Alle “Geometrie celesti” – evocate domenica scorsa 6 ottobre 2024 nel ricordo dell’omaggio dell’artista Lina Passalacqua alla mia amata consorte Rosemary, che ci ha lasciati il 29 settembre scorso – sento di dover far seguire il ringraziamento a tutti coloro che ci sono stati vicini con sincera commozione. E sento di dover aggiungere l’evocazione della Sua profonda interiorità e della Sua splendida figura nell’intervento che abbiamo fatto io Romano e nostro figlio Alberto al termine delle esequie il 1° ottobre nella chiesa madre di San Leucio a Pietracamela, il mio paese dove abbiamo trascorso infinite estati felici; chiesa riaperta domenica 29 luglio terminato il restauro dopo i danni provocati dal terremoto del 2009. Ho pensato di farlo oggi, 8 ottobre, a una settimana dalle esequie, quando alle ore 19 si celebra a Roma una Santa Messa di suffragio con il sacerdote don Luigi D’Errico nella chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda, nella nostra parrocchia, alla vigilia del 55° anniversario del nostro matrimonio avvenuto il 9 ottobre 1969. con l’estremo saluto all’indimenticabile Rosemary. Grazie ancora a chi ha espresso autentico cordoglio e intima partecipazione.
I messaggi di cordoglio per la dolorosa scomparsa della nostra Rosemary, così amata da noi e da tutti coloro che l’hanno conosciuta e ammirata, meriterebbero una risposta ben più profonda del semplice ma intimamente sentito “grazie” che io e Alberto ci sentiamo di rivolgere, nella nostra angoscia indicibile, a coloro che ci sono stati vicini e ai convenuti nella chiesa madre di San Leucio a Pietracamela alle esequie del 1° ottobre, officiate da padre Jacobs con una intensa partecipazione personale dinanzi ai paesani veramente commossi. Al termine della funzione religiosa, prima della benedizione, il Parroco ci ha permesso di esprimere i nostri sentimenti rivolgendoci a tutti.
E allora Alberto ne ha delineato la profonda interiorità, io ho rievocato il suo legame con il paese e gli abitanti, poi per la Sua splendida figura ho letto l’ispirata descrizione che ne ha fatto, nel messaggio di condoglianze inviatomi, Aureliana – la figlia di Lidia che incarna lo spirito “pretarolo” – molto vicina a Lei sin da tempi lontani, facendola rivivere sotto i nostri occhi.
Segue il saluto di Alberto sulla sua interiorità e poi le alate e nobili parole di Aureliana che ho letto dal suo messaggio nel mio ultimo saluto.
Il saluto di Alberto
“Credevi nella vita,
nella libertà come responsabilità di scelta,
nella solidarietà
come vicinanza alla sofferenza degli ultimi.
Una fede incrollabile
nella forza d’animo e di volontà,
nell’impegno sociale e in quello umano.
Praticante un credo
intransigente
di fronte alla prepotenza e alla meschinità delle ingiustizie
e compassionevole
dinanzi al dolore dei reietti.
Hai attraversato la vita
con la leggerezza e l’ironia
che contraddistinguono
la profondità e il coraggio
di una grande Anima.
Ora non soffri più,
ora sei di nuovo libera.
Sei tornata a casa.
Rimarrai sempre nei nostri cuori”.
Il saluto di Romano, la parte con le parole di Aureliana
…“È stata una donna meravigliosa.
Nessuna dolorosa, sovrapposta immagine del presente
potrà mai cancellare in me il ricordo di Rosy, splendente,
con il suo luminoso diadema di capelli d’oro
che le avvolgeva la schiena come un regale mantello,
gli occhi simili agli atolli turchesi dei mari d’oriente
e il sorriso, a volte ammiccante, a volte ironico,
che si inarcava divertito e contagioso sulle labbra sottili.
Vestita di azzurro, con un’ampia gonna di veli,
le ballerine chiare, aiutava Zaira nel tinello
con l’ineffabile, elegante semplicità di una regina.
