci sembra solo una prospettiva interessante, un’ipotesi possibile e forse praticabile.  

“Donna della ruggine”, 2016, particolare del volto

Questo perché, come osserva ora  Luisa Grigoletto, in Deli dal confronto tra diversi elementi  “emerge forte una certa idea di identità culturale, tutta imperniata sulla continuità e sulla permanenza della memoria, che va letteralmente a dare forma alla figura contemporanea, nonostante l’azione corrosiva del tempo sulla materia umana”.  Scriveva Francesco Negri Arnoldi nel 2015: “Lo si potrebbe definire un artista moderno dal cuore antico, Alessio Deli è infatti al tempo stesso fedele interprete della decadente civiltà del suo tempo ed evocatore trasognato dell’epoca antica… Da qui l’originalità del suo prodotto artistico, che lega tra loro forme e tematiche apparentemente incoerenti, ma perfettamente coincidenti nella sua visione poetica. Così come quando profila amati volti femminili  che rievocano metope classiche e teste clipeate… Attualità e passato,, ma insieme natura e artificio nel gioco della simultaneità  adottato da Alessio Deli…”.  E  osservava Maria Laura Perilli nel 2012:”L’operazione estetica di Deli vuole riconsegnare all’essere umano la responsabilità ed il piacere della riflessione, dell’ascolto di se stesso e la capacità di percepire che l’uomo non è un ente gettato nell’esistenza, ma per volere di un’armonia sacrale, divina, è progettato per l’esistenza”.  

Una convergenza di giudizi critici sull’artista, che  ha indicato così la sua stella polare: “La ricerca di una bellezza particolare… quella del tempo”,  con l’intento di “testimoniare l’esistenza dell’uomo nel suo passaggio sulla terra. Procedere in questa direzione significa per me la riscoperta di un  archetipo”. E ha precisato come  lo traduca nell’espressione artistica:  “La nascita di un linguaggio, di uno stile, di una moda ha sempre alla base il recupero e la comprensione del passato.”  

Non c’è che da proseguire su questa strada ormai tracciata,  è  il nostro auspicio e  il nostro augurio.   


“Big Warrior”, 2013 

Info

Palazzo Valentini, Sala della Pace, Via IV Novembre, 119/A, ore 10-19, Ingresso gratuito info. Cataloghi: Alessio Deli. “Korai. Incipit memoria”,  con un contributo di Carmelo Occhipinti, presentazioni di Michele von Buren e Renato Mammuccari, Edizioni Tored, marzo 2019, pp. 54 , formato  21 x 30;  “Alessio Deli”, Edizioni Tored, maggio 2015, pp. 40, formato 21 x 30; “Odusia. Sculture e disegni di Alessio Deli”,  a cura di Maria Laura Perilli,Centro Convegni S Agostino, 2012, pp.48, formato 21 x 21; dai Cataloghi sono tratte alcune citazioni del testo, altre dalle note di presentazione delle mostre di RVB Arts. Cfr, in questo sito, per le precedenti mostre organizzate, come quella attuale, dalla galleria  RVB Arts,  i nostri 18 articoli alle date seguenti:  nel 2017 il 3 gennaio, nel  2016 il 26 ottobre, 31 maggio e 23 gennaio, nel 2015 il 25 dicembre, 9 novembre, 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. Di questi, in  5 articoli si commentano le opere di Alessio Deli,  4 su mostre collettive il 26 ottobre 2016, 5 luglio 2013, 10 dicembre e 21 novembre 2012, uno sulla mostra personale, il 26 aprile 2013 con il titolo “Accessible Art. Il Re Cycle scultoreo  di Alessio Deli”; per le mostre e gli artisti citati nel testo, sul Bimillenario di “Ovidio”, i 3 articoli  il 1°, 6 e 11 gennaio 2019, ciascuno con 13 immagini, “Warhol”  il 15 e 22 settembre 2014,  “Louise Nevelson”  il  25 maggio 2013, “Wak Wak” il  27 gennaio 2013; in cultura.inabruzzo.it , sulle “domus romane” citate, il nostro articolo “Palazzo Valentini, tra i ruderi la luce”, 3 dicembre 2009  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto

Le immagini  sono state riprese da Romano Maria Levante, si ringrazia Michele von Buren, con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta: le prime 12 immagini delle “Korai” riprese a Palazzo Valentini, Sala della Pace, all’inaugurazione della mostra, le ultime 4  riprese nella galleria RVB Arts. di cui le 2 finali alla  “personale” del 2013. In apertura,  “Donna della Melagrana”, 2018, seguita dal  particolare del volto; poi, “Kore # 1″, 2017-18, con a dx la suonatrice di cetra all’inaugurazione, seguita dal particolare del volto;  quindi,”Kore # 2″, 2018, seguita da  “Clipeate # 1″, 2018-19; inoltre, “Kore # 3”, 2018, seguita dal particolare del volto;  ancora,  “Kore # 4″, 2018-19,  seguita dal particolare del volto;  infine, “Donna della ruggine”, 2016, seguita dal particolare del volto; in chiusura, “Big Warrior”, 2013, seguita da “Warrior”, 2011, quasi un’anticipazione del volto di “Big Warrior”.   

“Warrior”, 2011, quasi un’anticipazione del volto di “Big Warrior” 

Mattia e Gregorio Preti, i due fratelli insieme a Palazzo Barberini

di Romano Maria Levante

Una mostra speciale “Il trionfo dei sensi. Nuova  luce su Mattia e Gregorio Preti”, a Palazzo Barberini dal 21 febbraio al 16 giugno 2019, con 4 grandi dipinti realizzati insieme, “a due mani”, e altri 8 dipinti, uno di Gregorio e 7 di Mattia, il più talentuoso e celebrato dei due fratelli. La mostra è a cura di Alessandro Cosma e Yuri Primarosa, il secondo ha curato anche il catalogo di De Luca Editori d’Arte.  Nel corso della mostra, oltre alle visite guidate gratuite dei  curatori ogni mercoledì alle ore 17 (tranne il 1° maggio), un ciclo di conferenze sui due fratelli artisti il 16 aprile, 7 e 21 maggio, 11 giugno, con interventi dei due curatori Cosma e Primarosa,, di Luca Calenne e Francesca Curti, Riccardo Lattuada e Gianni Papi, nonché del restauratoreGiuseppe Mantella.   

Panoramica di una delle due sale espositive, nelle pareti laterali l‘”Allegoria dei cinque sensi” di Gregorio e  Mattia Preti nelle versioni di Torino, a sin,., e di Palazzo Barberini, a dx; nella parete in fondo, di Mattia Preti, “Cristo e la Cananea”  

La direzione di Palazzo Barberini prosegue nella formula di mostre  tematiche e insieme autoriali, imperniate su  un numero ristretto  di opere particolarmente qualificate che ruotano su un tema  che viene esplorato a fondo. E’ stato così per “Venezia scarlatat” e i “Ritratti dei signori”, per la “Stanza di Mantegna” e i “Maestri delle madonne Straus”,  per citarne solo alcune, ora per i fratelli Preti.   

Alla spettacolarità delle grandi esposizioni si sostituisce l’approfondimento consentito dalla concentrazione su poche opere che possono essere studiate con cura. A questo si unisce la politica degli scambi con altri musei che rende dinamica la gestione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, con il Palazzo Cosini e la sua straordinaria quadreria in aggiunta alle numerose sale di Palazzo Barberini.

E’ una  formula che permette di valorizzare maggiormente il vastissimo giacimento artistico della sterminata galleria d’arte antica che, proprio per la sua ampiezza,  nelle visite dà una straordinaria visione d’insieme cui le mostre temporanee così impostate aggiungono momenti  importanti di  approfondimento tematico.  

Gregorio e Mattia Preti, “Allegoria dei cinque sensi” , 1642-46, Roma, Palazzo Barberini 

I fratelli Preti, Mattia e Gregorio

Questa volta sono i fratelli Preti ad essere visti al microscopio dell’analisi culturale-artistica, con 12 opere, per lo più di grandi dimensioni, un terzo delle quali appartenenti alle Gallerie Nazionali d’Arte Antica,  due terzi provenienti da appositi prestiti per completare il mosaico dell’analisi tematica.  Di queste, 4 sono state realizzate dai  entrambi  i fratelli a due mani per così dire, 7 sono dell’artista più prestigioso, Mattia, e una  del  fratello,  con meno talento ma con  un ruolo importante nella sua vita artistica.

Gregorio aveva dieci anni in più e  fu il primo  a trasferirsi a Roma, si dice che Mattia cominciasse a disegnare copiando disegni e stampe lasciate a casa dal fratello dopo la sua partenza. Nel 1632 anche Mattia andò a Roma dove per quattro anni abitò in casa di Gregorio e frequentò la sua bottega, secondo la ricostruzione più accreditata, ma diversi indizi fanno ipotizzare che andasse a Roma qualche anno prima.      

Il fratello  maggiore all’inizio, oltre ad aiutarlo nella vita quotidiana,  lo avviò alla pittura nella sua bottega e si impegnò per procacciargli  le commesse inserendolo sia negli  spazi di mercato e nel  giro dei collezionisti, sia nel mondo delle potenti famiglie, dai Barberini, ai Colonna,  ai Rospigliosi come si vede da un’opera esposta  commissionata dai questa famiglia. 

Gregorio e Mattia Preti,  “Allegoria dei cinque sensi”, prec.,  particolare con in primo piano l’autoritratto di Gregorio Preti

A tal fine, come scrisse il coevo Sebastiano Resta,  “si mise anche a lavorare per  bottegari,  che allora erano ricchi”, e riuscì a far entrare Mattia per breve tempo, nella bottega del quotato Lanfranco.  Questo artista e Guercino, Ribera e soprattutto Caravaggio, i più affermati anche a quell’epoca, erano i prediletti, in particolare da Mattia, che si ispirava alla loro arte.  

Erano venuti a Roma dalla Calabria, non si è certi se distanziati nel tempo o insieme, precisamente da un borgo della Sila di nome Taverna, quando l’influenza di Caravaggio  stava declinando per l’emergere della nuova pittura barocca.  Ma loro continuarono a seguire  Caravaggio nello stile pittorico e nei temi  per almeno quindici anni, fino a quando cessò la loro convivenza e anche la comune realizzazione di grandi dipinti “a due mani”. 

Tornarono a dipingere insieme nel 1652 la controfacciata della chiesa di San Carlo ai Catinari, Mattia l'”Elemosina di San Carlo Borromeo”, Gregorio “San Carlo Borromeo che riceve i missionari barnabiti””: Mattia è già affermato, è chiamato il “Cavaliere Calabrese”, dal confronto delle loro opere si vede il diverso livello artistico: più statico e accademico Gregorio, ben più versatile negli scorci decorativi e attento all’espressione psicologica Mattia.  L’anno successivo, nel 1553, Mattia lasciò Roma, dopo 25 anni di permanenza nella città eterna  con molti viaggi nelle città italiane nei quali approfondiva la conoscenza delle  opere dei maggiori artisti emiliani, come il Guercino e Lanfranco e all’estero,  in  Spagna  e nelle Fiandre. 

Gregorio e Mattia Preti, “Concerto con scena di buona ventura (Allegoria dei cinque sensi)”, 1630-35; Torino, Accademia Albertina 

Mattia, e la sua arte, da Roma a Napoli a Malta

Molte incertezze  intorno all’itinerario artistico di Mattia, a partire dall’inizio della sua presenza a Roma, certamente dal 1632 ma con indizi che la fanno risalire al 1624, quando vi si trasferì il fratello maggiore Gregorio e lui, adolescente, potrebbe averlo seguito sin da allora. Il consueto riferimento a De Dominici che lo colloca al 1632  è considerato da Gianni Papi “un atto di fede assai avventato, perchè la fonte napoletana è quanto mai fantasiosa e potrebbe aver inventato molta parte del racconto relativo a Mattia  come del resto – per fare un esempio clamoroso – accade nel caso di Ribera…”;  Papi critica la stroncatura di Ribera fatta dal giovane Roberto Longhi nel 1913 nell’esaltazione di Mattia, giudizio indirettamente corretto in un saggio del 1943 allorchè in modo più maturo il critico non li contrappone più, ma ignora del tutto Ribera. 

Nel 1642 il papa Urbano VIII gli conferì il titolo di Cavaliere  dell’Ordine di Malta, ed è questo che fa ritenere anteriore al 1632 la sua attività romana, dieci anni sembrano pochi per raggiungere un così alto riconoscimento. Dopo due anni, allo stato delle conoscenze,  il primo incarico pubblico, una pala d’altare con il “Miracolo di san Pantaleo”, seguito dal “Suicidio di Sofonisba”, 1645-46,  della Galleria Pallavicini, e subito dopo da “Clorinda che fa liberare Orlando e Sofronia dal rogo di Palazzo Rosso”, opere con in comune architetture  che si stagliano nel cielo azzurro percorso da nuvole. 

Intorno al 1650 l’escalation artistica di Mattia con gli spettacolari affreschi dell’abside di sant’Andrea della Valle –  la chiesa, sia detto per inciso come mera associazione di idee, dove Puccini ambienterà la scena iniziale di “Tosca” –  vicino agli affreschi dei più celebrati Domenichino e Lanfranco;  poco prima aveva dipinto lo stendardo per la processione di San Martino al Cimino su incarico di Olimpia Panphili, altra potente famiglia.   

Gregorio e Mattia Preti, “Pilato che si  lava le mani (Cristo mostrato  al popolo)”, 1645-55

Si trasferì a Napoli dal 1653, dove conobbe l’opera di Luca Giordano e ne fu influenzato al punto che a loro due  si fa riferimento per la scuola pittorica napoletana. La sua rilevanza a Napoli era tale che fu lui ad affrescare le porte cittadine nella peste tra il 1657 e il 1659, degli affreschi andati perduti è  stato conservato un bozzetto al Museo di Capodimonte. Altre sue opere nella città sono l’affresco  della  volta di San Pietro a Maiella con la vita di “San Pietro Celestino e snta Caterina d’Alessandria”, e importanti dipinti come “Il Ritorno del figliol prodigo” al Palazzo Reale e altri realizzati per le chiese di Napoli. 

Da Napoli a Malta nel 1661, era Cavaliere dell’Ordine di Malta da quasi vent’anni quando il Gran Maestro dell’Ordine Raphael Cotoner lo chiama per dipingere nelle chiese dell’isola. La sua attività a Malta è molto intensa, realizza pale d’altare, dipinti e  decorazioni per la Cattedrale di San Giovanni nella capitale La Valletta  e la “Conversione di Paolo” per la vecchia cattedrale di san Paolo a Medina su incarico dei Cavalieri Ospitalieri, oltre che per molte altre chiese.

Non dimentica le sue origini,  poco più di 10 anni dopo il trasferimento a Malta e 40 anni dopo il trasferimento a Roma, dal 1972 realizza molti dipinti per le chiese del  paese natio, Taverna. Ma la sua vita si svolge a Malta, dove il numero deille opere, tra tele e affreschi, realizzate in quarant’anni di prmanenza,  si valuta in ben 400.   Muore a La Valletta nel 1699. sulla sua tomba l’epitaffio voluto dal priore Albertini: “Hic iacet magnum picturae decus”, un meritato riconoscimento coevo alla sua elevata caratura artistica. 

Pur nella derivazione caravaggesca, il suo stile è molto personale. Si ispira a Caravaggio nei forti contrasti tra luci e ombre, ma imprime maggiore dinamismo alle scene, che nel primo sono fissate, quasi scolpite dalla luce; e vi innesta motivi classici e barocchi, oltre che naturalistici, per rendere la composizione quanto più posibile espressiva.    La sua produzione in 60 anni di attività artistica è vastissima,  su temi in prevalenza religiosi, con Cristo e i santi, ma anche biblici e mitologici.

Gregorio, il  fratello di Mattia

Non è certo poco rilevante la figura di Gregorio, anche se è stata oscurata dal fratello, al quale viene attribuito un “impetuoso talento”, mentre  a lui un “diligente mestiere”, con reminiscenze tardive e tendenza a  riprodurre modelli precedenti. La sua figura è stata rivalutata e ne è stata ricostruita la formazione, prima a Napoli, poi a Roma, dove fu a fianco a Mattia, di dieci anni più giovane. Allievo del Domenichino a Roma, prima che si trasferisse a Napoli, e dello Spagnoletto; maestro di Giacinto Brandi oltre che, nell’avvio alla pittura, di Mattia, di cui era “procacciatore di commesse”.

Gregorio Preti, “Cristo mostrato al popolo”, 1645-55  

Ma la sua non fu un’attività soltanto mercantile, nè si limitò  a curare i contatti con i collezionisti e le grandi famiglie; frequentò assiduamente, dal 1632, l’Accademia di san Luca  e nel 1648 fu ammesso nella Congregazione dei Virtuosi del Pantheon, fino a diventarne reggente dal dicembre 1652 al gennaio 1654, e responsabile, nel 1658, del massimo evento religioso e anche politico della congregazione, l’organizzazione delle feste per san Giuseppe. 

Della sua caratura di pittore parla così lo studioso Tommaso Bogoncelli: “Il rapporto di Gregorio con il mercato artistico può spiegare il suo metodo di lavoro: quella del calabrese è una pittura stilisticamente ondivaga, vissuta ai limiti di una vera  e propria pratica  artigianale e sempre ai margini della cultura artistica dominante, spesso altalenante nella qualità dei risultati, evidentemente modulati in base al prestigio e alla retribuzione  della commissione, dove fisionomie, atteggiamenti, gesti e composizioni vengono rielaborati e riutilizzati, dando vita in qualche caso a veri  e propri ‘collage’“. Con questi limiti, il suo stile ha tratti caravaggeschi, con prevalenza della formazione accademica e dell’influsso idealizzante di Domenichino; per cui,  secondo Bogoncelli, “etichettare Gregorio come pittore seriale e prossimo a una sorta di pratica artigianale non significa comunque negarne il valore e la capacità di produrre autentici capolavori”. 

Fu impegnato, parallelamente al fratello ma con opere autonome, in chiese romane come San Pantaleo, con un dipinto su “San Flaviano”, ora perduto, e a San Carlo ai Catinari nella controfacciata, con un dipinto su “San Carlo”. Per Marcantonio Coilonna realizzò una serie di dipinti autonomi, tra cui i mitologici di ispirazione ovidiana, “Ratto di Europa”, “Ratto di Ganimede” e “Ratto di Proserpina”, ora nella Galleria Pallavicini, e dipinti con il fratello, come documentano i compensi.  

Mattia Preti, “Cristo guarisce l’idropico”, 1630

Rimasto a Roma dopo il trasferimento di Mattia a Napoli, continua a dipingere, viene citata un’opera per la chiesa di San Rocco a Ripetta nel 1663, in precedenza anche per la cattedrale e la chiesa di San Nicola a Fabriano, e per due chiese del paese natale Taverna. Cinque anni dopo, nel 1663, sposa una donna dell’Aquila, ha mantenuto uno stretto rapporto con l’antico allievo Giacinto Brandi, ora suo testimone di nozze, è l’autore di dipinti restauratinel 2009  per il museo aquilano.

Gregorio morì a Roma nel 1972, tre anni dopo la morte del fratello Mattia a la Valletta. Fu definito da De Dominici “pittore di buon nome”, del resto non avrebbe potuto dipingere “a due mani” con il fratello se non fosse stato all’altezza, pur se con una caratura visibilmente inferiore.  

I  due dipinti sull'”Allegoria dei cinque sensi” 

Merito della mostra è portare alla ribalta le “vite parallele” dei due fratelli Preti, ponendo in rilievo soprattutto il loro  sodalizio artistico con i 4 grandi dipinti realizzati “a due mani” nei quali viene evidenziata la parte attribuita  a Mattia e quella a Gregorio; non c’è un vero confronto tra le loro opere autonome dato che viene esposto un solo dipinto di Gregorio rispetto ai 7 dipinti di Mattia. “Noblesse oblige”, oltre che sulla loro collaborazione i riflettori sono sull’artista più prestigioso.

Non è solo questo l’aspetto centrale, altrimenti il titolo non sarebbe “Il trionfo dei sensi”, ma quello che è il sottotitolo, “Nuova luce su Mattia e Gregorio Preti”. I due dipinti  sull“Allegoria dei cinque sensi” riportano a un tema di ispirazione caravaggesca, tanto che il titolo del dipinto proveniente dall’Accademia Albertina di Torino è “Concerto con scena di buona ventura”, è stato aggiunto il riferimento ai cinque sensi, cui è intitolato quello delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, restaurato per l’occasione da Giuseppe Mantella, autore di altri restauri alle opere di Mattia in Calabria e a Malta.   

Mattia Preti, “Negazione di Pietro”

Va sottolineato che ha finanziato il restauro lo studio legale “Dentons”, il più grande al mondo presente in 75 paesi con 170 sedi e  più di 9.000 avvocati, per celebrare il triennio trascorso dall’inizio della presenza in Italia con un omaggio a Roma dopo un restauro del 2016 a Milano; un bell’esempio di impegno per l’arte che andrebbe esteso quanto più possibile ai fini della conservazione del nostro patrimonio.

Sono di grandi dimensioni, alti 2 m, il secondo lungo circa 4 m, un metro più del primo, che è monumentale, esposti insieme per la prima volta con un effetto veramente spettacolare. In entrambi sono raffigurati gruppi di persone intente a diverse attività di vita quotidiana che danno una visione allegorica dei cinque sensi.  Al tema, Gregorio aveva dedicato i due ovali “Allegoria della vista e dell’udito” e “Allegoria dell’olfatto e del tatto”, che si trovano nel palazzo dei Chigi di Ariccia, insieme ai due ovali sui temi caravaggeschi “Giocatori di carte” e “Concerto”. Nell’“Allegoria dei cinque sensi” delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, 1642-46, le indagini diagnostiche del restauro hanno permesso di ricostruire la genesi di un’opera realizzata insieme, ripetiamo,  “a due mani”, dai due fratelli dividendosi gli spazi e avendo dei ripensamenti.    

Compie un’analisi particolarmente accurata il curatore Yuri Primarosa il quale, anche sulla base delle indagini radiografiche, rileva: “I due Preti non solo corressero in corso d’opera la posizione di alcune teste  e di alcune parti anatomiche,,ma camcellarono alcune figure già ultimate e ridipinsero in toto  interi brani della composizione”. E precisa: “Probabilmente i due artisti sperimentarono diverse soluzioni compositive direttamente sulla tela partendo da studi grafici di massima tracciati in precedenza o da appunti di Mattia conservati nella bottega”.  

Matia Preti, “Fuga da Troia”, 1635-40  

Per individuare chi dei due ha dipinto l’una o l’altra figura si affida alle loro differenze stilistiche, citiamo un esempio: “Il fratello maggiore dovette collaborare alla stesura dell’arpista, la cui pennellata rigida e a tratti semplificata sembra distaccarsi dal ductus più morbido di Mattia.  Nella parte destra, invece, possimo riconoscere la maniera di quest’ultimo nella figura in penombra posta in secondo piano (fortemente abrasa), nella zingara e nell’incauto gentiluomo che da questa si sta facendo leggere la mano e, forse, nella grottesca figura maschile che completa la ‘buona ventura’ non distante dai modi di Gregorio. Preti senior, infine, aiuta Mattia nell’esecuzione dei filosofi all’estrema destra,  della composizione, acutamente identificati da Luca Calemme in Eraclito e Democrito”.  E così  via. 

