La mostra “Manuel Felisi. Presente del passato” espone alla Galleria Russo, dal 25 ottobre al 15 novembre 2018, opere che raffigurano “Alberi” visti svettare nel cielo dal basso in un mare di luce. Ritroviamo l’artista e i suoi “Alberi” che avevamo conosciuto al Museo Bilotti nel 2015 alla mostra “Linea di confine. La natura, il corpo, le città” e nella stessa Galleria Russo nel 2016 alla mostra “Shakespeare in Rome”, celebrativa del quarto centenario della morte del grande drammaturgo.
Introduzione all’artista e ai suoi “Alberi”
Dopo la formazione al Liceo artistico e all’Accademia delle Belle Arti di Brera, ha esposto le sue opere – per lo più pitture, “collage” e fotografie, m anche sculture e installazioni con accompagnamento musicale – in mostre d’arte dal 2002, con la prima personale “Biografie” seguita da molte altre per lo più a Milano, da “Felisi” nel 2006 a “Nato a Milano Lambrate”, “Cuoriquadrifiori” e “Visioni urbane”nel 2008, da “Flowers” e “Letteralmente” del 2010 a “Menoventi” nel 2013 e “Di – Vento” nel 2015. Alla Galleria Russo, la personale “Griglie” nel 2014 a Roma e “Su – Acqua” ad Istanbul. Inoltre abbiamo contato la partecipazione a una quarantina di mostre collettive e a più di venti fiere d’arte nazionali e internazionali.
Dopo questa sommaria presentazione dell’artista a prima vista sembra ci sia poco da dire riguardo all’oggetto monotematico presentato nella mostra, “Alberi”, perché è difficile esprimere a parole il fascino esercitato dalle molteplici figurazioni dell’elemento naturale che si eleva verso il cielo esprimendo forza e vitalità.
Ricordiamo ancora le parole di ammirazione per il grande albero sotto il quale sostava con la donna verso la quale stava nascendo l’amore, del protagonista della “Battaglia di Alamo”, John Wayne, la sera prima della morte certa dato il numero soverchiante di messicani che circondavano il forte assediato. E la carrellata di alberi che scorrevano veloci, le betulle di un vecchio film russo, quelli della steppa innevata nel Dottor Zivago, e tanti altri, come dei veri protagonisti.
Per questo siamo stati fortemente colpiti dalle tante visioni, alcune particolarmente spettacolari per gli effetti di luce che portano in alto, in un moto ascensionale che va ben oltre l’aspetto materiale.
Ma il titolo della mostra fa pensare a qualcosa di più, al tempo e non solo allo spazio, anzi ad un tempo virtuale e intrigante, “il presente del passato”, incorporato proprio negli alberi. E come?
Il tempo, passato e futuro nel presente
Ne parla diffusamente Maurizio Valli nel Catalogo della mostra, precisando innanzitutto che si tratta di una visione diversa da quella consueta per gli artisti, che sono testimoni del proprio tempo. Per Manuel Felisi “le testimonianze che ci sta lasciando non intendono essere sintesi in progress del qui e ora, piuttosto narrazioni di un presente che trova nel passato le chiavi per scoprire il futuro”.
Il concetto di tempo è più complesso di come sembra, perché pur essendo la percezione temporale comune a tutti, è difficile darne spiegazioni altrettanto accessibili. Ma più che spiegarlo occorre viverlo nelle sue declinazioni – presente, passato, futuro – le quali appartengono all’essere umano, quindi hanno carattere soggettivo e non oggettivo. “Il tempo vive solo nell’uomo, manifestandosi, come scrive sant’Agostino, nel presente del passato, presente del futuro e presente del presente”.
Eccoci, dunque, al titolo della mostra, anche se per la piena comprensione occorrono dei passaggi successivi. Il presente del passato risiede nella memoria, che conserva le esperienze passate e le fa tornare alla mente nel presente; il presente del futuro corrisponde alle nostra attese e alle nostre speranze che portano il futuro nel presente; il presente del presente, che sembrerebbe il più evidente e indiscutibile, invece non esiste perché nel momento in cui si percepisce è già passato.
“Molti dei lavori di Felisi – è sempre Valli ad affermarlo – sono legati alla scelta di ciò che l’artista desidera riportare in superficie (presente del passato), ma il filtro sui propri ricordi collima con ciò che ritiene funzionale al presente del futuro per progettare la propria esistenza, manifestando il proprio essere attraverso il fare”. Ciò che riguarda il nostro futuro è condizionato dai ricordi del passato, le esperienze istruttive che tornano alla memoria, ritenuta fondamentale per la vita, per questo “senza passato non può esseri futuro”.
Ma torna la domanda, come può “il presente del passato” essere incorporato nei suoi alberi? Un modo in cui questo avviene è nei motivi fantasiosi e nei materiali usati, che appartengono al suo passato e vengono riportati al presente; un altro modo è nel suo progettare accumulando forme e materiali in un “caos quieto” che prende forma a poco a poco secondo un ordine ben preciso, quello che nella dimensione temporale traduce in azione del presente le memorie confuse del passato.
Per Valli, con le sovrapposizioni materiche, “la divisione del palinsesto in forme geometriche regolari, in tessere di un mosaico concluso, seppure aperto scandisce il ritmo del tempo come un vecchio metronomo”. E precisa, sulla dimensione temporale: ” Felisi ci suggerisce un tema esistenziale e soggettivo che trova nel passato e nel presente le orme del proprio passaggio”.
Non finisce qui l’azione del tempo, scandisce anche la realizzazione dell’opera in modo diverso dalla normale composizione artistica. Perché al tempo necessario per la preparazione si aggiunge “il tempo brevissimo, quasi immobilizzato, dello scatto fotografico”, un’ulteriore peculiarità su cui vogliamo soffermarci.
Il processo alchemico dell’artista
Ed ecco come agisce in pratica l’artista nella preparazione delle sue opere. Prima sceglie i materiali con cura, e si tratta di tessuti colorati e di seta grezza, perfino di resina e di cenere, poi procede alle sovrapposizioni e ai “collage” con strisce su pannelli di legno, al termine interviene la fotografia. il colore, la cenere e non solo, agiscono come catalizzatori in un processo alchemico che trasmuta i materiali iniziali dando una nobiltà in un processo alchemico paragonato a quello che porta all’oro.
La fotografia conclusiva “è come un sigillo in grado di Racchiudere dentro l’opera tutti i ‘tempi’ che è in grado di raccontare; un foto che cessa così di essere un semplice scatto a persone, luoghi, oggetti, e diventa memoria collettiva”. Scopriamo così un altro modo di vedere la fotografia, dopo Rodcenko e Doisneau, Cartier Bresson e Berengo Gardin, Abate e Giacomelli, Lagerfield e Ghergo, Lachapelle e Mc Curry fino alla fotografia astratta di De Antoniis. L’ effetto è sorprendente, quasi intraducibile, i suoi alberi protesi nell’infinito hanno una forza e insieme un’armonia date dalla combinazione della luce sui rami che sembrano ruotare nell’aria. Si avvertono sensazioni impressioniste nella visione dell’insieme, mentre il gioco delle prospettive conferisce un dinamismo tutto particolare. Tutto ciò crea nell’osservatore uno stato di abbandono onirico, per l’emozione che si prova dinanzi a immagini che portano in alto, sempre più su. Anche nelle sue installazioni la dimensione temporale sovrasta quella spaziale.
Utilizza l’acqua come elemento vitale sorgente di rigenerazione, svolge la funzione che nelle altre opere esercitano la cenere e i colori. “Per l’artista milanese, il luogo diventa una dimensione temporale da indagare, un’apertura dimensionale che, al di fuori del concetto tradizionale di tempo, deve trovare un legame esteriore ed interiore con l’opera che nasce site-specific”. Il tutto viene visto in chiave simbolica.
Valli conclude così: “”Il più delle volte non è l’artista milanese a creare il simbolo, ma è il simbolo, tramandato di generazione in generazione, che gli s’impone. Lui non fa altro che convertire la materia in forma che incontra il colore e la superficie per poi unirsi alla luce e alla raffinatezza suprema dello scatto fotografico, raggiungendo l’obiettivo di trasformare la realtà nella sua espressione più alta”. Lo vediamo nell’altezza vertiginosa dei suoi alberi, e nell’altezza includiamo anche e soprattutto quella non misurata dai metri svettanti, ma nell’intensità emotiva suscitata.Al titolo “Alberi” che torna invariato nella gran parte delle opere, pur se sono rappresentati nelle forme più diverse, in qualche caso è aggiunta una qualificazione: “Alberi vertigine” e “Alberi vertigine nera”, “Latitudine 45,7397” e “Longitudine 8,6278”. Sono visioni dal basso, in cui la luce ha un ruolo fondamentale, abbiamo la divisione nelle forme geometriche regolari cui si è accennato, fino a 40 rettangoli ricomposti in una visione unitaria come erano i grandi schermi televisivi per esterno del passato.
La maggior parte degli “Alberi” , compresi quelli con la “vertigine” sono recentissimi, realizzati nel 2018 nel quale troviamo anche dei “Ritratti di Maura”, il volto ripreso frontalmente e di profilo, destro e sinistro, con motivi vegetali sia tutt’intorno, sia sulla fronte, il mento e le guance, ci sembra di sentire l’eco della immedesimazione panica della “Pioggia nel pineto” di Gabriele d’Annunzio, “piove sui nostri volti silvani”:ebbene, l’artista è riuscito a rappresentarli.
Info
Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiuso. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com, Catalogo “Manuel Felisi. Presente del passato”, a cura di Maurizio Vanni, Manfredi Edizioni, ottobre 2018, pp. 98, formato 22,5 x 22; 5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr., i nostri articoli, in questo sito: per le due mostre citate con Felisi, “Shakespeare in Rome” 25 aprile 2016, “Linea di confine” 11 maggio 2015; per i fotografi citati, su De Antonis 19 e 29 dicembre2016, Lachapelle 12 luglio 2015, Abate 2 gennaio 2013, Gardin-Giacomelli 7 novembre 2912, Doisneau 2 novembre 2012; inoltre cfr. i nostri articoli in fotografia.guidaconsumatore.it, su Berengo Gardin 10 maggio 2012, Ghergo 11 aprile 2012, Cartier Bresson 24 gennaio 2012, McCurry 2 articoli il 7 gennaio 2012 e uno il 17 marzo, Rodcenko 27 novembre 2011, Lagerfeld 27 aprile 2011 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). .
Foto
Le immagini sono state tratte dal sito galleriarusso.it che si ringrazia, con i titolari dei diritti. Sono intitolate “Alberi”, a
parte l’immagine n. 3, “Vertigine”, tutte tra il 2016 e il 2018, e quella di chiusura, “Gabriele e Medea” , 2015.
L’11 ottobre 2018, nella sede della Legione Allievi Carabinieri di Roma, è stato presentato il libro di Gelasio Giardetti, “I Carabinieri nella storia italiana. In memoria della loro deportazione nei lager nazisti”, edito dall’Associazione Nazionale Carabinieri. Il libro è dedicato “all’Arma dei carabinieri per l’inestimabile contributo fornito alla Patria nel consolidamento e nella difesa delle libertà democratiche”, e tratta della loro attività come Arma militare. Nella presentazione a una sala affollata di invitati e di Carabinieri, parecchi con alti gradi ma soprattutto molti giovani, il brillante intervento di Umberto Broccoli, seguito dall’orazione appassionata del gen. B. Vincenzo Pezzolet, e dalle considerazioni dell’autore Gelasio Giardetti.
La copertina del libro
Contenuto del libro e impressioni di lettura
Un libro sui Carabinieri potrebbe sembrare riservato a una cerchia limitata e comunque circoscritta, anche se non troppo ristretta data la capillare distribuzione delle stazioni di carabinieri in ogni zona del paese.
Questa era almeno la nostra impressione prima di averlo letto, anzi dobbiamo confessare che abbiamo cominciato a scorrerlo con il distacco che si prova dinanzi a temi che sentiamo alquanto estranei, al di là della curiosità per una storia che suscita comunque un certo interesse. Con altrettanta sincerità dobbiamo confidare che invece ne siamo stati presi perché la storia raccontata nel libro è in realtà la storia d’Italia della quale l’Arma benemerita è parte integrante.
E se pensavamo che essendo una storia nota nelle linee generali il racconto poteva essere ripetitivo, ci siamo ricreduti pure su questo, tanto siamo stati attratti da una lettura divenuta subito avvincente: forse perché nella lunga carrellata sulla storia d’Italia vi sono accenti nuovi, o perché è rara una visione congiunta che si snoda come in un film, dei periodi storici che si sono succeduti dal Risorgimento alla 2^ Guerra mondiale passando per le vicende della 1^ Guerra mondiale, poi del regime fascista fino alla Resistenza e alla Liberazione; o forse perché la rievocazione storica è ravvivata dalla personalizzazione nelle figure fulgide dei carabinieri che si sono segnalati per atti di valore.
1. Carica dei carabinieri a Pastrengo, 1848, di Sebastiano De Albertis
Non si tratta di individuare quale di questi motivi è alla base dell’attrazione inattesa, forse tutti, perché ricordare eventi così importanti per la vita della nazione è come ripercorrere la propria vita sia per le vicende vissute anche indirettamente dal racconto dei familiari, sia per gli eventi più antichi, appresi sui banchi di scuola e approfonditi con le letture da chi ha voluto saperne di più. Così la lettura del libro crea un magico clima evocativo per il cuore e la mente; ed è anche una lezione di alta coscienza civile in una fase in cui l’immagine dell’Arma è apparsa offuscata per i gravissimi episodi che hanno coinvolto dei semplici militari, e altri che hanno lambito perfino il vertice.
Ma sono stati episodi isolati, inevitabili in ogni organizzazione, per quanto la fiducia nei Carabinieri è stata sempre tale da lasciare increduli dinanzi a fatti che sembravano impossibili fino a che non di sono avute prove inequivocabili; perciò ci si attende un rigore ancora maggiore. Pur con questo rilievo, con la stessa obiettività si deve dire che tali fatti, che restano gravissimi, non possono lasciare macchie su un tessuto, come quello dell’Arma, la cui integrità ha superato prove ben più impegnative della cronaca attuale, basti pensare alle deportazioni nei lager nazisti alla cui memoria il libro è dedicato. Anzi, va preso atto che si è messa in campo, per così dire, la linea del Progetto “Tacere non è un dovere”, e nel tragico caso di Stefano Cucchi il comandante gen. Nistri ha proclamato solennemente “chi sa parli”; vale a dire che “parlare è un dovere” per denunciare deviazioni, come quelle inammissibili venute alla luce di recente, dall’etica del corpo oltre che dalla legalità.
2. I carabinieri nella battaglia di Novara, 1849
Riguardo al motto “Nei secoli fedele”, l’Arma ha già mostrato nella sua storia che se le istituzioni prendono derive antidemocratiche e autoritarie non dà il proprio supporto alle conseguenti violazioni della legalità; ne era consapevole il fascismo che creò appositamente un corpo speciale, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, con i pretoriani ai quali affidare le missioni che mai i carabinieri avrebbero svolto perché sarebbero state al servizio del regime contro ogni etica civile e politica. La fedeltà dei Carabinieri è verso il popolo di cui si sono sentiti sempre tutori e difensori.
E’ un”Arma forte delle sue tradizioni, ma capace di allineare ai tempi il severo motto “Obbedir tacendo e tacendo morir” con il programma in atto “Tacere non è un dovere”.
Del resto, i Carabinieri restano il presidio per l’ordine pubblico più vicino alla gente sia logisticamente sia umanamente, per la tradizione consolidata che vedeva nel maresciallo dei carabinieri e nel medico condotto, nel maestro di scuola e nel parroco, i punti di riferimento che davano sicurezza ai cittadini per la convivenza quotidiana e la cura della salute, l’istruzione e la vita spirituale, cioè i cardini della crescita umana e civile. Le profonde trasformazioni nell’organizzazione della società hanno modificato in parte questo assetto tradizionale, ma non si può cancellare ciò che resta impresso nella memoria popolare e continua a svolgere un ruolo molto importante, anzi fondamentale.
3. L’assedio di Sebastopoli, 1854, di Franz Roubaud
Anche per questo motivo i carabinieri sono al centro delle ben note “barzellette” che pur nell’intento dissacratore della satira all’insegna del “castigat ridendo mores”, con l’umorismo ne sottolineano indirettamente la popolarità e la presenza nella vita di tutti. Nell’autunno del 2009, alla “Biblioteca Nazionale” di Roma, la mostra “In nome della legge” ha esposto le vignette satiriche sulla Polizia di Stato, apparse a partire dai primi del ‘900 su tante riviste umoristiche; l’esposizione è stata promossa dalla stessa Polizia. Non sarebbe sorprendente che “Tacere non è un dovere” possa portare anche i Carabinieri a un “outing” analogo sulla satira che li ha presi a bersaglio con una dissacrazione in fondo di tono affettuoso.
Ma il libro non si occupa dell’ immagine “domestica”, per così dire, a tutti familiare dei carabinieri, e non serve sottolineare gli infiniti episodi in cui si sono segnalati nella quotidianità, che coincide con la svolgersi della vita della Nazione. D’altra parte, sono stati costituiti per questo, per assistere oltre che per proteggere le comunità nei momenti difficili della vita di ogni giorno. E’ una cronaca anch’essa punteggiata da momenti gloriosi, valgano per tutti le copertine della “Domenica del Corriere” che fissano questi episodi, come l’arresto in corsa del cavallo imbizzarrito per citare una delle più note, scelta anche come conclusione di un film d’epoca.
4. I carabinieri difendono la roccia dei piemontesi, di Silvano Campeggi
Il libro, però, entra nella Storia, nel ripercorrere la vicenda dei Carabinieri come parte integrante della storia d’Italia che marca i momenti topici della vita nazionale presenti nella mente di tutti. La sua non è né la storia cosiddetta “alto mimetica”, dal’angolo di visuale delle istituzioni e dei potenti, né quella “basso mimetica”, dalla parte del popolo sacrificato sull’altare di cause spesso a lui estranee. Nella sua rievocazione appassionata e appassionante, l’Autore ha riconsiderato la storia d’Italia con lo spirito del ricercatore – la sua attività nel mondo dell’industria trasferita anche su altri libri storici – in una posizione intermedia tra quelle appena citate, fuori dai luoghi comuni ma ponendosi dal punto di vista dei Carabinieri nelle fasi in cui sono stati protagonisti; e va sempre più a fondo nella ricerca penetrando via via nell’animo dei protagonisti in un crescendo di emozioni.
Basta iniziare la lettura, poi si è portati ad andare avanti presi da vicende di cui normalmente si conoscono solo le linee generali e si è ansiosi di saperne di più; non è facile crederlo, pochi penserebbero che una storia di Carabinieri possa coinvolgere a tal punto, ma è rivelatrice e narrata in modo avvincente; non ci si può staccare dal libro, ne possiamo dare testimonianza diretta.
5. I carabinieri nella battaglia di Magenta, 1859
In questo risiede il fascino della rievocazione, la storia avvince perché è la nostra storia, il ritmo del racconto è incalzante senza evitare i passaggi più difficili, anzi l’Autore è portato a concentrarvi l’attenzione maggiormente quanto più sono controversi, è come se accettasse la sfida della ricerca storica; e nella storia d’Italia che ci appartiene si inserisce naturalmente la storia dell’Arma in modo sempre più penetrante, con i valori morali e civili in evidenza nelle vicende esemplari degli atti di eroismo che avvolgono di una luce vivida squarci di toccante umanità fino a conquistare la scena in un crescendo veramente emozionante. Pur con il rigore di un libro di storia, ha il fascino di un romanzo storico.
Una letttura emozionante, dunque, oltre che istruttiva, perché pur se il tessuto della trama della storia italiana è noto a grandi linee, vengono approfonditi i momenti fondanti e soprattutto viene rivelata quella parte dell’azione dei Carabinieri meno nota che va oltre la quotidianità ben conosciuta per entrare nella storia in una dimensione diversa ma correlata alla prima.
Ne ripercorriamo i principali momenti per dare un’idea di una storia gloriosa che tutti dovrebbero conoscere. Per questo il libro, oltre ad essere presumibilmente studiato nelle scuole degli Allievi Carabinieri; potrebbe entrare nelle letture delle nostre scuole, dato il suo alto valore civile e umano.
6. Un carabiniere indica la strada del bosco con nascosti i banditi, 1863, di Quinto Cenni
I Carabinieri nel Risorgimento
Il libro, com’è implicito da quanto abbiamo detto sulle impressioni di lettura, si libera rapidamente dai pur necessari passaggi burocratici; la storia dei Carabinieri viene vista attraverso le azioni, non i documenti, a parte quelli utilizzati per ricostruirle, l’Ufficio storico è stata una miniera di notizie per il ricercatore.
Lo si vede fin dall’inizio quando dalla doverosa ricostruzione della nascita del corpo dei Carabinieri Reali con le “Regie Patenti” del 1814 si passa all’azione sia sul piano dell’ordine pubblico, con la ricerca di 9 evasi dal carcere di Cuneo allorché muore il primo carabiniere in servizio, Giovanni Boccaccio, è il 23 aprile 1815; sia come Arma militare che, sia pure con pochi uomini, combatte a fianco dell’esercito piemontese contro le truppe di Napoleone con “valore, intrepidatezza, ordine e maestria”, secondo l’elogio del gen. Latour alla cavalleria italiana, di cui facevano parte i carabineri.
Dopo le Regie Patenti del 1816 incalzano i moti rivoluzionari del 1821, con l’abdicazione di Vittorio Emanuele I, le speranze suscitate dal reggente Carlo Alberto, la restaurazione di Carlo Felice in un contesto particolarmente confuso sotto l’aspetto istituzionale. Anche qui si parla dei carabinieri, per la carica di 50 di loro verso i costituzionalisti in rivolta non per reprimerli, ma per creare un diversivo che consentisse ai 300 carabinieri di stanza a Torino di ripiegare su Novara.
7. I carabinieri nella carica di Monte Croce, 1866
Un carabiniere cadde sotto il fuoco dei rivoltosi “non distinguendo forse il grido da loro innalzato di ‘Viva la Costituzione’, poi con l’aiuto degli austriaci i moti furono repressi, la Costituzione che era stata concessa abolita, il ruolo e l’impiego dei carabinieri ampliato”.Tornano in scena le Patenti, questa volta le Regie Patenti del 1822, cui seguono quelle del 1832, in presenza dei nuovi moti rivoluzionari del 1831-34.
I Carabinieri sono sempre dalla parte delle istituzioni, e non mancano gesti di coraggio, da quello del carabiniere Carlo Gandino, portaordini catturato che non accetta di passare con i rivoltosi e riesce a fuggire completando la sua missione, al gesto eroico del carabiniere Giovanni Battista Scapaccino, anch’egli portaordini, che fu abbattuto mentre cercava di rompere l’accerchiamento dopo aver rifiutato di tradire la fedeltà alle istituzioni.
8. I carabinieri in un episodio della terza guerra d’indipendenza, 1866, di Sebastiano De Albertis
I moti rivoluzionari sono accuratamente ricostruiti dall’Autore che mette in rilievo come i tentativi mazziniani fossero destinati all’insuccesso perché la popolazione non aderiva, fino a che le sue idee “rivoluzionarie” non furono sostituite dalle idee “moderate” liberali; entrano in scena Vincenzo Gioberti e Silvio Pellico nel sensibilizzare ambienti sempre più vasti. I Carabinieri li troviamo impegnati a Pastrengo, in una battaglia di cui viene ricostruito lo svolgimento, con le strategie e le tattiche, la disposizione delle truppe e la carica finale.