La ricordo allontanarsi leggera, sorridente, eterea,
di quella natura indefinibile, confusa fra sogno e realtà,
che solo alcune, poche, creature hanno.
Per me resta per sempre così.
Per sempre.
E basta.
Tengo come religiosa reliquia
il libro che mi regalò, nel 1983:
due volumetti delle poesie di Garcia Lorca,
che aveva amato e intensamente letto.
E mi donò di slancio perché ne facessi tesoro.
Voleva andare.
Non voleva essere più trattenuta”.
E non possiamo non aggiungere l’elevato pensiero della poetessa Anna Manna, ricevuto nel nostro ritorno a Roma.
“Era veramente speciale.
la sua dolcezza,
la sua raffinata soavità,
sembrava uscita da un quadro,
da un romanzo,
da una favola bella.
La ricorderemo così”.
Ricordiamo così l’amatissima Rosemary, nella Sua profonda interiorità e nella Sua splendida figura. La Sua immagine resta viva nella nostra mente e nel nostro cuore e vi rimarrà per sempre.
Adesso il triste commiato, “Sit tibi terra levis”, sono le parole che volevi Ti accompagnassero nel riposo eterno, Rosemary carissima. Le ripetiamo con le lacrime agli occhi, nostra indimenticabile Rosemary. Addio!
Sabato 28 settembre 2024 è stata inaugurata a Marino, nei Castelli romani, la mostra di Lina Passalacqua, “Io… le vele e il mare”; in questo sito ho pubblicato 3 articoli sull’artista, la “futurista dei nostri tempi” lo scorso mese di marzo in occasione della sua mostra a Roma, “Io… e il mare”. Il giorno dopo, domenica 29 settembre, ci ha lasciati la mia amata consorte Rosemary, nell’Istituto San Raffaele di Rocca di Papa, vicino a Marino, dov’era ricoverata.
Nel 2018 Lina Passalacqua Le aveva regalato la sua opera “Geometrie celesti” con questa dedica: “ “Roma, 7 maggio 2018. A Rosemary, che le ‘Geometrie celesti’ le siano sempre vicino. Lina Passalacqua”.. E così è stato fino al doloroso 29 settembre allorché Rosemary è volata in Cielo, raggiungendo le vere Geometrie celesti, dopo quelle dell’artista a Lei dedicate. Questo ricordo con gratitudine e commozione oggi, a una settimana dalla Sua dolorosa scomparsa.
Abbiamo dato conto del tris di eventi nella domenica del 28 luglio a Pietracamela. che “non si puo’ dimenticar” con le due ” cronache da remoto” pubblicate l’8 e 10 agosto. Nel commentare il terzo evento, ” Ricordando Marta Iannetti e la festa della fienagione di Pietracamela ” abbiamo preannunciato la successiva pubblicazione del nostro ricordo dei tempi passati – con preziose integrazioni fraterne ad opera di Levante Salvatore – che e’ stato letto nella parte della manifestazione dedicata alle testimonianze dei paesani. Pubblichiamo oggi, nella giornata di ferragosto carica di memorie, il nostro ricordo, illustrato da alcune foto della manifestazione e soprattutto da immagini evocative dei tempi passati e del paese concluse da alcune fotografie molto personali.
Mi vengono chiesti da Pasquale Iannetti – così attivo e ammirevole nella valorizzazione del nostro territorio in tante forme – dei ricordi del tempo che fu, evocato nella celebrazione di Marta Iannetti, che non ho conosciuto ma mi unisco nel sentire viva la memoria di una persona straordinaria. Sono iniziative encomiabili queste per le nostre glorie che vanno onorate e non dimenticate, ne abbiamo molte: eroi e artisti, grandi professionisti e scrittori, anche al femminile come Marta Iannetti e la poetessa “Gina” celebrata di recente al Campidoglio e a Bruxelles, che attende il giusto riconoscimento nel suo paese il cui idioma “pretarolo” ha nobilitato con i suoi versi ispirati.