La composizione dell’opera reca un messaggio evidente sull’importanza di usare la razionalità anche riguardo alle esperienze sensoriali; per questo, oltre alle figure gaudenti vi sono le teste di questi due filosofi,  che mostrano un atteggiamento opposto. Democrito ride, forse per la vanità delle cose del mondo, mentre con le dita della mano aperta indica i cinque sensi, pensando che danno una conoscenza fallace dovuta alla casualità dell’urto degli atomi costiuenti la materia, mentre la vera conoscenza è data dall’intelletto; al contrario Eraclito è cupo, quasi piange, perchè il divenire alla base del suo pensiero porta a travolgere le fragili cose del mondo in una visione pessimistica, senza neppure il riscatto della conoscenza. “Il riso di Democrito e il pianto di Eraclito – ancora nelle parole di Primarosa – emblematicamente contrapposti, ammoniscono lo spettatore sui limiti della conoscenza sensibile, dal momento che i due filosofi, assieme allo stesso Gregorio Preti, sono gli unici personaggi che cercano lo sguardo dello spettatore”. Ma non basta: “I loro volti, deformati da isterica euforia e dalla più buia mestizia, costiuiscono dunque una sorta di monito per il riguardante, un commento disperato e al tempo stesso sardonico  sulle miserie della natura umana”. Precisiamo che l’autoritratto di Gregorio, al centro in primo piano, guarda verso l’osservatore in modo ostentato forse per celebrare la vista e insieme il valore della pittura.  

Chiara  metafora degli altri 4 sensi  è nei suonatori per l’udito e nel fumatore di pipa per l’olfatto,  nell’oste e nei bevitori per il gusto e nella chiromante per il tatto. Il restauro non ha acceso le tonalità delle tinte, come spesso avviene, sono opache, fa pensare che il trionfo dei sensi, che sarebbe pirotecnico, viene moderato, quindi offuscato,  con l’uso della ragione.  

Mattia Preti, “Cristo e la Cananea”, 1646-47

Al contrario, è brillante la resa cromatica del “Concerto con scena di buona ventura (Allegoria dei cinque sensi)” , dell’Accademia Albertina di Torino, 1630-35,che precede di dieci anni l’allegoria appena commentata di Palazzo Barberini:  è stato realizzato anch’esso “a due mani”, agli inizi dell’attività a Roma di Mattia,  è  interessante sottolinearlo per metterne a fuoco la maestria già evidente. Tra le figure è inserito il volto incorniciato di lauro del poeta Giovan Battista Marino, morto nel 1625, cinque anni prima l’inizio dell’opera,  presumibilmente con  riferimento al “giardino dei sensi” con gli amori di Venere dell'”Adone”; in un certo qual modo è un  preludio di significato opposto  alla figura dei due filosofi nel dipinto di dieci anni dopo conservato a Torino. La metafora dei sensi questa volta è impersonata nel bevitore e nel cuoco per l’olfatto e il gusto, nel gatto e nel gentiluomo con il cappello rosso per la vista,  nei suonatori per l’udito e nella zingara per il tatto.

Ebbene,  come alle tonalità offuscate dell’Allegoria prima commentata corrispondeva una visione pessimistica,  alla cromia brillante di questa seconda Allegoria corrisponde una visione ottimistica, e il curatore non manca di sottolinearlo: “Quest’ultimo dipinto, databile tra il 1630 e il 1635, costituisce  a mio giudizio una sorta di contraltare dialettico dell’Allegoria Barberini  perchè in esso – attraverso  sofisticati rimandi all’epicureismo di certi versi mariniani dell’Adone  – l’esperienza sensibile veniva celebrata quale tappa fondamentale del lungo  e tormentato cammino verso la conoscenza”. E  la scena è gaudente e festosa, senza gli sguardi ammonitori dei filosofi  che, secondo Luca Calenne che li ha identificati, esprimono “una critica all’incondizionata fisucia che viene riposta  nelle percezioni sensoriali, se questa non è sorretta dalla razionalità”, come abbiamo prima riportato. 

Mattia Preti, “Archimede”,  1630

Le altre opere esposte, 2 “a due mani”,  una di Gregorio, 7 di Mattia

Di poco più piccolo dell’allegoria di Torino, “Pilato che si lava le mani (Cristo davanti a Pilato)”, 1640,  è definito “il Pilato Rospigliosi”, dal committente, realizzato “a due mani”, a questo dipinto sembra essere ispirato l’unico di Gregorio esposto, “Cristo mostrato al popolo”, 1945-65, anch’esso in prestito da Torino. A Gregorio sembra vada attribuito il gruppo centrale e le due figure che mimano con le dita la crocifissione, a Mattia il gruppo di destra e l’armigero con l’alabarda.

La quarta opera comune dei due fratelli è “Cristo guarisce l’idropico”,  1630, in prestito da Milano, a Mattia vengono attribuiti l’insieme della composizione e alcune figure, soprattutto a destra, mentre a Gregorio le mani di tutti i personaggi e i volti di quelli sulla sinistra.    

Una piccola ma efficace galleria, quella delle 7 opere di Mattia, di cui 2 composizioni su temi religiosi, 1una su un tema mitico, e 4 ritratti, di un santo, un apostolo, uno scienziato e una bambina, un bel campionario di soggetti  e forme espressive.  

Due composizioni sono del 1635-40, una su tema religioso, “Negazione di Pietro”, l’altra su tema mitico, “Fuga da Troia”: la prima, caravaggesca, ha un’immediatezza quasi fotografica con la diagonale segnata della schiena femminile e dalle mani di Pietro mentre  nega di conoscere Gesù; la seconda, con Enea che porta il padre Anchise sulle spalle e a fianco il figlio, diretto a fondare Roma, ha, come è stato detto,  “una monumentalità teatrale e barocca”. 

Mattia Preti, San Bonaventura”, 1637-45 

La teatralità è evidente anche nella terza composizione, ““Cristo e la Cananea”, 1646-47, di forma quadrata di 2 m e 35 cm. Viene  esposta al pubblico per la prima volta, faceva parte della collezione Colonna, con molte altre opere dei fratelli Preti, e ha  un elevato valore artistico in quanto  evidenzia l’influsso su Mattia anche della pittura veneziana, in particolare di Tintoretto e Veronese e del barocco; e un valore storico,  risultando dai documenti  il pagamento diretto dell’opera al pittore da parte dei Colonna nel 1647. 

Anche di questo dipinto il curatore Primarosa fa un’analisi molto accurata, ponendo a confronto il viso della donna con i volti muliebri di altre opere e affermando che “la vasta tela qui pubblicata – concepita come opera a sè – potè all’occorrenza rielaborare in quadri  di minore impegno compositivo ma di altrettanta efficacia pittorica, come il bel dipinto oggi a Palermo – verso l’inizio del settimo decennio del  Seicento – e un’altra versione dello stesso soggetto  conservata a Cosenza”.  Ma se  di questeidue dipinti, “qualificati da un ductus più fluido e da una serrata  retorica dei gesti”, con pochi personaggi ravvicinati,  dice che “si tratta di opere eseguite con felice immediatezza”, per il dipinto di uguale soggetto oggi a Stoccarda il curatore riporta i termini ancora più elogiativi usati da De Dominici: “La bellezza di questo quadro non è facile ad esplicare con parole, dapoiccchè se tutti gli altri quadri di fra’ Mattia son dipinti, questo è vero, e par che spirino  vita le figure rappresentate, oltre alla grazia  e all’espressione superiore a tutte le altre opere del suo pennello”.  Rispetto al giudizio sull’opera di Stoccarda, per quella di Palazzo Barberini andremmo anche oltre in positivo, per la sua atmosfera soffusa e l’armonia delle architetture di sfondo rispettto alla violenza chiaroscurale e al fondale chiuso dell’altra, la grazia qui è senz’altro maggiore.   

Mattia Preti, “Apostolo”, 1635 

Passando ai 4 ritratti, anche “Archimede”, 1630, è esposto per la prima volta, è tra le  iniziali opere giovanili di Mattia, viene identificato dal libro e dalla sfera in mano con il bacile d’acqua per ricordare il suo celebre principio secondo cui un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verso l’alto pari al peso del liquido spostato; lo scienziato guarda in alto come “San Bonaventura, 1637-45, naturalmente con un atteggiamento diverso, la sua immagine è pensosa, quella del santo è ispirata.  “Apostolo”, 1635,  mostra la forte influenza di Ribera evidente anche nella già citata “Negazione di Pietro”.   

Un posto a sé per la “Testa di bambina con la collana di corallo”, 1645-50, che in questa mostra viene attribuita per la prima volta a Mattia, è un’opera incompiuta destinata a una composizione più ampia, la collana di corallo era un talismano contro le insidie all’infanzia, l’espressione estasiata  ricorda i volti di Lanfranco mentre si avverte una forte somiglianza con la violinista dell’ “Allegoria dei cinque sensi”.  

Termina così  la visita alla mostra, nella quale abbiamo potuto approfondire la personalità e la caratura artistica dei due fratelli e soprattutto vedere i risultati della loro partecipazione agli stessi dipinti,  realizzati per così dire “a due mani”; inoltre abbiamo potuto ammirare ancora una volta l’arte superiore di Mattia nelle espressioni più diverse. Con le due “Allegorie dei cinque sensi”,  immagini  differenti,  ma entrambe imperniate sulle gaudenti libagioni nelle osterie romane cui non solo vengono riferite trasparenti metafore sensoriali, ma anche ammonimenti a seguire sempre la ragione.

Tutto questo con 12 dipinti soltanto!  Un risultato straordinario, un record di efficacia. Chapeau! 

Mattia Preti, Testa di bambina con collana di corallo”, 1645-50

Info

Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto valido per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e particolari categorie: scolaresche, studenti di determinate scuole letterarie e artistiche, membri ICOM, guide e interpreti turistici,  persone con handicap,   giornalisti. www.barberinicorsini.org; comunicazione@barberinicorsini.org. Catalogo ““Il trionfo dei sensi. Nuova luce su Mattia e Gregorio Preti”, a cura di Yuri Primarosa, De Luca Editori d’Arte, febbraio 2019, pp.184, formato 21 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Sulle  citazioni nel testo cfr. i nostri articoli in questo sito: per i temi delle opere di Gregorio Preti, “Ratto di Europa”, “Ratto di Ganimede”, “Ratto di Proserpina”, gli articoli nella mostra per il Bimillenario di Ovidio del 1°, 6 e 11 gennaio 2019; per i 2 dipinti di Giacinto Brandi restaurati, presentati a Palazzo Barberini,  l’articolo del  28 ottobre 2012.  

Foto 

Le immagini sono state  fornite  dall’Ufficio Stampa della mostra, precisamente da Maria Bonmassar, che si ringrazia, con i titolari dei diritti.  In apertura, panoramica di una delle due sale, alle due pareti laterali, di Gregorio e Mattia Preti,  “Allegoria dei cinque sensi”, a sin. quella  di  Torino, a dx quella di  Roma, nella parete di fondo,  di Mattia Preti, “Cristo e la Cananea”, 1643-45; seguono, Gregorio e Mattia Preti, “Allegoria dei cinque sensi” , 1642-46, Roma, Palazzo Barberini e, dello stesso dipinto, particolare con in primo piano l’autoritratto di Gregorio Preti; poi, Gregorio e Mattia Preti, “Concerto con scena di buona ventura (Allegoria dei cinque sensi)”, 1630-35; Torino, Accademia Albertina, e “Pilato che si  lava le mani (Cristo mostrato  al popolo)”, 1645-55; quindi, Gregorio Preti, “Cristo mostrato al popolo”, 1645-55, e Mattia Preti, “Cristo guarisce l’idropico”, 1630; inoltre, Mattia Preti, “Negazione di Pietro”, e “Fuga da Troia”, 1635-40; ancora, “Cristo e la Cananea”, 1646-47, e “Archimede”,  1630; infine, “San Bonaventura”, 1637-45,“Apostolo”, 1635; e “Testa di bambina con collana di corallo”, 1645-50;  in chiusura, panoramica di una parete, a sin., Gregorio Preti, “Cristo mostrato al popolo“1645-55, al centro Mattia Preti,  “Archinede”,1630, a dx, Gregorio e Mattia Preti, “Cristo guarisce l’idropico”, 1630.  

Panoramica di una parete, a sin., Gregorio Preti, “Cristo mostrato al popolo“1645-55, al centro Mattia Preti,  “Archinede”,.1630, a dx, Gregorio e Mattia Preti, “Cristo guarisce l’idropico”, 1630

Maschere arcaiche, il mito rivisitato da Nicola Toce alla Casina delle Civette

di Romano Maria Levante

All’inizio dell’anno che vede  Matera  Capitale europea della cultura,  nella Casina  delle Civette a Villa Torlonia, dal   9  febbraio al 20 aprile 2019, la mostra “Il mito rivisitato. Le maschere arcaiche della Basilicata di Nicola Toce”  presenta uno spaccato molto particolare del patrimonio culturale della regione: 38 opere tra maschere e sculture, figure favolistiche  che nascono da antiche leggende  portate da  una tradizione molto viva nella civiltà contadina. La mostra, organizzata dall’Agenzia di Promozione Territoriale della Basilicata, con l’assessore Mariano Luigi Schiavone, che l’ha presentata, insieme a Nicola Toce, è stata  progettata da Maria Grazia Massafra, Nicola Toce e Francesca Romana Uccella che l’ha curata con il catalogo De Luca Editori d’Arte, Servizi Museali di Zétema. Fa parte delle manifestazione sul Carnevale lucano, nei suoi miti, riti e valori, espressa alla presentazione della mostra attraverso figure e momenti di intenso folclore.

“Il mito rivisitato” ha confermato una peculiarità altamente positiva delle mostre ospitate nella splendida cornice della “Casina delle Civette”, tra il verde dei  giardini di  Villa Torlonia  e le vetrine liberty della caratteristica residenza:  il gusto della scoperta di opere ed artisti fuori del comune,  su tematiche poco note o dimenticate. Per  questo si ha il supporto dei preziosi cataloghi nei quali sono contenuti gli approfondimenti colti di Maria Grazia Massafra, responsabile  del coordinamento museale e delle mostre temporanee. E’ stato così nel 2017 per la mostra collettiva sulle “Civette“, le personali di Walsulle “Sculture ludiche di putti”,  e di Annalia Amedeosulle “Sinestesie ceramiche”, nel 2018 per le personali di Piero Gentili sulle “Soglie di luce”,  di Paolo Martellotti sul “Bosco incantato” e di Vittorio Favasui “Libri d’artista”, il 2019 inizia con le “Maschere arcaiche” di Nicola Toce.   

Le maschere arcaiche e la cartapesta

Questa volta si tratta delle maschere arcaiche che la Massafra presenta così: “La maschera e il suo concetto rappresenta un elemento imprescindibile della nostra cultura. La maschera rappresenta un mero travestimento dell’uomo, necessario per celare la dissonanza tra forma e contenuto e necessario a contrastare la paura e la debolezza dell’individuo di fronte  agli eventi di trasformazione o di ‘passaggio’  della propria esistenza”.


 Ed ecco come definisce quelle presentate nella mostra: “Le  maschere create da Nicola Toce vivono una vita espressiva ed estetica anche al di fuori del loro uso funzionale: incarnano immagini di spiriti e di entità sovrumane, un ‘altro’ volto, diverso e inusuale, talvolta mostruoso e inquietante. Le sue maschere vivono  in una zona intermedia della realtà, i cui confini non sono definiti, e permettono la transizione dal mondo umano  a un ‘altrove’ non umano”.  Così sono evocati i riferimenti primari:  “Le maschere rinviano a un’epoca originaria, a un tempo primordiale in cui la terra era abitata da antenati mitici, che possedevano  qualità e poteri sconosciuti agli uomini odierni”.

Una combinazione tra realtà deformata e “forma contaminata e fantastica”, espressione di miti e leggende che vengono da molto lontano nel tempo ma fanno parte del vissuto collettivo radicato nell’immaginario popolare, e per questo “favoriscono la rappresentazione simbolica, la riflessione metafisica e l’esegesi esoterica di un sapere tradizionale che viene consegnato alle nuove generazioni”. 

Nel teatro greco – decorato da grandi maschere – e in quello romano, avevano una funzione ben precisa, quella di potenziare  la visione degli spettatori enfatizzando, con la deformazione espressive, il carattere dei personaggi, e spesso anche l’ascolto amplificandone la voce.  Mentre nella commedia dell’arte italiana le maschere nascondevano il volto dell’attore per meglio identificarlo nel personaggio; e non si possono dimenticare le maschere, per lo più a carattere regionale,  non limitate al volto ma estese all’intera figura, che hanno impersonato caratteri inconfondibili, si pensi ad Arlecchimo e Pulcinella, Gianduia e il dottor Balanzone.  Tuttavia sono altro rispetto al “mito rivisitato”, che ha un’eco intensa, arcaica e favolistica.

La Massafra collega alle maschere mitiche  il materiale usato e la tecnica adottata, ricordando che la loro realizzazione richiede qualità artigianali  e insieme artistiche, e una particolare ispirazione, dato che  nell’epoca antica erano associate alla divinità  e rappresentavano la traduzione di quanto era apparso  allo “sciamano” nei suoi “viaggi” nel mondo degli spiriti.  Toce, tuttavia, non si limita a riprodurre immagini tradizionali,  ma  nel passaggio tra divinità  pagane e religione cristiana le reinterpreta sotto il profilo estetico con creazioni originali pur se aderenti alle leggende popolari più diffuse. 

Ma andiamo al materiale, che condiziona la tecnica di lavorazione e viceversa, in una correlazione molto stretta, altra peculiarità di queste realizzazioni. Si tratta  di materiale povero, con l’argilla per le forme e i volumi, ma soprattutto la cartapesta, su cui vengono applicate polveri e colorazioni sempre con elementi naturali, e in proposito va considerato che la cartapesta  ha una lunga storia. Sempre  la Massafra la ricostruisce a partire dal ‘400 quando era utilizzata per modelli preparatori, come i bozzetti;  ma poi fu usata addirittura per uno spettacolare  monumento semovente dedicato a Carlo V da Beccalumi, e venne sperimentata anche da artisti del calibro di Jacopo della Quercia  e Donatello, oltre che dalle botteghe fiorentine, secondo le notizie fornite dal Vasari.  

Da Firenze a Roma, la cartapesta fu impiegata dal  Bernini per i suoi modelli tradotti in opere scultoree e decorative, e si diffuse anche per il suo costo molto contenuto; la usò pure Algardi per i  modelli delle sue sculture. Nel ‘700 e nell’800 l’uso si estese alle suppellettili di uso comune, alle decorazioni architettoniche e alle scenografie teatrali, finché nel ‘900  il suo impiego si è ridotto, riservato  essenzialmente agli allestimenti teatrali e cinematografici; infine l’avvento della plastica ha fatto sì che la cartapesta venga utilizzata essenzialmente per le feste legate alle tradizioni popolari, come nel nostro caso. 

Il processo creativo nelle confidenze dell’autore delle maschere   

Come l’autore delle maschere del “mito rivisitato” si inserisca in questo processo artistico e artigianale insieme, che impatta nella tradizione più antica e radicata nell’immaginario popolare, lo dice Antonio Calbi: “Lo immaginiamo al lavoro, Nicola Toce, in un laboratorio alchemico di visioni prima che laboratorio di tecniche e materie al servizio di invenzioni formali; quasi un artista ‘sciamano’ all’opera posseduto da un flusso visionario, con le mani che impastano, modellano, colorano, seguendo un fluire interiore che mescola paure ancestrali, proprie e di tutti, biografia primigenia e insieme collettiva, il proprio magma interiore condiviso come in certi eventi ‘fluxus’ – qui in versione privata, però – e suggestioni spinte e ispirate da fonti diverse. C’è un mondo, un universo semantico, insomma, assai articolato in questa creatività”.

Addentriamoci in quel mondo mediante le confidenze dello stesso Toce nel lungo dialogo con Vincenzo Postiglione, che ne ha approfondito motivazioni e forme espressive.L’autore si apre ai ricordi, partendo dai racconti ascoltati da piccolo, intorno al focolare, sugli animali parlanti a Natale, quando si doveva esorcizzare il demone che li possedeva con dei salti scaramantici;  le maschere, espressioni di questo ambiente di favola, lo affascinavano e la disponibilità “in loco” dell’argilla con cui si potevano modellare, come avveniva per pipe, fischietti e altro, faceva il resto: “Ognuno modellava la propria maschera, ogni anno. Ogni persona che si vestiva, si travestiva, diciamo. Solo i maschi avevano quest’impegno.  

Durante l’inverno, prima di Carnevale, ognuno preparava la propria maschera in segreto. Era bello, ecco come avveniva: “Si realizzavano tante forme particolari.  Non c’era una sola mano artistica, ma c’erano più forme”. La festa più importante dell’anno dopo il Natale era il Carnevale, e muoveva tante energie perché si usciva dall’inverno e si scatenava la fantasia con qualche trasgressione non ammessa in altri periodi. Con lo studio della scultura alla Scuola d’arte nasce il desiderio di portare tutto questo fuori dal ristretto ambito del carnevale locale, “rimanendo sempre però legato al racconto della maschera, a quello che dicevano gli antichi, i vecchi”. E lo ha fatto approfondendo il tema al Museo archeologico dove, in una coppa del VII sec. a. C. rinvenuta proprio nel suo paese, Aliano, ha trovato maschere molto simili a quelle della tradizione locale; e parlando con i vecchi i quali gli dicevano che “uscivano dai vasi” figure di satiri con le corna di stampo demoniaco. 

Lo ha verificato nelle feste di carnevale, quando le maschere corrono urlando in modo aggressivo e vengono “placate”  con la musica e con il vino, quasi un tributo per esorcizzare gli spiriti demoniaci da cui sono invasate. E anche dopo il periodo di carnevale, con la processione del 1° novembre le maschere  restano per il passaggio nell’oltretomba, dove ci sono i demoni verso i quali si ha sempre bisogno di un esorcismo salvifico: come a Natale i demoni entrano negli animali, così nella festa dei morti entrano nelle maschere, in modo che si possa avere un contatto con loro, dialogare e, lo ripetiamo, esorcizzarli in qualche modo. Così, osserva Padiglione, “all’irruenza del diavolo si offre una qualche pacificazione”.  

Forse anche per questo, ci vien fatto di pensare,  sono tante le maschere con fogge animalesche, in tal modo viene favorita la mediazione con il demone che deve essere neutralizzato  Le donne riescono ad eludere  il divieto di partecipare alle sfilate di Carnevale, ad Aliano travestendosi da “pacchiane”, a Tricarico da mucche e tori, sempre in gran segreto.