Poi irrompe sulla scena Garibaldi, e con lui il processo di unificazione dell’Italia che, sottolinea l’Autore, si lega “strettamente e indissolubilmente” all’Arma dei carabinieri. e lo dimostra rievocando le loro azioni in quella fase cruciale della storia italiana.
9. La battaglia di Mentana, 1867, di T. Rodella
I Carabinieri si segnalarono in particolare nella lotta al brigantaggio, fenomeno nato dalle degenerazioni delle iniziali ribellioni contro gli invasori piemontesi e le prevaricazioni dei proprietari terrieri che si trasformarono in azioni criminali; viene avanzata anche l’ipotesi che vi si possono trovare le origini della mafia.
Un racconto coinvolgente descrive gli scontri con i malviventi come sequenze cinematografiche, dalle tattiche per bloccarli al corpo a corpo per catturarli: spicca la figura del carabiniere Chioffredo Bergia, protagonista di brillanti operazioni in varie località, insignito prima della Medaglia d’Argento, poi della Medaglia d’Oro al valor militare.
La lotta al brigantaggio si protrasse per un decennio, vi persero la vita più di 100 carabinieri, con centinaia di feriti. per debellare le bande di Schiavone e Caruso, Stramenga e Crocco, Ciarullo e Pizzichicchio, Tamburrino e Pomponio, Di Nardo e D’Alena e tante altre, si concluse nel 1870. Intanto c’è la partecipazione dei carabinieri alla Terza guerra d’indipendenza, un migliaio si unirono all’esercito e ai volontari di Garibaldi nella funzione tradizionale di polizia militare, difesa dei confini, dei valichi e dei passi.
10. Sommossa scoppiata a Pietraperzia, 1894.
Si è avuta anche la partecipazione a missioni internazionali per azioni militari e di soccorso: i Carabinieri fecero parte del Corpo di spedizione sardo in Oriente guidato da Alfonso La Marmora, che nel maggio 1855 sbarcò a Balaclava, ci furono scontri alla baionetta fino alla conquista di Sebastopoli; si segnalarono nelle operazioni di soccorso alle popolazioni, in particolare ai colpiti dalla pestilenza, morirono due di loro contagiati dal morbo.
Quindi la missione a Creta nel 1896 per ricostituire la Gendarmeria internazionale cretese ed evitare il conflitto tra Grecia e Impero ottomano: dopo un primo insuccesso, nel 1898 fu istituita una gendarmeria unica con le polizie delle quattro zone di influenza delle potenze europee in cui venne divisa l’isola, con al comando il capitano dei carabinieri Federico Craveri, cui seguì Balduino Caprini fino a Eugenio Monaco, il comando finì quando terminò la missione il 31 dicembre 1906 con la pacificazione dell’isola dopo libere elezioni. Fu un bel riconoscimento internazionale per l’Arma!.
11. 1^ Guerra mondiale. In trincea pronti alla difesa
Un drappello di carabinieri partecipò alla spedizione europea in Cina per sedare la rivoluzione dei Boxer che avevano assalito e assediato le legazioni di 8 paesi tra cui quella italiana, erano in numero modesto ma stanno a dimostrare l’importanza della loro presenza per i servizi di polizia militare.
All’interno, oltre alle normali operazioni di ordine pubblico, nei primi anni del ‘900 si segnalarono nelle operazioni di soccorso alle popolazioni colpite da calamità naturali, la più spaventosa fu il terremoto con il conseguente maremoto che devastò Messina e Reggio Calabria provocando un’ecatombe di vittime, 120.000, con decine di migliaia di feriti e centinaia di migliaia di senza tetto. Perirono 21 carabinieri, 1 appuntato, 5 sottufficiali e un ufficiale.
12. 1^ Guerra mondiale. L’attacco
Fu conferita all’Arma, per la sua efficace azione di soccorso e di contrasto allo sciacallaggio, la Medaglia d’Oro di benemerenza con questa motivazione: “Si segnalò per operosità, coraggio, filantropia e abnegazione nel portare soccorso alle popolazioni funestate dal terremoto del 28 dicembre del 1908”. A singoli carabinieri furono assegnate altre 2 Medaglie d’Oro.
I Carabinieri nella 1^ Guerra mondiale
L’esercito italiano impegnato nella Grande guerra era composto di 1.300.000 soldati, e di fronte a questa mobilitazione risultava insufficiente il primo contingente di 2.500 carabinieri destinato alle operazioni militari, per cui fu portato a circa 20.000 uomini con 500 ufficiali, impegnati nelle azioni belliche, nei servizi di polizia militare, difesa e ripristino dei ponti e in nuovi servizi di “intelligence”.
13. 1^ Guerra mondiale. Sosta in trincea
Parteciparono al conflitto sui fronti del Carso, dell’Isonzo e del monte Sabotino, e si segnalarono nel 2015 nella battaglia di Podgora con 1.600 uomini che diedero il cambio al Reggimento di fanteria, mentre i nemici austriaci erano almeno il doppio dei carabinieri. E’ appassionante la descrizione della strategia, della tattica e degli scontri sanguinosi alla baionetta tra i reticolati della guerra di trincea, morirono 52 carabinieri e il comandante della 7^ compagnia, cap. Eugenio Losco, 11 dispersi, furono assegnate 9 Medaglie d’Argento, 33 di Bronzo e 13 Croci al valor militare, per i tanti atti di coraggio, un eroismo sfortunato perchè “quota 250” non fu conquistata.
Nel maggio 1917 i Carabinieri fecero parte del “Distaccamento italiano in Palestina”, erano 100 insieme a 300 Bersaglieri. Avevano soprattutto compiti di polizia e presidio della linea ferroviaria, ma parteciparono all’offensiva del 7 novembre 1917; poi si aggiunse una squadrone di carabinieri a cavallo fino al rimpatrio definitivo nel 1921. E’ soltanto un piccolo tassello delle missioni internazionali dovute al prestigio e all’efficienza raggiunta fin da allora dall’Arma.
14. 1^ Guerra mondiale. La battaglia del Podgora, 1915, di Vittorio Pisani
Un aulico riconoscimento nella definizione di Gabriele d’Annunzio: “E’ l’Arma della fedeltà immobile e dell’abnegazione silenziosa; l’Arma che nel folto della battaglia e al di qua della battaglia, nella trincea e nella strada, nella città distrutta e nel camminamento sconvolto dà ogni giorno uguali prove di valore, tanto più gloriosa quanto più avara le è la gloria”.
Con queste parole concludiamo la rievocazione della prima parte dell’epopea dei Carabinieri nella storia italiana, dalla nascita del corpo al Risorgimento e alla 1^ Guerra mondiale, sempre seguendo l’accurata ricostruzione del libro di Gelasio Giardetti. Prossimamente rievocheremo la loro posizione rispetto al fascismo e l’intervento nelle guerre in Grecia e Russia, Africa Orientale e Settentrionale; per poi passare alla difesa di Roma e alla loro posizione verso la RSI, e concludere con il dramma della deportazione nei lager nazisti fino al loro contributo alla Resistenza, clandestino o palese con l’azione militare fino a creare e comandare apposite formazioni partigiane.
15.1^ Guerra mondiale. Vittorio Veneto, la vittoria, 1918
Info
Gelasio Giardetti, “I Carabinieri nella storia italiana. In memoria della loro deportazione nei lager nazisti”, Associazione Nazionale Carabinieri Editrice, ottobre 2018, pp. 394. I prossimi tre articoli del nostro servizio usciranno in questo sito il 6, 8, e 10 novembre p. v., con altre 17 immagini ciascuno. Dello stesso autore, “L’uomo, il virus di Dio”, Arduino Sacco Editore, novembre 2014, pp. 184; “Dio, fede e inganno”, Arduino Sacco Editore, settembre 2013, pp.240; “Gesù, l’uomo”, Andromeda Editrice, giugno 2008, pp. 320; sui primi due libri ora citati cfr. i nostri articoli in questo sito il 10 e 13 giugno 2015 e il 2 febbraio 2014. Per il Risorgimento e la 1^ Guerra mondiale cfr. i nostri articoli: in questo sito, “Il centenario della Grande guerra” 2 giugno 2014 e “Verso la Grande guerra” 15 dicembre 2012; in cultura.inabruzzo.it “Pittori del Risotgimento” 29 dicembre 2010, 6 e 9 gennaio 2011, la “Grande guerra a colori” 18 dicembre 2009; in fotografia.guidaconsumatore.it “Immagini verso la Grande guerra” dicembre 2012, “150° dell’Unità d’Italia” 10 marzo 2012, “Ombre di guerra” 2 febbraio 2012, “Il Milite ignoto” 2 novembre 2011. Inoltre, per le vignette di satira sulla polizia citate, in cultura.inabruzzo.itl’articolo “In nome della legge” 11 novembre 2009 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, intanto sono disponibili su richiesta).
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Le immagini, eccettuata quella di apertura, sono state tratte dal sito web csrabinieri.it, con le relative didascalie, meno la n. . 11 da gentecomune.it e la n. 12 da riviera24, la n. 13 da cronache.ancona.it e la n. 15 da ilgiornale.it. Ringraziamo i titolari dei siti e dei diritti dichiarandoci pronti a escludere le immagini il cui inserimento non fosse loro gradito, precisando che sono meramente illustrative e non necessarie, e che manca la benché minima finalità promozionale e tanto meno economico-commerciale. Sono riportate immagini dal Risorgimento alla 1^ Guerra mondiale. In apertura, la copertina del libro di Gelasio Giardetti; seguono 10 immagini con riproduzioni di quadri d’autore sulle vicende epiche dell’Arma soprattutto nel Risorgimento; poi, 5 immagini sulla 1^ Guerra mondiale; in chiusura, una carica storica dei carabinieri.
Nella meritoria attenzione della Galleria Russo al Futurismo, il movimento italianissimo che ha scosso il mondo dell’arte e la vita stessa nella prima metà del ‘900, si inserisce una mostra molto particolare: “Roberto Floreani, Ricordare Boccioni. Opere su carta”. Sono esposte 35 opere, realizzate nel triennio 2015-18, con materiali ottenuti sulla base di una accurata ricerca materica. La mostra resta aperta nella galleria vicino a Piazza di Spagna dal 26 settembre al 6 ottobre 2018.
Le 35 opere su carta di Floreani
Perché è molto particolare la terza mostra dal 2012 dedicata a Floreani dalla galleria? La risposta è duplice: per l’originalità dell’omaggio ad uno dei maggiori protagonisti del Futurismo, e per la qualità delle opere, su carta, con innesti speciali, in cornici appositamente ideate e realizzate, che sono state definite “scatole della memoria”.
Sul primo aspetto non sorprende l’omaggio di Floreani a Boccioni, al quale aveva già dedicato un progetto artistico ai Musei Civici di Padova nel 2016; inoltre nel 2015 era stato uno dei relatori al Congresso internazionale sul Futurismo a Lisbona, ed è autore del saggio “I Futuristi e la Grande guerra” e del saggio “Umberto Boccioni. Arte-vita” pubblicato da Electa. Il tutto rientra nel progetto del 2015 “Ricordare”, ne fa parte anche la serata teatrale a Vicenza “Zang Tumb Tumb”.
Per il secondo aspetto la particolarità delle opere su carta appare rilevante, considerando che è la prima mostra soltanto con opere di questo tipo nel corso della lunga storia espositiva dell’artista, con una settantina di mostre personali. Ma la carta non è l’unico elemento distintivo in quanto non è utilizzata tal quale, ma trasformata in carta-tessuto dalla superficie cannettata su cui l’artista ha applicato materiali quali vetro e carbone, legno e ferro di risulta, e impresso una notevole vivacità cromatica, che va dalle accese tonalità di rosso e arancio, all’intenso Klein Blue, mentre non mancano i forti contrasti bianco-nero. Le cornici delle opere .sono in betulla bianca, a cassetta.
Non stiamo a descrivere le opere, siamo nel campo dell’astrazione con la libera manifestazione dei sentimenti che nell’artista suscita la figura celebrata, nelle impenetrabili espressioni astratte che in Floreani si coniugano ad elementi geometrici; in più, in quest’occasione, a dei chiari riferimenti a Boccioni, con inserimento di immagini ed elementi che rimandano alla sua vita artistica e non solo.
I progetti tematici nel percorso artistico di Floreani
Riteniamo a questo punto di dover accennare al percorso artistico di Floreani, che già nell’anno successivo alla sua prima mostra del 1985 vinse il primo premio alla Biennale Veneta per artisti sotto i trent’anni. Le sue opere spesso sono state inserite in progetti più ampi come “Itinerari della memoria” nel 1989 a Genova, e “Sogno d’Acqua” inizio anni ’90 a Milano, “La casa e il tempo” nel 1994 a Ravenna-Zagabria e “L’Età della conoscenza” nel 1996 a Parma, “Regno di Mezzo” nel 1997 a Bolzano, e “Vedute” nel 1999 a Milano. Numerose mostre personali e antologiche, e nel 2008 il progetto “Aurora Occidentale alla Biennale di Venezia” con una mostra al Padiglione Italia, seguito nel 2011 dal progetto “Alchemica” a Gallarate, poi dal progetto “Roma” per la Galleria Russo.
Insieme ai progetti espositivi le “performances” con poeti e musicisti, ricordiamo alcuni temi: nel 2000 “Yule” con il poeta Giuseppe Conte a Faenza e “Hagakure” a San Benedetto Po, quest’ultimo progetto teatrale nel 2001 a Trieste; Vicenza, Verona, “Ritorno all’Angelo nel 2002 e “Una parte (di tutte le parti)” nel 2004 a Tolmezzo, “Ogni viaggio è un ritorno” nel 2005 a Udine, “Ottantuno” nel 2005 a Milano, e “Gerarchie Spirituali (passaggio in Ticino” nel 2008 a Chiasso, “Risvegli” nel 2009 a Buonanno e “Paesaggi Immaginari” con il poeta Tomaso Kemeny nel 2010 a Milano. Non si contano le collettive, anch’esse incentrate su tematiche particolarmente intriganti.
Sul futurismo abbiamo già citato alcuni suoi interventi che ci sono apparsi molto significativi; ma ce ne sono parecchi altri: il Progetto Manifesto per una personale nel 2008 a Prato, e la realizzazione dello spettacolo pirotecnico “TracciantiVette Tricolori” nel 2009, la relazione “Futurista-progettista”al 40° dell’AIPI a Vicenza, a Padova il Progetto “Arte-vita futurista” e la “Grande Serata futurista in guanti di daino”, il saggio”Futurismo Antineutrale” pubblicato da Silvana Editoriale e la postfazione al libro sullo scultore futurista Quirino de Giorgio nel 2010.
Un artista così impegnato nei progetti tematici e così interessato ad approfondire il movimento futurista non poteva non essere fortemente colpito dalla personalità di Umberto Boccioni. che, per mettere in pratica l”equazione arte-vita si arruolò volontario e andò al fronte per sperimentare “la guerra sola igiene del mondo”; la vita di trincea, nella Grande guerra, gli fece toccare con mano una realtà ben diversa, fu una tremenda doccia gelata, morì nel 2016 in una esercitazione militare.
Umberto Boccioni, arte-vita secondo Floreani
Sotto il profilo artistico, a Boccioni va riconosciuto un processo evolutivo che lo ha portato dalle iniziali espressioni tributarie dell’arte antica e rinascimentale, a quelle successive con apporti dell’arte barocca e dell’impressionismo, del simbolismo e dell”espressionismo, fino all’approdo al Futurismo. La svolta si è avuta quando sulle forme più evolute dell’arte ai primi del ‘900, come il cubismo, ha innestato un fattore fino ad allora ignorato, il movimento; e non come mero fatto artistico, ma come espressione di una società e di un mondo in cui la modernizzazione spazzava via le incrostazioni del passato: nella vita, con le città in forte espansione, nel lavoro con l’industrializzazione e la conseguente meccanizzazione – viene introdotta anche l’elettricità – tutti sconvolgimenti con un fattore comune: alla lentezza si sostituisce la velocità, il dinamismo.
Ecco come lo considera Floreani nel saggio che abbiamo citato “Umberto Boccioni. Arte- vita”. Vede in lui la stretta relazione tra la visione del mondo nella sua prorompente modernità e la cesura con le perduranti concezioni ottocentesche, il tutto tradotto nell’arte. Ma anche la sua complessità nei rapporti privati e con se stesso, movimentista e tormentato, che diventa artista-monaco e poi anche guerriero.
La sua esplorazione va sempre più in profondità, l’incontro con gli altri protagonisti del Futurismo, Marinetti e Balla, Russolo e Carrà ne rafforza le convinzioni essendo tutti “esteti dell’eccesso”. Sente l’esigenza di una “ricostruzione mistica dell’universo”, con al centro l’energia di cui tutti sono trasmettitori e ricettori, quindi legati all’insieme che li circonda. “L’Arte deve divenire una funzione della vita… se non si riesce a rimettere l’Arte nella vita i posteri rideranno di noi”, scrive Floreani, incentrando su questo assioma la sua ricostruzione della vita e dell’arte di Boccioni. E aggiunge: “Senza Boccioni il Futurismo non avrebbe probabilmente intrapreso quella multidisciplinarietà con tale slancio e qualità intrinseca, in modo così convincente e rivoluzionario”.
In definitiva ha dato un forte impulso nell’introdurre la rivoluzione della modernità, che esprime nella pittura come nella scultura, tanto che la sua opera viene considerata come il passaggio all’arte contemporanea, e lui come anticipatore di tematiche ancora attuali nella sua tensione verso il futuro: è visto precursore, per certi aspetti, di Fontana e dell’arte povera, di Schifano e di Warhol.
Luca Siniscalco, che lo definisce “un contemporaneo dello spirito, un autore postumo a se stesso, per dirla con l’amato Nietsche, una cartina di tornasole della modernità e delle sue contraddizioni”, parla della ” potenza dissacrante di un dinamitardo del Novecento” e cita questa sua “precisa raffigurazione dello scenario artistico moderno”, che si rivela quanto mai profetica: “Verrà il tempo in cui il quadro non basterà più: la sua immobilità sarà un anacronismo col movimento vertiginoso della vita umana. L’occhio dell’uomo percepirà i colori come sentimenti in sé: i colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi, e le opere pittoriche daranno emanazioni luminose e gas colorati, che sulla scena di un libero orizzonte commuoveranno ed elettrizzeranno l’anima con la forza di una favola che non possiamo ancora concepire”.
Forse anche per questa sua straordinaria visione del futuro, come un Giulio Verne dell’arte, i riconoscimenti a Boccioni sono molto diffusi: lo dimostrano, tra gli altri, gli articoli celebrativi nella rivista “Futurismo – Oggi” negli anni ’70 e ’80 e nel “periodico mensile per i giovani futuristi italiani diretto da Enzo Benedetto”, fino ai “Comitati W Boccioni”.
Quindi anche noi diciamo “W Boccioni” nello scorrere le 35 opere di Floreani che lo celebra nelle sue composizioni su carta e materiali vari come nei suoi scritti che ne approfondiscono il valore artistico e umano. Un impegno meritorio, come quello della Galleria Russo sugli artisti futuristi.
Info
Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiuso. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com Cfr. i nostri articoli in questo sito, sulle mostre di futuristi alla galleria Russo: “La ricerca della modernità, dal Divisionismo al Futurismo”, 7 marzo 2018, Marchi, 24 novembre 2017, Thayhat 27 febbraio 2017, Tato 19 febbraio 2015, Dottori 2 marzo 2014, Erba 1° dicembre 2013, Marinetti 2 marzo 2013.
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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nella Galleria Russo, ai ringrazia il titolare con i proprietari dei diritti per l’opportunità offerta. Sono tutte opere esposte di Floreani celebrative di Boccioni.
Si conclude il nostro resoconto del Convegno tenuto nella sede di Civita il 17 ottobre2018 sul tema “Cultura come diritto di cittadinanza: radici costituzionali, politiche e servizi”, con al centro l’attuazione dell’art. 9 della Costituzione sulla tutela e valorizzazione della cultura e del paesaggio nell’interpretazione allargata alla fruizione. Dopo la presentazione del Segretario Generale di Civita Nicola Maccanico, e dei managing partner di “A & A” che ha collaborato con Civita all’organizzazione del Convegno, Gianluca Albè e Francesco Caroleo, che ha moderato l’incontro, c’è stata l’esposizione del Giudice Emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, poi dei due Assessori alla cultura a livello locale, Gian Paolo Mnnzella per la Regione Lazio e Antonella Agnoli per la città di Lecce. Ne abbiamo dato conto nell’articolo precedente, ora riferiamo dell’intervento del Direttore generale dei Musei al Ministero dei Beni e le Attività Culturali Antonio Lampis e terminiamo con l’intervento del presidente di Icon-s International Society of Public Law, Lorenzo Casini e con le parole conclusive di Sabino Cassese.
Galleria degli Uffizi di Firenze
La visione dell’istituzione centrale che coordina l’intero sistema museale
All’intervento del Direttore generale Musei del Ministero dei Beni e le Attività culturali Antonio Lampis diamo un’ampiezza e un rilievo del tutto particolari per il ruolo decisivo che svolge nell’attuazione della riforma dei “luoghi della cultura” primarii, una radicale innovazione nel sistema museale e per questo al centro del tema del Convegno sul diritto alla cultura.
Ricopre l’importante incarico da un anno che è stato molto intenso – soprattutto a livello normativo con l’emissione di molti decreti, e a livello di incontri e manifestazioni – ed è impegnato nell’attuare l’ambizioso programma che ha rivoluzionato il sistema museale italiano. I risultati non si sono fatti attendere, l’afflusso ai musei si è intensificato, con delle vere e proprie code, per un incremento nell’anno del 7,8% negli ingressi, non dovuto di certo alle gratuità dato che gli introiti sono cresciuti del 23,4%, mentre il turismo ha segnato un aumento inferiore, + 4%. Altro che la profezia del 2004 del “Museo invisibile”, ricordata dallo stesso Lampis!
Galleria Borghese di Roma
Il suo non è soltanto un punto privilegiato di osservazione, ma il motore della rivoluzione nel sistema basilare della diffusione della cultura tra il pubblico nel territorio, oltre che nei turisti nell’intero paese. Nella sua impostazione c’è in primo luogo un intento di notevole rilievo: inserire la cultura nel “welfare” considerandola un diritto di tutte le persone che vivono nel territori, e collegarla a casa, scuola e agli altri diritti fondamentali. Questa intenzione ha un riferimento ben preciso, gli indicatori internazionali di benessere che includono la cultura tra i fattori determinanti, e benessere vuol dire anche salute; è legata inoltre al progresso spirituale oltre che materiale della società di cui all’art. 4 della Costituzione. Del resto i musei, nei quali si esprime maggiormente l’accesso popolare alla cultura, sono inseriti nei “servizi pubblici essenziali”, quindi su questa base si può operare perchè la cultura non venga sacrificata nei tagli alla spesa dovuti alle ristrettezze finanziarie.
Il “Sistema unico dei musei” è stata la grande innovazione da mettere in pratica, a due anni dalla riforma che da semplici uffici delle Soprintendenze li ha trasformati in istituzioni autonome con un proprio bilancio e precise responsabilità nell’attuare una riorganizzazione veramente copernicana. Con dei direttori che, per i principali poli museali sono stati scelti medaiante selezione operata dopo un bando internazionale.
E’ uno strumento primario per dare forma concreta al concetto di “cultura come diritto di cittadinanza”, perciò riserviamo al coordinatore del sistema museale italiano uno spazio adeguato per fornire gli elementi principale dell’azione che sta svolgendo.
Museo Archeologico Nazionale di Napoli
La sua missione è di coordinare “le politiche di gestione, fruizione e comunicazione dei musei statali, per garantire lo sviluppo del sistema museale italiano e un’offerta culturale accessibile a tutti e di qualità”. Si è dovuta assicurare l’introduzione dei criteri innovativi nell’impostazione e nella gestione museale con il necessario coordinamento mentre occorreva anche sbloccare le gare per i “servizi aggiuntivi”, cosa che si è fatta mediante un cronoprogramma con un bando quasi ogni settimana.