Ricordi da “pretarolo” si attendono da me, lo sono come nascita da una famiglia le cui tracce risalgono fino al Catasto onciario, e preonciario, siamo al 700, il mio avo Giuseppe Levante aveva dei terreni confinanti con quelli di certo D’Annunzio; ma non come residenza, i miei genitori, maestri elementari, sono andati via da Pietracamela alla mia nascita, la mia infanzia si è svolta a Colonnella, un paese in collina ai confini con le Marche, l’adolescenza a Teramo, la prima giovinezza a Bologna, con il trasferimento per l’Università, mentre la maturità della vita e oltre…. a Roma, l’approdo definitivo.
Ma i legami con le mie radici, che sento profondamente, non si sono mai allentati, ogni estate fin dall’inizio l’ho trascorsa nel “natio borgo selvaggio” come “turista”, anche se anomalo, e mi suona male questo termine, qui siamo chiamati “naturali”, più benevolo del termine “fuorusciti” di Giammario Sgattoni. Per questo i miei ricordi sono limitati alle tante estati vissute in simbiosi con il “mio” paese; ma non con la “total immersion” di Gero, Gelasio Giardetti, che nel suo “La farfalla di Andrea” ripercorre l’esperienza personale di infanzia e adolescenza, i crudi inverni, in una forma romanzata ma evocativa e avvincente.
Le mie vacanze estive a Pietracamela, comunque, non sono state quelle di un comune turista. Gli incontri e le “chiacchiere” in piazza con i paesani non si possono dimenticare. Con Guido Montauti, la nostra gloria internazionale, anche lui “turista” estivo, le tante conversazioni nel suo fare disincantato, leggero e insieme profondo; anche qualche passeggiata fuori della Villa quando si fermava e con le dita incrociate inquadrava angoli di paesaggio per un possibile dipinto ripreso dalla realtà nobilitata con la sua arte. Ho ancora – e li ho pubblicati nel mio romanzo ispirato a una storia vera di emigrazione “pretarola” vissuta da vicino – i suoi schizzi che fissavano il paese, buttati giù al termine di una cenetta insieme nell’osteria di Ortolano,e poi la visita al suo studio, i suoi quadri; è intitolato a lui l’Istituto di istruzione superiore Delfico-Montauti, di Teramo, del quale fa parte il Liceo artistico di cui è stato eminente professore. E’ stato onorato anche con il Premio internazionale pitture rupestri Guido Montauti, l’opera del vincitore, l’artista Jorg Grunert, è su una roccia nella strada pianeggiante verso il vecchio mulino dopo Porta Fontana. Per associazione di dee mi tornano alla mente altri artisti venuti a Pietracamela molti anni prima, ma a villeggiare: Carla Gravina, Marina Berti e Claudio Gora con i figli ragazzini che diventeranno i celebri Andrea e Tullio Giordana, giocavano con i pretaroli della loro età, Gero tra questi lo ricorda ancora.
Al ricordo di Guido associo quello di Bruno Bartolomei, per noi Brunitt, non dimentico il suo sorriso e la sua tenacia, sul lavoro e non solo, fu inserito nel “Pastore bianco” dal maestro Guido con i guardamacchia che indossava nella mostra a Roma al Palazzo delle Esposizioni dove li incontrai e poi a fine serata andammo al Colosseo; ma presto dal folklore passò all’arte, visitai la mostra a Montorio dei suoi dipinti, non di finto naïf ma autentici; è un ricordo velato di tristezza, ho reso omaggio alla sua figura allora e di recente. Al “Pastore bianco” di Guido Montauti si devono anche le “Pitture rupestri” verso la grotta di Segaturo, distrutte putroppo dalla rovinosa frana del 2019, salvo due recuperate, restaurate e rese visibili con un tragitto attrezzato nel 2’018.