L’artista come realizza il suo sogno di portare nel mondo questo messaggio artistico facendolo uscire dai ristretti confini locali ma restando legato alla tradizione nella sua creatività?  Lo fa alimentandosi a quei racconti che ha sentito ripetere tante volte  e tornando ad abbeverarsi alle fonti della sua fantasia: “Sì, continuamente, ogniqualvolta vado in Basilicata o, anche se non scendo, comunque ho una gran quantità di immagini che ogni giorno mi si presentano”. Questo legame, che è anche un legame con il passato, è dunque fondamentale. Ma non si sente relegato a una dimensione superata, mantenuta solo come un reperto da conservare:  “C’è tanta gente che è interessata. E’ un modo di raccontare con la maschera. Io racconto con la maschera, attraverso la maschera si può arrivare a capire quello che succede in questo piccolo paese, ma non solo, cosa succede in Basilicata”. 

Affinché  ciò avvenga  la maschera deve essere vista come qualcosa di vivo: “E’ dinamica, c’è l’occhio che magari è un po’ inclinato, e quindi è espressivo. Poi la maschera non deve essere statica, sennò non funziona. L’asimmetria rende il movimento e, quando la maschera viene indossata, funziona. La maschera è maschera finché viene indossata. Come uno strumento”. Altrimenti resta un oggetto senza vita, di legno o di cartapesta, non è più una vera maschera.  

Nicola Toce aggiunge che le sue maschere “hanno ballato, sono state usate a teatro. Questo era il mio progetto, farle uscire dal contesto, farle vivere in un’altra dimensione”. Ne abbiamo un esempio alla “Dipendenza” della Casina delle Civette con i  figuranti lucani che intorno alle  maschere fissate nei pannelli espositivi  fanno rivivere qualche momento carnascialesco, con le lunghissime bardature simili a capigliature impazzite che coprono i volti quasi fossero fioriture arboree, o i voluminosi copricapo, come caschi vegetali lussureggianti  che rimandano ai frutti copiosi della terra; non è mancato un complesso folcloristico con una danzatrice che senza maschera nè vesti pittoresche nel suo ballo vorticoso ha messo a confronto due epoche, due mondi, in continuità ideale tra loro pur nella vistosa evoluzione di forme e contenuti.

Tutto questo si traduce nell’ispirazione creatrice che Toce esprime così: “Mi rifaccio alla fantasia che il racconto ha stimolato, e stimola tuttora. E’ una continua evoluzione, di forme e di linee, grazie a quello che mi hanno raccontato e mi raccontano tuttora. Quindi cerco di trasmettere con le forme, con i colori quello che mi è stato detto  e quello che riesco a percepire e a vedere.”.

Il risultato viene così descritto da Calbi: “Queste maschere oltre ad essere opere d’arte, vivono anche e insieme una seconda dimensione, quella di essere sintesi straordinarie di tradizioni e riti che hanno attraversato i secoli, che a tratti sopravvivono tuttora, o che nel corso degli ultimi decenni sono state resuscitate, se così possiamo dire, anche se in forme diverse, che scivolano più verso il folclore che nel recupero, probabilmente impossibile, della radice rituale, tribale, originaria”.  

Le maschere arcaiche di Nicola Toce   

E’  il momento di passare in rassegna le maschere esposte nella Casina delle Civette collegandole a questa “radice rituale, tribale, originaria” che sopravvive in qualche misura nelle espressioni tradizionali del carnevale lucano. Le maschere sono inserite in pannelli con le rispettive denominazioni e sono collegate alla provenienza territoriale. 

Notiamo qualcosa di inatteso: guardandole prima frontalmente poi di profilo l’espressione cambia, come avviene quando si conversa con qualcuno, è una prova che sono dinamiche e non statiche, sembrano vive nella loro deformata fisognomica favolistica. Ce se ne rende conto anche dalle immagini riprodotte nel catalogo nelle due posizioni citate, straordinario! 

La curatrice Francesca Romana Uccella   introduce la mostra affermando che “oltre a volti antropomorfi, animali fantastici, creature magiche, travestimenti, spiriti ed abitatori delle argille, filo conduttore dell’esposizione sono le narrazioni che le maschere – realizzate con tecniche tradizionali di  lavorazione e decorazione della cartapesta – racconteranno ai visitatori, trasportandoli in una dimensione altra, accogliente e spaesante, propria della Basilicata antica e contemporanea”.   

Sono volti umani con deformazioni  che non sembrano caricaturali,  ma identitarie, in quanto sottolineano aspetti fisognomici che corrispondono ai loro significati simbolici collegati alle storie e leggende alla base dei racconti di cui sono protagoniste.  Dalle sopracciglia aggrottate in modo abnorme alle lingue gonfie protese non in uno sberleffo perché le espressioni sono molto dure, in qualche caso dentature digrignanti da vampiro, teste umane con le corna; vediamo teste di animali, naturalmente del maiale, di cui abbiamo ricordato le leggende sugli animali parlanti natalizi perché posseduti dal demonio, dell’ariete e anche dell’elefante con la proboscide. Colpisce la straordinaria resa cromatica, si va dall’oro all’ocra, dal verde, al rosa e all’arancio in infinite sfumature che danno mobilità a quei volti, li rendono quanto mai espressivi.  

La curatrice nota al riguardo che  “la tecnica utilizzata per la creazione delle maschere è antica e tradizionale, ma nella realizzazione delle forme appare rivoluzionaria e innovativa. Il trattamento della carta e dell’argilla, l’espressività ottenuta con la combinazione delle tinte, l’uso delle terre e l’incisività della focheggiatura fanno di ogni pezzo un unicum irripetibile”;  i materiali, dai colori alle colle, sono naturali, di origine animale o vegetale.

Del resto, l’ispirazione che porta a realizzare la maschera senza alcun bozzetto viene dalla natura silvo-pastorale del territorio, ed è significativo che anche i suoi componenti materiali restino in questo ambito, lo stesso nel quale sono sorte le storie fantastiche di cui la maschera è la rappresentazione nei riti carnascialeschi lucani.

I riti popolari del carnevale  lucano  

Nella “Dipendenza”  al pianterreno della Casina delle Civette vediamo grandi  pannelli con le  maschere, concernenti  il paese natale, Aliano, poi Tricarico e Montecagnano, i gruppi di maschere hanno ciascuno un nome ed evocano i riti carnascialeschi dei rispettivi paesi, la curatrice ne fornisce immagini molto vive, sono protagoniste non solo le maschere ma l’intero “travestimento”.  

Ad Aliano, gli uomini oltre alla maschera portano il “cappellone” fatto di strisce di carta colorata, mutandoni fino alle caviglie e una maglia, uno scialle o foulard sulle spalle con una serie di piccoli campanelli usati per le capre che copre il busto, poi un piccolo frustino di pelle per colpire simbolicamente gli astanti, in modo da farli partecipare alla sfilata; le mani sono guantate, si mantiene in incognito l’identità del figurante, se si può chiamare così, e per questo la preparazione della maschera avviene in segreto e si rinnova ogni anno, al massimo si scambia con un amico nella più assoluta riservatezza. Le sfilate terminano con una farsa teatrale, detta “Frase”, che porta l’attualità in una manifestazione che viene dal passato, vengono evocati in chiave comica i fatti avvenuti nell’anno trascorso. Come nella comicità circense, la farsa è accompagnata dal dolore, al termine viene processato il Carnevale  che muore nel pianto sconsolato della moglie “Quaremma”. 


Nel Carnevale di Tricarico, il più noto insieme a quello di Aliano, gli uomini si travestono soprattutto da animali, evocando la millenaria transumanza, in particolare da mucche con costumi bianchi, e da tori con costumi neri. Anche qui un cappello a larghe falde, che nella circostanza è adornato con nastri di stoffa che arrivano fino alle caviglie, dai colori brillanti  per la mucca, neri e rossi per il toro. Il suono dei campanacci scandisce il ritmo della sfilata, nella quale viene simulato un accoppiamento simbolico dei tori con le mucche. C’è un collegamento religioso, la festa inizia il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, inoltre nella domenica prima del martedì grasso si celebra una messa in onore del santo e in ambedue le circostanze la sfilata in paese inizia dopo aver fatto tre giri intorno alla chiesa. Anche a Tricarico come ad Aliano e a Teana, la festa termina con il processo al Carnevale. 

A Montescaglione la morte, che aleggia nel finale tragico del processo e dell’uccisione del Carnevale, viene evocata nella sfilata con la personificazione, nella figura di “U Fus”, il “Fuso”, della parca che fila il destino della vita; ma c’è anche il rinnovamento della vita nella figura del “Carnevalicchio”, in fasce, tra le braccia di “Quaremma”, moglie del vecchio “Carnevalone”, vestita di nero. In  questo  carnevale vi sono anche le figure più temute  che spaventano i bambini minacciando di cucire loro la bocca se non sono educati, il nome è conseguente, “Cucibocca”, hanno lunghe barbe, un mantello e un grande ago. Sono per lo più giovani coloro che impersonano queste figure, e i costumi sono soprattutto di carta e cartone da materiale riciclato.

Questi sono tre importanti carnevali  delle tradizioni lucane, ma vi sono anche quelli, altrettanto caratteristici, di Teana e Satriano, Cirigliano, Lavella  e San Mauro Forte, gli 8 paesi  che dal gennaio 2008 formano la “Rete Carnevali e Maschere della Lucania a valenza antropologica e culturale”. Ci siamo limitati a descrivere  quelli che abbiamo visto evocati nella “Dipendenza” della Casina delle Civette, con alcuni figuranti in costume che hanno vivacizzato la presentazione,  riportando  alcuni momenti caratteristici del folklore carnascialesco per confermare quanto ha detto l’artista, che la forza delle maschere risiede nella loro presenza attiva in queste feste tuttora molto seguite e vissute. 

Le sensazioni suscitate dalla mostra

Così la curatrice: “Gli esseri variopinti creati dall’artista trasmettono a chi li osserva tutte le sensazioni  accumulate in anni di studio, di osservazione ed analisi della natura, di ascolto paziente, tutti elementi che gli hanno permesso di accumulare storie. Attraverso i volti umani e ferini restituisce emozioni e sensazioni, racconta di magia, d’amore, di paura, di colori e materiali antichi e semplici ma, allo stesso tempo, attualissimi nel loro riuso”.

E questo avviene in modo particolarmente suggestivo nella cornice della Casina delle Civette, dove si sentono presenze magiche nell’immersione nella natura con gli animali simbolicamente riprodotti  nel giardino e nelle vetrate. Per questo la Massafra può concludere così la sua colta presentazione della mostra di Nicola Toce: “Le sue maschere abitano lo spazio del Museo e della Dipendenza come opere d’arte autonome, se pur legate a un passato lontano. Esse tracciano un percorso di misteriosi richiami formali e creativi con le decorazioni presenti fuori e dentro l’edificio, attraverso una serie di echi silenziosi carichi di potere sacrale, capaci di stimolare nello spettatore inquietudini e turbamento”.

Abbiamo provato anche noi queste sensazioni fno a quando le vorticose piroette della danzatrice accompagnata dalla musica del complesso folcloristico lucano ci hanno riportato  nella dimensione ludica che è l’altra faccia del carnevale, come anche della vita.

Info

Museo di Villa Torlonia, Casina delle Civette, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso alla Casina delle Civette intero euro 5,00, ridotto euro 4,00, per i residenti a Roma Capitale  1 euro in meno e ingresso gratuito la prima domenica del mese. Info 060608, 347.8285211.Catalogo  “Il Mito rivisitato. Le maschere arcaiche della Basilicata di Nicola Toce”,  a cura di Framcesca Romana Uccella, De Luca Editori d’Arte, gennaio 2019, pp. 124, formato  16,5 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I nostri articoli sulle precedenti mostre alla Casina delle Civette, citati nel testo, sono usciti in questo sito: nel 2017, per la collettiva sulle  “Civette” il 15 marzo,  e per le personali di Wal, “Sculture ludiche di putti”  il 15 luglio, di  Annalia Amedeo, “Sinestesie ceramiche”  il 30 novembre; nel 2018 per le personali di Piero Gentili, “Soglie di luce” l’8 marzo,  di Paolo Martellotti, “Bosco magico” edi Vittorio Fava, “Libri d’artista”  il 23 agosto.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Casina delle Civette alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.   Le prime 2 immagini e la terz’ultima mostrano dei figuranti in costumi caratteristici del carnevale lucano, l’ immagine di chiusura il  ballo della danzatrice accomapgnata dal  gruppo folcloristico; le altre 11 immagini, le Maschere arcaiche di Nicola Toce.  

Ritratti di poesia, la poesia diventa amore, al Tempio di Adriano

di Romano Maria Levante 

Al Tempio di Adriano a Roma, il 15 febbraio 2019,  si è svolta la 13^ edizione dell’annuale maratona poetica “Ritratti di poesia”,  promossa  dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, evoluzione della Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, oltre tale confine,  nel logo il Terzo Pilastro segna la direttrice tra gli altri due, quali colonne d’Ercole da superare verso il planisfero. Realizzata dalla Fondazione Cultura Arte, emanazione diretta della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, a cura di Vincenzo Mascolo, da sempre organizzatore e conduttore che si alterna con altri intervistatori nei colloqui con i poeti, e intervista gli editori e gli ospiti particolari. Il presidente della Fondazione Emmanuele F. M. Emanuele ha introdotto e conferito i due Premi “Ritratti di poesia” a livello nazionale e internazionale. La scenografia – con le mani aperte  nel proscenio e nella  forma della poltrona per i poeti, come  nelle installazioni ai margini della sala – esprime il motivo di fondo della poesia che si apre alla solidarietà per i malati con opere dell’artista cinese Liu Zi Xia, dopo  gli ingranaggi ingigantiti degli orologi di Enrico Miglio che  nella passata manifestazione segnavano la corsa del tempo. 

Emmanuele F. M. Emanuele presenta il risultato del Premio Internazionale “Ritratti di poesia”, a sin. Vincenzo Mascolo 

Il giorno dopo San Valentino, la festa degli innamorati,  è venuta la maratona poetica, la festa dei poeti. Questa circostanza ci  ha fatto tornare alla mente una vecchia canzone, “Quando l’amore diventa poesia”. Ma le parole del presidente Emanuele, ideatore dei “Ritratti di poesia” nel 2006 e appassionato realizzatore delle 13 edizioni con la sua Fondazione, hanno reso reversibile l’assunto della canzone: ci siamo trovati dinanzi al reciproco, “quando la poesia diventa amore”.

La poesia diventa amore per i deboli e i malati

Ma non si tratta dell’amore di quella canzone e di tante altre, che si può dire scontato in quanto versi  romantici sono stati da sempre indirizzati alla persona amata,  e non serve ripensare al “dolce stil novo”  tanto l’amore poetico  è diffuso, anche se nella poesia contemporanea sono altri i motivi  prevalenti, almeno a stare al vasto campionario esibito anche  nell’attuale maratona. 

E’  un altro amore quello manifestato dal prof. Emanuele con le sue sentite parole, l’amore per chi soffre, è debole e indifeso, l’amore per il malato a fianco del quale ha mobilitato da molto tempo le iniziative benefiche proprie e della Fondazione, e ora anche la forza della poesia. 

Premio internazionale Fondazione Terzo Pilastro Ritratti di poesia”, la consegna del premio da parte del prof. Emanuele alla poetessa  Ingrid de Kock, del Sudafrica 

Forza consolatrice ma anche forza  per aiutare, assistere, non lasciare soli.  Le iniziative di natura culturale e sociale legate alla poesia, che Emanuele ha citato, oltre all’elevato valore umanitario ne  evidenziano  ulteriormente la pervasività,  ponendo in  collegamento la poesia con la scienza e la medicina, un legame inedito dopo quelli già ampiamente esplorati con le altre arti, dalla danza alla pittura e soprattutto alla musica cui la maratona ha sempre dedicato indimenticabili “performance”. 

Per il legame con la medicina è stato presentato, da Emanuele con Vincenzo Ruta, della Fondazione Sanità e Ricerca, il “Piccolo dizionario della cura”, coordinato da Vincenzo Mascolo, 42 parole diverse di interesse medico e umano, due ogni lettera dell’alfabeto,  interpretate da 42 poeti i cui versi  fanno sentire il valore della cura, che non va mai sottovalutato anche nei malati  inguaribili, pur in fase terminale ai quali, insieme ai  non autosufficienti,   la Fondazione ora citata dedica tutta l’assistenza, anzi la “cura” necessaria con il suo Centro per le cure  palliative e l’annesso Hospice, il cui ventennio di attività viene celebrato con il dizionario: quasi le nozze d‘argento della cura ai presunti “incurabili”, cementate con la poesia.

“Piccolo dizionario della cura”, il  presidente Emanuele  e Vittorio Ruta, presidente della Fondazione Sanità e Ricerca (alla sua sin.) lo presentano con Vincenzo Mascolo

Non sorprende che se ne sia fatto promotore il presidente Emanuele, dopo aver promosso le nozze tra arte e poesia, sempre con iniziative concrete, nella sua natura di imprenditore congiunta  a quella di  poeta e di  mecenate dell’arte. Ha citato il suo impegno assistenziale con  importanti attività sul fronte ospedaliero, noi vogliamo ricordarne la caratura di poeta  espressa in una nutrita serie di libri di poesie  con premi e importanti riconoscimenti. E,  riguardo all’arte, in aggiunta al suo mecenatismo,  la magistrale teorizzazione dei rapporti  tra “Arte e finanza”,  un trattato del  2012-15 in cui ha messo al servizio dell’arte la sua alta competenza  nel campo finanziario di docente in diverse università, autore di molti testi tra cui un trattato di  Scienza delle finanze  e nell’economia aziendale di consigliere di amministrazione di tante aziende e presidente di una delle maggiori Fondazioni bancarie, quella della Cassa di Risparmio di Roma;  ricordiamo ancora il suo intervento come vicepresidente dell’ACRI, Associazione Casse di Risparmio Italiane e presidente della Fondazione Roma, nel seminario Censis-Unioncamere agli Horti Sallustiani del 2 aprile 2009 sulle iniziative nel territorio per resistere alla crisi economica da poco iniziata, nel quale citò gli  investimenti nel 2008 delle Fondazioni rappresentate,  1.715 milioni di euro, di cui 500 nella cultura, più che in ogni altra singola destinazione. Per l’imprenditorialità nell’arte si pensi alle Presidenze degli Enti di gestione delle maggiori sedi, Scuderie del Quirinale e Palazzo Esposizioni, Palazzo Cipolla e Palazzo Sciarra, le ultime due della Fondazione Arte Museo, per citare solo alcune delle sue numerose posizioni di vertice in questo campo. 

“La musica, la poesia”,  il compositore  Michele Sganga al pianoforteaccompagna il baritono Riccardo Primitivo Fiorucci  

In un certo senso la sua impostazione di fare della poesia il centro e il motore di una serie di collegamenti con altre branche dell’arte, della cultura e della vita nasce dal  proprio vissuto personale, dall’averlo messo in pratica per una tendenza naturale, prima di farne oggetto di attività e iniziative a carattere imprenditoriale in cui ha cercato di unire privato e pubblico in una feconda collaborazione considerando sempre l’arte e la cultura come un patrimonio da valorizzare sul piano economico  e come un flusso di energie da mobilitare  per trasformarle in risorse diffuse sul territorio da  sviluppare costantemente per la crescita economica e sociale e non solo culturale.

Poesia e musica

Oltre a questa  novità, che potrebbe preludere ad  ulteriori sviluppi, c’è stato qualcos’altro  di nuovo, anzi d’antico… Non nel sole,  bensì nella resa spettacolare della maratona, con due concerti di mezz’ora ognuno nel pomeriggio, a  celebrare il rapporto della poesia con la musica. Con qualcosa di “antico” perché fino a qualche anno fa la maratona terminava con un concerto di noti cantanti,  ricordiamo Lucio Dalla, Francesco de Gregori e Fiorella Mannoia. “Sono solo canzonette” qualcuno poteva dire con Bennato, ma non era così assolutamente, il valore canoro era impreziosito dalle  interviste sul significato della poesia con i cantautori che si aprivano a confidenze inedite su come nascevano i testi delle loro canzoni. 

“La musica, la poesia”, la compositrice Silvia Colasanti  intervistata da Vincenzo Mascolo prima dell’esibizione del Quartetto Guadagnini (a sin.) 

Qualcosa di “nuovo” perché  si è trattato di  melodie classiche e sinfoniche ispirate da poesie: nelle due parti della sezione “La musica,  la poesia”  sono state presentate due composizioni musicali: di Michele Sganga  ispirata alla poesia di Ocean Vuong, con l’autore al pianoforte, ha cantato il baritono Riccardo Primitivo Fiorucci; di  Silvia Colasanti , ispirata a diverse poesie, interpretata dal Quartetto Guadagnini, di soli archi. Dalle ore 16 alle 16,30 e dalle 18 alle 18,30  nella sala del Tempio di Adriano si è riversata l’onda di note musicali ispirate direttamente  dai versi poetici.

Non solo note, “Le immagini, la musica, la poesia” sono state,  nella mattinata,  tema dell’incontro con l’artista irlandese Clare Langan,  cui si deve la poesia cinematografica,  ha al suo attivo un carnet di successi, i suoi cortometraggi premiati in Germania nel 2007  e in Francia nel 2014, il suo film “Flight from the city” premiato alla Biennale di Francoforte del 2015 è stato scelto dal compositore con una “nomination”  all’Oscar, Johann Johannsson, per lanciare la sua opera musicale “Orphée”. Sono state  proiettate delle immagini suggestive delle sue creazioni, con una installazione video ai margini della sala, il suo cinema poetico tratta temi esistenziali, esplorando la condizione  umana nel mondo contemporaneo. 

“La lingua, le lingue”,  Marcello Marciani recita le sue poesie in dialetto abruzzese

Poesia dialettale  e poesia sconfinata a livello internazionale

Nel pomeriggio, prima dei concerti, il poeta Vincenzo Mastropirro ha accompagnato la recitazione delle proprie poesie in dialetto pugliese con un assolo di flauto ad esse ispirato; mentre la sudafricana Tania Haberland  l’ha accompagnata con un canto dolcissimo e armoniose risonanze;  e la cilena Violeta Medina ha insistito sulla “reiterazione”,  più che musica suoni  onomatopeici e immagini sullo schermo, con lei a piedi scalzi, un calice di vino rosso e una mimica pittoresca.

Mastropirro  si è esibito nella sezione “La lingua, le lingue”, dedicata alla poesia dialettale,  prima di lui  Marcello Marciani ha recitato le proprie poesie in dialetto abruzzese  con enfasi e trasporto; più avanti  Isabella Panfido ha recitato la propria trasposizione in dialetto veneziano dei sonetti di Shakesperare  e Rosanna Bazzano analoga trasposizione, questa volta dei versi di  Anna Achmatova, in dialetto napoletano. Altra contaminazione interessante e innovativa, poesie dialettali ispirate a mostri sacri stranieri, ricordiamo lo scorso anno le poesie ispirate a celebri dipinti.