Il termine “Sistema unico dei musei” non deve far pensare a un monolite, al contrario deve essere “flessibile, leggero e veloce”, e sono stati già fissati per decreto nel giugno scorso “i livelli minimi uniformi di qualità dei musei e dei luoghi della cultura” ponendo anche degli “obiettivi di miglioramento”. La definizione, frutto di lunghi studi anche con gli enti territoriali, ha valore internazionale perché si tende a migliorare la posizione competitiva dell’Italia nel turismo, oltre che a stimolare il processo di crescita culturale dei cittadini, che è la principale finalità.
Pinacoteca di Brera
Naturalmente, non è automatico il raggiungimento di tali livelli, ma sarà favorito dalla creazione di un sistema di connessione dei musei che prevede modelli di autovalutazione da inserire in una piattaforma informatica, e alla rispondenza dei requisiti richiesti ha come risultato l’accreditamento. E’ stata istituita al riguardo una commissione ministeriale che dovrà dare un voto da 0 a10 alle richieste di accreditamento, e dovrà essere ispirata al criterio di “burocrazia zero”, tutto mediante comunicazione digitale, videoconferenze e utilizzazione della piattaforma informatica.
La sburocratizzazione si avvarrà anche di un “vademecum” operativo per i direttori dei musei che altrimenti dovrebbero districarsi nella fitta selva di norme, mentre devono pensare ad agire concretamente con efficienza gestionale ed efficacia propositiva. Il coordinamento di tutti gli istituti museali con quelli principali, i “Poli”, per garantire una migliore verifica e la comparazione analitica dei loro bilanci è un efficace strumento competitivo, al quale si aggiunge il supporto del “centro” ministeriale verso le sedi “periferiche” per gli aspetti gestionali e amministrativi più complessi.
Gallerie dell’Accademia di Venezia
E’ lanciata una sana competizione, i direttori dei musei dovranno tendere ad obiettivi ben precisi rispetto ai quali vi saranno valutazioni di performance. Sono consapevoli che per l’attribuzione del punteggio ai livelli di qualità una efficace rendicontazione sociale avrà un valore elevato, a Firenze si sperimenta il S-ROI, cioè “Social Return On Investment” rispetto al mero ritorno economico. Così trova espressione concreta l’impegno di carattere sociale per la diffusione della cultura attraverso i musei che non deve essere sacrificato per la responsabilizzazione sui bilanci, pur se questa resta importante.
Ma non finisce qui, perché per esplicita indicazione del decreto 113, il Sistema museale nazionale «è composto dai musei e dagli altri luoghi della cultura statali, […] nonché dagli altri musei di appartenenza pubblica, dai musei privati e dagli altri luoghi della cultura pubblici o privati, che, su base volontaria e secondo le modalità stabilite dal presente decreto chiedano di essere accreditati». L’accredito, quindi, riguarda anche musei e istituzioni culturali, le più diverse, di natura privata, conforme alla decisione dell’Unione Europea che ha dichiarato il 2018 “Anno europeo del patrimonio” affermando che la sua “gestione sostenibile” costituisce una scelta strategica per il XXI secolo, per il contributo del patrimonio culturale alla creazione di valore, di competenze, di occupazione e di qualità della vita, impostazione coincidente con quella della riforma museale.
Palazzo Reale di Torino
La connessione del “Sistema unico dei musei” riguarda quindi migliaia di musei e richiede un’efficace “governance” articolata su più livelli, basata sulla partecipazione dei portatori di interesse dei diversi settori, ma senza posizioni gerarchiche: dovranno lavorare insieme lo Stato e le Regioni, i Comuni e gli altri enti locali, le Università e i centri di formazione, basandosi sulle connessioni e non sull’appartenenza..
Al riguardo occorre sanare la frattura tra i distretti ad alto livello culturale ed economico e le aree interne, rurali o periferiche, problema di carattere generale che il sistema museale può contribuire a risolvere favorendo il lento ma necessario processo di ricucitura nel quale i piccoli musei acquisirebbero un nuovo valore per la coesione sociale e territoriale. Questo può avvenire mediante le interconnessioni del sistema museale la cui dispersione resterebbe un punto di debolezza mentre i collegamenti creando un “museo diffuso” nell’ambiente possono farla diventare un vero punto di forza.
Mentre i musei più importanti saranno autonomi, affidati alla responsabilità del Direttore del museo, anche i musei minori avranno un Direttore, funzionario del Ministero con deleghe e una programmazione annuale con rendiconto e valutazione per una “governance” sostenibile. Spetta comunque ai Poli la responsabilità di un “comunicazione sociale integrata” che favorisca l’inserimento dei musei minori ed emarginati nel virtuoso circuito di interconnessioni.
Reggia di Caserta
Ma non si è detto ancora nulla sull’innovazione negli assetti, nei linguaggi e nei contenuti che dovranno essere coerenti con la carica innovativa della riforma, quindi rispondere alle esigenze dei tempi nuovi che anche sotto questi aspetti segnano una autentica rivoluzione,
Dovranno essere luoghi di incontro e di scambio di esperienze culturali con un assetto coerente a questa funzione, e adottare le tecnologie più avanzate comprese le dematerializzazioni, rendendosi quanto più possibile aperti alle esigenze del pubblico. Verranno valutati gli impatti sociali e culturali generati sul medio e lungo termine tra le persone e le comunità.. In generale ci si dovrà spostare dalla sola conta dei biglietti alla verifica delle relazioni perché un buon museo assolve il suo ruolo nella società quando diventa centro di significativi rapporti sociali, culturali e scientifici.
In merito alle tecnologie, il “Sistema unico dei musei” diviene sostenibile nella sua gestione, solo se si potrà creare rapidamente un comune “cielo digitale”, e se si procederà lungo un comune “fiume digitale”, poiché il fluire dei dati oggi è alimento necessario di qualunque sistema. Naturalmente andranno assicurati i necessari collegamenti ai siti web e alle piattaforme “social” con le loro interconnessioni utilizzando gli strumenti più avanzati di diffusione e di dialogo.
Galleria Nazionale dell’Umbria
Nei contenuti, l’offerta dei musei andrà migliorata notevolmente con una “narrazione museale” che presenti le opere esposte in relazione agli ambienti di provenienza e al tessuto sociale e produttivo in cui furono create, e questo nelle forme più appetibili soprattutto per le giovani generazioni; e, più in generale, facendo partecipare alla conoscenza del patrimonio culturale le fasce sociali rimaste escluse. Per ottenere questo risultato, oltre ai linguaggi andranno rivisti anche gli allestimenti perché il museo possa svolgere la sua funzione primaria, che consiste nel “garantire effettive esperienze di conoscenza”.
Le criticità si riscontrano soprattutto nel personale, poco adeguato ai nuovi compiti sia come qualificazione che come entità, ancora di più nella prospettiva incombente dei pensionamenti anticipati, anche riguardo alle aperture al pubblico. Al di là delle specifiche sulle diverse fasce professionali, ci limitiamo a riportare che saranno messe in atto adeguate attività di formazione e sono già avvenuti due cicli di assunzioni, a gennaio e maggio 2018, particolarmente rilevanti, con l’ingresso di giovani archeologi, storici dell’arte, architetti – oltre a funzionari amministrativi – giovani e motivati. Si presenta dunque un compito titanico essendo 8000 i musei italiani, ben più dei 5000 dichiarati dall’Istat, ma la determinazione che abbiamo riscontrato nell’esposizione del responsabile del settore Lampis ci fa resistere alla tentazione di definirlo “vaste programme” alla De Gaulle, anche se ci domandiamo come sia possibile realizzarlo, tanto è impegnativo.
D’altra parte l’Italia non ha il grande museo nazionale come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, ma migliaia di musei che debbono essere messi a sistema altrimenti rimarrebbe una minore forza competitiva nel richiamo turistico e una minore capacità di attirare la popolazione per la sua crescita culturale; a parte la sostenibilità economica che con l’interconnessione viene comunque assicurata ai musei minori dalla quota di risorse devoluta dai musei principali largamente attivi.
Galleria Nazionale delle Marche
Lampis ha assicurato il massimo impegno nella realizzazione del programma esposto, citando l’auspicio di Mahler, secondo cui “non saremo custodi delle ceneri, ma terremo acceso il fuoco”. Si dovrà operare senza sosta perché la fiamma venga sempre alimentata e tutti ne possano sentire il calore, soprattutto coloro che ancora non sono riscaldati dal fuoco della cultura.
La conclusione del Convegno
Ha concluso gli interventi Lorenzo Casini, Presidente di Icon-s – International Society of Public Law, già consigliere giuridico del Ministro, direttamente impegnato nella revisione della legislazione sui beni culturali, componente della commissione di 5 esperti che ha selezionato gli aspiranti direttori dei 20 poli museali per la scelta finale del Ministro. .
Si è soffermato sull’esigenza di collegare l’art. 9 della Costituzione sulla tutela del passaggio con l’art 3 sull’uguaglianza, perché la cultura assicura uguaglianza e pari dignità purché siano rimossi i vincoli alla sua diffusione. In questa ottica ha affermato come l’art. 9 viene invocato troppo poco dinanzi alla Corte Costituzionale per censurare le leggi che mettono a rischio il patrimonio culturale.
Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Corsini
Ha poi analizzato tre punti importanti: proprietà, frontiera, deposito. Sulla “proprietà” dei beni culturali, lo Stato ha cercato di superare in qualche modo il regime proprietario senza ovviamente annullarlo. Infatti, se viene posto un vincolo di interesse pubblico il proprietario non viene indennizzato, al riguardo in una sentenza della Corte Costituzionale del 1958 si legge che, anzi, dovrebbe esserne gratificato, ma negli USA c’è l’indennizzo; inoltre i contributi per la valorizzazione vengono dati solo ai beni culturali di proprietà pubblica, ritenendoli della comunità, e non a quelli di proprietà privata pur se con vincolo pubblico, e anche questo pone dei problemi da affrontare.
Anche in merito alla “frontiera” cita una decisione giurisdizionale, questa volta della Corte di Giustizia europea la quale non ammette discriminazioni rispetto agli altri prodotti dei beni culturali che possono essere esportati, perchè la relativa autorizzazione non dovrebbe permettere trattamenti differenziati; altra decisione dello stesso tipo sui prodotti musicali; quindi due censure alla posizione italiana. L’eliminazione di frontiere in senso figurato vale anche nei rapporti tra Regioni, province e comuni, resi più confusi dall’eliminazione delle provincie con la conseguenza che una serie di beni culturali provinciali ritenuti di minore interesse vengono trascurati se non ignorati dalle istituzioni; mentre se sono di grande interesse vengono contesi in confuse contrapposizioni con lo Stato come per il Colosseo.
Il terzo tema, il “deposito”, è collegato alla carenza di risorse, per cui parte del patrimonio culturale e artistico giace dimenticato nei magazzini, il problema è annoso, viene citato il lamento di Victor Hugo nel 1848. Oltre alle risorse finanziarie vi è ancora più urgenza di risorse umane, si rischia la fuoruscita per il pensionamento di migliaia unità specializzate con conseguenze negative sui servizi senza apprezzabili vantaggi economici trattandosi del settore pubblico dove il costo non cresce come nel privato con l’anzianità.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma
Su questi temi occorre intervenire e si sta cercando di farlo, per la “proprietà” vanno riconosciuti i diritti e si deve proseguire nel passaggio dal bene al servizio considerando i musei come istituzioni; per la “frontiera” devono essere abbattuti gli steccati e gli ostacoli in un’ottica internazionale, per i “depositi” e per garantire le risorse necessarie va inserito il patrimonio culturale nel conto economico generale: così la cultura partendo dalla scuola diventa strumento per la crescita economica e sociale.
Caroleo ha concluso preannunciando dal prossimo gennaio l’iniziativa definita “officina del diritto” e ha dato la parola a Sabino Cassese per il commento finale. Il prof. Cassese ha affermato che la cultura è un diritto dell’uomo e va vista come cultura nella società, da comprendere tra i servizi sociali perchè contribuisce al progresso materiale e spirituale. Sono concetti che partono da lontano, inseriti nella Costituzione, ma siamo impreparati a concepire intellettualmente i paradigmi di fondo della cultura nella società. Cultura che non deve riguardare solo il Ministero dei beni culturali e della Pubblica Istruzione.
Abbiamo cercato di rendere il senso delle principali considerazioni esposte in una intensa mattinata, con tutte le imprecisioni e le omissioni inevitabili in questi casi. Lo sguardo dalla terrazza di Civita sul Vittoriano di fronte e, a sinistra, sui Fori con in fondo il Colosseo, ha reso tangibile, anzi visibile, al termine del Convegno, il valore dei “luoghi della cultura” rappresentati nel loro massimo splendore con la luminosità del sole nel cielo terso e il candore del monumento con l’Altare della Patria.
Museo di Capodimonte a Napoli
Info
Il Convegno si è svolto nella sede di Civita a Piazza Venezia 11, Roma. Il primo articolo è uscito in questo sito il 20 ottobre u. s. Per convegni precedenti di Civita in materia culturale cfr.i nostri articoli: in questo sito, sulle “Imprese culturali e creative” 14, 18 febbraio 2018 e 19 settembre 2014, sul “Soft Power” 11 e 15 febbraio 2018, sulla “Via Francigena” 19 luglio 2018, 18 giugno 2017, 29 agosto 2015, 19 luglio 2014, sul salvataggio di “Civita di Bagnoregio” 20 giugno e 9 luglio 2015, sugli “Itinerari consolari” 16 marzo 2013, sui “Tesori della provincia di Roma” 29 luglio 2013; inoltre, in www.archeorivista.it, sull’ “Archeologia e il suo pubblico” 26 febbraio 2010, e in cultura.inabruzzo.it, “Appello contro la recessione culturale” 15 luglio 2010, le “Domus di Palazzo Valemtini” 3 dicembre 2009, “Arte, cultura, territorio” 3 novembre 2009, la “Via Francigena” 5 ottobre 2009, , l’“Hotel della cultura” 17 settembre 2009 (tali siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).
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Le immagini – a parte quella di chiusura del Vittoriano ripreso dalla terrazza di Civita – dopo le 6 “Aree archeologiche” e le 6 “Biblioteche” poste a illustrazione dell’articolo precedente, riguardano 12 dei 20 “Musei”, anzi “poli museali” i cui direttori sono stati nominati nell’agosto 2015 dopo la selezione seguita al bando internazionale, quali primari “luoghi della cultura”, tema della relazione del Direttore Generale dei Musei Lampis al centro del Convegno; come per le “Biblioteche” si sono scelti gli interni rispetto agli esterni monumentali, per sottolineare il concetto di base dell’accesso del pubblico. Sono state tratte dai siti internet che saranno indicati al termine, ringraziamo i titolari dichiarandoci pronti a escludere le immagini il cui inserimento non fosse loro gradito, precisando che sono meramente illustrative e non necessarie, e che manca la benché minima finalità promozionale e tanto meno economico-commerciale. In apertura, la Galleria degli Uffizi di Firenze, seguono, la Galleria Borghese di Roma e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli; poi la Pinacoteca di Brera e le Gallerie dell’Accademia di Venezia; quindi, il Palazzo Reale di Torino e la Reggia di Caserta; inoltre, la Galleria Nazionale dell’Umbria e la Galleria Nazionale delle Marche; infine, le Gallerie Nazionali di Arte Antica Palazzo Corsini, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea a Roma e il Museo di Capodimonte a Napoli; in chiusura, il Vittoriano, con il Museo centrale del Risorgimento, il Sacrario militare delle bandiere e l’Altare della patria, visto dalla terrazza di Civita.I siti da cui sono state tratte le immagini, nella stessa successione in cui sono inserite nel testo, sono: tg.tourism.tv; mibac.it e napolitan.it; milanotoday.it e larepubblicaveneta.it; musei reali.beniculturali.it e talentilucani.it; lavoce.it e museoguide,it; romadavivere.it, theartpostblog.com e museocapodimonte.beniculturali.it; l’ultima fornita dall’uff. stampa di Civita.
Il Vittoriano, con il Museo centrale del Risorgimento, il Sacrario militare delle bandiere e l’Altare della patria, dalla terrazza di Civita.
Nella sede di Civita il 17 ottobre2018 si è tenuto un Convegno sul tema “Cultura come diritto di cittadinanza: radici costituzionali, politiche e servizi”, con il Giudice Emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, due Assessori alla cultura a livello locale, Gian Paolo Manzella per la Regione Lazio e Antonella Agnoli per la città di Lecce, il Direttore generale dei Musei al Ministero dei Beni e le Attività Culturali Antonio Lampis e due rappresentanti di studi legali, Gianluca Albè managing partner dello studio legale A & A e Lorenzo Casini presidente Icon-s International Society of Public Law. Dopo l’introduzione del Segretario generale di Civita Nicola Maccanico ha moderato l’avv. Francesco Caroleo managing partner – con Gianluca Albè – dello studio legale “A & A” – Albè Caroleo Albè Barbotti & Associati” che ha collaborato con Civita nell’organizzare il Convegno.
Il tavolo dei relatori durante l’intervento di Sabino Cassese, al centro, alla sua dx Lampis e Caroleo, alla sua sin.Manzella e Casini, non inquadrata la Agnoli
Al centro del tema trattato l’art. 9 della Costituzione, per il quale “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, di quila partecipazione di giuristi fino al giudice emerito della Corte Costituzionale, chiamata in causa per la sua funzione di “giudice delle leggi”.
L’impostazione data al Convegno
Per inquadrare il Convegno, da Civita sono stati premesse alcune considerazioni basate sui principali riferimenti normativi.
La prima ricorda che l’articolo 9 della Costituzione, che fa parte dei “Principi generali”, utilizza termini generici che consentono di dare un’interpretazione evolutiva in modo da attualizzarne il contenuto in base alle nuove esigenze, lo si è fatto per la tutela dell’ambiente indirettamente incluso nel termine “paesaggio”. Si tratta della “presbiopia” della nostra Costituzione invocata in modo provvidenziale da Piero Calamandrei nella seduta del 4 marzo 1947.
Colosseo, interno
Un altro riferimento è la riforma del Titolo V con la legge costituzionale del 2001 che ha modificato l’attribuzione delle competenze sui beni culturali e ambientali: l’art. 117 comma terzo ha assegnato allo Stato la competenza esclusiva sulla tutela e alla legislazione concorrente la valorizzazione dei beni e la promozione delle attività culturali in cui lo Stato ha il compito di dettare i principi fondamentali mentre spetta alle Regioni definire la normativa di dettaglio. I due livelli devono coordinarsi..
Inoltre la Dichiarazione dei diritti dell’uomo all’art. 27 sancisce il diritto di tutte le persone di prendere parte alla vita culturale; di conseguenza alla prescrizione costituzionale di assicurare la tutela e la valorizzazione si aggiunge l’esigenza di garantirne l’accesso mediante l’utilizzazione dei finanziamenti pubblici verso la platea più ampia possibile e la responsabilizzazione delle istituzioni culturali nella stessa direzione.
E’ questa una priorità per la Commissione Europea e per gran parte delle amministrazioni pubbliche ed organizzazioni culturali europee che, adottando la strategia di “audience development”, promuovono l’accesso e la vasta partecipazione alla cultura di cui vengono ampliate le tipologie.
Valle dei Templi di Agrigento
Invece in Italia ciò non avviene, anche perché i servizi culturali in genere non rientrano tra i “servizi essenziali” codificati, quindi vengono sacrificati dinanzi ai vincoli alla finanza pubblica; e non rientrano neppure negli interventi per le Aree interne sulle disuguaglianze di accesso ai “servizi essenziali” di cui al programma 20124-20, riservati a istruzione, salute e mobilità. L’esclusione dai “servizi essenziali” esime dall’obbligo di determinare i livelli minimi delle relative prestazioni in tutto il territorio nazionale come per gli altri diritti civili e sociali.
Un positivo mutamento di tendenza si è avuto con il decreto legge del 2015 che ha modificato la legge del 1990 in materia di sciopero nei “servizi pubblici essenziali” – nella quale le limitazioni in questo settore riguardavano soltanto “la vigilanza sui beni culturali” – aggiungendo “l’apertura al pubblico di musei e altri luoghi e istituti di cultura, dei quali, secondo il Codice dei beni culturali, fanno parte, oltre ai musei, “le biblioteche e gli archivi, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali”. Si tratta del cosiddetto “decreto Colosseo” , in una visione limitata ai turisti come beneficiari dei beni culturali lamentata da Civita, che però conclude: “Esso può offrire l’opportunità di pervenire a una definizione condivisa dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i beni culturali” considerati “diritti di cittadinanza”.
Pompei, un interno
Premessa questa impostazione di massima, la parola passa agli intervenuti al Convegno, introdotti dal Segretario generale di Civita, Nicola Maccanico, il quale ha ricordato che l’Associazione dalla sua nascita si è inserita nella positiva “presbiopia” della Costituzione come soggetto privato in collaborazione con ile istituzioni pubbliche per la valorizzazione dei beni culturali, tema che la flessibilità costituzionale ha consentito di aggiungere alla tutela e conservazione.
La linea iniziale del dialogo tra pubblico e privato è divenuta centrale perché il patrimonio culturale e artistico viene definito “il petrolio” del paese, per cui occorre che vi siano delle “cinghie di trasmissione tra questo patrimonio e gli strumenti per crearne occupazione e reddito”. Non solo, ma la valorizzazione culturale accresce la capacità dell’Italia di incidere a livello mondiale, perché ne dipende la sua autorevolezza, ora affidata ad alcuni campioni di eccellenza del mondo delle imprese, mentre deve riguardare l’intero sistema-paese.
Francesco Caroleo ha ricordato gli interventi del Presidente della Repubblica in difesa della Costituzione, che richiede rispetto e responsabilità e a proposito dei beni culturali e ambientali contiene indicazioni programmatiche tuttora valide se interpretate con la flessibilità necessaria per adattarle ai tempi nuovi. Ha poi presentato i partecipanti all’incontro, iniziando da Gianluca Albè, che ha preannunciato le ulteriori iniziative in programma partendo dall’art. 9 della Costituzione, definito “un faro” su cui puntare l’attenzione per procedere lungo un percorso coerente.
Fori Imperiali
I cinque punti di Sabino Cassese
Personaggio centrale dell’incontro è stato Sabino Cassese, che ha risposto alle aspettative con un intervento ricco di indicazioni e di ammonimenti, a partire dalla garbata contestazione del concetto di “cultura come diritto di cittadinanza”, considerando che l’ottica è ben più ampia, attiene ai “diritti dell’uomo” e non solo del “cittadino”. Forse, aggiungiamo noi, a questa definizione non è estranea l’attualità del concetto di “cittadinanza” nella settimana in cui il Consiglio dei Ministri ha approvato la manovra con il “Reddito di cittadinanza” e la “Pensione di cittadinanza”, con l’intento di dare al “diritto” la massima estensione, ma applicato alla cultura il riferimento alla cittadinanza diviene invece paradossalmente restrittivo.
Il prof. Cassese ha sintetizzato le sue considerazioni in 5 punti in una visione del patrimonio culturale ampliata e unitaria.
Con il 1° punto sottolinea l’esigenza di passare dall’impianto nazionale a una concezione universale del patrimonio culturale e artistico. Si tratta di un’ottica innovativa perchè nella tradizione la cultura è stata vista come appartenente a una storia, precisamente alla storia della nazione, quindi elemento costitutivo dell’identità nazionale.