La lingua, le lingue”, Vincenzo Mastropirro nell’introduzione con il flauto alle sue poesie recitate in dialetto pugliese

La Haberland e la Medina sono intervenute nella sezione “Poesia sconfinata”, dedicata ad  importanti poeti stranieri  contemporanei che anche quest’anno hanno dato alla maratona poetica la patina internazionale voluta espressamente dal presidente Emanuele, cosa che ha fatto diventare i “Ritratti di poesia” romani un evento atteso e altamente apprezzato nel mondo.  Nelle magistrali alternanze di interventi poetici calibrati da un contatempo, sono saliti alla ribalta i  gallesi Patrick McGuinnes Gwyneth Lewis,  e la britannica Kate Tempest, con la quale si è chiusa la manifestazione poco prima delle ore 20.  Più che la  “tempesta” del  cognome, è rimasta la musicalità dei suoi versi che, come per tutti i poeti stranieri, sono stati recitati nella propria lingua, sempre con la traduzione italiana proiettata sulla schermo per una migliore comprensione del pubblico. Per i 5  poeti della “Poesia sconfinata”, intervista preliminare da parte di coloro che hanno tradotto le loro poesie: un compito di natura poetica  la traduzione, trattandosi di rendere in italiano il ritmo della poesia, e non solo il significato delle parole come nelle traduzioni in prosa. Ecco i nomi dei traduttori-intervistatori nell’ordine in cui abbiamo citato i rispettivi poeti:  Dome Buffaro e Laura Pugno, Giorgia Sensi Graziani, Paola del Zoppo e Riccardo Duranti. 

“La lingua, le lingue”,Rosanna Bazzano recita Anna Achmatova in dialetto napoletano

La poesia italiana e la poesia dei giovani

Oltre che tra le varie parti della stessa sezione l’alternanza c’è stata anche tra le diverse sezioni, vivacizzando la “maratona” con il continuo cambio di ritmo, in particolare tra “Poesia sconfinata”, “La lingua, le lingue” e la sezione di cui ancora non abbiamo parlato, la più nutrita con i poeti italiani:  “Di penna in penna”, divisa in 7 parti – 2 nel mattino e 5 nel pomeriggio – nelle quali hanno recitato i propri componimenti  15 poeti, anche loro dopo un breve quanto eloquente colloquio sui motivi e i contenuti della loro espressione poetica con intervistatori tra i quali l’onnipresente Vincenzo Mascolo.

I poeti, nell’ordine di apparizione nelle diverse parti della sezione, sono:  Valerio Grutt, Giulia Marini ed Eleonora Rimolo; Laura Accerboni, Francesca del Moro, Elisabetta Destasio, Marco Massimiliano Lenzi;  Paolo Carlucci e Giulia Perroni; Paolo Fabrizio Iacuzzi e Guido Mazzoni; Alberto Bertoni e Massimo Morasso; Tiziano Scarpa; Tiziano Rossi. 

“Poesia sconfinata”,  Tania Haberland del Sudafrica

Non si è avuto soltanto tutto questo,  e sarebbe già molto, l’orizzonte poetico è stato osservato, come nelle passate edizioni, anche sotto l’aspetto editoriale nella sezione “Idee di carta”, divisa in tre parti nella tarda mattinata, in cui Vincenzo Mascolo ha discusso con Franco Buffoni, direttore  della collana “Lyra giovani” di Interlinea; con Gianni Montieri della rivista “The FLR – The Florentine Literary Review”, con Nicola Bultrini e Mauro Cicarè per “La grande adunanza”, Capire Edizioni.

Tre modi molto diversi di promuovere la poesia: il primo con  una collana riservata ai giovani che intendano esprimersi in modo poetico, “il futuro della lingua è in poesia” è il motto, uscite periodiche di libri di nuovi poeti, due di loro, Jacopo Raimonda e Julian Zhara hanno letto loro poesie; il secondo con  una rivista letteraria  bilingue italiano-inglese con racconti e poesie di autori italiani contemporanei, dedicata ogni volta a una parola chiave sull’Italia; il terzo con una “graphic novel”, racconto illustrato sulla persistenza della poesia anche nel deserto culturale del futuro portato da una tecnologia esasperata che affidasse  la comunicazioni solo a immagini di video onnipresenti.

“Poesia sconfinata”, Violeta Medina del Cile

Viene da pensare che il “Piccolo Museo della poesia”, presentato appena prima della “grande adunanza” al termine della mattinata, sia una risposta data alla temuta sparizione dei libri e della carta stampata, mediante la sua  collezione minuziosa dei testi della poesia italiana del Novecento con incursioni anche nei grandi poeti del  passato, e la connessa raccolta di libri e antologie, riviste e lettere, quadri e sculture sulla poesia, per cui diventa una galleria d’srte. Si trova a  Piacenza, il direttore Massimo Silvotti e la direttrice didattica Sabrina De Canio  rassicurano l’intervistatore Mascolo che oltre alla conservazione c’è il dinamismo delle iniziative innovative in Italia e all’estero con mostre, “performance” e manifestazioni in cui la poesia è unita spesso ad altre arti, come nella Mostra di Poesia, pittura e scultura a Lucca e di Pittura e poesia a Milano.

Ai giovani, come avviene da quando sono state interessate le scuole ai “Ritratti di poesia”, e sono già molti anni, è  dedicata l’apertura della maratona poetica con la sezione “Caro poeta” che in ogni edizione vede gli studenti di alcuni istituti di Roma incontrare poeti affermati e recitare i loro tentativi poetici davanti a loro con una platea di compagni particolarmente calorosa. I poeti impegnati nell’incontro con i giovani sono stati Franco Buffoni, Terry Ulivi ed Elio Pecora, gli studenti sono venuti dai licei romani N. Machiavelli, G De Sanctis e Convitto Nazionale V. E. II. 

“Poesia sconfinata”, Patrick McGuinness del Galles (U.K) 

Neppure quest’anno c’è stato il “Poetry Slam”, la gara poetica di giovani “arbitrata” da Lello Voce tra il tifo da curva calcistica dei compagni, ma la premiazione “Ritratti di poesia 280”, Premio nazionale ed europeo riferito alla dimensione di caratteri degli attuali “social network”, fino alla scorsa edizione i caratteri di “Twitter” erano 140, ora sono raddoppiati; giuria composta da Claudio Damiani, Giulia Martini, Giovanna Rosadini. E’ un’altra prova della resistenza della poesia anche rispetto alla velocità e brevità indotta dalle  nuove forme comunicative predilette dai giovani, cui riesce ad  adattarsi in modo costruttivo. 

Da “L’Infinito Infinito” di Leopardi, all’omaggio alla poesia di  Olmi

Subito dopo la recita poetica degli studenti  in “Caro poeta”, una grande sorpresa, “L’Infinito infinito”, che fa “naufragare tra voci e silenzi”, protagonista Luca Mauceri, attore musicista che a contatto con “l’immaginario potentissimo e vibrante”  dei ragazzi ha visto nell’infinito leopardiano “un pretesto e mezzo di ricerca espressiva libera e incondizionata, viaggio  poetico e formativo alla ricerca  di sé”. La “performance” emozionante,  con  Niccolò d’Ottavio e Tommaso Lo Cascio, Maria Chiara Orti, Davide Ronzoni, e Alice Tempesta, tra inquietudini e quiete, porta al dolce naufragio finale nel mare della memoria in una  suggestione che coinvolge tutti, giovani e non giovani. 

“Di penna in penna”, Giulia Martini

Con il solo intermezzo della citata premiazione alla poesia nella dimensione “Twitter”, un’altra sorpresa emozionante, la presentazione del frammento di una delle ultime interviste di Ermanno Olmi, rilasciata a Fabio Falzone, in cui il celebre regista, parlando del progetto di un nuovo film,  afferma che “Nessuna arma può vincere la poesia”.  Le sue parole risuonano nella sala in presenza di Elisabetta Olmi come uno straordinario omaggio alla poesia, che  per lui è “ascolto, gioia, curiosità” e soprattutto un modo per capire “l’opportunità che l’uomo ha di vivere la propria esistenza”. Dette da un regista così sensibile, che ha lasciato un segno profondo con il suo cinema poetico, sono parole la cui intensità fa riflettere.

I vincitori dei premi “Ritratti di poesia” della Fondazione Terzo Pilastro

I momenti  “clou” della maratona poetica si sono avuti con il conferimento dei due Premi della Fondazione Terzo Pilastro –  Ritratti di poesia:  a metà mattinata  il Premio nazionale a Corrado Calabrò; a metà  pomeriggio il Premio internazionale a Ingrid  de  Kok,  del Sudafrica. Entrambi i premi  sono stati consegnati da Emanuele come presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale oltre che ideatore e promotore, che ha tratteggiato la personalità dei due premiati e i rispettivi pregi poetici, prima della  lettura delle loro poesie nell’ascolto attento dell’uditorio. Ne diamo uno scampolo riportando una loro poesia, due momenti di turbamento molto diversi.   

“Di penna in penna”, Francesca Del Moro 

Di Corrado Calabrò, tratta da “Una vita per il suo verso”, Mondadori 2002,  “Ma più che mai…”: “Dall’inizio mi manchi,/come l’acqua alla sete del deserto.// Mi manchi quando ti cammino a fianco:/ non vanno nelle stessa direzione,/ se non per breve tratto,/ due treni su binari paralleli.// Mi manchi quando sono con un’altra,/ come manca la freccia alla ferita/ che per la sua estrazione si dissangua.//  Ogni giorno mi manchi, e in ogni dove/ perché all’assenza di te/ non c’è un altrove”.

Ed ora, di Ingrid de Kok, tratta da “Other Signs”, Kwela Books/Snailpress, 2011, traduzione di Paola Splendore, “Tutto considerato”: “Non si poteva fare molto di più/ Di quello che è stato fatto// Nessuno è colpevole/ Solo la normale indifferenza// Poteva andare peggio/ Tutto distrutto// Famiglie intere sepolte/ Lunghe file di rifugiati// Incendi da spegnere/ Inondazioni da governare//  Letti di ossa/ Crateri// Disastri di più vasta scala/ Se confrontati a questa // Piccola morte/ Quasi senza peso// Tutto considerato”. 

“Di penna in penna”, Alberto Bertoni 

Dalle visioni poetiche di  Pecora ed Emanuele all’omaggio a  Marco Pantani

Finali sconsolati, il primo  a livello individuale, il secondo collettivo. A queste visioni vogliamo accostare quelle che aprono il catalogo della rassegna dove è riportata  una poesia per ogni poeta, sono nelle  poesie di  Emanuele, il presidente della Fondazione, e di Elio Pecora di “Caro Poeta”. 

Di Elio Pecora, da “Rifrazioni”, Lo Specchio Mondadori, 2013: “Sono vivi della loro piccola vita/ questi che vanno in folla/ l’uno all’altro sconosciuti,/ stremati eppure mai fermi/ dentro recinti di mura/ che chiudono altri recinti.// Dove la tua contentezza/ o tu che adduci/ verso mete insicure/ mentre i sogni della mente/ ti conducono altrove?/ Quale pena può lasciarti/  se continui a rifiutare/ la norma che ti vuole/ fragile e breve?// Ah, nel riquadro del cortile/ la mappa dei pulviscoli accesi,/ il Cigno, Sirio, Boothe:/ con quale voce chiamarli!// L’occhio mai stanco di perdersi…”.

“Idee di carta”,il direttore della collana  “Lyra giovani” di Interlinea, Franco Buffoni, con Vincenzo Mascolo

E, per concludere,  di Emmanuele F. M. Emanuele, da  “Pietre e vento”, Pagine, 2017: “La magia del vento”: “Il vento/ sfiora il viso dei vecchi/ e li fa sorridere,/ portando loro/ ricordi lontani,/ sfiora il viso dei bambini/ come una carezza,/ corre sulle labbra/ e sugli occhi dei giovani,/ increspa i capelli delle fanciulle./ Il vento è vita/ ed anche memoria/ di ciò  che ha creato/ al momento in cui Dio/ ha dato corpo/ a ciò che ci circonda./ Io di vento ho vissuto, / a lui devo tutto,/ alla sua spinta continua, vitale:/ Il vento viene da non si sa dove/ e va, senza permessi,/ ovunque”. Un vecchio film si intitolava “Il vento non sa leggere”, ma queste parole ci fanno sentire la sua forza rigeneratrice per ogni età e ogni luogo, e se anche non sa leggere sa scrivere la poesia della vita dando sempre un potente stimolo, così Emanuele ha confidato il segreto della propria vitalità. 

Terminerebbe qui il nostro racconto della maratona poetica se non sentissimo il bisogno irrefrenabile di confidare  un qualcosa di imperscrutabile che ci ha preso nell’intimo allorché abbiamo ascoltato  nella 4^ sezione di “Di penna in penna”, a metà pomeriggio, Paolo Fabrizio Iacuzzi recitare, con altre poesie da lui scritte,  una Poesia su Marco Pantani, da “Folla delle vene”, Corsiero Editore 2018, di cui riportiamo versi particolarmente intensi: “A cosa avrà creduto nella salita Marco?/ In sella a quella sua bicicletta high-tech/ Sul Mont Ventoux nella pietra oppure/ sulla più alta vetta di se stesso/ Avrà sfidato l’orizzonte con lo sguardo perso./ E la gloria si sarà avvicinata piano piano./ Pant pant…// Ma poi tornando su/ in bicicletta sfila davanti a tutta una sola/ desolata finitezza./ Si concede l’ultima possibilità estrema/ indugiando davanti a quella fiamma viva/ Piegato di lato non può rialzarsi in sella./ Girato di tre quarti sul triclino vede già/ la polvere negli occhi. Vede già che non/ c’è posto per nessun altro uomo sul letto./ Tira le coperte e tira il lenzuolo sugli occhi./ Scopre il viso se la madre ora lo rincalza”. E’ salito “sulla più alta vetta di se stesso”, e “la gloria si sarà avvicinata piano piano”, poi un autentico martirio. 

“Piccolo Museo della Poesia”, il direttore Massimo Silvotti e la direttrice didattica  Sabrina De Canuio, con Vincenzo Mascolo

La nostra emozione è dovuta al fatto che avevamo visto di recente celebrata dal pittore Ennio Calabria la vicenda esaltante e insieme tragica di Pantani, raffigurato sulla sua bicicletta in posizione eretta con le braccia aperte nel segno della vittoria che diventa la sua crocifissione nel drammatico epilogo di una storia epica, in un ritratto del 2008 dal titolo altrettanto espressivo dell’immagine, “Un volto e il tempo. Pantani nell’accedere del ricordo”. Ebbene, notiamo che sia la mostra   “Ennio Calabria”, al Palazzo Cipolla fino al 27 gennaio 2019, sia i “Ritratti  di poesia” del 15 febbraio sono merito del prof. Emanuele, che con la Fondazione presieduta ha riportato alla ribalta il pittore e il poeta nel loro toccante ricordo di Pantani. 

Siamo sicuri che per uno sportivo di tante discipline come Emmanuele F. M. Emanuele – che ha praticato in modo agonistico scherma e canottaggio con risultati di eccellenza, e anche  pallanuoto e automobilismo, ha avuto ruoli dirigenziali di vertice nella scherma e nel rugby, è socio onorario di federazioni  di scherma e rugby, di circoli di canottaggio e vela, equitazione e caccia, golf e rugby  – sia motivo di soddisfazione e di orgoglio l’omaggio a un grande campione con la forza evocatrice dell’arte e della poesia. Un omaggio, a 15 anni dalla sua scomparsa, attraverso le iniziative di un esponente così qualificato dell’intero mondo dello sport,  per “risarcire” dall’oblio che le  istituzioni sembrano riservare a Pantani, del quale invece gli appassionati ricordano sempre con commozione le esaltanti imprese. La sua tragica fine  non potrà farle mai dimenticare, mentre si diradano sempre più le ombre e i misteri con nuove prove che lo vedrebbero quale vittima innocente; anzi, le emozioni  che ha saputo regalate a tutti gli sportivi in una stagione magica per il ciclismo, come l’indimenticabile 1998,  ne rendono mitica l’immagine, e fanno della sua figura di atleta e di uomo un simbolo di volontà ferrea e di  eroismo sfortunato.

Ci piace pensare che le mani aperte, con le quali viene reso visivamente il tema dei “Ritratti di poesia”, lo sono anche nell’applauso e nella carezza al grande campione vittorioso ma crocifisso come nel toccante ritratto di Ennio Calabria.

Il presidente Emanuele, ideatore e realizzatore dei “Ritratti di poesia” e della mostra antologica “Ennio Calabria” 

Info  

Tempio di Adriano, Piazza di Pietra, Roma.  Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale,  Fondazione Cultura Arte,  Ritratti di Poesia. In viaggio con la Poesia”, tredicesima edizione 2006-2019, manifestazione a cura di Vincenzo Mascolo, 15 febbraio 2019, pp.70, formato 20 x 20. Per le manifestazioni degli anni precedenti, cfr. i nostri articoli: in questo sito, 2018, 1° marzo“Ritratti di poesia, 1. La 12^ maratona poetica, al Tempio di Adriano”, e 5 marzo “Ritratti di poesia”, 2. Poesia italia e straniera nell’annuale rassegna, al Tempio di Adriano”, 2017. 13 marzo “Ritratti di poesia, 11^ maratona poetica al Tempio di Adriano”, 2016, 19 febbraio “Ritratti di poesia, 10^ maratona poetica al Tempio di Adriano”,  2013, 15  febbraio, “Ritratti di poesia, al Tempio di Adriano con la Fondazione Roma”; in “fotografia.guidaconsumatore.com”, 2012, 30 gennaio “Ritratti di poesia anche fotografici al Tempio di Adriano”, e in “cultura.inabruzzo.it”, 2011, 9 maggio “‘Ritratti di poesia’  al Tempio di Adriano” (questi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito); per la mostra di “Ennio Calabria”, citata al termine, cfr., in questo sito, i nostri articoli il 31 dicembre 2017, 4 e 10 gennaio 2018; per l’intervento di Emanuele nel seminario Censis-Unioncamere citato nel testo, v.  il nostro articolo “L’Italia che combatte la crisi: cosa si fa sul territorio”, in cultura.inabruzzo.it del 17 aprile 2009  (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

L‘installazione che ripete il motivo scenografico del palco con le mani aperte, di Liu Zi Xia

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Tempio di Adriano nel corso della manifestazione, a parte l’ultima, si ringrazia la “Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale” e la “Fondazione Cultura Arte” per l’opportunità offerta. Nelle immagini in campo lungo con i poeti al microfono, chi li ha intervistati nel colloquio preliminare è seduto tranne che con McGuinnes, dove è al suo fianco. La sequenza di immagini, ad eccezione delle due di apertura, è nell’ordine in cui i rispettivi momenti sono citati nel testo. In apertura,  il presidente della Fondazione promotrice, Emmanuele F. M. Emanuele,  presenta la vincitrice  del premio Internazionale “Ritratti di poesia”, a sinistra Vincenzo Mascolo;  seguono, la consegna del premio dal prof. Emanuele alla poetessa  Ingrid de Kock, del Sudafrica, e la presentazione del “Piccolo dizionario della cura”,sempre  del  presidente Emanuele e di Vittorio Ruta, presidente della Fondazione Sanità e Ricerca (alla sua dx), con Vincenzo Mascolo; poi, per “La musica, la poesia”,  il compositore  Michele Sganga al pianoforte accompagna il baritono Riccardo Primitivo Fiorucci, e la compositrice Silvia Colasanti  intervistata da Vincenzo Mascolo prima dell’esibizione del Quartetto Guadagnini (a sin.); quindi, per “La lingua, le lingue”,  i poeti dialettali Marcello Marciani in dialetto abruzzese,  Vincenzo Mastropirro in dialetto pugliese nell’introduzione con il flauto, Rosanna Bazzano in dialetto napoletano; inoltre, per la  “Poesia sconfinata”,  i poeti stranierinella loro lingua, Tania Haberland del Sudafrica, Violeta Medina del Cile, Patrick McGuinness del Galles (U.K) e,  per “Di penna in penna”,  i poeti italiani, Giulia Martini,  Francesca Del Moro, Alberto Bertoni; ancora, per “Idee di carta” , il direttore della collana  “Lyra giovani” di Interlinea, Franco Buffoni, con Vincenzo Mascolo, e per il “Piccolo Museo della Poesia”,  il direttore Massimo Silvotti e la direttrice didattica  Sabrina De Canuio con Vincenzo Mascolo; infine, Il presidente Emanuele, ideatore e realizzatore dei “Ritratti di poesia” e della mostra antologica  “Ennio Calabria”, e l‘installazione-che ripete il motivo scenografico del palco con le mani aperte, di Liu Zi Xia; in chiusura, Ennio Calabria, “Un volto e il tempo. Pantani nell’accadere del ricordo”, 2008,  dalla mostra antologica a Palazzo Cipolla, la cui citazione chiude il nostro servizio.

Ennio Calabria, “Un volto e il tempo. Pantani nell’accadere del ricordo”, 2008, dalla mostra antologica a Palazzo Cipolla 

Ovidio, 3. Le “Metamorfosi”, miti e leggende in mostra, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Si conclude la visita alla mostra “Ovidio, amori, miti e altre storie”,  aperta alle Scuderie del Quirinale, dal 17 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019,  con cui terminano le celebrazioni del Bimillenario della morte del poeta. La sua poesia dedicata all’amore viene fatta rivivere  con  250 opere d’arte in cui sono raffigurati miti e leggende resi immortali dai suoi versi. Organizzata da Ales S.p.A.,  presidente e A.D. Mario De Simoni, la mostra è a cura di  Francesca Ghedini, che con Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo, Federica Zagabra ha curato anche il Catalogo edito da Arte,m-L’ERMA.  Alla mostra sono collegati incontri culturali e altre manifestazioni rivolte alle scuole e ai giovani per far meglio conoscere il poeta latino e le opere d’arte a lui ispirate. 

“Gruppo scultoreo di Ganimede con l’aquila’“, prima età imperiale, al centro, dietro sulla parete, Damiano Mazza, “Ratto di Ganimede”1575

Una mostra che celebra un poeta dopo duemila anni dalla morte richiede che venga inquadrata storicamente, soprattutto trattandosi di Ovidio i cui versi sono stati doppiamente trasgressivi:  l’audacia pedagogica dell'”Ars Amatoria”, e la concezione emancipatrice della donna nelle “Heroides” hanno trasgredito l’imperativo moraleggiante imposto ai costumi per frenare una società per certi aspetti gaudente; il coinvolgimento degli dei a livello amatorio in vicende da “pochade” di stampo prettamente umano, ha trasgredito rispetto alla loro sacralità.

Tutto questo è rimarchevole considerando che la severità nei costumi  era imposta dall’imperatore Augusto nel suo programma di moralizzazione, e che gli dei presi a bersaglio dal poeta erano soprattutto Apollo, protettore di Augusto e di Roma, Venere, progenitrice della “gens Iulia”, e perfino il sommo Giove.

Ne abbiamo parlato ampiamente nella parte iniziale di presentazione, mentre nella seconda abbiamo percorso il primo tratto della vasta galleria di opere d’arte in cui si esprime quanto appena ricordato, con le austere immagini statuarie  di Augusto e della moglie Livia, anche lei  moraleggiante e severa, mentre i busti delle due Giulie, figlia e  nipote dell’imperatore, ricordano la loro punizione. Poi Venere, dalla sensuale statua “Callipigia” agli amori con Marte sorpresi da Vulcano con l’irrisione degli altri dei, Apollo visto negli insuccessi amorosi con Dafne, e nella furia vendicativa, fino a Giove, nelle  trasformazioni da predatore sessuale con Leda ed  Europa, Io e Ganimede. 

“Affreschi con Satiro e Monade”60-79 d. C. 

Sono le “Metamorfosi” di Ovidio  una fonte di  questi miti e di molti altri, con versi che  hanno ispirato le opere d’arte esposte in mostra, partendo dall’epoca coeva fino al  nostro Rinascimento. Il piano superiore delle “Scuderie”  è riservato a questo suo poema, con stanze dedicate a uno o più miti, rievocati con opere d’arte di tipologia ed epoca diversa, in una cavalcata nel tempo e nell’arte.   

Lo spirito vendicativo degli dei e un altro predatore

Continua la dissacrazione degli dei sotto i due aspetti, l’aspetto amoroso predatorio nei riguardi dei comuni mortali e lo spirito vendicativo che li porta ad imperversare sulle vicende umane.

Questi due spetti li abbiamo riscontrati entrambi nell’Apollo cantato da Ovidio,  dall’insuccesso amoroso nel  vano assalto a Danae che si  trasforma in alloro per sfuggirgli, al supplizio inflitto a Marsia reo di averlo sfidato al suono del flauto, non pago di essere risultato vincitore nella sfida.

Ora lo spirito vendicativo lo troviamo ancora in Apollo, con  Diana. Nel mito delle Niobiadi  sono associati nel fare strage dei figli di Niobe, figlia di Tantalo –  mandato via dall’Olimpo per aver rivelato dei segreti di Giove –  rea di essersi vantata di essere più prolifica, con i suoi 7 figli maschi e le 7 femmine, di  Latona, madre delle due divinità,  che si divisero il crudele compito: Apollo uccise ad uno ad uno i figli maschi, Diana le figlie femmine, e Niobe distrutta dal dolore chiese e ottenne da Giove di essere trasformata in un blocco di marmo, piangente con una fonte.  Le opere dell’epoca esposte nella mostra sono 5 statue, 3 delle quali della metà del I sec. a:C. e 2 del II sec. d.C., tutte rappresentano un figlio o una figlia di Niobe che cercano di sfuggire alle frecce scagliate contro di loro. I 2 intonaci dipinti di Pompei  allargano la scena, l’Affresco del I sec. a. C. mostra la fuga disordinata delle Niobidi  a piedi e a cavallo tra l’indifferenza dei servi a caccia del cinghiale, nell’Affresco del I sec. d. C.  è rappresentato un tripode con imprigionate le sorelle Niobidi trafitte dalle frecce di Diana, .mentre tre sono davanti al tripode, tripodi votivi di Augusto erano nel tempio di Apollo. Dopo 1500 anni Andrea Camassei ha raffigurato la “Strage dei Niobidi”,  dipinto del 1638-39 con a sinistra uno dei figli trafitto e soccorso invano da due donne, a destra Niobe che stringe a sé la figlia più piccola rivolgendosi adirata agli dei vendicatori che incombono dall’alto. 

“Affresco con Venere con lo specchio”, 60-79 d.C. 

Diana è ancora la protagonista  nella prima parte del  mito di Meleagro, quando manda nella Calcide un cinghiale a distruggere i campi e minacciare la vita delle persone per vendicarsi di non aver ricevuto i sacrifici votivi come gli altri dei da parte del padre di Meleagro, Oineo. Meleagro, uno degli argonauti, provetto nel maneggiare la lancia, organizza la caccia al cinghiale con altri cacciatori tra cui Atalanta, la prima a ferirlo, poi è lui a  ucciderlo con la lancia dopo che la bestia ha fatto vittime, e dona il trofeo delle sue spoglie ad Atalanta di cui è invaghito, contro la volontà dei due fratelli della madre Altea che non accettano siano date a una donna contestata anche da altri cacciatori. Nel diverbio, Meleagro li uccide e la madre Altea, per il dolore della perdita dei fratelli ne causa la morte bruciando il tizzone dal quale dipendeva la sua vita secondo la profezia avuta dopo la nascita; poi due sorelle, distrutte dal dolore, sono  trasformate da Diana in due uccelli..    

Sono 4  le opere esposte, con le diverse fasi in successione in una sequenza quasi cinematografica: Nel  “Mosaico con caccia al cinghiale calcedonio”, I sec. a. C,, da Pollenza, Meleagro conficca la lancia uccidendo il cinghiale; poi nell'”Affresco con Meleagro e Atalata”, I sec.d. C.,di Pompei, l’eroe è seduto con le armi e il cinghiale ai suoi piedi rivolto ad Atalanta, alla destra, da lui armata, per darle il trofeo, a sinistra i due fratelli della madre Altea lo guardano scontenti di tale offerta; nei “Rilievi laterali di sarcofago urbano”, 170-180 d. C., nel rilievo destro Altea, spinta da una Erinni che le tira il braccio con il tizzone profetico, lo getta  nel fuoco decretando la morte del figlio, nel rilievo sinistro le due sorelle di Meleagro, Eurimede e Melanippa disperate per la sua morte prima di essere trasformate da Diana, secondo l’ornitomorfosi greca, evocata dai due uccelli in volo.   

“Statua di Niobide che fugge su una roccia”,metà I sec. a. C. 

Dagli dei vendicativi torniamo agli dei predatori che abbiamo già incontrato con Giove anticipando per associazione il mito di Ganimede sebbene le opere a esso ispirate siano al termine della mostra.  

Ed è  predatore Plutone nel “Ratto di Proserpina”, che il dio degli inferi  porta via sul suo carro, dopo aver visto la ninfa, figlia di Cerere, raccogliere i fiori con altre fanciulle. Il mito prosegue con l’intervento di Cerere presso Giove, che la liberò, ma restò in parte legata a Plutone trascorrendo con lui nell’Ade  i sei mesi più freddi e con la madre sulla terra i sei mesi più caldi, la leggenda fa  risalire le quattro stagioni a questa alternanza. 

Le opere d’arte  che vi si sono ispirate mostrano soprattutto la scena di inaudita violenza, nel contrasto tra la dolcezza  della fanciulla inerme che si divincola invano e la brutalità del rapitore che la afferra alla vita.  Così la “Pinax con il ratto di Proserpina”, 300-450 a. C..e la  “Placca” ante 79 a.C., da Pompei, nonché  il “Frammento di sarcofago urbano”  120 d.C. e il bronzo di  epoca rinascimentale,   “Plutone e Proserpina”, 1587. Alquanto diversa l’immagine del dipinto di Hans von Aachen  dello stesso anno del  bronzo, intitolato “Ratto di Proserpina”,  sulla sinistra le compagne ignare guardano altrove,  sulla destra il carro con la fanciulla inerme distesa mentre il rapitore la tiene ferma spronando i cavalli, Il contrasto del biancore del corpo della fanciulla con la figura scura che la porta via è quanto mai espressivo della violenza compiuta. 

“Mosaico con caccia al cinghiale calidonio”, II sec.-inizi I sec. a. C 

L’amore disperato: Adone e Venere, Teseo e Arianna, Ippolito e Fedra, Piramo e Tisbe

Il mito di Adone è quanto mai coinvolgente perché nei versi di Ovidio è sfrondato dalle trame ingarbugliate della leggenda e ridotto all’essenziale, la travolgente passione di Venere – ferita casualmente  dalla freccia di Eros –  per il bellissimo giovane, nato dall’involontaria relazione incestuosa del padre Cinira con la figlia Mirra, invece consapevole, con l’apertura della corteccia dell’albero in cui è stata trasformata Mirra scacciata dal padre.  La dea si dedica totalmente a lui, per seguirlo nella caccia non va più nell’Olimpo, lo mette in guardia dagli animali pericolosi dai quali  non lo proteggerà la sua bellezza, ma non può evitare che venga ferito a morte all’inguine da un cinghiale colpito dalla sua lancia. Disperata si strugge nel pianto, può solo trasformare il sangue dell’amato in un fiore, l’anemone, e le sue lacrime in rose.

Vediamo  l’intera sequenza che inizia con “La nascita di Adone”, di Tiziano, 1508-11, al centro l’albero dalla cui corteccia viene estratto Adone, con tre Naiadi, a sinistra una coppia che allude al concepimento, sulla destra Venere; la nascita è  anche  nella xilografia sul volume a stampa “Metamorphosin, cum Raphaelis  Regii Commentariis” di Ovidio, 1505, al centro, poi le altre fasi  del mito, a sinistra il padre che scaccia Mirra, a destra Adone  che amoreggia con Venere, sullo sfondo un cinghiale che lo ferisce a morte.   

Alla “Morte di Adone”  sono intitolate 3 opere pittoriche, tra il 1620 e il 1650, di Emilio Savonanzi,  Giovan Francesco Gessi e Cornelius Pieter Holsteijn, nelle quali in vario modo il corpo del cacciatore è abbandonato al suolo con Venere attonita sopra di lui; altre 3 dedicate a “Venere e Adone”, dall’ “Affresco” pompeiano di età ellenistica in cui, ferito, si appoggia alla gamba di lei, al dipinto di Josepe de Ribera in cui “Venere scopre il corpo di Adone”, 1637,  scendendo dall’alto sul corpo esanime, a quello di Michele Desubleo, l650, “Venere piange Adone“,  rivolta al cielo come la Madonna addolorata, dal fianco di lui esce il sangue che lei trasformerà in anemone.   

Giovan Francesco Gessi, “Morte di Adone”,1639 

Un dio invece è protagonista di un lieto fine, nel mito di  Teseo, Arianna e Bacco, dopo che l’argonauta, presente anche nel mito di Meleagro, l’ha lasciata sola nell’isola di Nasso, sebbene lei con il suo filo provvidenziale gli avesse  permesso di uscire dal labirinto di Dedalo e uccidere il Minotauro, per poi fuggire insieme ad Atene.  Sarebbe Minerva a volere questo sacrificio, perché il destino dell’eroe si incarna nel rigore augusteo, ma Ovidio segue la via dell’amore, le 5  opere esposte  ispirate ai suoi versi riproducono in vario modo “Teseo che abbandona Arianna”: primo nella sequenza il busto marmoreo, “Arianna dormiente”, 1500, integrazione del gruppo “Arianna addormentata” , con il suo volto immerso nel sonno placido e sognante, lei del tutto ignara.

La “Lastra campana”, seconda metà I sec. d. C. va oltre,   i due  si guardano,  Teseo riflette, lei piange, lui sa che ha il destino segnato;  nel  1° Affresco  di Pompei  del 60-79 d. C. sale sulla nave voltandosi per guardare lei addormentata, con Atena che vigila sulla sua partenza, nel 2° Affresco  la fanciulla guarda mestamente la nave con Teseo che si allontana e un amorino piange. Carlo Saraceni ha dipinto la scena, 1605-08,  in cui lei dopo il risveglio vede la nave allontanarsi e protende le braccia verso il mare, disperata.   

Nella seconda parte del mito l’opposto,  “Bacco trova Arianna”, vediamo la scena riprodotta nell’Affresco di Pompei, “pendant” di quello con “Arianna abbandonata” del 60-79 d. C., in cui il dio, in piedi, la guarda mentre giace addormentata, con i monili e la coltre che viene sollevata da Pan per mostrargli il suo corpo, c’è anche un sileno e un satiro, sullo sfondo il corteo dionisiaco; analoga scena  nel Pannello di un cammeo, inizi I sec. d.C.,  lei dorme ma non è distesa, ha il seno scoperto, con il dio c’è un satiro e degli amorini.  

Affresco con Arianna abbandonata”,60-79 d. C. 

Finalmente Pompeo Batoni in “Bacco e Arianna”, 1773,  rappresenta il momento dell’incontro  e dell’innamoramento, lui  in piedi protende la mano sul suo volto, lei seduta la guarda e si apre a lui,  Eros in alto scocca la freccia d’amore. Teseo non è protagonista negativo soltanto del mito a  lieto fine si Arianna con Bacco, ma anche della tragedia di  Ippolito e Fedra che si conclude con la morte di Ippolito  e della madre Fedra. E’ a forti tinte, pensando che Fedra era figlia di Minosse re di Creta e di Pasifae, la quale si era fatta fecondare dal toro mandato da Poseidone per essere sacrificato e aveva dato alla luce il Minoitauro, poi ucciso da Teseo che aveva abbandonato Arianna sorella di Fedra, andata sposa poi a Teseo!

Ebbene, Fedra si innamora follemente del figliastro Ippolito  per il solito intervento vendicativo di Venere gelosa di Diana preferita dal giovane, e la nutrice per aiutare Fedra  lo rivela al giovane che però  fugge, Fedra per vendicarsi dice  al marito, tornato dall’Ade, che il figliastro le ha usato violenza,  allora Teseo lo espelle da Atene  e chiede  a Poseidone di punirlo, il dio manda dal mare un grosso toro – ancora un toro – che travolge il suo cocchio uccidendolo; Fedra allora si suicida per il rimorso.  

Un Affresco di Ercolano,  60-79 d. C. mostra la nutrice che ne parla a Ippolito, e Fedra fa un gesto erotico, poi  le xilografie di due edizioni di Ovidio degli inizi del 1500, di Venezia e di   Perugia, fino alla fuga e al ferimento del giovane. La “Morte di Ippolito”  la troviamo nella scultura di marmo  di Jean-Baptiste Lemoyne, 1715, e nel dipinto di Joseph Desiré Court, 1825, entrambi mostrano il giovane a terra  morente impigliato alle briglie.   

“Affresco con Fedra e Ippolito”,  60-79 d. C,  

Altrettanto tragico il mito di Piramo e Tisbe, anche se qui è l’innocenza sacrificata all’amore, basta dire che è la storia di Giulietta e Romeo dell’antichità. Due giovani che si amano, osteggiati dai genitori, comunicano attraverso una crepa del muro finché decidono di vedersi di notte sotto un albero; arriva prima lei ma si nasconde in una grotta per sfuggire a una leonessa, perde il velo bianco e la leonessa lo sporca di sangue, giunge Piramo non la trova ma il velo insanguinato gli fa credere che sia morta, si uccide con la spada e lo stesso farà lei quando lo vedrà morto per causa sua, il sangue colorerà di rosso i fiori di gelso. Un  “Affresco con Piramo e Tisbe” di Pompei, 60-79 d. C. mostra lei dinanzi a lui disteso nella morte, con la spada a fianco, un membranaceo  miniato da Stefano degli Azzi e un volume a stampa sulle “Metamorfosi”, di Venezia,  1522,  riassumono la tragedia con  una miniatura e una  xilografia, , mentre il dipinto “Piramo e Tisbe” di Antoniuo Gionina, 1719, riproduce, come l’affresco, lei che sta per uccidersi sopra di lui disteso.  

Fetonte e Icaro nell’attrazione fatale del Sole che li distrugge 

Dal buio al sole, ma è sempre tragedia, non è l’amore a causarla ma il presuntuoso ardore giovanile.  Lo vediamo nei due miti di Fetonte e di Icaro, collegati appunto dalla luce accecante del sole. Fetonte, figlio del Sole e di Climene, non si sente riconosciuto dagli dei e intende dare dimostrazione  della sua ascendenza paterna  guidando il carro del Sole. Lo chiede al padre che non vuole accontentarlo per il grave rischio che correrebbe, neppure Giove può condurre il suo carro, è rischioso per la difficoltà di guidarlo tra le costellazioni agguerrite e le asperità del percorso, ma il ragazzo non rinuncia e il padre Sole cede; avviene ciò che temeva, il ragazzo perde il controllo dei cavalli imbizzarriti, semina distruzioni nel cielo tra le costellazioni e sulla terra con incendi nei boschi, le acque prosciugate, finché  Giove accoglie l’appello della Terra e riunisce gli dei, Sole compreso, prendendo l’unica decisione per fermare la distruzione: con un fulmine abbatte Fetonte e il suo carro impazzito.   

“Affresco con Piramo e Tisbe”, 60-79 d. C. 

Due membranacee su “Ovidio moralizzato” recano miniature sul mito, quella del 1350, di Pierre Bersuire, riproduce la scena, quella del 1315-25, miniata dal Maestro del Roman de Fauvel,  le metamorfosi delle Eliadi in pioppi, abbracciate dalla madre di Fetonte, e del saggio Cicno, che espia colpe altrui, in cigno, con la purificazione nelle acque. Vediamo la  “Caduta di Fetonte”, nell’affresco strappato esposto del 1596-99, di Ludovico Carracci,  è riprodotto il  ragazzo a testa in giù  fuori dal carro rovesciato con i cavalli imbizzarriti.  

Il Sole è protagonista anche del mito di Icaro, cui sono dedicate ben 8 opere esposte nella mostra. Come per Fetonte, la giovane età lo spinge  a rischiare ignorando le raccomandazioni del genitore, in questo caso non ci sono i fulmini di Giove a perderlo, ma i raggi solari che sciolgono la cera usata per unire le penne formando le ali che il padre Dedalo aveva realizzato per fuggire dalla prigionia nel labirinto cui Minosse lo aveva condannato per aver fatto fuggire Teseo con Arianna dopo l’uccisione del Minotauro.  Icaro non rispetta la raccomandazione del padre di seguirlo in volo senza andare vicino alle acque per non appesantire le ali con l’umidità né troppo in alto per evitare il troppo calore, vuole innalzarsi verso il sole i cui raggi sciolgono la cera e lui precipita in mare.

Le raffigurazioni sono le più varie, nel “Cammeo con Dedalo che applica le ali a Icaro”, I sec. a. C., la scena che vediamo anche nel più antico “Cratere a volute apulo a figure rosse”, IV sec. a. C.,, mentre due dipinti mostrano il padre intento a dare al figlio i consigli poi disattesi. Andrea Sacchi in “Dedalo e Icaro”, 1645-48,  li mostra in primissimo piano, Carlo Saraceni in “Volo di Icaro”, 1605-08,  invece da lontano, sull’orlo dello spuntone  dal quale si getteranno per il volo. Saraceni  ha raffigurato negli stessi anni anche “La caduta di Icaro”, con il padre in volo sulle acque che guarda impotente il figlio più in alto che sta precipitando, e il “Seppellimento di Icaro”,  in cui viene vista un’assonanza con la “Deposizione” di Caravaggio. Anche l’ “Affresco con la caduta di icaro”, inizi I sec. d. C., di Pompei, presenta Icaro esanime a terra con  Dedalo ancora in volo.   

Ludovico Carracci, “Caduta di Fetonte” 1596.99 

Ermafrodito e Narciso, fino al trionfo di Ovidio

La galleria espositiva dei miti di Ovidio si conclude con due figure che non solo sono rimaste particolarmente impresse, come Icaro e altre, ma in più sono entrate nel linguaggio comune.

Ermafrodito è diventato il maschio con caratteri femminei, fino ad avere il doppio sesso, come nel mito del figlio di Ermes-Mercurio e di Afrodite-Venere Afrodite – di qui il nome –  di cui si innamorò la ninfa Salmacide vedendolo bellissimo vicino a una fonte, ma fu respinta e appena lui si immerse nelle acque lo seguì  e chiese agli dei di unirli in modo inscindibile, per cui divennero un unico corpo, e quelle acque trasformarono tutti nello stesso modo. La “Statua di Ermafrodito”, copia II sec. d. C. da originale ellenistico, rende appieno i due sessi con le morbide forme femminee “callipigie”, mentre la parte superiore del corpo disteso appare maschile. Invece le altre 3 opere esposte mostrano “Ermafrodito e Salmacide” sulle rive della fonte:  nel dipinto di Carlo Saraceni, 1605-08,  l’adolescente nudo sta per entrare in acqua e respinge la ninfa che gli si avvinghia; nei dipinti del 1610 di Sisto Badalocchio e del 1620-25 di Francesco Albani,  ci sono due figure molto simili ancora sedute  a distanza,  il ragazzo sembra un putto sorpreso, la ninfa è molto aggressiva.

Sisto Badalocchio, “Ermafrodito e Salmacide”, 1610 

Ed ecco Narciso, il  cui mito ha creato un carattere talmente popolare, il narcisismo, che ha fatto  dimenticare la sua origine. Nella versione di Ovidio era un giovane bellissimo, respingeva tutte le ninfe che se ne innamoravano, come avvenne ad Eco, quando lo vide ma non poté dichiarasi a lui perché condannata da Giunone a ripetere le parole altrui, fu respinta  e vagò elevando i suoi lamenti verso il cielo. La dea Nemesi volle punire Narciso facendolo innamorare della propria immagine riflessa nell’acqua non rendendosi conto di essere lui stesso, allorché se ne accorse capì che era un amore irraggiungibile e questo lo consumò fino a farlo morire. Quando le Naiadi andarono a seppellirlo, videro che era stato trasformato in fiori bellissimi, i narcisi. 

L’“Affresco con Narciso” lo troviamo 4 volte nei reperti di Pompei, 60-79 d.C., in 3  contempla la propria immagine nello specchio d’acqua, nel quarto, scoperta la sua identità, si strappa le vesti; e  in 2 membranacei  del 1330 e 1460, in uno dei quali l’immagine riflessa è un bocciolo di rosa, nonché in un volume  a stampa di Lodovico Dolce, 1561. Dei 3 dipinti su “Narciso”, il Domenichino, 1603-04, lo mostra sulla sinistra chino a contemplare la propria immagine riflessa nell’acqua in un ampio scenario paesaggistico che si dispiega con alberi e  prati, un lago con barchetta e un castello; nei due di Giovanni Antonio Boltraffio e di un suo seguace, del 1500, solo il suo viso triste che guarda in basso.

E così si conclude la sfilata dei miti delle “Metamorfosi” di Ovidio. Il botto finale del vero  e proprio spettacolo pirotecnico, nella nostra associazione di idee con la  galleria espositiva delle “Scuderie”,  è il dipinto di Nicola Poussin,Trionfo di Ovidio”, 1625, una cosmogonia dell’amore come forza della Natura nei suoi 4 elementi, con 9 Cupido,  2 dei quali imbevono  le frecce nel latte del seno di  Venere addormentata a destra,  il poeta è assiso al centro, coronato di alloro, si appoggia ai libri sull’amore,  il braccio sollevato con corone di mirto, dominatore di una scena molto evocativa.

Ben si addice, al termine della nostra galoppata  nell’arte ispirata ai suoi versi immortali, il pensiero  di  Federica Zalabra  sulle “Metamorfosi” nella pittura: ” La sintesi tra parola e immagine  che il poeta riesce ad operare è la forza che   spinge la favola attraverso i secoli, incidendo sul’immaginario europeo e  incitando all’imitazione e alla reinterpretazione” .