Ostia antica
Oggi l’approccio deve cambiare profondamente, e già alcuni libri hanno lanciato il concetto di “storia mondiale” anche partendo dalla nazione, ha citato in proposito la recente “storia mondiale della Francia”. Altri libri hanno in comune l’individuazione degli elementi compresenti nelle diverse culture del mondo prescindendo dalle origini nazionali. E questo mentre, al contrario, sia la cultura “conservata” che quella nuova “prodotta” vengono considerate fatti prettamente nazionali commettendo un grave errore. Gli storici più avveduti e aggiornati si muovono in una dimensione di storia universale, con la riscoperta delle storie nazionali ma in una visione globale su scala planetaria.
Anche da qui nasce il giudizio che è poco appropriato definire la cultura “diritto di cittadinanza”, quasi fosse circoscritto ai cittadini della singola nazione, mentre si deve parlare di diritto dell’uomo, quindi comprendere anche gli stranieri e gli immigrati, regolari o meno. Deve esserci, cioè, la fruibilità universale della cultura.
Paestum
Il 2° punto riguarda il passaggio, sempre nella concezione del patrimonio culturale, dalla frammentazione all’ unitarietà. Ciò vuol dire che i beni culturali vanno considerati non a sè stanti, ma legati al contesto, l’opera è importante non tanto in se stessa quanto come parte di un insieme. Per questo il trasferimento a Londra dei fregi del Partenone, anche se furono acquistati e preservati, dalla possibile dispersione, va giudicato in senso negativo come sottrazione perché sottratti dal loro contesto; analogamente per quanto da Pompei è stato trasferito a Napoli. La nostra percezione di questo problema ora è molto più evoluta, il bene culturale dovrebbe essere restituito al luogo in cui è nato, ma è molto difficile che ciò avvenga.
Un 3° punto fondamentale è il passaggio dall’uso dei beni culturali alla loro destinazione all’eternità, dimensione di cui non ci si è occupati in passato, qualunque fosse il bene culturale. Ma l’uso può logorarli, soprattutto i libri antichi, e cita l’episodio della seconda copia di un libro prezioso esibita perché l’originale era troppo deteriorato per le continue consultazioni; problema che le biblioteche devono affrontare soprattutto per preservare i libri antichi.
Biblioteca Centrale di Firenze
Si giunge così al 4° punto, il passaggio dal bene culturale al servizio, si parte dall’oggetto e si arriva al patrimonio poi all’eredità culturale nella sequenza conservazione-cura-tutela-conoscenza- ricerca- valorizzazione-fruizione.
Dall'”antiquarium” di vecchia concezione, volto solo alla conservazione, ai musei moderni con servizi per la migliore fruizione dei beni culturali. Il prof. Cassese ricorda che nel lontano passato da presidente dell’apposita commissione curò la limitazione del diritto di sciopero per alcuni servizi essenziali, tra questi ora rientra anche l’ apertura dei beni culturali al pubblico. E’ in atto una trasformazione, si riconosce non il valore del bene in sé ma in quanto veicolo di cultura concepita come servizio.
Il 5° e ultimo punto è un altro passaggio importante, dalla separatezza alla interconnessione, dal bene in sé a un sistema. Vanno visti in questa prospettiva gli accordi di partenariato per favorire l’interconnessione ai diversi livelli, Unione Europea e Stati, Regioni e città metropolitane, tenendo conto del fatto che i beni culturali sono una parte importante dell’intero sistema anche per lo sviluppo economico. Quindi non ne sono interessati soltanto i ministeri direttamente competenti, Beni Culturali e Istruzione, ma anche gli altri che fanno parte del sistema complessivo.
Sono seguiti due interventi di Assessori con ruoli operativi in campo culturale, a livello regionale e comunale, che hanno delineato una serie di problemi e di interessanti iniziative e prospettive sul piano locale anche rispetto al quadro generale.
Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano
Le esperienze locali, a livello regionale e comunale
Gian Paolo Manzella,Assessore della regione Lazio per lo sviluppo economico, commercio e artigianato, start-up, Lazio creativo e innovazione, si è proposto pragmaticamente di sottoporre a verifica quanto messo in atto nella sua regione per accertare se ciò che si sta facendo è appropriato. Passa, per così dire, dalla visione macroeconomica alla verifica microeconomica se si lavora nella direzione giusta. Non si deve aver paura di confrontarsi, al riguardo cita l’esempio del Messico, con il personaggio che portava i libri di autori messicani in Svezia. Ha detto che non si deve aver paura di confrontarsi per capire se si lavora nella direzione giusta, tanto più non lo deve temere il Lazio, la grande regione europea di antiche tradizioni, dove è stata realizzata la prima macchina per la stampa e quindi la prima produzione di testi stampati.
Una prima serie di citazioni riguarda la normativa. Inizia con la legge del 1958 in materia di cultura, cui ha lavorato Tullio De Mauro, nella quale si enunciavano i diritti e di conseguenza si regolava il decentramento e il sostegno alle organizzazioni culturali, si introducevano i circuiti regionali, si favorivano la ricerca e la sperimentazione, e sul piano associativo le organizzazioni impegnate nel valorizzare i beni culturali.
Poi, nel 2004, la Regione ha definito ulteriormente l’intervento legislativo per promuovere la cultura e l’istruzione e valorizzare il patrimonio ambientale ponendo anche obiettivi di sviluppo economico e sociale considerate le attività culturali un fattore fondamentale e un elemento identitario. Nel 2014 ulteriori misure nella stessa direzione di rendere la cultura e l’ambiente sempre più integrati nel processo di sviluppo regionale.
Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia
Dalla normativa alle iniziative che traducono in azioni concrete queste direttrici generali. In primo luogo l’intervento sulle infrastrutture, in cui rientrano oltre a teatri, biblioteche, ecc. anche gli edifici di pregio. Poi la diffusione nel territorio regionale, è stata creata la “città della cultura” della regione Lazio come le capitali europea e italiana della cultura; più comuni possono collegarsi, ha citato l’esempio di Colleferro con i comuni vicini..
L’accesso alla cultura, altro aspetto fondamentale, viene stimolato con una serie di bandi anche nelle scuole, in particolare per promuovere il valore della lettura, considerando anche gli immigrati. Sulla promozione dei beni culturali evidenzia il successo delle “domus romane” di PalazzoValentini, in cui la visita ai reperti si avvale dell’installazione digitale con la narrazione di Piero Angela e Paco Lanciano che ne fa la mostra più apprezzata. Cita anche l’importanza data alle industrie legate alla cultura, le cosiddette “industrie culturali e creative”.
Cosa si dovrebbe fare in futuro? Sottolinea due problemi da risolvere. Il primo è che manca una vera cultura laziale, a differenza delle altre regioni maggiormente identitarie; per questo occorre creare un filo conduttore regionale, valorizzando ciò che c’è fuori Roma, oscurato dalla forza attrattiva della città eterna. L’alto problema è che si devono superare i compartimenti stagni, non solo nelle competenze e nell’organizzazione, ma anche nell’impostazione mediante la commistione di saperi, processo avviato nelle università laziali con programmi interdisciplinari.
Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli
In un’ottica a livello comunale è intervenuta Antonella Agnoli, Assessore alla cultura, creatività e valorizzazione del patrimonio culturale della città di Lecce. Grande esperta di biblioteche, in cui ha operato per un quarantennio, ha trovato delle carenze nella città dove da due anni ha la responsabilità del settore culturale, e si è subito adoperata per colmare queste lacune.
Ha lamentato non solo la confusione di competenze tra comune e regione, ma soprattutto la scarsissima autonomia del comune, dato che la regione decide cosa si deve fare e non fare, deresponsabilizzando gli enti locali. La maggior parte dei servizi vengono esternalizzati in un’ottica di mera gestione e non di valorizzazione; ci sono finanziamenti insufficienti, limitati agli spettacoli dal vivo e a poco altro. Dovrebbe esserci un approccio diverso, e secondo l’impostazione di De Mauro sulla tendenza all’isolamento dovrebbe prevalere la visione dei beni culturali come esperienza collettiva, dello stare insieme.
In merito alle biblioteche, in particolare, ha detto che possono diventare delle location, dei contenitori come centri culturali veri e propri, quasi in posizione competitiva rispetto ai centri commerciali, con servizi di intrattenimento di vario tipo, fino alla piscina e se del caso anche con il museo, altrimenti non c’è futuro. Dovrebbero essere progettate ponendosi nell’ottica di coloro che dovrebbero essere attratti ad usufruirne, non ignorando il punto di vista di chi non le conosce perché ne è il destinatario e deve trovare il luogo a lui congeniale: quindi progettazione con i cittadini. Non si limita a enunciare tale impostazione, proietta una serie di immagini di modernissime biblioteche-centri culturali di intrattenimento tedeschi concepiti con questa logica.
Dalle esperienze locali si torna alla visione nazionale, ma non rivolta genericamente alla cultura, bensì ai “luoghi della cultura” che tivestono un’importanza fondamentale, i Musei, nei quali è in corso una radicale innovazione. Il Direttore generale del settore al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali ha esposto le iniziative per il nuovo “Sistema museale nazionale”, ne daremo conto prossimamente insieme alle conclusioni del Convegno.
Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze
Info
Il Convegno si è svolto nella sede di Civita a Piazza Venezia 11, Roma. Il secondo e ultimo articolo uscirà in questo sito il 25 ottobre p. v. Per convegni precedenti di Civita in materia culturale cfr.i nostri articoli: in questo sito, sulle “Imprese culturali e creative” 14, 18 febbraio 2018 e 19 settembre 2014, sul “Soft Power” 11 e 15 febbraio 2018, sulla “Via Francigena” 19 luglio 2018, 18 giugno 2017, 29 agosto 2015, 19 luglio 2014, sul salvataggio di “Civita di Bagnoregio” 20 giugno e 9 luglio 2015, sugli “Itinerari consolari” 16 marzo 2013, sui “Tesori della provincia di Roma” 29 luglio 2013; inoltre, in www.archeorivista.it, sull’ “Archeologia e il suo pubblico” 26 febbraio 2010, e in cultura.inabruzzo.it, “Appello contro la recessione culturale” 15 luglio 2010, le “Domus di Palazzo Valemtini” 3 dicembre 2009, “Arte, cultura, territorio” 3 novembre 2009, la “Via Francigena” 5 ottobre 2009, l'”Hotel della cultura” 17 settembre 2009 (tali siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).
Foto
Le immagini – a parte quella di apertura, ripresa da Romano Maria Levante nella sede di Civita – riguardano alcuni “luoghi della cultura”, tema al centro del Convegno: sono riportate 6 “Aree archeologiche”, poi gli interni di 6 delle maggiori “Biblioteche”, mentre nel secondo articolo ci saranno le immagini degli interni di 12 dei 20 “poli museali” con i nuiovi direttori; per le “Biblioteche” si sono scelti gli interni rispetto agli esterni monumentali per sottolineare il concetto di base dell’accesso del pubblico. Sono state tratte dai siti internet che saranno indicati al termine, ringraziamo i titolari dichiarandoci pronti a escludere le immagini il cui inserimento non fosse loro gradito, precisando che sono meramente illustrative e non necessarie, e che manca la benché minima finalità promozionale e tanto meno economico-commerciale. In apertura,il tavolo dei relatori durante l’intervento di Sabino Cassese, al centro,alla sua destra Lampis e Caroleo, alla sua sinistra Manzella e Casini, non inquadrata la Agnoli; seguono, per le “Aree archeologiche”, particolari del Colosseo e della Valle dei Templi di Agrigento; poi, di Pompei e dei Fori Imperiali; quindi, di Ostia antica edi Paestum; inoltre, per le “Biblioteche”, un interno della Biblioteca Centrale di Firenze e della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano; ancora, della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli; infine, della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze e, in chiusura, della Biblioteca Nazionale di Roma. I siti da cui sono state tratte le immagini, nella stessa successione in cui sono inserite nel testo, sono: per le Aree Archeologiche: ilcolosseo.it e blogsicilia.it; iviaggidelcavallino.it e italia.it; beniculturalionline.it e artbonus.gov.it; per le “Biblioteche”, comunità italofona.org, e ambrosiana.eu; marciana.venezia.sbn.it, e vienianapoli.com; bmlonline.it. e tripadvisor.it.
La mostra “1938. Vite spezzate. 80° delle Leggi razziali” espone a Roma, alla Casina dei Vailati della Fondazione Museo della Shoah, dal 26 aprile al 18 novembre 2018 una vasta raccolta di fotografie e documenti che rievocano le storie di 50 famiglie ebraiche colpite da tali leggi del regime fascista. La mostra, come le precedenti sulla persecuzione antiebraica, è curata da Marcello Pezzetti e Sara Berger. Catalogo della Gangemi Editore International.
La sindaca di Roma Virginia Raggi nell’intervento introduttivo
Nell’80° anniversario delle Leggi razziali in Italia, la mostra “1938. Vite spezzate” riporta dinanzi all’attenzione, e soprattutto alla coscienza di tutti, quell’inconcepibile imbarbarimento della vita civile del nostro paese che deve restare nella memoria collettiva perché non abbia più a ripetersi.
Si prosegue nel percorso intrapreso con le altre mostre – come ” !938. La Storia” – nelle quali sono state evidenziate le azioni preparatorie, come la propaganda antiebraica capillare e penetrante e la sistematica mistificazione, la schedatura e la ghettizzazione, e sono stati ricordati gli spaventosi crimini legati alla “soluzione finale” del problema ebraico mediante l’annientamento di un popolo inerme, con i campi di sterminio e anche con la psichiatria complice del regime nazista.
All’inaugurazione il curatore Marcello Pezzetti ha affermato che il lavoro svolto, anche se riferito al passato, è in realtà rivolto al presente e al futuro. La mostra precedente è stata visitata da oltre 6.000 studenti, presentata oltre che a Roma in altre città, da Trieste a Taranto, s Cosenza. E ne ha anticipato i principali contenuti.
Il curatore della mostra Marcello Pezzetti nella visita da lui guidata
Virginia Raggi, la sindaca di Roma, ha introdotto la mostra osservando come “c’è stato un prima e un dopo, dalla normalità si è passati alla tragedia, il titolo ‘vite spezzate’ rende, con il suo suono onomatopeico, il senso della fine”. Ma proprio il passaggio dalla normalità alla tragedia deve ammonire anche nel presente che le discriminazioni e gli odi possono degenerare. “La memoria non solo è importante in sè, ma deve dare il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, per spegnere le scintille antidemocratiche, non sono concetti superati ma la parte fondante della vita democratica”.
Abbiamo la responsabilità di non far tornare mai un simile orrore, “la storia non si riscrive, si rispetta e non si deve più ripetere”. Dopo l’intervento, teso e accorato, ha seguito l’intero percorso della mostra per tutta la durata della visita guidata da Marcello Pezzetti, che ha illustrato il notevole materiale esposto nei pannelli in cui fotografie e documenti si alternano nelle varie sale dedicate ai settori di attività delle famiglia colpite, tutti i campi della vita nazionale, fono agli internamenti e ai suicidi.
Le Leggi razziali dal 1938 al 1942
Nel quadro della persecuzione antiebraica di cui alle precedenti mostre, rientrano anche le Leggi razziali italiane che vengono ricordate non solo nei loro aberranti contenuti normativi, ma soprattutto nella loro spietata applicazione che ha sconvolto la vita di famiglie e persone innocenti, diverse dal resto della comunità nazionale soltanto per professare la religione ebraica; proprio per questo venivano attribuiti loro connotati biologici degradanti assolutamente insensati, ma tali da esporli al pubblico disprezzo e all’emarginazione.
Agli ebrei appartenenti a tutte le categorie sociali e professionali l’inibizione di praticare le proprie attività: a studenti e professori fu impedito di continuare a frequentare le loro scuole, a scrittori e giornalisti, musicisti e artisti di produrre le loro opere d’ingegno e cultura, agli ingegneri e avvocati, magistrati e medici di esercitare le rispettive professioni. E così per gli impiegati pubblici, statali e parastatali, e per quelli privati nelle banche di interesse nazionale e nelle assicurazioni, perfino per i militari e per gli sportivi professionisti. Anche gli ebrei di chiara fede fascista furono colpiti dalle Leggi razziali come tutti gli altri. Furono vietati i matrimoni “misti”.
Dal giugno 1940, con l’entrata in guerra, gli ebrei stranieri furono internati, previsto l’internamento anche per gli ebrei italiani ritenuti pericolosi per il regime; dal maggio 1942 per gli ebrei italiani si aggiunse la possibilità di essere precettati per il lavoro obbligatorio..
E’ ben lontano dalla realtà chi considera blande tali misure, prese per assecondare l’alleato nazista da parte fascista; non sono azioni assassine come la deportazione e successiva eliminazione fisica nelle camere a gas dei lager nazisti, ma distruttive della dignità e dell’esistenza dei perseguitati.
Sconvolgenti gli effetti per la vita delle famiglie e delle persone che ne sono state vittime. Ci fu chi riparò all’estero, e tra loro anche insigni esponenti della scienza e della cultura, chi passò all’antifascismo e in seguito si unì alla Resistenza, chi si tolse la vita, ma anche chi reagì attivamente opponendosi in vari modi, adattandosi e riuscendo a sopravvivere. Mentre le istituzioni ebraiche organizzarono scuole alternative per gli espulsi dalle scuole pubbliche e cercarono di assistere i più bisognosi, in questo si segnalò la Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei.
Il piittore tedesco Rudolf Levy, deportato ad Auschwitz nel 1944, senza ritorno (a sin. l’Autoritratto)
Gli ebrei in Italia all’epoca delle Leggi razziali
La premessa è che gli ebrei, da duemila anni in Italia, erano integrati perfettamente nella società italiana, a partire dal Risorgimento, i rabbini erano soprattutto italiani.
Gli ebrei appartenevano alle principali categorie e classi sociali, erano ricchi e poveri, religiosi e laici, conservatori e progressisti, nazionalisti e internazionalisti, fascisti e antifascisti; con la differenza di una scarsa presenza nell’agricoltura allora prevalente nel paese e di un alto grado di alfabetizzazione che aveva fatto raggiungere loro posizioni elevate nelle professioni e nelle attività economiche, in particolare nel commercio, soprattutto a Roma. Frequenti i matrimoni “misti”, di un ebreo su tre nel primo dopoguerra, e ancora di più negli anni ’30 prima del 1938.
Veniva classificato di “razza ebraica” chi aveva entrambi i genitori ebrei, anche se non professava tale religione, e chi aveva soltanto un genitore ebreo ma l’altro era straniero; chi era di madre ebrea e padre ignoto e chi, pur avendo un solo genitore di razza ebraica, professava tale religione. Quindi, il figlio di italiani con un solo genitore di razza ebraica se non professava tale credo non veniva considerato ebreo, a differenza del sistema tedesco che li classificava come “ebrei misti”.
In base a tale classificazione, su 58.412 persone con un genitore ebreo in Italia, furono 51.000 quelli sottoposti alle Leggi razziali, di cui quasi 10.000 stranieri. Come primi provvedimenti furono approvati dal Consiglio dei Ministri, nel settembre 1038, i decreti “per la difesa della razza” che escludevano gli ebrei dal mondo scolastico e accademico ed espellevano gli ebrei stranieri dall’Italia; il 17 novembre il Consiglio varò il decreto legge n. 1728, promulgato dal Re Vittorio Emanuele III, e convertito in legge dal Parlamento nel mese di dicembre; fino al 1943 fu emanata una serie di ulteriori circolari sull’esclusione degli ebrei dal lavoro e dalla vita pubblica. Per coordinarne l’attuazione fu istituita nel Ministero dell’Interno la “Direzione Generale per la Demografia e la Razza”, mentre a livello locale l’applicazione fu affidata alle Prefetture che furono particolarmente rigorose.
Nella mostra viene ricordato tutto questo, facendo conoscere da vicino 50 famiglie colpite dalle misure, e mostrandone le conseguenze: così si passa dalla denuncia delle gravi violazioni di ogni principio civile e umano, già eloquente di per sé, alla presa di coscienza diretta dell’effetto sulle persone viste nella loro umanità vilipesa e nella loro dignità sfregiata; e nulla colpisce di più di quelle figure e di quei visi così vilmente discriminati, tra loro ne riconosciamo alcuni prestigiosi, per tutti citiamo la famiglia dello scrittore Alberto Moravia. Le vite spezzate sono le loro vite.
La rassegna delle “Vite spezzate” è organizzata per categorie, scuola e università, giornalisti e scrittori, cultura e lavoro, esercito e sport; inoltre si evidenziano gli internamenti e i matrimoni misti, fino alle reazioni alla persecuzione, come l’emigrazione e la forma estrema, il suicidio; l’azione dei rappresentanti delle istituzioni ebraiche e le forme di assistenza concludono la mostra.
L’esclusione dalla scuola e dalle attività culturali
Nella Scuola e nell’Università iniziò, sin dal mese di settembre del 1938, in anticipo sul decreto di novembre, l’esclusione dei docenti e degli allievi, dei libri di testo e perfino delle carte geografiche murali di autori ebrei. Sono toccanti i racconti esposti nei pannelli e le dichiarazioni dei sopravvissuti alla deportazione nei lager nazisti di come hanno vissuto l’espulsione dalle scuole.”La maestra ci voleva bene… piangeva, piangevamo noi bambini. La vita allora è cambiata dal giorno alla notte”, ha ricordato la romana Silvia di Veroli. E la genovese Dora Venezia: “Non me ne rendevo conto di preciso cosa era questo ebraismo che era diverso, perché per me era una religione. Io ero italiana e basta! Non lo capivo per quale motivo si dovesse essere diversi”.
Vediamo le fotografie delle classi scolastiche di Alba e Lia Finzi, Elena (Hanna) Kugler e Maddalena Werczler, Luciano Foà e Clelia Paggi, classi da cui sono state espulse e classi ebraiche, e poi immagini singole, tanti album di famiglia toccanti con documenti personali ingialliti. Si va dalle alunne alle insegnanti delle scuole elementari, fino ai docenti universitari.
Da sin. Alberto Pincherle, Doro Levi, e Giulio Supino nel 1958 e nel 1040
ra questi Giulio Supino, docente di costruzioni idrauliche all’Università di Bologna, uno dei 96 professori che dovrà lasciare l’insegnamento; e tre docenti dell’Università di Cagliari, i triestini Teodoro (Doro) Levi con la cattedra di Archeologia e Storia dell’Arte e Camillo Viterbo, di Diritto commerciale, il milanese Alberto Pincherle, di Storia delle Religioni, sebbene fosse stato battezzato nel 1926; nella sua scheda personale fa osservare, “come studioso”, che “non si può propriamente parlare, in sede scientifica, , di una razza ebraica, ma si può e si deve parlare bensì di una nazione ebraica, la quale è costituita da tutti coloro che professano il giudaismo…”, citando G. H. Moore secondo cui “perdono ipso facto l’appartenenza alla nazionalità ebraica coloro che abbandonano la religione”. Ma le citazioni colte nulla possono contro l’accanimento razzista .
Alberto Pincherle è anche il nome di Alberto Moravia, che apre la triste galleria dei Giornalisti e Scrittori colpiti dalle leggi razziali, come pubblicista collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, aveva padre ebraico ed era stato battezzato, ciononostante fu classificato come “ebreo” dal regime; i suoi libri furono tolti dalla circolazione dal Ministro per la Cultura popolare, il Minculpop. Troviamo il poeta triestino Umberto Saba, costretto a cedere parte della sua libreria, la sua poesia “Avevo”, del 1944, conclude così: “Vivere si doveva. Ed io per tanto/ scelsi tra i mali il più degno: fu il piccolo/ d’antichi libri raro negozietto/ Tutto mi portò via il fascista inetto/ e il tedesco lurco”.