La mostra a coronamento del Bimillenario di Ovidio ne è la suggestiva  prova visiva. 

“Affresco con Narciso”, 60-79 d. C. 

Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel.  06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Ovidio. Amori, miti e altre storie”, a cura di Francesca Ghedini con Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo, Federica Zalabra,  Editore arte,m – L’ERMA  di Bretschnider 2018, pp. 310, formato  24,5 x 30,; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti, in questo sito, il  1° e 6 gennaio 2019, con altre 13 immagini ciascuno.  Cfr. inoltre i nostri articoli, in questo sito, per la mostra “Augusto”, 9 gennaio 2014; in abruzzo.cultura.it  per “Villa Giulia a Ventotene” (itale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; è riportato un campionario di quelle citate in questa seconda parte di commento ai miti evocati nell’opera di Ovidio. In apertura, .“Gruppo scultoreo di Ganimede con l’aquila’“, prima età imperiale, al centro, dietro sulla parete, Damiano Mazza, “Ratto di Ganimede”1575; seguono, 2 “Affreschi con Satiro e Monade”60-79 d. C., e  “Affresco con Venere con lo specchio”, 60-79 d.C.; poi, “Statua di Niobide che fugge su una roccia”,metà I sec. a. C.,  e”Mosaico con caccia al cinghiale calidonio”, II sec.-inizi I sec. a. C quindi, Giovan Francesco Gessi, “Morte di Adone”,1639,  e  “Affresco con Arianna abbandonata”,60-79 d. C.; inoltre, “Affresco con Fedra e Ippolito”,  60-79 d. C,  e “Affresco con Piramo e Tisbe”, 60-79 d. C.;  ancora, Ludovico Carracci, “Caduta di Fetonte” 1596.99, e Sisto Badalocchio, “Ermafrodito e Salmacide”, 1610; infine, “Affresco con Narciso”, 60-79 d. C. e, in chiusura, “Cratere a volute  apulo a figure rosse”  con le storie di Dedalo e Icaro, fine IV sec. a.C.

“Cratere a volute  apulo a figure rosse”  con le storie di Dedalo e Icaro, fine IV sec. a.C.

Calabria, 3. Il trentennio 1989-2018, nell’antologica a Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Dopo aver ripercorso i primi 30 anni del sessantennio 1958-1988, si conclude, con il trentennio successivo 1989-2018,  la visita alla mostra antologica “Ennio Calabria, verso il  tempo dell’essere. Opere 1958-2018”, aperta dal  20 novembre 2018  al 27 gennaio  2019 a Palazzo Cipolla, promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale,  presidente Emmanuele F. M. Emanuele, ideatore della mostra, organizzata da “Poema” con “Archivi Calabria”, supporto tecnico di “Civita mostre”, a cura di  Gabriele Simongini, che ha curato anche il catalogo bilingue, italiano-inglese, della Silvana Editoriale.  

‘L’artista Ennio Calabria chiude la presentazione della mostra, alla sua dx. il curatore Gabriele Simongini, dietro “Il pensiero nel corpo”, 2010 

Abbiamo ccncluso la rievocazione dei primi 30 anni dell’itinerario artistico e umano di Ennio Calabria sottolineando la nuova direttrice, con cui accentua ulteriormente il suo rifiuto di tradurre nell’arte le ideologie precostituite impegnandosi invece nella ricerca sull’essere umano nel mondo in cui vive mediante l’aderenza alla realtà, ma non al realismo, in una visione complessa con base filosofica volta alla conoscenza per  percepire i germi del futuro.  

La fiducia nella pittura e la coscienza del proprio ruolo

Ecco le sue parole illuminanti del 1985: “Ho dipinto quadri politici per molti anni, e continuo a dipingerne. L’unica differenza consiste nel fatto che prima io portavo confusamente nel ‘politico’ il mio privato anelito, il mio desiderio oscuro di trovare nel gesto politico una risposta ai problemi che evidentemente erano più profondi, e forse anche mie personali”; di certo, aggiungiamo noi, non suscitati dai dettati dei  partiti della sinistra dai quali, pur aderendo alla loro visione politica,  aveva segnato la più assoluta autonomia. E ora? “Questa presa di coscienza di oggi non significa una rottura col politico, significa una distinzione, una consapevolezza dei due  livelli di partecipazione e di conoscenza”. 

Ha ancora più fiducia nella sua arte: “Da qui per me è rinata, negli anni recenti, una forte rivalutazione della pittura come strumento per conoscere la realtà, strumento più valido della parola parlata, scritta e inflazionata, che serve più a nascondere che a far emergere”. E, di conseguenza, piena coscienza del proprio ruolo: “In questo senso, ho capito il contributo che un artista può dare anche al movimento politico, ed è usare il proprio strumento in modo conoscitivo.  In sostanza, io posso essere un pittore che cerca di interpretare la realtà per gli altri. E quindi sono al di fuori del servizio  di una ideologia”.

I canoni del Realismo socialista del tutto rovesciati, è l’artista a incidere con la ricerca di verità sulla politica, l’opposto che ridursi a megafono della sua propaganda. 

“Evento nell’acqua”, 1989 

Ci siamo soffermati su queste dichiarazioni perché ci sembrano di straordinario valore in assoluto, oltre a introdurre nel modo più adeguato il percorso del trentennio successivo, l’ultimo nel quale la politica, anche nella sua visione non ideologica, lascia il posto all’ispirazione sociale ma soprattutto esistenziale: “Il suo modo di vivere e confrontarsi con la realtà – afferma Ida Mitrano – è cambiato e guarda ora nel proprio profondo, dentro di sé”. Lo stesso artista dichiara di aver compreso come “si debba riconsiderare il mondo partendo da noi, da dentro, e che il mondo va rifondato attraverso noi stessi. In questo senso va interpretato lo spostamento avvenuto nella mia pittura”.

E’ stato sempre attento alla realtà, fuori dalle ideologie, ma ora “il processo di identificazione ha cominciato ad accadere per via interiore, cioè ho continuato l’analisi del mondo esterno dall’interno. In altre parole, è come se il cannocchiale si fosse spostato dentro di me”. Nel guardare dentro di sé vede  che “le uniche informazioni importanti vengono dal tuo Sé profondo e non dal tuo Sé ideologico”. 

Dal 1989 al 2000

Per la fine degli anni ’80,  precisamente il 1989, sono esposti “Evento sull’acqua”, con la bandiera rossa caduta nel Tevere che “si scinde… si scinde…  si scinde assumendo il metamorfismo dell’acqua”, e “Biografia rivisitata”, la madre scomparsa tre anni prima, vestita da sposa; “Inchiesta autobiografica” con le scure proiezioni dell’inconscio, e 2 opere dal cromatismo più vivo, “Rosso lacerazioni”, in cui torna il colore dell'”Evento nell’acqua”, e “Dallo scoglio”, 1989, che ci ricorda la rivelazione che fu per lui la rifrazione dell’acqua in mille immagini sugli scogli battuti dalle onde. Ne deriva che l’ispirazione dell’artista non fa riferimento a idee o progetti definiti, ma a una realtà in continuo divenire,  il che determina  una sorta di spaesamento con la ricerca di forme espressive sempre nuove, in grado di interpretare l’incessante processo di cambiamento, stimolate anche dalla  riflessione a livello filosofico che accompagna come sempre l’evoluzione sul piano artistico.  

“Biografia rivisitata”, 1989 

Un’intrinseca instabilità non c’è solo nella realtà interna, ma anche nella sfera interiore. Perciò le forme delle sue composizioni diventano  più sfuggenti e indefinite,  per  un metamorfismo insito nel cambiamento, e questo lo avvicina solo apparentemente all’informale, perché è sempre legato  alla “realtà vista come capacità percettiva dei più”, che resta al centro della sua visione. 

Afferma lui stesso che “non si pone  di fronte ai fenomeni e agli accadimenti con il proprio ‘io’, già concluso e  blindato,  ma ne accetta la precarietà culturale, mentre lo valorizza come strumento sensibile e vibrante, che a petto delle sollecitazioni oggettive, smuove ed eccita l’intero arco della psiche, e quindi tutti gli strumenti che la personalità ha, al fine di conoscere”. E conclude: “Egli ricompone il proprio ‘io’ a valle, dopo averlo negato come identità conclusa a monte”. Nessuna regola prefissata, si tratta di rendere l’imprevedibilità delle  trasformazioni del reale con il “sincronismo” e il “metamorfismo”, immagini di tipo nuovo che assumono una valenza simbolica.

Un’introspezione così complessa non può che tradursi in opere dall’interpretazione altrettanto complessa, che alla spettacolarità delle grandi dimensioni  uniscono l’intrigante incertezza sul loro significato, con la suggestione delle forme più o meno evanescenti che animano le composizioni.

Per gli anni ’90 sono  esposte 4 opere della serie “Ambiguità dell’intravisto”: 3 sono del 1992,  si tratta di ” Dinamismo della staticità”, “Uomo che guarda il mare” e “Donna e mare”:  l’ossimoro del primo titolo deriva dalle forme coesistenti diverse tra loro e rispetto “a quell’immagine finale e complessiva che accadrà”, senza alcun rapporto di causa ed effetto, del resto negato dal sincronismo unito al metamorfismo;  mentre negli altri due titoli il genere espresso trova vaga rispondenza in forme evocative per quanto fluide e  indistinte.

Nell’opera del 1993, “Eretto antropomorfo”,  è delineato  l’uomo “antitetico all’automatismo della natura”,  capace di “concepire la ‘fenomenologia del senso'”. Chiude il decennio “Accade in città”, 1999, forme che si affollano in un intenso magma cromatico. In quest’ultimo anno partecipa alla XIII Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, per la sua mostra a Bagnacavallo esce il catalogo 1995-96 dal titolo eloquente: “I confini del mondo nell’opera incisa  di Ennio Calabria”. 

“Dallo scoglio”, 1989 

Inizia il terzo millennio

Con il terzo millennio l’evoluzione continua, pur nella continuità ideale di fondo, il linguaggio pittorico diventa sempre più aderente al nuovo soggetto.  Così lo vede la Mitrano:  “Il contesto esterno sembra venire meno, perché l’attenzione è rivolta a se stesso come sedimento cui attingere, come magma entropico da cui la figura prende forma”. Ed ecco come si manifesta nella composizione pittorica: “Alcuni elementi, come un colore, un segno, un’ombra si rivelano significativi senza alcuna intenzione. E la figura, un pretesto per l’emersione di contenuti inconsci  che attraverso quegli elementi acquisiscono forza esterna connotando lo spazio  pittorico con la loro presenza”.  Ancora più chiaramente: “Il segno non è descrittivo, ma contorna. E’ segno-colore che, come già sottolineato, non giunge mai ad esiti informali o astratti”, nasce sempre dalla realtà che è comunque contraddittoria nell’assenza di relazioni di causa-effetto e nell’imprevedibilità. Una contraddittorietà che è creatrice di un nuovo significato, generato da nuovi presupposti. La forma si afferma e si nega entro il vortice di quei segni-colore, dove l’artista rimane assolutamente centrale”. Ciò perché la forma è un mero “contenitore”  di contenuti mutevoli, e le figure –  è sempre la Mitrano –  “appaiono, allora, come campi energetici dove si scontrano, se le forze centrifughe dilaniamo le figure, quelle centripete tendono ad aggregare  le forme”.

Non ci potrebbe essere migliore preparazione alla vista delle opere del quinto decennio, perché mentre fornisce una chiave  interpretativa delle figurazioni, solleva anche dall’ansia di capire.

Le 2 opere esposte del 2003, “Arcaica navigazione”, e ““Linee d’energia”, mostrano entrambe una labile figura umana in balia di forze esterne; la navigazione si riferisce al “mare delle tecnologie”, con l'”Intelligenza artificiale”,  la mente sembra adattarsi finché l’istinto di sopravvivenza fa insorgere “per difendere la nostra identità umana”.  Seguono, del 2003, “Passa un aereo”, con la scia nel cielo e l’enigma delle forme  a terra; del 2008, “Presentimento d’acqua”, evocata da una striatura blu, mentre in“Ombre del futuro”, dello stesso anno,.si addensano piccolissime figure umane che diventano tre  sagome che si stagliano, alte e sottili, come in una tragica crocifissione. 

Di questo decennio sono esposte due serie con 3  ritratti ciascuna,  una dedicata a papa Giovanni Paolo II,   l’altra intitolata “Il volto e il tempo”.   

“Accade in città”, 1999 

Nei primi due ritratti del papa, “Un papa polacco”, 2004, e “Le linee del dolore”, 2005, emerge la sofferenza in chiave anche figurativa, nel terzo, “Il vero e il falso”, 2005, con la folla ai funerali torna  la visione popolare degli inizi, evoca “Un’Annunciazione del nostro tempo” del 1963. Questi dipinti  fanno parte del ciclo di 22 ritratti papali esposti in apposite mostre; nel catalogo della mostra di  Cracovia  si legge che il volto di papa Wojtyla è “luogo simbolico, ma al tempo stesso fisico  nella tensione dei segni che si caricano di significati oscuri. Un luogo dove le contraddizioni  dell’uomo contemporaneo  convivono e diventano espressione inequivocabile di quella condizione umana di cui Giovanni Paolo II, ogni volta, in questi ritratti, appare dolorosamente farsi carico”.  

La figura umana è dominante anche nell’altra serie, lo vediamo in “Pantani nell’accadere del ricordo”, 2005, eretto sulla sua bicicletta con  le braccia aperte nel segno della vittoria che diventa anche la sua crocifissione;  “Uomini del deserto. Ritratto di Ahmadinejad” , 2008, presenta il discusso presidente iraniano in modo non diverso da “Jorge Louis Burges. La manovra dell’ombra”, 2009,le loro teste sono al culmine di un’immagine totemica con i corpi innervati da segni e forme oscure.

Paola Di Giammaria afferma che “anche un ritratto, per la verità dell’unicità soggettiva del suo autore, ha la potenzialità che può consentirgli di diventare una rappresentazione collettiva ‘della esiliata dimensione complessa della nostra personalità'”, esprimendo l’introspezione profonda. Del resto, anche al di fuori dei ritratti, si è visto che la figura fa emergere all’esterno i contenuti inconsci, le “posizionature della mente”.

Mostre in cui sono esposti i dipinti di questo decennio si svolgono nel 2000 a Roma, nell’ex Mattatoio, e nel 2001 a Chieti, nel 2002 a Roma alla Galleria “Lombardi” per i ritratti di papa Giovanni Paolo II, mostra ripetuta in altre città,  nel 2003 a Roma nella Galleria “Il  Narciso” e nel 2004 a Pescara e a Castiglioncello, nel 2005 a Siena e a Palermo, nel 2006 a Gemini e a Fondi,  nel 2008  a Giulianova sui ritratti e a Cracovia specificamente su quelli del papa polacco, nel 2009 a Milano, Chieti e Viareggio con “La forma da dentro”.

Scopriamo un’attività espositiva forse al di fuori dei circuiti “istituzionali” più accreditati, ma senza soluzione di continuità, alla quale si associa la pubblicazione di cataloghi e monografie con gli approfondimenti critici.Vedremo come tale presenza, discreta ma costante, continua anche in seguito. Inoltre  partecipa attivamente a convegni e incontri nei quali sostiene il valore della testimonianza dell’artista in grado di dare all’arte un valore sociale, affermando che “la pittura può e deve contrapporsi all’egemonia della documentazione  di derivazione fotografica, e deve dimostrare di essere portatrice di verità  e comunque di un numero e di una qualità di informazioni  diverse ma altrettanto attuali di quelle di cui la foto è capace”.  

“Ombre del futuro”, 2008

Gli ultimi due anni del decennio lo vedono intervenire nel 2008 al “Tavolo di coordinamento per l’arte contemporanea”,  nel  quale con gli operatori del settore presenta una serie organica di proposte per migliorare la condizione degli artisti, che saranno incluse nel documento  sulle “Problematiche dell’arte figurativa”. a conclusione dell’indagine parlamentare. E nel 2009 fonda l’associazione culturale “in tempo”,  con un manifesto che sarà seguito nel 2017 dal “Manifesto per l’arte, pittura e scultura”, vi partecipano importanti personalità dell’arte e della cultura.

L’ultimo decennio

Si apre l’ultimo decennio con una personale a Catania nel 2010, dal titolo eloquente,”L’occhio del dentro”,  seguita nel 2011 dalla partecipazione  al Padiglione Italia Regione Lazio a Roma, nella Biennale di Venezia curata da Vittorio Sgarbi nel 150° dell’Unità d’Italia, con l’opera “Il pensiero del corpo”.  Nel 2012  personale a Roma con la nuova opera “Patologia della luce”, corpi distesi all’ombra di un  aereo come cupo presagio. Anche nella crisi dell’arte come specchio della decadenza della società in lui c’è sempre la volontà di rifondarla ritrovando valori condivisi; é protagonista, nello stesso anno, del video “Spunto di vista”. Nuova mostra a Marino nel 2013, il titolo “Il tempo, i tempi” fa tornare alle sue speculazioni di tipo filosofico, che ritroviamo nel suo intervento al convegno a Roma nello stesso anno, “Creatività e forma tra arte e diritto” sul tema “Riforma delle mutazioni”:  il “pensante” non può più riferirsi al “già pensato” travolto dalla crescente velocità,  non c’è il dualismo dei contrari, è subentrato “l’io irrazionale”, da artista sta riflettendo su come rispondere a questa mutazione.

Siamo nel 2014, partecipa all’Esposizione Triennale di Arti visive a Roma,  con opere sull’invasività della tecnologia  e la conseguente mutazione dei processi psicofisici. E’ un tema che segue da decenni, aggiornandolo con le innovazioni tecnologiche: il telefono cellulare diventa soggetto di dipinti in cui esprime la contraddizione tra la possibilità di comunicare ovunque con tutti  e l’incapacità di instaurare relazioni dirette e umane, perdendo il rapporto con se stesso e con gli altri. 

Nel 2015 la retrospettiva  “Visioni fantastiche. Trame dell’invisibile” alla Biennale Internazionale di Arte e cultura a Roma,  una serie di eventi collettivi a Roma, al Macro, e a Venezia.  Ancora a Roma nel 2016,  è presente alla mostra “7 artisti in 7 chiese per il Giubileo della Misericordia” con “L’Uomo e la Croce”, a dicembre  alla mostra a Palazzo Montecitorio “Il Vo(l)to di Donna”; la sua associazione “in tempo”  organizza una mostra sull’invadenza  della tecnologia e  l’esigenza di rifondare l’arte basandola sulla forza creativa dell’essere umano, il suo tema ricorrente. 

“Patologia della luce”, 2012 

Il  2017 lo vede in due mostre collettive, a Roma e a Francavilla a mare, esce un libro e un filmato su di lui. E siamo al 2018, con le mostre “Sum ergo cogito”, a Roma nello “Spazio Arte Fuori Centro”, e “Il corpo” a Sofia, poi una collettiva a Firenze e infine l’antologica a Palazzo Cipolla che porta nel 2019, dall’apertura a novembre 2018  alla chiusura nel gennaio 2019.

Abbiamo fatto questa cavalcata nelle mostre e nelle presenze dirette dell’artista sulla scena artistica per evidenziarne l’inesauribile vitalità pur se certa critica e certi livelli istituzionali lo hanno trascurato, si sono dovuti attendere 30 anni per questa grande antologica meritoriamente voluta da Emanuele.  Ma torniamo alla sua impostazione culturale e filosofica, richiamando ancora l’interpretazione della Mitrano: “Una società in cui gli opposti tendono a essere esclusi e la dinamica delle cose  risolta dalla pragmaticità del vivere, Calabria non risponde negando quelle che  ritiene siano ormai delle trasformazioni radicali e irreversibili, ma ricercando nell’uomo, nelle sue parti inconsapevoli e irrazionali, nuove possibilità espressive di un’inedita condizione umana”.

Vediamo come lo esprime nelle opere esposte per l’ultimo decennio. Del 2010,  “Il pensiero nel corpo”, per la mostra citata del 150° dell’Unità d’Italia, le bandiere vi aderiscono diventando una seconda pelle,  è “la cultura della storia”. Ecco, del 2012, “Patologia della luce”, anch’essa già citata, figure di bagnanti su una spiaggia che scivola “in un rapporto di causa-effetto storicamente inedito che è la sfida del futuro”, sono le sue parole; e “Garrula morte”, tanti pappagalli petulanti e “logorroici”. Tra il 2013 e il 2015, della serie Questa lunga notte”, due dipinti oscuri, il secondo ha come sottotitolo “La luce dei telefonini”,  in effetti una “luce” modesta e abbiamo spiegato prima il perché.  Con il 2016 i cellulari dopo il titolo entrano nel quadro con “Fusione celibe”, due innamorati abbracciati ma soli “ciascuno se ne va con il proprio sogno, e nell’abbraccio ciascuno se ne va con il proprio telefonino”; “L’Uomo e la Croce”  mostra Cristo “su una croce di pietra che è già tomba”, osserva il curatore, è  “un pugno nello stomaco” per la straordinaria potenza drammatica,  “uno choc visivo che è anche un omaggio universale ai martiri e alle vittime innocenti della violenza umana”. Il 2017 è presente con  “Azzurri coltelli del mare”, in cui  si intravedono le sagome di due corpi nel fluire dell’acqua, l’elemento liquido è congeniale all’artista. 

“L’Uomo e la Croce”, 2016  

Lo troviamo anche in “Lo scoglio”, del 2018,  ricordiamo l’opera già citata sullo stesso tema del 1989,  senza dimenticare la rivelazione che ebbe dalle mille immagini prodotte dalle rifrazioni dell’acqua viste proprio su uno scoglio, nelle quali identificò  “il prodursi del ‘senso’ attraverso ‘accidenti’ e forme che non vi concorrono nella loro specificità”, come nella sua pittura, per cui gli parve di “riconoscere qualcosa che ha a che fare con me”.  Sempre del 2018, l’ultimo anno, “Gravido mistero”, una sinfonia sul celeste  con “le icone di Maria” che si intravedono  mentre si innalzano tra albe  e tramonti, vita e morte fino all’ultima, incinta, con il vento del parto fuori dagli schemi canonici, come il suo Crocifisso. Torna l’immagine di insicurezza del 1973, nella prima fase del percorso artistico, con “L’ombrello è rotto: paura dell’acqua”, così la commenta l’artista:  “Oggi percepiamo la paurosa fine delle protezioni. Siamo soli. Incalzati da domande senza risposta”, il celeste-grigio diventa cupo, dell’ombrello inservibile spiccano le esili stecche del tutto inutili, mentre l’acqua tracima. Torna la figura umana, anche se appena distinguibile, nei due dipinti esposti della serie “La lunga notte”, “Parlamento” e “Il branco”, non è un malizioso accostamento il  nostro, e tanto meno un’associazione,  però rileviamo che la  parte sinistra del secondo dipinto sembra un ingrandimento dell’analogo lato del primo con le teste che si affollano.

I ritratti “Mio padre viene da Tripoli lontana”, 2010,  e “Benedetto XVI, la rivoluzione della fragilità”, 2018, sono toccanti, per la vicinanza alla sensibilità dell’artista, mentre i due ultimi, della serie “Un volto e il tempo”, di “Marcel  Proust. La manovra dell’acqua”, 2012, e “Italo Calvino. Voglia di eterno”, 2013,  li mostrano come  l’artista vede i loro volti e corpi,  ben distinguibili, fluttuanti negli elementi cui collega la loro identità e la lezione che hanno lasciato. 

Una serie di  piccoli dipinti conclude la spettacolare galleria di tele di notevoli dimensioni, sono “Pastelli” e “Autoritratti”:  lo vediamo  ritrarsi, con il viso ben delineato, come “Pittore volante” nel 1961, con “La luce, il gioco, il pensiero” nel 2003, all’insegna di “Viva la pittura” nel 2007, con “Il pensiero, il caso e la carne” nel 2008, infine con “La verità nell’enfasi” nel 2011.

Ma non c’è mai enfasi nella verità di Calabria, bensì lucida consapevolezza frutto di conoscenza, e sono significative le parole che  Simongini ricorda essergli state rivolte dall’artista “in un’afosa serata estiva”. Gli disse:  “In viaggio verso il tempo dell’essere”. Così il curatore interpreta questo viaggio: “Calabria è costantemente immerso in un inestricabile magma creativo ed esistenziale in cui il futuro della pittura è immaginato come parte di un avvenire più ampio e decisivo, quello degli esseri umani e della sopravvivenza della nostra specie”. E conclude: “Per lui è questa la posta in gioco e dunque l’arte si identifica anche in una presa di responsabilità morale e in un complesso atto conoscitivo che rifiutano l’immagine facile, superficiale e disimpegnata, per far sentire, dal profondo e nella sua totalità più autentica, la ‘drammatica gioia del vivere'”.  

“L’ombrello è rotto: paura dell’acqua”, 2018 

Conclusione

Il percorso di arte e di vita che abbiamo rievocato ci ha mostrato un artista che rappresenta un “unicum” nel suo genere. Nell’arte è legato alla realtà, al fatto, ma non aderisce al realismo pittorico, e tanto meno al Realismo socialista, pur nel suo orientamento progressista; nella vita è militante soprattutto della sinistra sindacale, ma non usa l’arte nella sua azione politica e nel suo impegno sociale, non si concentra sulle denunce delle ingiustizie,  ma sull’essere umano nella sua interezza, si rivolge al presente ma nelle sue opere entrano i germi del futuro, descrive i fatti ma in una visione che supera il contingente diventando metaforica, il tutto con assoluta coerenza.

Diverso e speculare rispetto a Renato Guttuso per il quale l’artista deve usare l’arte come strumento della propria milizia politica, e lo ha fatto con straordinaria forza fin dagli anni della resistenza ai nazisti, proseguendo poi con la sua pittura di denuncia; ma c’è stato anche il “Guttuso privato”,  contemporaneo al “Guttuso rivoluzionario”, e per quanto riguarda l’uso della pittura nella milizia politica ricordiamo che, divenuto parlamentare – quindi avendo altri strumenti per portare avanti l’azione spinta dall’ideologia – la sua pittura si dedicò solo al privato, senza più opere di denuncia.

Calabria invece non ha avuto altri riferimenti costanti che l’essere umano,  senza diversioni,  né nell’ideologia – a parte i manifesti sindacali ispirati comunque al sociale come proiezione dell’essere –  né nel privato, in una straordinaria costanza e continuità; mentre  il processo evolutivo ha riguardato la forma e l’intensità della ricerca che ha prodotto anche l’evoluzione delle sue riflessioni filosofiche trovando modi  personali e suggestivi di esprimere un “pensiero complesso”.

I pensieri della sua speculazione filosofica li abbiamo visto arricchire i titoli dati ai suoi dipinti con riferimenti profondi, accompagnati da commenti ispirati, in una traduzione visiva manifestata attraverso linee fluide o aggrovigliate, figure deformate per un inedito figurativo che chiameremmo informale, con un ossimoro che gli calza a perfezione. 

Questo è stato Ennio Calabria nei sessant’anni di itinerario artistico, questo è tuttora nella prosecuzione di un’attività pittorica che si rinnova di continuo trovando sempre nuove forme di espressione di quanto si muove intorno all’essere umano: nella vita e nella società in continua evoluzione dalla quale cerca di cogliere i segni del futuro per innervare la visione del reale quale appare alla sua ricerca incessante e portarne alla luce il senso vero, rivelando ciò che è recondito   

Ritratti “Uomini  del deserto. Ritratto di Ahamdinejad”, 2008, a sin.  – “Stalin “, a dx

Info 

Palazzo Cipolla, Via del Corso 320, Roma. Tutti i giorni, escluso il lunedì, ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 7, ridotto euro 5 per gli under 26 e over 65, forze dell’ordine e militari, studenti universitari e giornalisti, convenzionati; gratuito under 6 anni, disabili con accompagnatore, membri ICOM e guide turistiche.  Tel. 06.2261260. I primi  due articoli del servizio sulla mostra sono usciti questo sito, con 11 immagini ognuno,  il 31 dicembre 2018 e il 4 gennaio 2019.  Per quanto citato nel servizio,  cfr. i nostri articoli, in questo sito: per Renato Guttuso, “Guttuso rivoluzionario”  14, 26, 30 luglio 2018, “Guttuso innamorato”   16 ottobre 2017, “Guttuso religioso”  27 settembre, 2 e 4 ottobre  2016, “Guttuso antologico”  16 e 30 gennaio 2013;per “Picasso”  5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, “Cèzanne”  24, 31 dicembre 2013,  il “Padiglione Italia Regione Lazio” 8 e 9 ottobre 2013; per i “Futuristi”  7 marzo 2018, sui singoli artisti, “Thayaht” 27 febbraio 2018, “Marchi” 24 novembre 2017, “Tato” 19 febbraio 2015, “Dottori”  2 marzo 2014, “Erba” 1° dicembre 2013, “Marinetti” 2 marzo 2013; per “Deineka” 26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012, “Franco Angeli” 31 luglio 2013;  per la Pop Art e le altre avanguardie americane“Guggenheim” 23  e 27 novembre, 11 dicembre 2012;  per gli “Astrattisti italiani”, 5 e 6 novembre 2012 ; in abruzzo.cultura.it,  per i “Realismi socialisti”  3 articoli il 31 dicembre 2011, gli “Irripetibili anni ’60”, 3 articoli il 28 luglio 2011,  il “Futurismo”  30 aprile, 1° settembre e 2 dicembre 2009, “Picasso” 4 febbraio 2009 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).  

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia la Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, con gli organizzatori e i titolari  dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta. Le 10 foto dei  dipinti  di Ennio Calabria coprono i secondi 30 anni del  sessantennio 1958-2018. In apertura, l’artista Ennio Calabria chiude la presentazione della mostra, alla sua dx. il curatore Gabriele Simongini, dietro “Il peniero nel corpo”, 2010; seguono, “Evento nell’acqua”, 1989, e “Biografia rivisitata”, 1989; poi, “Dallo scoglio”, 1989, e “Accade in città”, 1999; quindi,  “Ombre del futuro”, 2008, e “Patologia della luce”, 2012; inoltre, “L’Uomo e la Croce”, 2016, e “L’ombrello è rotto: paura dell’acqua”, 2018; infine, i Ritratti “Uomini  del deserto. Ritratto di Ahamdinejad”, 2008, a sin.  – “Stalin “, a dx. e, in chiusura, gli Autoritratticon “Mio padre  vien e va da Tripoli lontana,”, 2010, a sin. –  “Autoritratto: il pensiero, il caso, la carne”, 2008, al centro – “Autoritratto, la luce, il gioco, il pensiero”, 2003, a dx. 

Autoritratti, con “Mio padre  vien e va da Tripoli lontana,”, 2010, a sin. –  “Autoritratto: il pensiero, il caso, la  carne”, 2008, al centro – “Autoritratto, la luce, il gioco, il pensiero”, 2003, a dx.

Giardetti, i Carabinieri nella storia italiana

di Romano Maria Levante

A quasi tre mesi dalla presentazione dell’11 ottobre 2018 pubblichiamo di nuovo la parte iniziale del primo dei 4 articoli del nostro servizio sul libro di  Gelasio Giardetti, “I Carabinieri nella storia italiana”, per iniziare il nuovo anno, dopo l’Epifania “che tutte le feste si porta via”, ricordando una  rievocazione in cui la storia dell’Arma è intrecciata a quella del Paese.  La rievocazione mette in rilievo le vicende con gli atti di eroismo dei carabinieri nello scenario nazionale cui l’autore riserva particolare attenzione, con particolare riguardo alle fasi più drammatiche e controverse. La parte iniziale del primo articolo, qui riportata, descrive il  contenuto del libro e le impressioni di lettura, il seguito e i tre articoli successivi  del servizio riguardano i  diversi periodi storici, dal Risorgimento alla 1^ Guerra mondiale, dal fascismo alla 2^ Guerra mondiale con le campagne d’Africa e di Russia, la R.S.I. e l’occupazione di Roma,  la deportazione nei lager nazisti degli ebrei e dei carabinieri, fino alla resistenza e alla Liberazione.  Segnaliamo agli interessati il nostro servizio integrale come sintesi dell’ampia esposizione del libro, di cui consigliamo vivamente la lettura  per l’accuratezza della ricerca e il tono incalzante da romanzo storico che avvince, coinvolgendo in vicende al centro della memoria nazionale  e più direttamente  della memoria  familiare.

La copertina del libro

L’11 ottobre 2018, nella sede della Legione Allievi Carabinieri di Roma,  è stato presentato il libro di Gelasio Giardetti, “I Carabinieri nella storia italiana. In memoria della loro deportazione nei lager nazisti”, edito dall’Associazione Nazionale Carabinieri.  Il libro è dedicato “all’Arma dei carabinieri  per l’inestimabile contributo fornito alla Patria nel consolidamento e nella difesa delle libertà democratiche”, e tratta della loro attività come Arma militare. Nella presentazione a una sala affollata di invitati e di Carabinieri, parecchi con alti gradi ma soprattutto molti giovani, il brillante intervento di Umberto Broccoli, seguito  dall’orazione appassionata del gen. B. Vincenzo Pezzolet, e dalle considerazioni dell’autore Gelasio Giardetti. 

Contenuto del libro e impressioni di lettura

Un libro sui Carabinieri potrebbe sembrare riservato a una cerchia limitata e comunque circoscritta,  anche se non troppo ristretta data la capillare distribuzione delle stazioni di carabinieri in ogni zona del paese.

Questa era almeno la nostra impressione prima di averlo letto, anzi dobbiamo confessare che abbiamo cominciato a scorrerlo con il distacco che si prova dinanzi a temi che sentiamo alquanto estranei, al di là della curiosità per una storia che suscita comunque un certo interesse. Con altrettanta sincerità dobbiamo confidare che invece ne siamo stati presi perché la storia raccontata nel libro è in realtà la storia d’Italia della quale l’Arma benemerita è parte integrante. 

La presentazione del libro, al centro il gen.  B. Vincenzo Pizzolet nel suo intervento, con  l’altro presentatore, Umberto Broccoli (alla sua  dx) e l’autore Gelasio Giardetti (alla sua sin.) 

E se pensavamo che essendo una storia nota nelle linee generali il racconto poteva essere ripetitivo, ci siamo ricreduti pure su questo, tanto siamo stati attratti da una lettura divenuta subito  avvincente: forse perché nella lunga carrellata sulla storia d’Italia vi sono accenti nuovi, o perché è rara una visione congiunta che si snoda come in un film, dei periodi storici che si sono succeduti dal Risorgimento alla 2^ Guerra mondiale passando per le vicende della 1^ Guerra mondiale, poi del regime fascista fino alla  Resistenza e alla Liberazione; o forse perché la rievocazione storica è ravvivata dalla personalizzazione nelle figure fulgide dei carabinieri che si sono segnalati per atti di valore.    

Un particolare della sala, la “platea” 

Non si tratta di individuare quale di questi motivi è alla base dell’attrazione inattesa, forse tutti, perché ricordare eventi così importanti per la vita della nazione è come ripercorrere la propria vita sia per le vicende vissute anche indirettamente dal racconto dei familiari, sia per gli eventi più antichi, appresi sui banchi di scuola e approfonditi con le letture da chi ha voluto saperne di più. Così la lettura del libro crea un magico clima evocativo per il cuore e la mente; ed è anche una lezione di alta coscienza civile in una fase in cui l’immagine dell’Arma è apparsa offuscata per i gravissimi episodi che hanno coinvolto dei semplici militari, e altri che hanno lambito perfino il vertice. 

Ma sono stati episodi isolati, inevitabili in ogni organizzazione, per quanto la fiducia nei Carabinieri è stata sempre tale da lasciare increduli dinanzi a fatti che sembravano impossibili fino a che non di sono avute prove inequivocabili; perciò ci si attende un rigore ancora maggiore. Pur con questo rilievo, con la stessa obiettività si deve dire che tali fatti, che restano gravissimi, non possono lasciare macchie su un tessuto, come quello dell’Arma, la cui integrità ha superato prove ben più impegnative della cronaca attuale, basti pensare alle deportazioni nei lager nazisti alla cui memoria il libro è dedicato.  Anzi, va preso atto che si è messa in campo, per così dire, la linea del Progetto “Tacere non è un dovere”, e  nel tragico caso di Stefano  Cucchi il comandante gen. Nistri ha proclamato solennemente “chi sa parli”; vale a dire che  “parlare è un dovere” per denunciare deviazioni, come quelle inammissibili venute alla luce di recente, dall’etica del corpo oltre che dalla legalità.


L’intervento del presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Carabinieri gen. Libero Lo Sardo

Riguardo al motto “Nei secoli fedele”, l’Arma ha già mostrato nella sua storia che se le istituzioni prendono derive antidemocratiche e autoritarie non dà il proprio supporto alle conseguenti violazioni della  legalità; ne  era consapevole il  fascismo che creò appositamente un corpo speciale, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, con i pretoriani  ai quali affidare le missioni che mai i carabinieri avrebbero svolto perché sarebbero state al servizio del regime contro ogni etica civile e politica. La fedeltà dei Carabinieri è verso il popolo di cui  si sono sentiti sempre tutori e difensori.

E’ un”Arma forte delle sue tradizioni, ma capace di allineare ai tempi il severo motto “Obbedir tacendo e tacendo morir” con il programma in atto “Tacere non è un dovere”.

Del resto, i Carabinieri restano il presidio per l’ordine pubblico più vicino alla gente sia logisticamente sia umanamente, per la tradizione consolidata che vedeva nel maresciallo dei carabinieri e nel medico condotto, nel maestro di scuola e nel parroco, i punti di riferimento che davano sicurezza ai cittadini per la convivenza quotidiana e la cura della salute, l’istruzione e la vita spirituale, cioè i cardini della crescita umana e civile.  Le profonde trasformazioni nell’organizzazione della società hanno modificato in parte questo assetto tradizionale, ma non si può cancellare ciò che resta impresso nella memoria popolare e continua a svolgere un ruolo molto importante, anzi fondamentale.   

Un particolare della sala, la “galleria”

Anche per questo motivo i carabinieri sono al centro delle ben note “barzellette” che pur nell’intento dissacratore della satira all’insegna del “castigat ridendo mores”,  con l’umorismo ne sottolineano indirettamente la popolarità e la presenza nella vita di tutti.  Nell’autunno del 2009, alla  “Biblioteca Nazionale” di Roma, la mostra “In nome della legge”  ha esposto le vignette satiriche sulla  Polizia di Stato, apparse a partire dai primi del ‘900 su tante riviste umoristiche;  l’esposizione è stata promossa dalla stessa Polizia. Non sarebbe sorprendente che “Tacere non è un dovere” possa portare anche i Carabinieri a un “outing” analogo  sulla satira che li ha presi a bersaglio con una dissacrazione in fondo di tono affettuoso.  

Ma il libro non si occupa dell’ immagine “domestica”, per così dire, a tutti familiare dei carabinieri, e non serve sottolineare gli infiniti episodi in cui si sono segnalati nella quotidianità, che coincide con la svolgersi della vita della Nazione. D’altra parte, sono stati costituiti per questo, per assistere oltre che per proteggere le comunità nei momenti difficili della vita di ogni giorno.  E’ una cronaca anch’essa punteggiata da momenti gloriosi, valgano per tutti le copertine della  “Domenica del Corriere” che fissano questi episodi, come l’arresto in corsa del cavallo imbizzarrito per citare una delle più note, scelta anche come conclusione di un film d’epoca.

Dalla sin. i presentatori del libro, Umberto Broccoli e il gen. B. Vincenzo Pizzolet, poi l’autore Gelasio Giardetti e  il presidente dell’Associazione Nazionale Carabinieri  di Monte Porzio Catone, Edoardo Zucca

Il  libro  entra nella Storia, nel  ripercorrere la vicenda dei Carabinieri come parte integrante della storia d’Italia che marca i momenti topici della vita nazionale presenti nella mente di tutti.  La sua non è né la storia cosiddetta “alto mimetica”, dal’angolo di visuale delle istituzioni e dei potenti, né quella “basso mimetica”, dalla parte del popolo sacrificato sull’altare di cause spesso a lui estranee. Nella sua rievocazione appassionata e appassionante, l’Autore ha riconsiderato la storia d’Italia con lo spirito del ricercatore – la sua attività nel mondo dell’industria trasferita anche su altri libri storici –  in una posizione intermedia tra quelle appena citate, fuori dai luoghi comuni ma ponendosi dal punto di vista dei Carabinieri nelle fasi in cui sono stati protagonisti; e va sempre più a fondo nella ricerca penetrando  via via nell’animo dei protagonisti in un crescendo di emozioni.

Basta iniziare la lettura, poi si è portati ad andare avanti presi da vicende di cui normalmente si conoscono solo le linee generali e si è ansiosi di saperne di più; non è facile crederlo, pochi penserebbero che una storia di Carabinieri possa coinvolgere a tal punto, ma è rivelatrice e narrata in modo  avvincente; non ci si può staccare dal libro, ne possiamo dare testimonianza diretta. 

Un’inquadratura ravvicinata della “platea” 

In questo risiede il fascino della rievocazione, la storia avvince perché è la nostra storia, il ritmo del racconto è incalzante senza evitare i passaggi più difficili, anzi l’Autore è portato a concentrarvi l’attenzione maggiormente quanto più sono controversi, è come se accettasse la sfida della ricerca storica;  e nella storia d’Italia che ci appartiene si inserisce naturalmente la storia dell’Arma in modo sempre più penetrante, con i valori morali e civili in evidenza nelle vicende esemplari degli atti di eroismo che avvolgono di una luce vivida squarci di toccante umanità fino a conquistare la scena in un crescendo veramente emozionante. Pur con il rigore di un libro di storia, ha il fascino di un romanzo storico.

Una letttura emozionante, dunque, oltre che istruttiva, perché pur se il tessuto della trama della storia italiana è noto a grandi linee, vengono approfonditi i momenti fondanti e soprattutto viene rivelata quella parte dell’azione dei Carabinieri  meno nota che va oltre la quotidianità ben conosciuta per entrare nella storia in una dimensione diversa ma correlata alla prima.

Ne ripercorriamo i principali momenti per dare un’idea di una storia gloriosa che tutti dovrebbero conoscere.  Per questo il libro, oltre ad essere presumibilmente studiato nelle scuole degli Allievi Carabinieri; potrebbe entrare nelle letture delle nostre scuole, dato il suo alto valore civile e umano.   

L’autore del libro al centro, tra il sindaco di Pietracamela, Michele Petraccia, alla sua dx, e l’autore del servizio alla sua sin., al termine della presentazione 

Info 

Gelasio Giardetti, “I Carabinieri nella storia italiana. In memoria della loro deportazione nei lager nazisti”, Associazione Nazionale Carabinieri Editrice, ottobre 2018, pp. 394. Il primo articolo del nostro servizio – che dopo aver descritto il contenuto del libro e le impressioni di lettura rievoca le vicende dei Carabinieri nel Risorgimento e nella 1^ Guerra mondiale –  è uscito in questo sito il  4 novembre, i successivi tre articoli il  6, 8,  e 10 novembre 2018, con 17 immagini ciascuno. Dello stesso autore, “L’uomo, il virus di Dio”, Arduino Sacco Editore, novembre 2014, pp. 184;  “Dio, fede e inganno”, Arduino Sacco Editore, settembre 2013, pp. 240; “Gesù, l’uomo”, Andromeda Editrice, giugno 2008,  pp. 320. Sui primi due libri ora citati cfr. i nostri articoli in questo sito il 10 e 13 giugno 2015 e il 2 febbraio 2014.  

Una carica storica dei carabinieri: Grenoble, 1815

Ovidio, 2. Venere “callipigia”, con i miti di Apollo e Giove, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Ovidio, amori, miti e altre storie”, alle Scuderie del Quirinale, dal 17 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019,  che conclude le celebrazioni del Bimillenario della morte del poeta esponendo  250 opere d’arte ispirate alla sua poesia dedicata all’amore e ai miti. E’ stata organizzata da Ales S.p.A.,  presidente e A.D. Mario De Simoni, curatrice Francesca Ghedini che, con Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo, Federica Zagabra ha curato anche il Catalogo edito da Arte,m-L’ERMA.  Un programma di manifestazioni collaterali consente di  approfondire la conoscenza del grande poeta latino e diffonderla anche tra i più giovani.  Per il suo valore spettacolare questa mostra che conclude le celebrazioni del Bimillenario della morte di Ovidio la associamo ai fuochi di artificio che per tradizione sono il momento terminale delle feste paesane, le 250 opere esposte ai crepitii e agli scoppiettii sempre più incalzanti fino al botto finale.  

“Statua di Venere  ‘Callipigia’“, metà II sec. d. C, a sin, “Affresco con pittura di giardino”, 1^metà I sec. d. C, al centro, “Statua di Eros con l’arco”, copia del I sec.  d. C. da originale del IV sec. a. C., a dx 

Alcuni caratteri salienti del suo messaggio poetico

Il  ” poeta dell’amore” è  pedagogico nell’“Ars Amatoria“, vicino alla pene d’amore del  mondo femminile nelle “Heroides”, porta gli dei al livello degli uomini nelle passioni amorose  nelle “Metamorfosi”, ma non si tratta di sdolcinature, tutt’altro: è il “poeta del cambiamento” rispetto ai costumi puritani dell’età augustea, ma nel contempo della trasgressione rispetto alle severe regole che l’imperatore applicava anche nella propria famiglia, punendo duramente le due Giulie, figlia e nipote.  

Trasgressore e dissacrante anche degli dei, perfino di Apollo protettore dell’imperatore sin dalla sua vittoria sugli uccisori di Cesare e rimasto tale per tutta la durata dell’impero, che viene ridicolizzato per i suoi insuccessi amorosi; di Venere, progenitrice della sua stirpe, la “gens Iulia”, e di Marte, padre di Romolo fondatore di Roma, ridicolizzati al cospetto degli altri dei;  e perfino di Giove onnipotente, descritto insaziabile predatore sessuale privandolo di autorità e del valore divino.