Altri nomi celebri, il poeta torinese, pur di fede fascista, interventista e combattente della Grande guerra Artura Foà, e il fotografo, editore, scrittore Luciano Morpurgo, che cambiò nome alla sua casa editrice; il giornalista fondatore del “Piccolo” di Trieste Teodoro Mayer, costretto a svendere il giornale e allontanato da ogni incarico pubblico, e l’editore fiorentino Enrico Bemporad, premiato per la Collana per ragazzi, costretto a cambiare nome in “Marzocco” alla sua celebre Casa editrice.
Nella Cultura troviamo, colpiti dalle Leggi razziali, il commediografo, drammaturgo e critico milanese Sabatino Lopez, che non poté più rappresentare le sue commedie, il pittore espressionista tedesco Rudolf Levy, che come ebreo straniero doveva lasciare l’Italia ma non trovò paesi che lo accogliessero, si nascose a Roma poi a Firenze, alla fine del 1943 fu arrestato poi deportato ad Auschvitz da dove non è più tornato, e il compositore Leone Sinigaglia, che studiò a Torino, Praga e Vienna dove conobbe Brahms e Mahler: le sue opere, prima del silenzio impostogli dalle Leggi razziali, furono dirette da grandi direttori come Toscanini, morì per sincope nel 1944 mentre stavano per arrestarlo dopo una delazione, nell’ospedale in cui era ricoverato sotto falso nome.
Lo scrittore Alberto Moravia,i suoi libri furono vietati
L’esclusione dall’impiego, dall’esercito e dallo sport
Sul Lavoro abbiamo contato una cinquantina di provvedimenti che escludevano gli ebrei dai singoli settori tra l’agosto 1938, quindi prima dei decreti sulle Leggi razziali, al settembre 1942: non riguardano soltanto il lavoro, ma anche i beni immobili, gli ebrei non potevano possedere terreni e fabbricati urbani superiori a un certo valore, né esercitare attività commerciali. Anche qui i racconti del sopravvissuti di Auschwitz sono coinvolgenti. Ecco il romano Leone Di Veroli: “Quando andavo pe’ stracci e mi dicevano: ‘Ma che sei, ebreo?’, più di una volta ho dovuto dì de no, per la sopravvivenza. A malincuore, perché è come se m’avessero dato ‘na coltellata. Oggi lo scriverei a caratteri cubitali lunghi un chilometro ogni lettera!”.
Altre 4 storie, come sempre corredate di immagini e documenti nel pannelli dell’esposizione. Con la conclusione tragica quella di Carlo Morpurgo, licenziato dalla banca Commerciale perché “di interesse nazionale”, e quella del magistrato bolognese Mario Finzi, espulso dalla magistratura va a Parigi come concertista, in Italia si impegna nell’assistenza degli ebrei stranieri con la Delasem; entrambi arrestati e deportati ad Auschwitz dove muoiono nel 1944. Invecem sono a lieto fine la storia del fiorentino Sergio Levi, pediatra ospedaliero e assistente universitario, sospeso dopo le leggi razziali, lavora solo per gli ebrei, come consentito, poi si nasconde e infine si salva in Svizzera; e quella del romano Pacifico Caviglia, che deve chiudere il calzificio nel quartiere Gianicolo, riesce a salvarsi con l’aiuto di amici fidati, e può riprendere l’attività nel dopoguerra.
L’editore fiorentino Enrico Bemporad costretto a cambiare nume alla casa editrice
E siamo nell’Esercito, dove già a luglio 1938 fu decisa la preclusione delle Accademie militari agli ebrei, cui il decreto legge di dicembre aggiunse l’esclusione totale dal servizio militare in pace e in guerra. Fu un vero shock per coloro che si erano battuti con coraggio nella Guerra Mondiale e per quelli che si erano arruolati volontari. Tra questi Leone Lattes, arruolatosi volontario in aeronautica, collaboratore di Italo Balbo, aveva partecipato alla guerra civile spagnola con i franchisti, escluso dalla vita militare si dà a piccoli commerci, riesce a sfuggire ai rastrellamenti e a salvarsi. Invece Arturo Luciano Navarro, decorato nella prima Guerra mondiale, e nominato cavaliere della Corona d’Italia, funzionario del Ministero dell’Agricoltura, non resse alla notizia del licenziamento degli impiegati pubblici ebrei sancito dalle Leggi razziali e si tolse la vita.
Infine lo Sport, con tre storie. E’ tragica quella di Raffaele Jaffe, fondatore e presidente del Casale Football Club – che vinse lo scudetto nel 1914 – preside dell’istituto magistrale di Casale Monferrato in cui fu “dispensato dal servizio” sebbene fosse sposato con una cattolica, si convertisse al cattolicesimo nel 1937 e avesse fatto battezzare i due figli alla nascita Già nel 1940 manifesta con parole struggenti la sua sofferenza; poi, arrestato nel febbraio 1944, internato a Fossoli, rivolge invano istanze di essere liberato al Ministero dell’interno, viene deportato ad Auschwitz con l’ultimo trasporto dal campo, viene ucciso all’arrivo. E’ andata bene, invece, al giornalista sportivo Massimo Della Pergola, licenziato dal “Piccolo” di Trieste perché ebreo, e rifugiatosi in Svizzera: nel campo elvetico dove era internato, ebbe l’idea di un gioco a premi legato al calcio per finanziare lo sport, tornato in Italia fondò la Sisal che diede vita ai celebri pronostici, poi con il Coni divenne il Totocalcio. Lieto fine anche per il pugile romano Settimio Terracina, campione regionale e convocato agli allenamenti pre-olimpiadi, richiamato alle armi nel gennaio 1938 a fine anno viene espulso dall’Esercito e cacciato dalla palestra; il segretario della Federazione Pugilistica , Edoardo Mazzia, è bene citarne il nome a suo merito, lo aiuta ad espatriare negli Stati Uniti dove continua a fare il pugile, avrà la soddisfazione di sbarcare in Sicilia con gli americani e con loro liberare Roma. Vediamo le immagini del pugile, in una c’è anche Primo Carnera e l’articolo nella prima pagina del Corriere dello Sport: “Intervista a Settimio Terracina, il ‘mediomassimo’ romano, ora soldato americano”.
l peeta Arturo Foà, deportato ad Auschwitz con Primo Levi, senza ritorno
L’internamento degli ebrei stranieri e italiani “pericolosi”
Come accennato all’inizio, all’esclusione dalle scuole, dal lavoro e da proprietà consistenti, si aggiunse l’internamento per gli ebrei stranieri e quelli italiani considerati “pericolosi”, erano 400; dal 1942 il lavoro obbligatorio per gli italiani.
Anche qui la dolente rassegna degli internati in diversi campi: da Notaresco (Teramo) a Lagonegro (Potenza) per la famiglia di Carlo Steinhaus, cecoslovacco con un negozio di chincaglieria a Merano dove tornerà alla fine della guerra, e a Tortoreto (Teramo) per il rumeno Saul Steinberg, sono esposti un suo disegno con un panorama, la mappa “Autogeography” dei luoghi della detenzione, e un dipinto con una piazza dechirichiana, riesce poi a riparare negli Stati Uniti dove collabora con il “New Yorker” e diviene un artista celebre; internata a Notaresco (Teramo), poi a Casacalenda e Petrella Tifernina (Campobasso), la famiglia del boemo Richard Lowy, arrestata a Trento nel 1944, trasferita a Fossoli, fino alla deportazione senza ritorno ad Auschwitz; internato a Tora e Piccilli (Napoli), e precettato per il lavoro obbligatorio nei campi il commerciante Josua Gabai, viene protetto dai locali, tornato a Napoli dopo un anno trova il negozio distrutto e saccheggiato , ma dopo la guerra riprenderà l’attività.
Il pugile Settimio Terracina, espatriato poi sbarcato in Sicilia con gli americani, l’attrezzatura sportiva
Internamenti e precettazioni di ebrei italiani: in “internamento libero” a Macerata Feltria (Pesaro) il professore e direttore di “Critica sociale” Ugo Guido Mondolfo, arrestato e liberato, ripara in Svizzera e dopo la guerra diviene deputato socialista; nel campo di transito di Fossoli, con destinazione Auschwitz, dopo arresto e confino per due anni a Favignana, l’ambulante romano Raimondo Di Neris, sopravvive nel gennaio 1945 alla “marcia della morte” verso Mathausen e viene liberato dagli americani.
Urbisaglia (Macerata) è stata la sede di una serie di internamenti, anch’essi accuratamente documentati nella mostra con fotografie e certificati, lettere e disegni. Vi vengono internati l’avvocato di Ferrara Nino Contini, poi trasferito alle isole Tremiti, quindi a Pizzoferrato (Chieti) e nel Molise, liberato nel 1943 si trasferisce a Napoli, il suo amico, pure lui ferrarese, Renzo Bonfiglioli, dell’alta borghesia, riuscirà a rifugiarsi in Svizzera e diventerà del 1951-52 Presidente delle comunità israelitiche italiane; un altro avvocato internato è il fiorentino Carlo Alberto Viterbo, negli anni ’30 e nel 1944 Presidente della Federazione Sionista Italiana, andrà anche in Etiopia. Internati a Urbisaglia anche il pediatra triestino Bruno Pincherle nel 1940, nel 1943 sarà arrestato e poi liberato, parteciperà alla Resistenza a Roma e a Trieste nel periodico clandestino”L’Italia libera”, e il tedesco Ernst Isidor Jakubowski, fuggito da Berlino a Milano, è tra gli ebrei stranieri internati dal 1940 al 1943, moglie e figlio fuggono in Svizzera, lui nel 1944 è rinchiuso a Fossoli e deportato ad Auschwitz- Birkenau, morirà a Mathausen nel 1945; tragedia nella tragedia, il figlio Hans torna a Berlino, la madre Rosa lo raggiunge nel 1961 e non supera il trauma, si suicida nel 1962.
Il drammaturgo ungherese Eugen Kurschner, suicida con la famiglia a Taormina
Altre aberrazioni e tragiche conseguenze del razzismo cieco e ottuso
La sezione della mostra sui “Misti” e matrimoni misti documenta le ulteriori aberrazioni con una serie di divieti aggiuntivi paradossali, come quello di pubblicare necrologi e di allevare colombi viaggiatori, di soggiornare in località turistiche e possedere la radio, avere domestici ariani, ecc. Sono grottesche le classificazioni dei “misti”, secondo cui il mantovano Gilberto Provenzani, battezzato, risulta “ebreo al 75%”, quindi di “razza ebraica”, nella prima valutazione della Direzione della razza, poi la percentuale scende al 50% dopo aver provato il battesimo dei bisnonni materni; il padre Aldo, ebreo, si dà alla clandestinità, Gilberto diventerà dirigente industriale. Risibili, se non fossero tragici, i diagrammi dell’apposita Direzione con i bollini rossi per le percentuali di “arianesimo” e blu per quelle di “ebraismo”.
Sul divieto dei matrimoni “razzialmente misti” la vicenda esemplare di Sarah Herzog: il Vescovo di Trieste consentiva ai parroci di celebrare le nozze di ebrei con cattolici “in articulo mortis” con registrazione differita a tempi migliori, Sarah fu sposata con il solo rito cattolico all’artigliere Guido Novelli il 16 agosto 1941, dopo essersi battezzata il giorno prima, fu un modo per eludere il divieto, Guido lavora a Rivoli.
Sono tutte storie esemplari, come quelle degli Ebrei fascisti dei quali sono documentate quattro vicende con dimissioni, espulsioni, perdita di attività , e anche arresto e deportazione. Il banchiere e imprenditore Enrico Paolo Salem dovette dimettersi da Podestà di Trieste l’11 agosto 1938, dopo la pubblicazione del “Manifesto della razza” e un mese prima della visita a Trieste di Mussolini con il famoso discorso sull’avvio della politica antiebraica, visita che, ironia della sorte, aveva organizzato lui stesso; l’economista e storico del diritto Gino Arias, uno dei 18 membri della “Commissione dei Soloni” del Consiglio nazionale delle corporazioni e deputato, fu espulso dall’Università di Roma, si trasferì in Argentina ma non superò mai il trauma. Tragica fine per Ettore Ovazza, entrato nei Fasci di combattimento nel 1920, autodefinitosi “scrittore fascista”, nel 1934 aveva fondato a Torino “La nostra bandiera”, organo dei “Combattenti e Fascisti italiani di religione israelita”, dovette cedere la Banca Ovazza e fu ucciso dalle SS a Intra con la moglie e i due figli; e per Aldo Castelletti commerciante di tessuti mantovano, si fa battezzare con le figlie e si salva, ma viene arrestato nel settembre 1943 e deportato ad Auschwitz dove muore nel 1944.
Sul versante opposto, dei Giovani antifascisti, dei 14 appartenenti al “Gruppo della biblioteca della scuola ebraica di Torino”, tre ebrei finiscono ad Auschwitz, tra cui Primo Levi che ne ha dato una testimonianza incancellabile, mentre Emanuele Artom fu ucciso dai fascisti; e l’ebrea triestina Rita Rosani-Rosenzweig, espulsa dal liceo magistrale, partecipò alla resistenza come partigiana combattente e fu uccisa dai fascisti nel settembre 1944, aveva 24 anni.
La fine tragica è particolarmente agghiacciante per la famiglia Eugen Kurscner, drammaturgo e produttore cinematografico di origine ungherese, produsse due film diretti da Raffaele Matarazzo e Mario Camerini, fuggì dalla Germania con madre, fratello e sorella, lui e i suoi non se la sentirono di venire espulsi dall’Italia, uscite le Leggi razziali ricorrono al suicidio nel mare di Taormina. Eccole le toccanti parole lasciate scritte da Eugen con il fratello Arthur: “Oggi è arrivato il momento: noi tutti quattro moriremo volontariamente-involontariamente. Il mare profondo ci accoglierà in maniera più gentile che tutti gli altri governi dei paesi che ci circondano. Riempiremo le nostre tasche con pietre, per non ritornare più a galla. La nostra decisione è stata presa già mezzo anno fa. Ci è stata resa più semplice dalla coscienza di aver fatto sempre una vita onesta e contenti di lavorare, a volte coronata anche da successi e di non aver mai fatto a nessuno del male…” Invece la famiglia fiorentina di Gualtiero Cividali può emigrare a Tel Aviv con i genitori.
Nelle Leggi razziali non è mancata l’esclusione degli ebrei da tutte le forme di sussidio e aiuto per i poveri, ma proprio per questo l’Unione delle Comunità israelitiche Italiane organizzò nel 1939 una propria forma di assistenza con la Delegazione di Assistenza agli Emigrati Ebrei (Delasrm), una rete nazionale per aiutare gli ebrei che volevano emigrare e quelli internati, presidente l’avvocato genovese Lelio Vittorio Valobra che dovette rifugiarsi in Svizzera, da dove continuò a dirigere. Suo collaboratore alla Delasem nell’assistere gli ebrei bisognosi fu il tedesco di origini polacche Berl Grosser, che aveva già lavorato nel Comitato assistenza degli ebrei in Italia, nel 1943 ripara in Svizzera, nel 1945 torna a Milano, continua ad assistere i profughi, nel 1972 raggiunge Israele.
E con questo lieto fine dell’approdo nella terra promessa di Berl Grosser, da pensionato con la famiglia, come era stato per Gualtiero Cividali, con i genitori, ci piace concludere il nostro racconto dell’odissea sofferta e quasi sempre tragica degli ebrei colpiti dalla Leggi razziali del 1938: un anniversario dolente e ammonitore di eventi tremendi, che le fotografie e i documenti copiosamente esposti nella mostra fanno rivivere con un’evidenza impressionante.
Info
Museo della Shoah, Casina dei Vailati, Roma, via del Portico d’Ottavia, 29. Da domenica a giovedì ore 10-17, venerdì 10-13, chiuso sabato e nelle festività ebraiche; ingresso gratuito. Catalogo “Vite spezzate. 90° Leggi razziali”, Gangemi Editore International, aprile 2018, pp.240, formato 17 x 24; dal Catalogo sono tratte le notizie e le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli per le altre mostre sul tema, in questo sito, “Ebrei, la persecuzione degli ebrei italiani con le leggi razziali, al Museo della Shoah” 26 ottobre 2017, ed “Ebrei, l’escalation repressiva dopo le leggi razziali, al Museo della Shoah”, 2 novembre 2017; “Ebrei, la propaganda contro la ‘razza nemica’ e la psichiatria persecutoria” 24 aprile 2017, ed “Ebrei romani, 70 anni dopo l’ infamia tedesca’” 24 novembre 2013, “Roma, la liberazione del 1944 dopo 70 anni” 5 giugno 2014; in www.visualia.it , “Roma. I ghetti nazisti, fotografie shock al Vittoriano” 27 gennaio 2014, “Roma. Ombre di guerra all’Ara Pacis” 2 febbraio 2012;“Roma. In mostra le fotografie dello sbarco di Anzio”, 22 giugno 2014″ 21 gennaio 2012; in “cultura.inabruzzo.it” “Auschwitz-Birkenau, ‘la morte dell’uomo’” 27 gennaio 2010, e “Scatti di guerra alle Scuderie” 8 agosto 2009 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasteriti su altro sito)
Il disegnatore e pittore rumeno Saul Steinberg, internato in un campo a Tortoreto (Teramo)
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo della Shoah alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, la sindaca di Roma Virginia Raggi, nell’intervento introduttivo, segue il curatore della mostra Marcello Pezzetti, nella visita da lui guidata; poi una serie di immagini dei pannelli illustrativi, tra queste nella 5^ il piittore tedesco Rudolf Levy ,deportato ad Auschwitz nel 1944, senza ritorno, (a sin. l’Autoritratto); nella 11’^ lo scrittore Alberto Moravia,i suoi libri furono vietati,nella 12^ l’editore fiorentino Enrico Bemporad ; costretto a cambiare nume alla casa editrice; nella 13^ il peeta Arturo Foà, deportato ad Auschwitz con Primo Levi, senza ritorno, nella 14^ il pugile Settimio Terracina,espatriato poi sbarcato in Sicilia con gli americani, l’attrezzatura sportiva, nella 15^ il drammaturgo ungherese Eugen Kurschner, suicida con la famiglia a Taormina;nella 20^ il disegnatore e pittorerumeno Saul Steinberg, internato in un campo a Tortoreto (Teramo) ; iin chiusura, una delle tante vetrine della mostra con foto e documenti.
Una delle tante vetrine della mostra con foto e documenti
Nella meritoria attenzione della Galleria Russo al Futurismo, il movimento italianissimo, che ha scosso il mondo dell’arte e la vita stessa nella prima metà del ‘900, si inserisce una mostra molto particolare: “Roberto Floreani, Ricordare Boccioni. Opere su carta”. Sono esposte 35 opere, realizzate nel triennio 2015-18, con materiali ottenuti sulla base di una accurata ricerca materica. La mostra resta aperta nella galleria vicino a Piazza di Spagna dal 26 settembre al 6 ottobre 2018.
Le 35 opere su carta di Floreani
Perché è molto particolare la terza mostra dal 2012 dedicata a Floreani dalla galleria? La risposta è duplice: per l’originalità dell’omaggio ad uno dei maggiori protagonisti del Futurismo, e per la qualità delle opere, su carta, con innesti speciali, in cornici appositamente ideate e realizzate, che sono state definite “scatole della memoria”.
Sul primo aspetto non sorprende l’omaggio di Floreani a Boccioni, al quale aveva già dedicato un progetto artistico ai Musei Civici di Padova nel 2016; inoltre nel 2015 era stato uno dei relatori al Congresso internazionale sul Futurismo a Lisbona, ed è autore del saggio “I Futuristi e la Grande guerra” e del saggio “Umberto Boccioni. Arte-vita” pubblicato da Electa. Il tutto rientra nel progetto del 2015 “Ricordare”, ne fa parte anche la serata teatrale a Vicenza “Zang Tumb Tumb”.
Per il secondo aspetto la particolarità delle opere su carta appare rilevante, considerando che è la prima mostra soltanto con opere di questo tipo nel corso della lunga storia espositiva dell’artista, con una settantina di mostre personali. Ma la carta non è l’unico elemento distintivo in quanto non è utilizzata tal quale, ma trasformata in carta-tessuto dalla superficie cannettata su cui l’artista ha applicato materiali quali vetro e carbone, legno e ferro di risulta, e impresso una notevole vivacità cromatica, che va dalle accese tonalità di rosso e arancio, all’intenso Klein Blue, mentre non mancano i forti contrasti bianco-nero. Le cornici delle opere .sono in betulla bianca, a cassetta.
Non stiamo a descrivere le opere, siamo nel campo dell’astrazione con la libera manifestazione dei sentimenti che nell’artista suscita la figura celebrata, nelle impenetrabili espressioni astratte che in Floreani si coniugano ad elementi geometrici; in più, in quest’occasione, a dei chiari riferimenti a Boccioni, con inserimento di immagini ed elementi che rimandano alla sua vita artistica e non solo.
I progetti tematici nel percorso artistico di Floreani
Riteniamo a questo punto di dover accennare al percorso artistico di Floreani, che già nell’anno successivo alla sua prima mostra del 1985 vinse il primo premio alla Biennale Veneta per artisti sotto i trent’anni.
Le sue opere spesso sono state inserite in progetti più ampi come “Itinerari della memoria” nel 1989 a Genova, e “Sogno d’Acqua” inizio anni ’90 a Milano, “La casa e il tempo” nel 1994 a Ravenna-Zagabria e “L’Età della conoscenza” nel 1996 a Parma, “Regno di Mezzo” nel 1997 a Bolzano, e “Vedute” nel 1999 a Milano. Numerose mostre personali e antologiche, e nel 2008 il progetto “Aurora Occidentale alla Biennale di Venezia” con una mostra al Padiglione Italia, seguito nel 2011 dal progetto “Alchemica” a Gallarate, poi dal progetto “Roma” per la Galleria Russo.
Insieme ai progetti espositivi le “performances” con poeti e musicisti, ricordiamo alcuni temi: nel 2000 “Yule” con il poeta Giuseppe Conte a Faenza e “Hagakure” a San Benedetto Po, quest’ultimo progetto teatrale nel 2001 a Trieste; Vicenza, Verona, “Ritorno all’Angelo nel 2002 e “Una parte (di tutte le parti)” nel 2004 a Tolmezzo, “Ogni viaggio è un ritorno” nel 2005 a Udine, “Ottantuno” nel 2005 a Milano, e “Gerarchie Spirituali (passaggio in Ticino” nel 2008 a Chiasso, “Risvegli” nel 2009 a Buonanno e “Paesaggi Immaginari” con il poeta Tomaso Kemeny nel 2010 a Milano. Non si contano le collettive, anch’esse incentrate su tematiche particolarmente intriganti.
Sul futurismo abbiamo già citato alcuni suoi interventi che ci sono apparsi molto significativi; ma ce ne sono parecchi altri: il Progetto Manifesto per una personale nel 2008 a Prato, e la realizzazione dello spettacolo pirotecnico “TracciantiVette Tricolori” nel 2009, la relazione “Futurista-progettista”al 40° dell’AIPI a Vicenza, a Padova il Progetto “Arte-vita futurista” e la “Grande Serata futurista in guanti di daino”, il saggio”Futurismo Antineutrale” pubblicato da Silvana Editoriale e la postfazione al libro sullo scultore futurista Quirino de Giorgio nel 2010.
Un artista così impegnato nei progetti tematici e così interessato ad approfondire il movimento futurista non poteva non essere fortemente colpito dalla personalità di Umberto Boccioni. che, per mettere in pratica l”equazione arte-vita si arruolò volontario e andò al fronte per sperimentare “la guerra sola igiene del mondo”; la vita di trincea, nella Grande guerra, gli fece toccare con mano una realtà ben diversa, fu una tremenda doccia gelata, morì nel 2016 in una esercitazione militare.