Era una sfida all’imperatore e all’intero establishment augusteo, che veniva da chi apparteneva allo stesso ambiente altolocato,  ma aveva lasciato una promettente carriera retorica e legale per il richiamo irresistibile della poesia; fu una sfida che pagò con l’esilio sul Mar Nero, mai revocato dall’imperatore,  durato dieci anni fino alla morte del poeta nel 18 d. C..

Tutto questo va ricordato per meglio apprezzare la  mostra, incentrata sui tre temi salienti del suo itinerario di poeta e “civis romanus”: l’amore, il contrasto con Augusto e il mito. Perché c’è la prova esaltante della sua rivincita, anzi della sua vittoria per l’influenza imperitura sulle generazioni successive, lungo due millenni, ispirando in ogni tempo grandi opere d’arte.  

Rilievo delle Vestali”, ,fine I sec. d.C.

Le opere esposte sono il frutto di una selezione svolta collegando le “figurazioni” dei versi di Ovidio alle trasposizioni “puntuali” e non solamente generiche, con un metodo rigoroso di valutazione dei contenuti basato su soggetti, temi, schemi. 

Codici miniati e  “Ritratto di Ovidio”, “Venere callipigia” e oggetti di bellezza

La galleria espositiva è introdotta all’ingresso da vistose scritte in neon colorato, “Maxima Proposito”,  con frasi significative di Ovidio nel testo latino e nella traduizione inglese. E’ la forma espressiva con cui l’artista concettuale Joseph Kossuth è solito valorizzare l’uso della parola, qui quanto mai appropriata riferendosi a un poeta che con la parola riesce a evocare immagini mitiche. Sono una ventina, si va dalle battaglie d’amore di  “Omnis amans militat (Every lover makes war)” alla forza del desiderio di “Quod cupio mecum est (What I desire I have)”.   

La parola trionfa nella 1^ sala soprattutto  negli incunaboli e nei membranacei, nei codici miniati e nelle prime edizioni a stampa delle sue opere, tramandate dai copisti, prima nell’originale latino, poi anche nelle lingue “volgari”, in qualche caso purgate dalle parti ritenute troppo ardite. I miniaturisti hanno raffigurato spesso, nei frontespizi, l’immagine del poeta mentre scrive o mentre presenta le sue opere poetiche. 

Dalle prime “Metamorphoses”  di fine XI sec. in un miniato di fine ‘300 e in una cinquecentina, alle “Heroides” con “Ars Amatoria” e “Remedia amoris” di fine ‘400, con la cinquecentina per le sole “Heroides“; fino alle ultime opere, i “Fasti” e “Tristia, Epistolae ex Ponto“,, membranacei copiati da Bartolomeo Sanvito.  

“Affresco con Satiro e Menade”, 60-79 d.C.

Ma la mostra non si limita a proporre le immagini del poeta appena delineate nei frontespizi. Il “Ritratto di Ovidio” di Giovan Battista Benvenuti detto l’Ortolano, intorno al 1500,  introduce, quasi fosse il padrone di casa, alla sequenza artistica: ha una lunga barba e un abbigliamento lussuoso con un turbante,  evoca l’Oriente della sede dell’esilio sul Mar Nero. 

Nasce la suggestione, anzi la soggezione ammirando la spettacolare “Statua di Venere ‘Callipigia’“,  II sec. d. C., ispirata alla sensualità della visione ovidiana sottolineata dalla maliziosa denominazione,  l’opposto rispetto all’austera severità di quella augustea; poi altre Veneri in statuette e l'”Affresco con Venere con lo specchio”, in cui la dea si specchia abbinando nudità e vanità femminile. Dello stesso periodo l’intonaco dipinto “Donna che si pettina”, specchiandosi, anch’essa mostra la nudità del busto, dea e donna accomunate dalla comune ricerca della seduzione, che  evoca un mondo gaudente e disinibito senza differenze tra la terra e l’Olimpo.

Fanno parte di questo mondo gli “Anelli con busto femminile su castone”che risalgono alla seconda metà del I sec. a. C., le “Collane con vaghi e amuleti”, lo “Specchio” ed altri oggetti del I sec. d. C., e  oggetti in parte legati alla sua opera “Medicamenta faciei feminae”, come la “Scatolina per trucco con coperchio scorrevole dorato”, le “Spatoline”   e la “Conocchia con Venere pudica”, tre il I e il  II sec. d.C.

“Rilievo paesistico detto  di Polifemo e Galatea”,fine 1° sec. a. C. – inizio  II sec. d.C.

Erotismo esplicito nei reperti d’epoca

Con la 2^ sala,  dopo  l’iniziale espressione poetica dedicata al suo amore per una sconosciuta, Corinna, viene celebrata  la disinibita indagine sulle pene d’amore ma anche sui sotterfugi e  i tradimenti, le emozioni e le gioie degli amanti clandestini, che erano la normalità nella vita gaudente dei ceti altolocati a Roma, in barba alla severità imperiale, tutto esaltato nei tre libri degli “Amores”.  

Il poeta non parla più delle proprie passioni, descrive i preparativi ai convegni amorosi, con l’attenta cura della  persona, dai belletti alle acconciature delle chiome, da parte delle donne in attesa di incontrare amanti o corteggiatori. Ma oltre a questo, nel  3° libro dell’“Ars Amatoria”  parla delle “mille posizioni dell’amore”, in una sorta di Kamasutra romano cui si sono ispirati nella sua stessa epoca in modo più o meno evidente, ma sempre eloquente.

Le opere esposte che riflettono questomondo erotico sono dunque quanto mai esplicite, introdotte dalla “Statua di Eros con l’arco”, copia del I sec. d.C. da un originale del IV sec. a. C.  Il giovinetto simbolo dell’amore è rappresentato nudo ma senza implicazioni erotiche, che troviamo invece negli abbracci languidi e lascivi con generose nudità di un altro simbolo amoroso, nell’ “Affresco di Amore e Psiche”, e in ulteriori reperti chiaramente allusivi: nel marmo bianco del “Rilievo paesistico detto di Polifemo e Galatea”, fine I sec. – inizi II sec. d. C. e nell’intonaco dipinto dell’ “Affresco di Polifemo e Galatea”, tema pastorale  molto sentito nell’antichità, come erano sentite le incursioni dei satiri sulle fanciulle, qui richiamate da due “Affreschi con Satiro e Menade”, IV sec. d. C. nei quali il biancore del corpo nudo della donna sorpresa nel bosco rispetto al corpo scuro del Satiro,  anch’esso nudo, e le mani che toccano i corpi stretti  nell’abbraccio, accentuano la carica sessuale;  in uno dei due  affreschi c’è la tenerezza del bacio con la mano di lei all’indietro che cinge la testa di lui. 

“Affresco con  Amore e Psiche”, 60-79 d. C. 

Immagini simili in una serie di oggetti di abbigliamento, cosa alquanto sorprendente, come i “Cammei con scene erotiche” e il “Cammeo con Fauno e Menade”, e  gli specchi, come lo “Specchio con scena erotica”, un vero e proprio amplesso scolpito nel bronzo e piombo del coperchio, lo “Specchio con Amore e Psiche” e la “Custodia di specchio con Amore e Psiche”.   

Non mancano oggetti di uso comune, come la “Coppa con scena erotica” e la “Lucerna con scena erotica”,  nella seconda addirittura si vede un “rapporto a tergo”; si va anche oltre nella “Lucerna” dell’età augustea con un grosso fallo alato, che troviamo anche nel “Tintinnabulum”, un campanello  in cui il fallo alato è cavalcato da un nano che lo incorona, insidiato a sua volta dalla coda, fallica anch’essa. Una serie di “Ciondoli fallici”,  forati per essere appesi al collo, completa questa carrellata di reperti più che erotici pornografici, tutti tra il I sec. a. C. e il II sec. d.C., quindi di epoca molto antica.

La severità imperiale nelle statue augustee e nella punizione delle due Giulie

La  3^ sala fa entrare  nel mondo ovidiano nel quale all’audacia delle disinibite descrizioni amatorie declinate anche a titolo pedagogico si unisce – come si è ribadito in precedenza – l’aperto contrasto con la severa morale augustea, e il coinvolgimento nelle schermaglie amorose, spesso in modo irridente, delle divinità, in particolare di quelle poste a  protezione dell’imperatore e di Roma. 

“Statua di Livia, 38-40 d. C.

Una sfilata di sculture augustee di marmo particolarmente austere  introduce questa tematica, iniziando dalla Statua di Augusto e dalla “Statua di Livia”, la moglie, entrambi con il capo  velato, il primo come Pontefice massimo, la seconda come Cerere, i corpi totalmente coperti da un pesante panneggio, siamo nella prima metà del I sec. d.C., la stessa epoca della quale abbiamo riportato le raffigurazioni erotiche disinibite esposte nella sala precedente. Anche la “Statua di Antonia Minore”, figlia di Ottavia sorella di Augusto, reca il capo coperto, ma da una corona che la associa, insieme al lungo chitone, alla Venere Genitrice.    

Il rigore morale e la tutela della religione tradizionale sono riassunte nelle statue appena citate, e si era tradotto nelle sanzioni della “lex Iulia” contro chi favoriva l’adulterio anche con il suo silenzio.  E c’è una serie di busti ad evocare la repressione augustea di ogni trasgressione, anche di quelle da parte di propri familiari. Vediamo il raro “Ritratto di Giulia Maggiore”, 12 a. C, .la figlia di Augusto e di Scribonia che fu costretta  a sposare per motivi politici Marcello, Agrippa e Tiberio, per poi finire, per ordine dell’imperatore, dopo l’accusa di adulterio, nell’isola di Pandataria, oggi Ventotene; dove fu relegata nell’8 d.C. anche la figlia che Giulia ebbe con Agrippa, di cui vediamo l’altrettanto raro “Ritratto di Giulia Minore”, , sec. a. C.-I sec. d. C., per un’analoga trasgressione al rigore morale della famiglia imperiale. La rarità di questi due busti è dovuta al fatto che si sarebbero salvati dalla distruzione operata in una sorta di “damnatio memoriae”.  

Seguace giorgionesco, “Apollo e Dafne”,  1515-20 

Per completezza evocativa la serie di busti comprende anche il “Ritratto di Marcello”, 25-10 a. C.,  il “Ritratto di Agrippa”, fine I sec. a. C.,  e la “Testa di Tiberio”, metà I sec. d. C., i tre consorti di Giulia Maggiore, il primo, morto prematuramente, era un altro figlio della sorella di Augusto Ottavia, il secondo compagno di battaglie di Ottaviano, il terzo figlio di Livia destinato a diventare imperatore.  

Nell’alternanza di temi e tipologie di opere, sempre in linea con il “fil rouge” della mostra, seguono l'”Altare dei Lari”, 2 a. C., il “Rilievo delle Vestali”,  I sec. d. C., e  le “Lastre Campana”, 42-46 a. C.. I Lari e le Vestali richiamano i valori tradizionali che Augusto voleva restaurare, le lastre che prendono il nome dal collezionista dell”800 destinate alla residenza di Ottaviano recano, insieme a motivi decorativi e a divinità egizie, gli dei romani Apollo ed Ercole.

Apollo lo troviamo anche nelle 34 monete esposte, “Denario di Ottaviano” e “Denario di Augusto”, in argento, “Aureo di Ottaviano”e “Aureo di Augusto”, “Aureo di Tiberio”  e “Aureo di Gaio (Caligola)” ovviamente d’oro,  dal 32 a. C. al 41 d. C; e vediamo che, oltre alla testa dell’imperatore, in alcune monete ci sono le tre divinità, Venere, Marte e Apollo:  la prima come progenitrice della “gens Iulia”, il secondo come dio vendicatore cui aveva fatto un voto a Filippi, il terzo suo protettore, per accentuare la solennità imperiale con la sacralità divina.     

La dissacrazione mitica delle divinità protettrici di Augusto

Sono proprio Venere, Marte e Apollo, cui si aggiunge Giove e Plutone, le divinità evocate  in modo garbatamente provocatorio nei versi di Ovidio e quindi nelle opere esposte in mostra  che li fanno  rivivere in modo spettacolare.

Per Venere, la “Statua di Afrodite pudica”, II sec. d.C:, descritta maliziosamente da Ovidio nell'”Ars Amatoria”, e  la “Venere pudica” di Sandro Botticelli, 1485-1490, già  danno un’immagine disinibita della ben più austera “Venere genitrice”, in particolare della “gens Iulia”.  

“Statua di Antonia Minore come Venere  Genitrice”, metà I sec. d. C. 

Ma non è ancora nulla rispetto alle due opere intitolate  “Marte e Venere sorpresi da Vulcano”:  la terracotta di età ellenistica con i due amanti seminudi incatenati dal dio tradito,  e Marte che cerca invano di liberarsi con la spada; e il dipinto di Giovanni Battista Carlone, dal verso 185 del III libro delle “Metamorfosi”, in cui Vulcano solleva il telo invisibile che  ha imprigionato gli amanti nell’alcova, per esporli al ludibrio degli dei che assistono alla scena dall’alto quasi fossero a teatro. Invece nei due “Affreschi con Marte e Venere”, del 60-79 d. C. , di Pompei, nulla di tutto questo,  gli Amorini con le carezze di Marte e l’abbandono di Venere sottolineano la passione amorosa. 

Raffigurazioni imbarazzanti anche riguardo ad  Apollo, per motivi diversi, sempre ispirate alle “Metamorfosi” di Ovidio: nei due intonaci dipinti a mano di Pompei, “Affresco con Apollo e Dafne: il corteggiamento” e “Affresco con Apollo e Dafne: la cattura”, i due momenti: il dio che suona la cetra per conquistare la ninfa,ma non ci riesce, lei fugge e viene rincorsa e afferrata da Apollo che supplica di lasciarla, prima di trasformarsi in alloro per sfuggirgli definitivamente; lo vediamo anche nel dipinto “Apollo e Dafne”, di un seguace di Giorgione del 1515-20.   

Non occorre sottolineare come fosse umiliante per l’immagine del  grande Apollo, considerato dall’imperatore, lo ripetiamo, il protettore della sua persona e della città di Roma, che una ninfa piuttosto che  accettarne le profferte amorose con accompagnamento musicale preferisca diventare una pianta, invece di esserne lusingata. Quando il dio ha successo, finalmente, con la bellissima Chione, non ha conquistato una vergine, come credeva, perché è stato preceduto da Mercurio.

 Leonardo da Vinci (copia da), “Leda e il cigno”, 1510-20 

Giove predatore sessuale insaziabile e trasformista

Ce n’è anche e soprattutto per  Giove, l’onnipotente signore dell’Olimpo, che Ovidio tratta  come un insaziabile predatore sessuale  con sotterfugi quali le trasformazioni. Lo vediamo nell’episodio mitico della “Leda con il cigno”,  in cui Giove si trasforma,riprodotto in tante forme artistiche con la fanciulla ignara avvinta dall'”abbraccio” del cigno: nelle diverse raffigurazioni naturalmente cambiano forme e atteggiamenti, per lo più il cigno con il becco cerca di baciarla, lo vediamo nel “Gruppo statuario” del II sec. d.C., copia di un originale ellenistico del 10 a. C.,  e nei due “Affreschi” della prima metà del I sec. d.C., da Ercolano e Stabia, in cui la figura di Leda, sempre nuda,  è impreziosita da un’acconciatura elaborata.  

Anche in uno “Specchio” e in un “Cammeo” c’è  la scena della “Leda con il cigno”, in modi molto diversi. Nel medaglione centrale dello specchio l’immagine di lei che, seduta su una roccia,  offre da bere al cigno, mentre nel cammeo, a differenza delle raffigurazioni precedenti che la mostrano ignara, appare consenziente, semisdraiata sembra offrirsi all’amplesso con il volatile, è del III sec. d.C., periodo ellenistico, l’altra è del I sec, 

L’ultima opera esposta che raffigura la “Leda con il cigno” è  un quadro, copia da Leonardo da Vinci, del 1510-20, ma con delle incertezze, perché non si è sicuri che Leonardo lo abbia effettivamente dipinto mentre sono certi i numerosi disegni del Codice Atlantico in cui la Leda viene proposta sia inginocchiata che in piedi con diverse acconciature, prova che, comunque,  studiò  il tema. Il dipinto esposto la mostra in piedi, nuda, che stringe con le mani il collo del cigno il quale protende il becco verso il volto di lei, la testa è reclinata in modo vezzoso, seduti ai suoi piedi due bimbi, se avessero le ali sembrerebbero amorini, vengono identificati come i figli dell’unione, Castore e Polluce, e nell’uovo vicino si prefigura la nascita di Elena e Clitennestra. 

Giovanni Antonio Figino, “Giove, Giunone e Io”, 1599 

Un’altra trasformazione  per possedere l’oggetto dei suoi desideri è quella nel toro, lo fa  Giove  per rapire Europa. Anche qui una serie di raffigurazioni su diversi supporti, le  più antiche sono del 360 a. C., a figure rosse, in un “Cratere a campana apulo”,  un‘”Anfora apula” e un “Cratere a calice pestano”, quasi in sequenza: nel primo il toro si avvicina alla fanciulla seduta all’aperto, nel secondo lei adorna le corna dell’animale, nel terzo è seduta sulla sua groppa, alcuni dei assistono al rapimento. Europa è seduta sul  toro anche in un “Rilievo” del I sec. a. C.-I  sec. d.C. e in due dipinti, il “Ratto di Europa” del Tintoretto, 1541-42 e di Antonio Carracci, 1602-05, che dimostrano come il fascino dei  versi di Ovidio attraversa il tempo,  lungo un arco di 1500 anni.

E poi vediamo trasformarsi di nuovo, questa volta in un’aquila,  Giove per rapire Ganimede, di cui si è invaghito, non più una fanciulla ma un giovinetto che diventerà coppiere degli dei. E’ riprodotto in marmo in età coeva, I-II sec. d.C., nel “Gruppo scultoreo di Ganimede con l’aquila” e nel “Rilievo con Ganimede”; nel 1550 nel bronzo “Giove e Ganimede”, in pittura nel “Ratto di Ganimede”  di Damiano Mazza, 1575, e di Carlo Saraceni, 1605-08.  

Trasformazione da parte di Giove anche nel mito di Io, ma questa volta non è il dio ad assumere sembianze animali ma la ninfa di cui si è invaghito che lui trasforma in giovenca per nasconderla alla gelosa e vendicativa Giunone. Sono varie le opere esposte, anche del I sec. a. C., il busto marmoreo “Testa di Io”, l’“Anello smaltato con testa di Io” del grande incisore Dioscuride, e i due affreschi, “Io, Argo e Mercurio” e “Io a Canopo”.  

Tintoretto (Jacopo Robusti),  “Ratto di Europa”, 1541-42 

Nella testa di Io dei ritratti, due piccole corna per evocare la giovenca, negli affreschi vari momenti di una odissea che si conclude a Canopo, in Egitto, dalla dea Iside, dopo che la giovenca imprigionata da Giunone  e tormentata  da Argo che la sorvegliava, fu liberata da Ermes, ma la dea continuò a tormentarla con un tafano e lei per liberarsi percorse il Mediterraneo dando il suo nome al Mar Ionio, fino all’Egitto dove riprese le sembianze umane  e diede alla luce il figlio di Giove, Efeso, progenitore della Danaidi, diventando dea egizia. Nel dipinto di Giovanni Antonio Figino,Giove, Giunone e Io”, 1599, la fase iniziale del mito, Giunone che scende dall’alto mentre Giove seduto in basso ha appena trasformato Io in giovenca.

L’apoteosi nella “Spalliera di letto con gli amori di Giove”, di Alessandro Allori, 1572,  un grande dipinto su tavola con al centro “Ganimede rapito da Giove”, ai lati “Leda con il cigno” e il “Ratto di Europa”,  con le trasformazioni di Giove,  e, nelle grottesche,  “Apollo e Dafne” e  “Venere dormiente”, “Nettuno sul cocchio” e “Pan e Siringa”.

Proseguono le “Metamorfosi” ovidiane con tanti altri miti, le ulteriori opere d’arte ad essa ispirate occupano l’intero piano superiore della mostra. Osservano in proposito Antonella Colpo e Giulia Salvo: “Nelle ‘Metamorfosi’ il fuoco della passione non risparmia nessuno: si desiderano mortali ed eroi, ma anche  dèi maggiori, panisci  e ninfe, dando così  vita a un intricato sistema di relazioni affettive, inganni, tradimenti, ossessioni, possessioni”. L’esito è quasi sempre sfortunato, spesso addirittura tragico con la  frequente presenza degli dei che, se non sono protagonisti delle vicende, intervengono in aiuto di chi si è sentito offeso, molte volte vendicandolo in modo anche crudele.

Ne parleremo prossimamente nell’articolo conclusivo sulla mostra, descrivendo le opere esposte, ispirate alle altre immagini mitiche  evocate dai versi immortali di Ovidio. 

Damiano Mazza, “Ratto di Ganimede”, 1575 

Info

Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì,  ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito  fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel.  06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Ovidio. Amori, miti e altre storie”, a cura di Francesca Ghedini con Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo, Federica Zalabra,  Editore arte,m – L’ERMA  di Bretschnider 2018, pp. 310, formato  24 x 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito, il 1° gennaio 2019, il terzo e ultimo uscirà l’11 gennaio, con altre 13 immagini ciascuno.  Cfr. inoltre i nostri articoli, in questo sito, per la mostra “Augusto”, 9 gennaio 2014; in abruzzo.cultura.it  per “Villa Giulia a Ventotene” (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia Ales S.p.A., con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; è riportato un campionario di quelle citate in questa prima parte di commento ai miti evocati nell’opera di Ovidio.  In apertura,  “Statua di Venere  ‘Callipigia’“, metà II sec. d. C, a sin, “Affresco con pittura di giardino”, 1^metà I sec. d. C, al centro, “Statua di Eros con l’arco”, copia del I sec.  d. C. da originale del IV sec. a. C., a dx; seguono, “Rilievo delle Vestali”, ,fine I sec. d.C., e  “Affresco con Satiro e Menade”, 60-79 d.C.; poi, “Rilievo paesistico detto  di Polifemo e Galatea”,fine 1° sec. a. C., inizio  II sec. d.C.,  e”Affresco con  Amore e Psiche”, 60-79 d. C,;  quindi,  “Statua di Livia, 38-40 d. C., e  Seguace giorgionesco, “Apollo e Dafne”,  1515-20; inoltre, “Statua di Antonia Minore come Venere  Genitrice”, metà I sec. d. C.,  e  Leonardo da Vinci (copia da), “Leda e il cigno”, 1510-20;  ancora,   Giovanni Antonio Figino, “Giove, Giunone e Io”, 1599, e Tintoretto (Iacopo Robusti), “Ratto di Europa”, 1541-42; infine, Damiano Mazza, “Ratto di Ganimede”, 1575 e, in chiusura, Pietro da Barga, “Plutone e Proserpina”,1587. 

Pietro da Barga, “Plutone e Proserpina”,1587