Umberto Boccioni, arte-vita secondo Floreani
Sotto il profilo artistico, a Boccioni va riconosciuto un processo evolutivo che lo ha portato dalle iniziali espressioni tributarie dell’arte antica e rinascimentale, a quelle successive con apporti dell’arte barocca e dell’impressionismo, del simbolismo e dell”espressionismo, fino all’approdo al Futurismo.
La svolta si è avuta quando sulle forme più evolute dell’arte ai primi del ‘900, come il cubismo, ha innestato un fattore fino ad allora ignorato, il movimento; e non come mero fatto artistico, ma come espressione di una società e di un mondo in cui la modernizzazione spazzava via le incrostazioni del passato: nella vita, con le città in forte espansione, nel lavoro con l’industrializzazione e la conseguente meccanizzazione – viene introdotta anche l’elettricità – tutti sconvolgimenti con un fattore comune: alla lentezza si sostituisce la velocità, il dinamismo.
Ecco come lo considera Floreani nel saggio che abbiamo citato “Umberto Boccioni. Arte- vita”. Vede in lui la stretta relazione tra la visione del mondo nella sua prorompente modernità e la cesura con le perduranti concezioni ottocentesche, il tutto tradotto nell’arte. Ma anche la sua complessità nei rapporti privati e con se stesso, movimentista e tormentato, che diventa artista-monaco e poi anche guerriero.
La sua esplorazione va sempre più in profondità, l’incontro con gli altri protagonisti del Futurismo, Marinetti e Balla, Russolo e Carrà ne rafforza le convinzioni essendo tutti “esteti dell’eccesso”. Sente l’esigenza di una “ricostruzione mistica dell’universo”, con al centro l’energia di cui tutti sono trasmettitori e ricettori, quindi legati all’insieme che li circonda.
“L’Arte deve divenire una funzione della vita… se non si riesce a rimettere l’Arte nella vita i posteri rideranno di noi”, scrive Floreani, incentrando su questo assioma la sua ricostruzione della vita e dell’arte di Boccioni. E aggiunge: “Senza Boccioni il Futurismo non avrebbe probabilmente intrapreso quella multidisciplinarietà con tale slancio e qualità intrinseca, in modo così convincente e rivoluzionario”.
In definitiva ha dato un forte impulso nell’introdurre la rivoluzione della modernità, che esprime nella pittura come nella scultura, tanto che la sua opera viene considerata come il passaggio all’arte contemporanea, e lui come anticipatore di tematiche ancora attuali nella sua tensione verso il futuro: è visto precursore, per certi aspetti, di Fontana e dell’arte povera, di Schifano e di Warhol.
Luca Siniscalco, che lo definisce “un contemporaneo dello spirito, un autore postumo a se stesso, per dirla con l’amato Nietsche, una cartina di tornasole della modernità e delle sue contraddizioni”, parla della ” potenza dissacrante di un dinamitardo del Novecento” e cita questa sua “precisa raffigurazione dello scenario artistico moderno”, che si rivela quanto mai profetica: “Verrà il tempo in cui il quadro non basterà più: la sua immobilità sarà un anacronismo col movimento vertiginoso della vita umana. L’occhio dell’uomo percepirà i colori come sentimenti in sé: i colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi, e le opere pittoriche daranno emanazioni luminose e gas colorati, che sulla scena di un libero orizzonte commuoveranno ed elettrizzeranno l’anima con la forza di una favola che non possiamo ancora concepire”.
Forse anche per questa sua straordinaria visione del futuro, come un Giulio Verne dell’arte, i riconoscimenti a Boccioni sono molto diffusi: lo dimostrano, tra gli altri, gli articoli celebrativi nella rivista “Futurismo – Oggi” negli anni ’70 e ’80 e nel “periodico mensile per i giovani futuristi italiani diretto da Enzo Benedetto”, fino ai “Comitati W Boccioni”.
Quindi anche noi diciamo “W Boccioni” nello scorrere le 35 opere di Floreani che lo celebra nelle sue composizioni su carta e materiali vari come nei suoi scritti che ne approfondiscono il valore artistico e umano. Un impegno meritorio, come quello della Galleria Russo sugli artisti futuristi.
Info
Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiuso. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com, .. Catalogo: Mario di Capua, “Roberto Floreani. ROMA”, Palombi Editore 2018, con testo critico di Geminello Alvi. Cfr. i nostri articoli in questo sito, sulle mostre di futuristi alla galleria Russo: “La ricerca della modernità, dal Divisionismo al Futurismo”, 7 marzo 2018, Marchi, 24 novembre 2017, Thayhat 27 febbraio 2017, Tato 19 febbraio 2015, Dottori 2 marzo 2014, Erba 1° dicembre 2013, Marinetti 2 marzo 2013.
Photo
Le immagini, riprese dall’autore il giorno della presentazione, sono saltate nel trasferimento dell’articolo dal sito precedente a questo sito. Sono state sostituite da immagini tratte dal sito della Galleria Russo, che si ringrazia per l’opportunità fornita.
Si conclude la visita alla mostra a Palazzo Barberini, dal 18 maggio al 28 ottobre 2018,“Eco e Narciso. Ritratto e autoritratto nelle collezioni del Maxxi e nelle Gallerie Nazionali Barberini Corsini” con esposte 17 opere di arte antica e 18 di arte contemporanea, di 25 artisti, a cura della direttrice delle Gallerie Nazionali Flaminia Gennari Sartori e del direttore del Maxxi Arte Bartolomeo Pietromarchi. Le 35 opere sono distribuite tra le 13 sale con riferimento alle figure simboliche di Eco e Narciso, in relazione alla destinazione originaria delle sale nel palazzo delle famiglia Barberini, dopo il restauro seguito alla sospirata restituzione delle 11 sale occupate dal Circolo Ufficiali dal 1949 che viene celebrata con la mostra. Dopo le prime 8 sale, passiamo alle 5 sale restanti.
Kiki Smith, “Large Dessert”, 2004-05
Abbiamo premesso che la mostra celebra l’apertura al pubblico delle sale recuperate che prossimamente accresceranno di 750 metri quadri lo spazio espositivo delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica; ampliamento vitale considerando che si stima sia esposto soltanto il 20% della vastissima collezione, con migliaia di opere, anche importanti, nei depositi.
E’ stato un autentico scandalo che si è protratto per quasi 70 anni, dopo l’acquisto del Palazzo Barberini da parte dello Stato italiano avvenuto nel 1949, ma con il peccato originale che molte sale restarono occupate dal Ciurcolo Ufficiali che aveva affittato il palazzo dai Barberini nel 1934.
In aggiunta a quanto già indicato in precedenza, precisiamo che il contratto di affitto scadeva nel 1953, .allorché fu paradossalmente rinnovato per 12 anni, nonostante le sale occupate fossero necessarie alle Gallerie. Ma neppure nel 1965, e per altri 40 anni, pur senza nuovo contratto, il Circolo continuò ad occupare le sale, per di più affittandole per matrimoni e altro, quindi ricavandone i relativi compensi, e anche quando si spostò nella vicina sede attuale restarono sale per impegni istituzionali delle Forze armate. Soltanto nel 2015 si è avuta la restituzione, poi è seguito il restauro durato due anni, fino a oggi.
Kiki Smith, “Large Dessert”, 2004-05, particolare
Sembra una storia incredibile, perché nello stesso ambito statuale il Ministero della Difesa ha prevalso sul Ministero della Pubblica Istruzione prima e sul Ministero dei beni culturali poi, senza una giustificazione valida data la sproporzione abissale tra le due esigenze. L’interminabile “querelle”, in cui la burocrazia ha avuto modo di spadroneggiare, dando il peggio di se stessa, ha avuto anche momenti ridicoli, se è vero che Spadolini, da Ministro per i Beni culturali, scrisse alla Difesa chiedendo la restituzione delle sale e, divenuto Ministro della Difesa alla prima crisi di governo avvenuta poco dopo, rispose negativamente alla richiesta fatta nella veste precedente. Un situazione paradossale, che non trova spiegazioni, sembra quasi fossimo stati una dittatura militare.
Si sarebbero potute evocare divinità espressive di questa impari lotta tra ministeri, con i Beni culturali vaso di coccio, ma ci si è invece limitati a evocare Eco e Narciso sul tema del Ritratto come assertore di identità fino all’autoritratto, con l’accoppiata di opere antiche e contemporanee.
Proseguiamo la visita delle restanti 7 sale, con la guida virtuale dei curatori Gennari Sartori e Pietromarchi.
L’Appartamento d’inverno, le prime 3 sale
Come per l’Appartamento d‘estate” si inizia con una sala di rappresentanza dove il Cardinale riceveva per le udienze nei mesi invernali, seguita da sale di uso privato, più intime e raccolte.
Benedetto Luti, “Teste di donna”, 1704-08
Nella Sala 9, Sala delle Udienze, vediamo un grande tavolo popolato da una moltitudine di figure, quasi evocando incontri conviviali che si dovevano svolgere in quell’ambiente, privilegiando l’aspetto domestico del simposio rispetto a quello pubblico dell’udienza. E’ l’installazione “Large Dessert”, di Kiki Smith, 2004-05, destinata a un palazzo settecentesco, presenta un tavolo in legno molto ampio con numerose statue di porcellana di Sévres, piccole ed eleganti immagini femminili, definito da Pietromarchi “uno spazio sociale dove ci si trova e dove ci si mette in relazione con gli altri”. Il curatore aggiunge: “L’opera è una sorta di immagine ideale di famiglia, ma è anche, più precisamente, un richiamo autoritrattistico ai temi personali dell’infanzia, della maternità”.
Collegate idealmente a queste immagini i pastelli di Rosalba Carriera con il “Ritratto femminile”, 1725-30, viene ricordato che era un’artista veneziana molto apprezzata anche all’estero, per cui al minuetto femminile delle statuette di porcellana segue l’opera di una donna realizzata, è esposta anche Allegoria dei quattro elementi (Acqua Fuoco Terra Aria”, 1730-43.. Nell’arte esprime, con toni morbidi ed evanescenti, quelle che la Gennari Sartori definisce “immagini delicate, ma prive di sentimentalismi: ritratti e ‘teste di carattere’, o pseudo ritratti , come le personificazioni qui esposte, che divennero presto richiestissime, perfetta espressione di un’intera classe sociale, l’aristocrazia veneziana e non solo”.
Vi sono anche i pastelli di Benedetto Luti, due “Teste di donna” e “Giovane donna allo specchio”, 1704-08, in cui l’artista anch’egli settecentesco, esprime il nuovo ideale, etereo e sofisticato, considerato non solo nell’apparenza estetica, ma anche nell’introspezione psicologica.
Pierre Subleyras, “Nudo femminile di schena”, 1740
Il soggetto femminile è al centro anche nelle opere della Sala 10, che non ha una precisa destinazione nell’Appartamento d’inverno, dove colpisce subito il “Nudo femminile di schena”, 1740, di Pierre Subleyras, un corpo offerto alla vista, o meglio all’ammirazione.. La caratteristica eccezionale sta nel fatto che il nudo femminile riguardava sempre figure mitiche – da Venere alle eroine della mitologia – mentre questo è uno dei primi dipinti in cui la donna viene rappresentata nella massima intimità” come se stessa… è un omaggio al corpo di una donna precisa”, nelle parole della Gennari Sartori. “Provocatorio più di quanto non sembri, commenta la curatrice, … è un dipinto piuttosto rivoluzionario e moderno, che libera la rappresentazione della donna dal simbolico, dal culturale, dal metaforico e ce la rivela così com’è. E proprio per questo è un’immagine estremamente eroica e conturbante” e se, come sembra, è della sua compagna, anch’essa artista, ciò significa che l’autore “ci coinvolge in un gioco voyeuristico di liceità e illiceità, in cui siamo invitati a ‘spiare’ la sua donna, con il suo consenso, anzi è proprio lui che la dipinge per farcela guardare”.
A questo, che Pietromarchi definisce “gioco voyeuristico”, ne corrisponde uno in termini ancora più espliciti, sempre sul rapporto tra presentazione pubblica e percezione privata, tra la condivisione nell’ambito sociale e la propria intimità cui si riferisce anche l’opera di Subleyras appena descritta. E’ quello proposto da Stefano Arienti con “SBQR”, “Netnude”, “Gauscope”, “Arsiitaliani”, ecc, 2000: nudi maschili, frontali e non “di schiena”, in pose intime, per lo più di coppie gay, derivati da immagini da lui trasformate graficamente, non più tratte da opere di autori classici e moderni come in sue opere degli anni ’90, ma prese nel 2000 da Internet, quindi di dominio pubblico, definito da Pietromarchi “il luogo dove oggi massimamente si realizza l’autorappresentazione di sé, il luogo primario di un’attitudine voyeuristica al guardare e all’essere guardati, all’esposizione e all’ostentazione”.
Marco Benefial, “Ritratto della famiglia Quatrantotti (La famiglia del missionario)”, 1756
Una ostentazione ben diversa nella Sala 11, sempre dell’Appartamento d’inverno,senza voyeurismo ma con l’esibizione da parte di una comunità familiare di un gusto, che la Gennari Sartori chiama “curiosità per l’esotico”. Si tratta del “Ritratto della famiglia Quatrantotti (La famiglia del missionario)”, 1756, di Marco Benefial, questa volta un ritratto collettivo composto di molte ritratti singoli, intorno al giovane ecclesiastico missionario, quindi l’esotico è connaturato alla sua figura e si manifesta nel paesaggio con palme e foreste, e negli abiti. Per la Gennari Sartori, “il lontano e il diverso diventano abito, oggetto, arredo, elementi di una quotidianità ch riflette a propria misura orizzonti ormai assai più ampi”. Non solo orizzonti missionari, quindi religiosi, ma anche economici e commerciali.
Il lontano e il diverso diventano vicini e tangibili in “The Invisible man”, 2018, di Yinka Shonibare, un manichino in vetroresina e altri materiali di grandezza naturale realizzato appositamente per la mostra attuale ispirandosi all’opera di Benfial appena citata, L’artista di origine africana che vive in Inghilterra ha evocato l’esotico in modo provocatorio nella figura di un domestico vestito in modo pittoresco che porta in spalla un sacco con vettovaglie, la testa trasformata in un globo con impressi i nomi di palazzi romani. E’ il convitato di pietra della famiglia Quarantotti, secondo Pietromarchi ” è di fatto fuori del quadro, ma rientra idealmente nella scena ritratta da Benefial, e nella sua ostentata visibilità sottolinea piuttosto un vuoto, una mancata rappresentazione dell’altro, del diverso”. Quasi una denuncia che si è rimossa la colonizzazione.
Le altre sale, con il “clou” dell’Appartamento d’inverno
Nelle 2 ultime sale private, che corrispondono a quelle dell’Appartamento estivo, con gli antichi ritratti del potere sovrano e militare, e quelli contemporanei di letterati vicini all’artista autore, troviamo ritratti molto suggestivi, tra cui uno celeberrimo, immagine iconica del Palazzo., e una conclusione luminosa, quasi il fuoco pirotecnico finale delle feste paesane.
Yinka Shonibare,”The Invisible man”, 2018
La Sala 12,Camera da letto invernale, accoglie il visitatore con due ritratti che sembrano due facce della stessa medaglia, o meglio due modi di essere e di sentire della stessa persona, una donna che si offre all’osservatore con due messaggi diversi e complementari: “Come due facce d’una stessa medaglia, secondo la Gennari Sartori, entrambe ritratti e non ritratti, ritratti di persone ma anche di idee, e forse persino, in modi diversi, autoritratti dell’artista”.
In questa ottica consideriamo innanzitutto “Maria Maddalena”, 1490, di Pietro Cosimo : “E’ un’immagine peculiare a metà strada tra il quadro di devozione privata e il ritratto ideale, afferma la curatrice. E’ una figura quasi intima, preziosa, … e rappresenta la Maddalena, non già come la penitente nel deserto della tradizione iconografica, ma come una donna benestante del XV secolo”. La vediamo, infatti, raffigurata mentre legge, la sua è una “bellezza ideale, per aspetto e per condotta morale, ma molto caratterizzata…”.
Ed ora il “clou” della mostra, l’icona di Palazzo Barberini – la chiamiamo così, anche se la direttrice ha voluto dare alla Galleria un’impostazione a-iconica, non focalizzata sulle sue “star”, come ebbe a dirci all’inizio del suo mandato. Ovviamente è “La Fornarina”, 1520, una delle ultime opere di Raffaello realizzata nell’anno della morte. Viene ritratta una giovane donna raffigurata in un gesto di pudore, rafforzata dai simboli edificanti sullo sfondo, l’alloro e il irto, con nel braccio un segno che la associa strettamente all’artista che l’ha raffigurata, e che si specchia nella sua figura. “Spetta a Raffaello essere riuscito a creare un’opera che è insieme ritratto e autoritratto, Narciso ed Eco”, si legge nel pannello di sala, e ci sembra una bella conclusione.
Pietro Cosimo, Maria Maddalena”, 1490
L’opera contemporanea che dovrebbe fare da specchio o da eco, è “Bent and Fused”, 2018, di Monica Bonvicini, che Pietromarchi introduce dicendo che le due figure femminili, la Maddalena e la Fornarina, realizzate da uomini, possono “dialogare proficuamente, sia pure a distanza” , con questa artista la cui opera “invece getta luce sul problema di un vero processo di empowerment della figura femminile”.
E a questo riguardo il curatore parla di “piena consapevolezza e autodeterminazione di sé”, della donna, ma subito sottolinea che “in arte, come nella realtà, si scontra con forme di controllo, sorveglianza, manipolazione, potere”. Tutto ciò sarebbe espresso dal fascio di tubi al non uniti da fili che esprimerebbero il lavorio femminile nella grazia del ricamo, contemperando la loro luce così accecante da impedire la visione, gli opposti si incontrano: “Il medium stesso della visione, la luce, si trasforma paradossalmente nella sua negazione, la cecità, obnubilamento, abbaglio”, così viene presentata.
E’ forse la più ardita delle opere contemporanee selezionate al MAXXi, che irrompe nel tempio dell’Arte Antica, del resto autrice è un’artista affermata a livello internazionale, quindi “nulla quaestio”; però non possiamo negare che siamo presi anche noi dalla cecità, perché non vediamo come l’opera della Bonvicini possa “dialogare” con la “Fornarina” e con la “Maddalena”; la distanza sembra siderale, come le galassie lontane dalla terra miliardi di anni luce, quindi…
Raffaello Sanzio,”La Fornarina”, 1520
Ma siamo giunti al termine, alla Sala 13, la “Sala dei Marmi” – nel ‘600 detta “Camerone delle Commedie ” o “Anticamera del Camino” – che conclude il percorso, vi si accede direttamente dall’atrio dello scalone del Borromini c dal Salone di Pietro da Cortona posto all’inizio. Questa volta, al contrario della sala precedente, il dialogo tra opere antiche e contemporanee è immediato, e così la loro interpretazione. Basta dire che come presenza di arte antica c’è il “Ritratto diUrbano VIII“, 1632-33, il busto marmoreo di Gian Lorenzo Bernini, mentre dal 1679 c’erano i grandi cartoni per gli arazzi della vita di papa Maffeo Barberini, e il grande cartone con la “Battaglia dell’Ellesponto” dell’imperatore Costantino; come presenza di arte contemporanea vediamo “Pape” e “Mao”, 2005, di Yan Pei-Ming. In entrambi i casi, interpretazioni parallele del potere religioso e temporale, attraverso il ritratto ufficiale dei detentori, papi e dittatori carismatici.
Il papa Urbano VIII, Maffeo Barberini, dominus del palazzo e della sua epoca, esprime il potere nella forza statuaria eppure vibrante della scultura. “E in effetti – commenta la Gennari Sartori – questo busto è come lo specchio di quell’implicito rapporto fiduciario che si instaura tra il ritratto, l’artista che ritrae e l’osservatore dell’opera”, un rapporto che supera la distanza dovuta all’altezza della posizione ufficiale di chi è ritratto, per “un più immediato contatto psicologico e umano”. Mentre i ritratti di papa Woytila e Mao Tse Tung manifestano la loro preminenza nel rispettivo ambito e tempo, con immagini la cui potenza è visualizzata attraverso le dimensioni giganti, 3 per 3 metri.
Monica Bonvicini, “Bent and Fused”, 2018
Pietromarchi ne parla così: “Anche qui conta il gesto, simbolico, iconico, sennonché nelle tele di Pei-Ming il gesto stesso non può più essere un moto personale e spontaneo,ma diventa esso stesso un’immagine mediata e mediatica, che abbiamo visto e rivisto un’infinità di volte, effetto di una diffusione di massa che investe ogni tipo di immagine”. Non possiamo non ripensare ad Eco e Narciso, nelle cui figure mitiche si esprime la moltiplicazione dei suoni e il riflesso delle immagini.
La conclusione, con l’eco della mostra di Palazzo Barberini al Maxxi
E a proposito di Eco, non possiamo ignorare l’eco della mostra nelle Gallerie Nazionali di Arte Antica a Palazzo Barberini, la cui visita è ora terminata, fino al Museo Arti XXI secolo, il Maxxi, regno della contemporaneità dal quale provengono le opere moderne fin qui commentate, in cui è stata esposta, nella Galleria 1, l’ultima “accoppiata” celebrativa della restituzione delle 11 sale.
Si tratta della “Velata”. 1743, una scultura in marmo di Antonio Corradini, ovviamente “prestata” dalle Gallerie Nazionali come il Maxxi ha “prestato” a Palazzo Barberini le 16 opere di artisti contemporanei affiancate nelle nuove sale alle 17 opere di arte antica. Rappresenta la vestale Tuccia che, accusata ingiustamente di aver violato il voto di castità, fu riscattata dalla dea dopo che per dimostrare la sua innocenza fece il prodigio di portare l’acqua del Tevere con il setaccio, considerato immagine di purezza, come il velo aderente. La Gennari Sartori conclude che “la scultura virtuosistica di Corradini è anche una compiaciuta celebrazione dell’arte, che attraverso l’apaprenza del proprio mezzo, velando il soggetto lo rende – per quanto possa sembrare paradossale – veramente visibile. Ed è proprio ciò che accade pienamente nel ritratto”.
Yan Pei-Ming, “Pape” e “Mao”, 2005, al centro Gian Lorenzo Bernini, “UrbanoVIII”, 1632-33
Anche nell’opera di artista contemporaneo, “VB74”, di Vanessa Beecroft, il ritratto fotografico di una “performance” del 2014, le figure sono coperte da veli, si trattava di “tableaux vivant” realizzati con donne in vesti succinte. In questo caso, commenta Pietromarchi, “la nudità è percepita non come purezza ma come qualcosa di negativo, come un privazione e un’assenza, addirittura come un qualcosa di irrealizzabile e impensabile nella nostra cultura cristiana”. A seguito del peccato originale e della cacciata dal Paradiso, la nudità “è dunque indissolubilmente legata all’idea teologica di grazia e peccato, tra incoscienza originaria e coscienza successiva”. Pertanto, “l’attributo della bellezza non è la nudità”, anzi la “legge essenziale della bellezza” secondo l'”Angelus novus” di benjamin, è “che appare come tale solo in ciò che è velato”.
E’ un bella conclusione del viaggio all’insegna di Eco e Narciso, tra le 13 sale di Palazzo Barberini e la 1^ galleria del Maxxi, nel quale siamo stati accompagnati virtualmente dai curatori Gennari Sartori e Pietromarchi dei quali abbiamo citato i colti commenti ad ogni opera esposta.
Al termine della mostra, le sale recuperate saranno inserite nel normale percorso di visita delle Gallerie Nazionali di Arte Antica dopo l’allestimento museale con opere del ‘600-‘700, tra cui i dipinti della collezione Lemme, Non resta che attendere, ormai poco tempo, l’interminabile telenovela del Circolo ufficiali fortunatamente è finita per sempre.
Gian Lorenzo Bernini, “Urbano VIII”, 1632-33. primo piano
Info
Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto valido per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e particolari categorie. www.barberinicorsini.org; comunicazione@barberinicorsini.org. MAXXI, via Guido Reni, 4A. Da martedì a domenica ore 11-19, il sabato fino alle 22, la biglietteria chiude un’ora prima, Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 9 anni 14-25, gruppi e particolari categorie. www.maxxxi.art.it, tel. 06.83549019. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 25 settembre 2018.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione , con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Kiki Smith, “Large Dessert”, 2004-05; seguono, Kiki Smith, “Large Dessert”, 2004-05, particolare, e Benedetto Luti, “Teste di donna”, 1704-08; poi, Pierre Subleyras, “Nudo femminile di schena”, 1740, e Marco Benafial, Ritratto della famiglia Quatrantotti (La famiglia del missionario)”, 1756; quindi, Yinka Shonibare,”The Invisible man”, 2018, e Pietro Cosimo, “Maria Maddalena”, 1490; inoltre, Raffaello Sanzio,”La Fornarina”, 1520, e Monica Bonvicini, “Bent and Fused”, 2018; infine, Yan Pei-Ming, “Pape” e “Mao”, 2005, al centro Gian Lorenzo Bernini, “Urbano VIII”, 1632-33, e primo piano di Gian Lorenzo Bernini, “Urbano VIII”, 1632-33; in chiusura, Vanessa Beecrof, “VB74”, da performance 2014.
La mostra “Sergio Ceccotti, Il romanzo della pittura 2958-2018” presenta dall’11 settembre al 14 ottobre 2018 al Palazzo Esposizioni un’antologica di mezzo secolo di pittura dell’artista romano accostato all’americano Hopper per il suo sguardo “dall’interno” e “nell’interno” delle abitazioni in una vita quotidiana declinata in modo molto diverso. Sono oltre 40 dipinti n nei quali si sente l’influsso del cinema e del fumetto, della fotografia e perfino del rebus enigmistico, quindi intriganti sotto il profilo compositivo e inquietanti per come sollecitano l’inconscio con i loro effetti psicologici. Curata, come il catalogo di Carlo Cambi Editore, da Cesare Biasini Selvaggi.
“Le 4 età della vita” (polittico), 1969, con l’artista Sergio Ceccott
“Il romanzo della pittura” evoca l’opera di un artista sulla scena da mezzo secolo con una impressionante continuità di stile e di contenuti. E’ una continuità arricchita da molte innovazioni tradotte nel suo stile personalissimo, perciò possono anche sfuggire, tanto sono metabolizzate.
Si notano via via i segni delle tanti correnti, anche di avanguardia, che hanno movimentato la seconda metà del ‘900, anche perché la sua formazione artistica è stata rigorosa pur se da autodidatta che ha frequentato corsi prestigiosi: come quello del 1956 e 1957 a Salisburgo diretto da Oskar Kokoscha, e i successivi a Roma all’Accademia di Francia, con viaggi ripetuti in Austria e in Germania a contatto con i maestri dell’espressionismo, da Otto Dix a Ludwig Meidner.
“Scena notturna”, 1968
Ricostruisce il suo percorso il curatore Cesare Biasini Selvaggi iniziando con le suggestioni cubiste delle prime opere, l’artista espone già nel 1955 alla I Mostra Nazionale d’Arte Giovanile tenuta al Palazzo delle Esposizioni di Roma, la prima personale è del 1960 alla galleria romana “L’Albatro”. Ma non solo influenza dei cubisti, viene vista anche quella degli oggettivisti americani e italiani.
Fin dall’inizio emerge soprattutto un dato costante della sua visione, “la rappresentazione simultanea e bidimensionale di interni ed esterni, l’uso dei primi piani che rivelano i rapporti – per analogia e per contrasto – tra il circoscritto ambiente della vita individuale e le forme oggettive della vita sociale”, così Duilio Morosini citato dal curatore che riporta anche il giudizio di Lorenza Trucchi: “L’uomo è sempre presente nei suoi quadri attraverso un selezionato inventario di oggetti semplici e familiari, a tal punto che le sue nature morte sono spesso dei gustosi autoritratti”.
Da sin. in basso, “Le 4 stagioni”, autunno ed estate 1975, inverno 1976, primavera 1979
Questo per il contenuto, sugli influssi artistici che hanno alimentato il suo percorso cinquantennale vale il giudizio di Mino Maccari: “E’ facile identificare in questa pittura varie e quasi opposte influenze che senza comprimerlo aiutano il Ceccotti nella vocazione del racconto”. E in modo più esplicito: “Non sono dunque subite passivamente: temperate da un’attenta facoltà critica, denunziate con lealtà e talvolta non senza ironia”. Si va dalla Metafisica dechirichiana all’Espressionismo tedesco, dal Simbolismo al Realismo magico, dall’Oggettivismo alla Pop Art nella rappresentazione urbana.
Ma non si è mai allontanato dal figurativo, o dalla figurazione, resistendo alle sirene delle avanguardie, come fece Renato Guttuso, e come lui ha visto alcuni esponenti della Nuova scuola romana riavvicinarsi dopo tante polemiche nel loro “ritorno alla pittura”. Il riferimento a Guttuso non deve essere, però, equivocato in quanto nel realismo di Ceccotti non c’è quella connotazione per così dire ideologica, che alimentò le accese polemiche del tempo, in lui nessuna denuncia e nessun intento “politico” ma uno sguardo curioso quanto neutrale e indifferente.
Dall’alto, “Ricordo d’Olanda” 1959, con “Lettere e orologio” 1960
Nel 1986 c’è stato addirittura un suo “sodalizio elettivo” con artisti di varie tendenze accomunati dal “ritorno alla pittura”, e negli anni ’90 ebbe, ricorda il curatore, “il tardivo riconoscimento alla sua ricerca, che è additata come antesignana della vague pittorica corrente, sospesa tra contaminazioni linguistiche , in un rinnovato melting pot “, di tipo mediale, “fondato cioè su una trama fittissima di riferimenti meticciati a tutti i principali campi dell’espressione visiva, immersa in un’atmosfera urbana noir dei nuovo domini, dei nuovi misteri dell’insolito contemporaneo”.
Il processo creativo, dagli stimoli all’espressione artistica
Ma entriamo ancora di più nel suo processo creativo partendo dagli stimoli, premettendo che Maccari ha definito i suoi disegni “testimonianze dirette e immediate d’intelligenza e di sensibilità”, fino ad invitarlo a esporre i taccuini che, precisa il curatore, sono 40 realizzati negli anni ’60. Non sono stati esposti, ma il disegno è rimasto alla base del processo pittorico che inizia con il tratto dei contorni e l’abbozzo a matita sulla tela, prima a matita poi ripassato in china.
“Elegia”, 1974
Gli influssi metabolizzati da Ceccotti non sono soltanto quelli delle altre correnti pittoriche, come avviene di solito. Nella sua figurazione confluiscono, e sin dall’inizio, altri stimoli: gli strumenti tipici dei mass media, i fumetti e il cinema, inoltre la fotografia e perfino il “rebus”, il ben noto gioco enigmistico, e su questi vogliamo soffermarci in modo particolare.
Il Fumetto aveva già influenzato la Pop Art con Roy Lichtenstein , ma in quel caso si è trattato di gigantografie dei volti dei personaggi più in voga, e con le “icone” di Warhol, Marylin Monroe ed Elizabeth Taylor in primis, anche per lui volti in primo piano. Il nostro artista, invece, prende del fumetto la sequenza narrativa, per cui le sue composizioni ne sembrano la trasposizione pittorica: “Nell’inquadratura del fumetto – ha detto lui stesso – c’è sempre il massimo della concentrazione narrativa nel minimo spazio. Questo è avvenuto sia inconsciamente, sia coscientemente quando ho cominciato a fare dei quadri riferibili al fumetto”.
“Notturno, rio dei Mendicanti” , 1990
Ma c’è ben altro, non soltanto la sinteticità, secondo Di Genova l’atmosfera del quadro addirittura “si sintonizza sullo spirito giallo del fumetto cui si ispira… nelle strade e negli appartamenti piccolo-borghesi ricrea, con un’ottica da realismo tedesco, un’atmosfera di suspense, intrisa contemporaneamente di romanticismo e di kitsch”.
Dal Cinema ha desunto le peculiari inquadrature, dall’illuminazione delle zone di maggiore interesse ai primi piani, agli sfondi e alle angolature da veri e propri movimenti della macchina per la ripresa cinematografica; nonché la tensione drammatica, il clima di attesa e di suspense caratteristico dei film polizieschi. Anzi, un film riflette fedelmente l’ottica peculiare di Ciccotti, cioè lo sguardo dall’esterno verso gli interni delle abitazioni, “La finestra sul cortile” di Alfred Hitchock in cui addirittura dall’occhiata indiscreta nasce la scoperta di un delitto. Ebbene, in “Un delitto” 1967 di Ciccotti, esposto, si vede una piccola finestra illuminata con l’assassino mentre pugnala la vittima”, ricordiamo un’immagine dello stesso tipo in “Psyco” dello stesso regista.
“Sera al Pigneto”, 2014
Le scene che si presentano nei dipinti dell’artista pongono degli interrogativi, tutto potrebbe essere avvenuto o potrebbe avvenire in quegli ambienti raffigurati nei dettagli, non si sa quali sono decisivi e quali banali. Anche la compresenza di momenti, importanti e vacui, ha radici cinematografiche,
E la Fotografia? La tecnica fotografica entra in molte sue inquadrature pittoriche, tanto che organizzò nella galleria-Libreria Pan di Roma la mostra “24 fotografie di un pittore”, quasi per documentarne l’importanza nella sua espressione artistica. Il curatore, nel sottolineare questo aspetto, cita la presentazione di Filiberto Menna a tale mostra come illuminante: “Il combattimento per un’immagine, che pittura e fotografia hanno ingaggiato nell’opera di Ceccotti, si presenta come un serrato gioco dialettico in cui uno dei due termini assume, di volta in volta, il ruolo di fattore di profondità o di superficie”.
“Solstizio d’estate”, 2017
Biasini Selvaggi commenta a sua volta: “L’oggettività fotografica e l’oggettività pittorica procedono, pertanto, nell’artista romano di pari passo. E si tratta di una oggettività immersa in una dimensione metafisica tutt’altro che laica e caricata di simboli e suggestioni liriche”. In effetti, in molti suoi quadri l’angolo dal quale sono “riprese” le immagini non è quello normale ma assume posizioni inconsuete, o a livello del pavimento oppure dietro a un riparo, come se si trattasse di un “paparazzo” che cerca di carpire, stavamo per dire rubare, non visto, immagini “private”.
Fagiolo dell’Arco vi trova “la convivenza tra vicino e lontano, guardato e immaginato, veduta e visione. Un accorto equilibrio tra la fotografia che diventa quadro e il quadro che diventa fotografia”. Se tutto questo può sembrare aulico, un’altra contiguità ci riporta con i piedi per terra, ed è ancora più inconsueta, quella con il rebus enigmistico. Riguarda le sue composizioni in cui spesso sono accomunati elementi eterogenei, la cui compresenza non ha giustificazioni razionali.
“Canzone notturna”, 2012
Così l’artista spiega gli stimoli ricevuti dai Rebus con i loro disegni enigmistici: “Il mio interesse per questi disegni non nasceva da una grande passione per i rebus, anche se mi diverte risolverli, ma dal fascino che quelle scene emanavano … gli accostamenti di oggetti incongrui, ingrediente principale di ogni rebus, non producono qui un effetto disturbante di tipo surrealista, ma sono tranquillamente assorbiti dalla scena generale, come se in quel mondo fosse naturale che un ragazzo lotti con un serpente tra l’indifferenza di altri personaggi che contemplano le barche sul fiume, mentre su una pietra in primo piano una teiera e una tazza attendono, accanto a due grossi coltelli”.
E dopo aver assorbito e metabolizzato stimoli così eterogenei, come scatta la scintilla creativa ? “Io dipingo ciò che devo, non ciò che voglio -. rivela l’artista – Quando mi trovo davanti a una tela bianca l’opera comincia a delinearsi come per induzione di una forza a me sconosciuta, inconoscibile tuttavia immanente”. Con questo risultato: “L’immagine è, pertanto, la traduzione che deve confluire su un a superficie piana in un gioco di forme e di colori”.
“Guardando le stelle”, 2005
Il curatore lo raffronta a de Chirico, in cui “l’inquietudine metafisica è generata dall’accostamento a-logico di oggetti, talvolta comuni, spesso extra-ordinem ” e a Magritte che “preferisce le cose normali della quotidianità borghese assurdamente sovrapposte o misteriosamente riprodotte” con spostamenti inspiegabili . “A ciò corrisponde, invece, la disarmante normalità delle immagini di Ceccotti, in cui nulla appare fuori posto, ma in cui di lì a poco tutto potrebbe accadere”.
Nasce, quindi, non un’inquietudine di tipo metafisico – l’alienazione di piccole figure in vasti spazi assolati – ma una “suspense” di tipo emotivo, proprio per la figurazione definita “controcorrente” che si apre dinanzi all’osservatore. L’inquadratura fotografica di chi carpisce l’intimità si aggiunge alla compresenza di oggetti illogici, in un clima di attesa, così definito da Alberto Abate: “Il tempo rimane sospeso tra il ‘non avvenuto’ e la minaccia inesprimibile di qualcosa che deve ancora avvenire; il passato ha cessato di essere e il futuro ancora non esiste, rimane il presente eternamente immobile”.
“La signora X e l’uomo invisibile”, 1981
Viene anche paragonato a un “voyeur ” che scruta – e inquieta per la stessa azione dello spiare – ciò che avviene nelle strade e soprattutto nelle case con in sé qualcosa di maniacale: come lo è la certosina cura dei dettagli quasi si fosse sulla scena di un delitto in cui gli elementi più insignificanti possono assumere un’importanza impensabile. “Anche un insignificante utensile da cucina – osserva il curatore – può cominciare, allora a farci paura, assumendo una valenza che prima non aveva”. Sfugge, infatti, alla nostra illusoria comprensione”. Biasini Selvaggi ne fa discendere considerazioni di ordine psicologico che fanno entrare ancora di più nel clima creato dai dipinti di Ceccotti: “Non è questo, forse, che si chiede all’Arte? Aiutarci a meditare sul mistero dell’esistenza? Aiutarci a cogliere i rapporti segreti e invisibili intessuti intorno a noi o dentro di noi?”
Come questo avvenga è ancora più intrigante: “Il metodo di Ceccotti rappresenta insomma l’alter ego pittorico delle macchie di Rorshach in psicologia: è un sofisticato strumento d’indagine della personalità, il cui scopo è quello di far affiorare nello spettatore emozioni inconsce, conflitti interiori attraverso la stimolazione visiva degli spazi (interni o esterni) inscenati sulla tela”. Verifichiamo ora nella pratica questo meccanismo psicanalitico osservando le opere esposte nella mostra..
“Accanto al fuoco”, 2010
Le opere in mostra, da intriganti a inquietanti
Raggruppiamo i dipinti per i due tipi di inquadrature e di contenuti, quelle in esterno e quelle in interno, a parte le composizioni che in varia misura con i loro elementi eterogenei ricordano i rebus enigmistici, come “Al bar II” 1962 e “Avventura e mistero” 1966, “Scena notturna” 1968 e “Ricordo d’Olanda” 1959 con “Lettere e orologio” 1960; fino ai due multipli, il polittico “Le 4 età della vita” (polittico) 1969, e il trittico “Megalopolis” 1972.
Vediamo una diecina di quadri in esterno, la maggior parte notturni, nei quali c’è una presenza umana che pone intriganti interrogativi . Così “Stazione di provincia XIII” 1981, non solo il viaggiatore in attesa mentre arriva (o parte?) il treno, ma una cabina telefonica sull’altro marciapiede con una giovane donna al telefono, avverte che è arrivata, ma se è così il treno sul suo binario è già ripartito, o che altro? E come mai in “Esterno notte” 1988 c’è una bella donna distesa nel giardino mentre in una finestra si accende una luce?
“Sonata”, 1998
Le tre minuscole persone di “Notturno, rio dei Mendicanti” 1990, che conversano nella solitudine più assoluta, cosa faranno tra poco? Che dire poi delle due figure in primo piano di spalle in “Sera al Pigneto” 2014, dolcemente allacciate, entreranno nel locale di fronte per cenare come le tante persone nei tavolini del giardino o che altro? E l’automobile che sfreccia a lato del treno davanti al manifesto in “Notturno con Diabolik” 2008, dove andrà nella notte buia mentre un lampione proietta a terra un fascio di luce gialla? Alla luce diurna notiamo come in “Hiver a Montmartre” 1991 la stagione fredda si manifesta negli alberi spogli senza foglie e ancor più nella desolazione delle strade e nella solitudine della figura col bastone che si dirige verso qualcosa che non si vede, forse la sua abitazione, ma come sarà?
Tre esterni, diversi tra loro, suscitano altrettanti interrogativi: “Settembre a Piazza dei Quiriti” 2015 mostra una grande fontana con due edifici, un albero e una strada, ma l’attenzione, e la curiosità sono attirate dalla figura scura sulla destra che avanza verso l’osservatore con un grosso cane al guinzaglio. In “Estate a piazzale Flaminio” 2016, è una giovane donna in short a dirigersi verso l’osservatore, mentre ci sembra di sentire picchiare il sole di mezzogiorno, lo si vede dalle ombre corte. Senso di frescura, invece, in “Solstizio d’estate” 2017, una fontana al centro di uno specchio d’acqua circolare , una donna sulla destra a mezzo busto che guarda col binocolo verso l’alto l’aereo che sorvola la cortina di alberi di fronte.
“Combattimento di Tancredi e Clorinda”,1980
Altri due esterni, che non riguardano piazze o giardini pubblici ma le facciate di due case nella notte, ci fanno avvicinare all’intimità degli interni di cui diremo fra poco. Nel primo, “Canzone nottuna” 2012, nel piccolo terrazzo una giovane donna in piedi in abito da sera verde con ampio “decolletè” canta accompagnata da un chitarrista seduto, grandi pini svettano nel buio dietro l’edificio che ha due finestre illuminate in due piani diversi Anche il secondo esterno, “Guardando le stelle” 2005, mostra uno scorcio del muro dell’edificio che si innalza su una distesa di acqua percorsa da barche, l’inquadratura è più ravvicinata della precedente, in primo piano una giovane donna nuda fuma una sigaretta, ripresa in piedi tra la persiana e un oblò con luce gialla, chi ci sarà?
Non è l’unica donna nuda nei dipinti esposti, ce ne sono altre cinque che, ad eccezione del tondo “Estate”, 1975 – sul mare in un campo di nudisti – sono tutte in interni. In “Nudo con apparecchio radio” 1971, la parte superiore di un bel corpo femminile fino alle gambe visto da dietro, con un rosso tramonto alla finestra; “La signora X e l’uomo invisibile” 1981, presenta l’inquietante visita di un uomo dalla testa fasciata, lei sorpresa nuda in piedi mentre fuma, lui non si sa come sia entrato, inquietante oltre che intrigante, la più misteriosa. Infatti in “Nu descendant un escalier” 1982, la donna in uno splendido nudo frontale che ne mostra tutta l’avvenenza è giunta alla base di una stretta scala a chiocciola; e in “Plein air” 2001 non è in carne ed ossa ma dipinta nuda su una tela di ambiente marino con un uomo e due bambini. Clima di erotismo o piuttosto “atmosfera di tenero romanticismo”, come la definisce il curatore: “Il suo è, infatti, un erotismo intimo, in qualche modo direi pudico, che vuole cogliere nel rapporto con l’altra, l’armonia e la bellezza”.
“La robe verte”, 1998
E quando posa lo sguardo sugli interni delle abitazioni, in qualche caso “sembra quasi in imbarazzo per questa invasione della privacy altrui”. In “Accanto al fuoco” 2010, la donna “spiata” è seduta sul divano e prende il caffè davanti alla televisione, sola ma con tre cannoli su un vassoio, attende qualcuno? Anche nel più recente “Un après-midi-parisien” 2017, è ripresa seduta davanti alla televisione, addirittura mentre aziona il telecomando. Mentre in “Sonata”, che risale al 1998, l’intimità è nel piatto con tazza di caffè e cornetto, oltre al fax, c’è una violinista che suona in piedi davanti al leggio e il pianista che l’accompagna, la scala che porta al piano superiore è l’elemento intrigante. Quasi sempre ci sono finestre quale elemento simbolico dell’apertura all’esterno anche se viste dall’interno in una corrispondenza biunivoca e reversibile.
Senza soggetti, ma quasi sempre con aperture verso l’esterno presentate in vari modi, gli altri interni esposti in mostra, in alcuni si “sente” la presenza che non si vede. In “Combattimento di Tancredi e Clorinda” 1980 sono la tazzina, la bottiglia e la torta sul tavolo dalla tovaglia rosa a far sentire questa presenza, qualcuno deve arrivare o c’è già stato? Sulla sedia lo spartito della musica di Monteverdi che dà il titolo al quadro. Mentre in “Le robe verte” 2008, il vestito verde sul letto e la porta aperta sul bagno illuminato fanno pensare che c’è qualcuno dentro, la proprietaria del vestito, sola o in compagnia? E “Il bagno verde” 1989 è vuoto, ma l’asciugamano, le boccette e il phon sulla sedia indicano che sta per venire, chi?
“Il tè del pomeriggio”, 1983
Lo stesso in “Angolo di cucina” e “Il te del pomeriggio”, entrambi del 1983, “Musee immaginaire II” 1986 e “Il mare dipinto” 2018, l’ultimo, con il panino smozzicato e la bibita aperta davanti a un quadro sul cavalletto, due quadri a terra, si attende di certo l’artista che ha smesso momentaneamente di dipingere. E’ come se dovesse arrivare da un momento all’altro per finire lo spuntino.
Con questa immagine di presenza-assenza concludiamo la nostra rassegna della galleria di opere in mostra, non prima di fare un’ultima considerazione che nasce dal fatto che le “incursioni” nel privato delle abitazioni richiamano quelle di Edward Hopper – come si è accennato in apertura – le cui opere Ceccotti conobbe sin da 1952, a 17 anni. Il curatore vi trova “convergente divergenti” così spiegate: “Quadri, quelli di entrambi, accomunati da un’apparenza realistica, da un naturalismo di ritorno, tuttavia divergenti, inconciliabili nel merito”.
“Plen air”, 2001
Ed ecco perché: “Il maestro americano rappresenta sulle sue tele il dramma dell’incomunicabilità, dell’alienazione, della solitudine della società moderna tra assolati diurni urbani pervasi da silenzio. Silenzio che vuol dire assenza di comunicazione”. Non solamente se la persona è sola, quindi si collega alla solitudine, anche quando vi sono più persone non si guardano, si ignorano. “Ceccotti, dal canto suo, si limita, invece, a riprodurre pittoricamente ciò che ha visto, senza dare giudizi sul suo tempo”. In tal modo “scarta seccamente la dimensione epica come la dimensione lirica, per attestarsi su una linea impassibile di osservazione voyeristica, soprattutto in orario crepuscolare”.
Con le “convergenze divergenti” artistiche tra i due pittori – ossimoro che fa impallidire le “convergenze parallele” di lontana memoria – termina il nostro racconto della mostra di un pittore le cui opere evocano scene viste al cinema o lette nelle storie poliziesche suscitando non solo interesse ma anche pulsioni che da intriganti diventano inquietanti quando sono sedimentate nell’inconscio. E’ questo il “romanzo della pittura”, la pittura personalissima di Sergio Ceccotti.
“Megalopolis” (trittico), 2012
Info
Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari: da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30. Ingresso intero euro 13,50, ridotto euro 10,00. Catalogo “Sergio Ceccotti. Il romanzo della pittura 1958-2008“, a cura di Cesare Biasini Selvaggi, Carlo Cambi Editore, settembre 2018, pp. 96, formato 21,5 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e correnti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: su de Chirico: in questo sito, “arte e filosofia” 17, 21 dicembre 2016, “gioiosa metafisica” 16 marzo 2015, “ritratti” 20, 26 giugno, 1° luglio 2014; in cultura.inabruzzo.it, “natura” 8, 10,11 luglio 2010, anche nei “Quaderni” della Fondazione, “Metafisica” e “Metaphysical Art” n. 11.13 del 2013, “disegno” 27 agosto 2009; su Hopper 12 e 13 giugno 2010. In questo sito, su Guttuso: “rivoluzionario” 14 luglio 2018, “innamorato 16 ottobre 2017, “religioso” 27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, “antologico” 25 e 30 gennaio 2013; su Warhol 15 e 27 settembre 2014; sulla Pop Art ecc. nel Guggenheim, 23 e 27 novembre, 11 dicembre 2012 (il sito cultura.inabruzzo.it non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque sono a disposizione).
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni, si ringrazia la direzione con i titolari dei diritti – in particolare l’artista, anche per aver accettato di essere ripreso davanti a una sua opera – per l’opportunità offerta; sono riportate non in ordine cronologico ma nell’ordine in cui sono citate nel testo (tranne le ultime due). In apertura, “Le 4 età della vita” (polittico) 1969, con l’artista Sergio Ceccotti; seguono, “Scena notturna” 1968, e “Le 4 stagioni”, autunno ed estate 1975, inverno 1976, primavera 1979; poi, “Ricordo d’Olanda” 1959, con “Lettere e orologio” 1960; quindi, “Elegia” 1974, e “Notturno, rio dei Mendicanti” 1990; inoltre, “Sera al Pigneto” 2014, e “Solstizio d’estate” 2017; inoltre, Canzone notturna” 2012, e “Guardando le stelle”2005; ancora, “La signora X e l’uomo invisibile” 1981, e “Accanto al fuoco” 2010; continua, “Sonata” 1998, e “Combattimento di Tancredi e Clorinda” 1980; prosegue, “la robe verte” 1998, e “Il tè del pomeriggio” 1983; infine, “Plen air” 2001, e “Megalopolis” (trittico) 2012; in chiusura, “Hiver a Montmartre” 1991.
L’apertura al pubblico di 11 sale recuperate con 750 metri di nuovi spazi espositivi, nel Palazzo Barberini viene celebrata con la mostra “Eco e Narciso. Ritratto e autoritratto nelle collezioni del MAXXI e nelle Gallerie Nazionali Barberini Corsini” Esposte, dal 18 maggio al 28 ottobre 2018: in tali sale, e in altre 2 aggiunte per l’occasione, più un “richiamo” al MAXXI, 37 opere, 17 di arte antica e 18 di arte contemporanea, con 25 artisti, tra cui Pietro da Corona, Caravaggio e Raffaello per gli antichi, Ontani, Paolini e Serra tra i moderni. Curatori di eccezione la direttrice delle gallerie nazionali Flaminia Gennari Sartori e il direttore del MAXXI Arte Bartolomeo Pietromarchi.
La presentazione della mostra, al centro la direttrice delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Flaminia Gennari Sartori, alla sua sin. Giovanna Melandri, presidente del MAXXI, alla sua dx Bartolomeo Pietromarchi, direttore del MAXXI Arte; alla parete “Giovanni XXII” e “Mao Tse Tung,”, tra i due dipinti il busto di papa Urbano VIII di Lorenzo Bernini
Nella strategia della direzione della Gallerie Nazionali di Arte Antica la mostra si inserisce con una ulteriore carica evocativa, trattandosi di celebrare il recupero, per aprirle alla fruizione del pubblico, di 11 sale dello storico Palazzo Barberini, cui se ne aggiungono 3, reintegrate negli spazi accessibili dal pubblico, presentando in ciascuna sala una accoppiata di opere antiche e contemporanee che dialogano tra loro, facendosi reciprocamente eco e specchiandosi come Narciso.
Il tema è il Ritratto come assertore di identità fino all’autoritratto, metafora che la presentazione definisce “declinata nelle sue innumerevoli sfumature dal potere all’erotismo, dall’intimo all’esotico, dalla temporalità alla spiritualità, dal concettuale al grottesco”. Viene evocata la figura dell’artista “allo stesso tempo Narciso ed Eco, condannato a inseguire un’immagine, un riflesso, un’illusione”. E quella del visitatore, nella “temporalità” in cui, per la Gennari Sartori, il tempo ha “una durata reale, una fruizione dinamica” mentre, per Pietromarchi, “è movimento, unisce e divide”. La mostra” fa reagire il tempo e lo spazio delle immagini con il tempo e lo spazio reali”.
Luigi Ontani, “Le Ore”, 1975, particolare, 2 delle 24 gigantografie
L’arte nelle sale recuperate attraverso il dialogo tra opere antiche e contemporanee
Parlando del tempo non possiamo non manifestare il più vivo stupore, per usare un eufemismo trattandosi di sconcerto, per i decenni nei quali le 11 sale sono state sottratte alla loro destinazione naturale di spazi espositivi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica particolarmente qualificati per il loro valore storico e per i pregi artistici e Ambientali; stupore, sconcerto che diventano indignazione dinanzi a una sottrazione tanto più assurda se si pone a mente che fanno parte dell’edificio acquistato dallo Stato italiano nel 1949 e subito adibito a sede delle Gallerie Nazionali, a seguito della fondazione, che risale al 1895, del museo come Pinacoteca nazionale. E allora perché questa mutilazione nell’impiego per la destinazione istituzionale?
La risposta è nota quanto insoddisfacente. All’atto dell’acquisto parte del palazzo era adibita a sede del Circolo Ufficiali delle Forze Armate, quindi facente capo a un’altra amministrazione dello Stato; ciononostante, prima del recupero da una occupazione impropria pur se legittimata da un contratto di affitto, sono trascorsi 70 anni nei quali le 11 sale sono state sottratte alla fruizione pubblica. Se oltre al danno erariale sanzionato dalle sentenze della Corte dei Conti fosse possibile perseguire il danno culturale si dovrebbe solo identificare il responsabile, il danno è evidente.
Pietro da Cortona, “Trionfo della Divina Provvidenza” , 1632-39, affresco del soffitto della sala
Proprio per questo ci è sembrata molto appropriata la celebrazione della loro riapertura al pubblico con una mostra tematica che segna un’altra apertura, questa volta culturale: l’apertura al dialogo tra arte antica e contemporanea, per di più con un confronto tematico stringente. Un dialogo non solo virtuale, tra le opere esposte nelle sale che declinano il tema in chiave antica e moderna, ma effettivamente svolto tra la direttrice delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, la Gennari Sartori, e il Direttore Arte del Maxxi, il Museo nazionale d’arte del XXI secolo, Pietromarchi, contenuto in una preziosa presentazione nella quale all’elevato livello culturale si aggiunge l’appassionata immedesimazione dei due alti esponenti nell’incontro tra Eco e Narciso.
Sala dopo sala si dispiega un racconto affascinante delle motivazioni che hanno portato agli accostamenti tra opere antiche e contemporanee e le rispettive sale di specifica esposizione, ciascuna con una peculiarità su cui si è soffermata l’attenzione per la collocazione più appropriata..Si va dalla sale di rappresentanza, quali la sala del Trono e le due sale dell’Udienza del Cardinale, a quelle private quali la sala Cappellina e la sala Giapponese, o delle Cineserie, la sala dei Marmi o “Camerone delle Commedie”, la Residenza d’inverno con la Camera da letto, e la Residenza d’estate, con la sala Ovale e la sala dei Paesaggi, fino alla scala elicoidale di Francesco Borromini che completerà il percorso di visita con inizio nello scalone di Gian Lorenzo Bernini.
Giulio Paolini, “Eco nel vuoto”, 2018
Le prime 4 sale, dalla Sala del Trono alla Sala delle cineserie
Si inizia con la Sala 1, il Salone Pietro da Cortona in cui la grande volta affrescale dall’artista cui è intitolato la vastissima stanza di rappresentanza, una esaltazione narcisistica quanto mai spettacolare dei Barberini, dialoga con un successione di gigantografie di Luigi Ontani, un’eco ripetuta che è anche lo specchio moltiplicato in cui si riflette l’artista come se rimirasse di continuo la propria immagine. in modo altrettanto narcisistico.
Tra le due opere è una gara di grandiosità, anche se i 500 metri quadri dell’affresco “Trionfo della Divna Provvidenza”, di Pietro da Corona, 1632-39, sono incomparabili, ricordiamo che la parete di fondo ospitò l’immenso “Sipario” di Picasso “a latere” della mostra alle Scuderie del Quirinale, con ilo riflesso teatrale della volta affrescata. A fronte di questa iperbolica estensione manca ogni ritratto del soggetto a cui l’intera rappresentazione è dedicata, con l’esaltazione delle virtù attraverso eventi del mito e della storia, il pontefice Urbano VIII Barberini, evocato dalle tre enormi api della famiglia, le chiavi e la tiara papale. “In absentia del pontefice c’è tutto tranne la sua stessa immagine”, osserva la Gennari Sartori.
Apparentemente abbiamo l’opposto in “Le Ore” di Luigi Ontani, 1975,24 grandi ritratti riferiti alle singole ore della giornata dell’autore che, ricorda Pietromarchi “è per definizione il Narciso contemporaneo. In tutta la sua opera ha sempre interpretato e ritrovato se stesso nei temi e nelle figure storiche, mitologiche, simboliche della storia dell’arte”, e lo abbiamo visto nella mostra celebrativa all’Accademia di San Luca. Di certo, oltre al tema dell’identità evoca il mascheramento, pur nell’auto rappresentazione, ma ci sembra che ciò si avverte anche nel grande affresco, nel “Trionfo della Divina Provvidenza” c’è, mascherato ma non troppo, il trionfo della famiglia Barberini nel suo massimo esponente divenuto papa.
Maria Lai, “Libri cuciti”
Nella Sala 2, la Sala Ovale, l’eco ideale è tra ii “Narciso” caravaggesco e un’installazione di Giulio Paolini che con il linguaggio dell’arte contemporanea ne evoca la vicenda. Questo avviene in un ambiente barocco dalla pianta ellittica, in cui la centralità è unita al movimento, dove si riunivano i letterati più vicini al cardinale Antonio Barberini, i cosiddetti “Purpurei Cygni”. Luogo, quindi, di riflessione, che è stato considerato dalla Gennari Sartori “spazio ideale per esporre il ‘Narciso’ di Caravaggio (o chi per lui), che della ‘riflessione’, fisica e psichica, è la perfetta icona cui fa eco, e propriamente, l’installazione di Giulio Paolini, “Eco nel vuoto”, 2018.
Paolini ha sentito il tema dell’identità personale, e del rapporto tra chi guarda e chi è guardato, ricordiamo al riguardo una sua mostra al Palazzo Esposzioni, parallela alla mostra del 2010, “De Chirico e la natura”, in cui evidenziava in modo suggestivo il progressivo avvicinamento del pubblico all'”Autoritratto” di de Chirico seminudo. La sua installazione, posta al centro della sala, viene così descritta da Pietromarchi: “La figura di narciso è presente solo attraverso frammenti dispersi, mentre Eco precipita dall’alto della roccia in cui è destinata a trasformarsi. Evanescente come il riflesso delle acque della fonte, l’eco si disperde in un gioco illusorio di rifrazioni”. Evanescenza anche nel “Narciso” di Caravggio, precisa la Gennari Sartori, “il vuoto sta al centro del quadro, così Narciso si specchia nel nulla, nel nulla di sé stesso,, che è soltanto un’ombra, un abisso su cui sprofondare”.
Luca Giordano, “Ritratto di filosofo”, 1660
Si passa alla Sala 3, laSala dei Paesaggic, che nel 1859 era la sala da pranzo del piano nobile, Enrico Barberini la fece decorare dal pittore Filippo Cretoni, “Bisbigli”, “Il viaggiatore astrale”, “Terra”,tra il 1984 e il 1996, colonne, festoni e immagini dei feudi di famiglia, tra cui quello di Palestrina che risaliva al 1600, memorie di una passata potenza, ormai in declino, quasi ad evocare una continuità ideale. Il fatto che non sia stata restaurata e gli affreschi sono sbiaditi, fa toccare con mano l’altalena della storia, dall’opulenza alla decadenza. “Qui il paesaggio, per la Gennari Sartori, non è spazio indeterminato, ma qualcosa di vissuto ne legato a un’identità storica e narrativa. Qualcosa che deve esse letto, raccontato e ricordato, nell’evocazione emotiva e pesino letteraria”, ed è la testimonianza dell'”antico” nell’eco e nel riflesso di narciso con la contemporaneità, nella prospettiva dell’identità..
Questa si manifesta nei “Libri cuciti” di Maria Lai, esposti nella sala, opere di un’artista di un piccolo paese della Sardegna, “una sorta di diario – secondo Pietromarchi – dove non ci sono parole, ma solo linee che rappresentano lo scorrere del tempo e insieme, di pagina in pagina, disegnano paesaggi. Paesaggi intimi e personali, che fanno da contraltare a quelli, più aulici e retorici, dipinti qui sulle pareti”, appena citati: gli uni e gli altri con “una spiccata dimensione autobiografica”, e la capacità di “costruire senso e identità”..
Hans Holbein, “Enrico VIII“, 1540-46
Una identità ben diversa nella Sala 4, la Sala delle Cineserie decorata nell’800 con motivi che richiamano il Japanismo, molto in voga in quegli anni. Identità esteriormente deforme, intimamente nobile, si tratta del “Ritratto di filosofo”, 1660, di Luca Giordano, forse Cratete, del IV-III sec. a. C., che rinunciò ai suoi beni per vivere come un mendicante, e trovò l’amore della giovane filosofa Ipparchia la quale abbandonò agi e mondanità per seguirlo. Come nelle opere di de Ribeira, nota la Gennari Sartori, “si scontrano spietato realismo e nobiltà intellettuale”, e a livello artistico, tra “esasperazione ritrattistica e analisi psicologica”. In definitiva è “un’esplorazione impietosa della realtà, che mette in gioco la problematica connessione tra apparenza esteriore, corporeità, conformismo sociale, modelli e interiorità”. Vi erano molti pregiudizi sull’aspetto esteriore, al punto che Montaigne non si aveva pace per la bruttezza di Socrate e Della Porta scriveva nella “Fisionomia dell’Huomo” che era “un assioma vecchio e approvato” la convinzione che “chi è mostro nel corpo è ancor mostro nell’anima”.
L’eco contemporaneo di questa problematica lo troviamo nei “Ritratto di Luisi”, 2018, di Markus Schinwald, che interviene su immagini esistenti modificandole con delle protesi, che le deformano trasformandone l’aspetto psicologico. Pietromarchi collega il tema delle bruttezza e deformità allo stesso Narciso ricordando che “mentre cerca di afferrare la propria immagine increspa l’acqua e rende così il riflesso immediatamente irriconoscibile”.. In questi ritratti, invece, “la deformazione ha una valenza esplicitamente psicologica e contamina gli aspetti sociali dell’autorappresentazione”.
Richard Serra, “Melville”, 2009
L’Appartamento d’estate
Dopo le prime 4 sale, le 2 sale successive, aperte verso il giardino, costituiscono l”Appartamento d’estate, nella prima il Cardinale Barberini teneva le udienze estive sotto un baldacchino bordato d’oro, la seconda la utilizzava come camera da letto. Quindi avevano una doppia valenza, pubblica e privata e, per questo motivo nelle 2 sale sono esposti ritratti antichi e contemporanei che esprimono la “proiezione” all’esterno della personalità di personaggi con ruoli pubblici, ufficiali. .
Nella Sala 5, la Sala delle Udienze, non potevano che andare i ritratti del potere, entrambi dipinti tra il 1540 e il 1546: il potere sovrano con il ritratto di “Enrico VIII” di Hans Holbein, che nel suo aspetto ieratico e severo diventa “un’icona politica e quasi religiosa” essendo il re capo anche della chiesa d’Inghilterra; e il potere militare con il ritratto di ” Stefano IV Colonna,”, 1546, del Bronzino, Agnolo di Cosimo, condottiero che combatté per il papa e per i francesi, per i fiorentini e per gli Absburgo, la cui figura sembra proiettare in una dimensione storica, come lo furono le sue imprese. Esprimono con la massima evidenza il potere, nel loro atteggiamento, nella positura e nelle uniformi indossate, da regnante l’uno, con gli ornamenti regali, da condottiero l’altro con l’armatura. I due artisti, hanno in comune, nota la Gennari Sartori, “una straordinaria capacità di sintetizzare un’accuratezza fisognomica e caratteriale, e una purezza compositiva essenziale”. E non si tratta soltanto di aspetti strettamente personalii: “Nelle loro immagini vediamo l’uomo, ma vediamo anche, immediatamente, il personaggio storico, il sovrano, il condottiero”. E ancora più esplicitamente: “E’ il ritratto di stato, il ritratto dinastico, con le sue insegne, i suoi simboli, i suoi titoli”.
Carluccio Napoletano, “Battaglia di Costantino a Massenzio”
L’eco della contemporaneità lo troviamo nella Sala 6‘, in cui il “privato” della Camera da letto fa da contrappunto al carattere pubblico della precedente sala delle udienze, anche perché vi venivano raccolti gli oggetti cui si teneva in modo particolare. Per questo motivo sono esposte due opere dello scultore americano Richard Serra , “Butor” e “Melville”, 2009, per la loro importanza nella formazione intellettuale dell’artista, come fossero libri degli autori preferiti sul comodino della camera da letto. Ma non sono ritratti di tipo tradizionale, come i due precedenti, l’identificazione avviene solo nel titolo che si incorpora nell’opera al pari dei libri, così, precisa Pietromarchi, “il problema dell’identità diventa una questione di titoli, di nomi, di personalità dichiarate”, peraltro presenti anche nei due ritratti cinquecenteschi pur nella loro evidenza figurativa. Che manca totalmente nelle due opere di Serra, un cerchio e un riquadro nero e, nelle parole di Pietromarchi, “una macchia nera , come l’inchiostro con cui lo scrittore ricopre scrivendo la carta e che, come l’artista, confonde e cancella senza sosta la propria stessa traccia”. Lo specchio di Narciso non riflette alcuna immagine, anzi la assorbe e la annulla, spegnendone anche ogni eco intellegibile.
La Sala del Trono e la Cappella
Anche qui due valenze contrapposte, la vasta e lussuosa Sala del Trono, che divide l’Appartamento d’estate da quello d’inverno, si apre sul “ponte riunante” del Bernini, e l’intima e raccolta Cappella privata.
Nella Sala 5, la Sala del Trono, con un monumentale lampadario e il “quadrone” , copia dell’affresco di Giulio Romano in Vaticano, di Carluccio Napoletano, “Battaglia di Costantino e Massenzio”, ci sono le grandi tele del XVI sec., di Giovanni Francesco Romanelli, “Nozze di Bacco e Arianna”, e dell’allievo Giuseppe Belloni, “Nozze di Peleo e Teti”, commissionate dai Barberini, dove sono protagoniste mitiche figure di donne.
Shirin Neshat, “Illusions & Mirrrors”, 2013
E’ l’ambiente adatto per esprimere il punto di vista femminile, attraverso l’opera contemporanea dell’artista iraniano Shirin Neshat, “Illusions & Mirrrors”, 2013: un video di 12 minuta, che fa parte di una trilogia di tema analogo, proiettato su un grande schermo cinematografico, “sull’idea dell’emancipazione femminile”, afferma Pietromarchi, non solo rispetto alla cultura di origine, ma “in un senso più universale. La protagonista, interpretata da Natalie Portman, afferma Pietromarchi, si muove in una dimensione tra l’onirico e il surreale, tra illusioni e rispecchiamenti, e insegue i suoi fantasmi, fra uomini che fuggono e familiari che appaiono, fino alla scena finale in cui compare la figura della madre”.
Nella Sala , 6 la Cappella, l’opera antica è di tutt’altro carattere, anche se è riferita alla ribellione femminile, che esalta e va oltre l’emancipazione. Si tratta del “Ritratto di Beatrice Cenci”, 1599, definito nel 1835 dal giornalista americano Willis “il più celebre capolavoro” di Palazzo Barberini, che viene attribuito a Guido Reni, anzi secondo la romantica ricostruzione di autori ottocenteschi, da Shelley ad Hawthorne, da Dickens a Stendhal, la sua immagine sarebbe stata ripresa in carcere la notte prima del patibolo o addirittura mentre vi veniva portata. Il quadro divenne un’icona romantica, per la presa della tragica storia della giovane donna, vittima di abusi e violenze dal padre dispotico, che ebbe la forza di ribellarsi alle sopraffazioni fino all’uccisione del tiranno, con madre e fratello, e la sua decapitazione dopo la condanna a morte del tribunale pontificio. La Gennari Sartori, ricordando gli autori che l’hanno esaltata, dice che “in questa prospettiva ‘mitica’ Beatrice diventa l’ ‘angelo caduto, senza peccato’, come scrive Hawthorne, icona archetipa dell’innocenza morale sopraffatta dalla colpevolezza legale”.
E Pietromarchi collega la sua tragica sorte alle “punizioni sproporzionate che gli dei infliggono ai due personaggi e li condannano entrambi alla consunzione e alla perdita”, Eco e Narciso che diventano così “figure universali di un’ansia irrisolta”. L’ansia nella tragedia di Beatrice e l’ansia nel surreale onirico della protagonista del video iraniano; un’ansia che tornerà in forme e contenuti diversi, nelle 8 sale successive. Ne parleremo prossimamente.
Giovanni Francesco Romanelli, “Nozze di Bacco e Arianna” , 1640-60
Info
Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13, Da martedì a domenica ore 8,30-19,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 6; biglietto valido per 10 giorni nelle due sedi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini; gratuito under 18 anni e particolari categorie. www.barberinicorsini.org; comunicazione@barberinicorsini.org;; MAXXI, via Guido Reni, 4A. Da martedì a domenica ore 11-19, il sabato fino alle 22, la biglietteria chiude un’ora prima, Ingresso, intero euro 12, ridotto euro 9 anni 14-25, gruppi e particolari categorie. www.maxxxi.art.it, tel. 06.83549019. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito il 30 settembre 2018.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione , con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, La presentazione della mostra, al centro la direttrice delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Flaminia Gennari Sartori, alla sua sin. Giovanna Melandri, presidente del MAXXI, alla sua dx Bartolomeo Pietromarchi, direttore del MAXXI Arte; alla parete “Giovanni XXII” e “Mao Tse Tung,”, tra i due dipinti il busto di papa Urbano VIII di Lorenzo Bernini; seguono, Luigi Ontani, “Le Ore”, 1975, e Pietro da Cortona, “Trionfo della Divina Provvidenza” ,1632-39, affresco del soffitto della sala; poi, Giulio Paolini, “Eco nel vuoto”, 2018, e Maria Lai, “Libri cuciti”; quindi, Luca Giordano, “Ritratto di filosofo”, 1660, e Hans Holbein, “Enrico VIII“, 1540-46: inoltre, Richard Serra, “Melville”, 2009, e Carluccio Napoletano, “Battaglia di Costantino e Massenzio”; infine, Shirin Neshat, “Illusions & Mirrrors”, 2013, e Giovan Francesco Romanelli, “Nozze di Bacco e Arianna”, 1640-60; in chiusura, Guido Reni, “Ritratto di Beatrice Cenci, 1599.