E il medico Bruno Marsilii, con le sue spedizioni e i suoi ricordi himalayani, molto riflessivo e legato alla sua passione alpinistica, mi è rimasta impressa la copertina del Bollettino del CAI con una sua scalata, ai piedi i “paponi” inquadrati in primo piano, la calzatura “pretarola” di stoffa trapuntata nella siuola, fatta in casa. E con lui il ricordo va a Lino D’Angelo, altra grande gloria con cui le “chiacchierate” erano continue ma non vantava mai le sue conquiste alpinistiche, solo qualche accenno; mi è rimasta impressa una sua esibizione sulla “palestra” fuori del paese, con Gigi Mario, altra figura che torna alla mente. Poi ha magistralmente evocato “Le alte vie della mia vita” in un libro esemplare, gli regalai “Insciallah” di Oriana Fallaci e ne fu felice; ricordo quando ci fece da guida strisciando davanti a noi nello stretto budello per entrare nella “grotta di Eros”, il giorno della sua scoperta, sopra al Canale, un’emozionante spettacolo di stalattiti e stalagmiti, da allora non più accessibile.
Ma poi Berardino Giardetti, il maestro elementare emigrato in Canada “per provare” la vita dell’emigrante, poi al ritorno divenuto direttore didattico e scrittore con la sua “storia” vista dal basso, dalle “Grandezze e miserie dell’Unità d’Italia” alla “Memoria su Matteo Manodoro, generale dei briganti” nobilitato a patriota, passando per l’”Incontro col diavolo e altri racconti” , questa sì una evocazione suggestiva di un passato lontano.. Si dilettava anche di suonare il mandolino con Francesco Bonaduce, “Tarantella”, paesano suo amico del cuore, gli suggerì il nome dannunziano di “Aligi” per il figlio.
Ho anche un ricordo lontanissimo di Ernesto Sivitilli, medico condotto a Colonnella dove i miei genitori erano maestri, la domenica veniva da noi ed era una rimpatriata “pretarola” sempre emozionante anche per me e mio fratello Salvatore, eravamo piccoli. Anzi Salvatore mi ha ricordato la consuetudine del dopopranzo, con lui che a mo’ di consiglio da medico andava avanti e indietro per la stanza e girava diverse volte intorno al tavolo dove avevamo pranzato facendo una breve ma “salutare” passeggiata.
Sono questi ricordi di persone straordinarie, portabandiera di una Comunità altrettanto straordinaria, che di anno in anno ho visto spostarsi i suoi componenti nel riposo eterno per la legge di natura restando unita con le proprie storie personali divenute collettive in una toccante “Antologia di Spoon River” pretarola. Ed ecco i “pionieri”, Gogliardino, lo vedevi costantemente dritto e impassibile dietro l’alto bancone della sua rivendita di alimentari dove i paesani si rifornivano di ogni ben di Dio, e Ferrino, compagno di mio padre sin da bambini, esperto realizzatore e imprenditore dell’amaro tratto dalla genziana.
Era sua l’osteria sotto casa, una delle due del paese, affidata alle cure del Rosso e del fratello di questi, entrambi giovani simpaticissimi, perché aveva impegni di maggiore livello enologico; accanto a lui e a Gogliardino gli altri due fratelli Guido e Natalino, professionalità diverse ed eccellenti le loro: Guido, ne parlavo anche prima, ha fatto il pittore per tutta la vita – cooptato ad honorem nell’insegnamento al Liceo artistico di Teramo cui ha dato il nome – raggiungendo grande notorietà anche all’estero, parlava spesso dei suoi lunghi soggiorni parigini ed è stato uno dei più validi pittori abruzzesi delle ultime generazioni, e Natalino, ho un ricordo personale di lui, insegnava lettere al liceo di Teramo e fu giovane professore di ginnasio di mio fratello… e per poco temp anche mio, quanti anni da allora!; anche la moglie di Guido è stata mia insegnante di Storia dell’Arte nello stesso liceo.
A questo punto mi tornano in mente Aladino e il fratello Peppino, e la Stella, nel suo negozietto dove sembrava a noi bambini si vendesse di tutto, oltre alla rivendita delle sigarette, delle quali si diceva bene allora, e Ngin Git, che tornato dalla prigionia dopo la fine dell’ultima guerra l’aveva sposata come penso desiderassero anche prima che partisse soldato. Ripenso poi a Dina e al marito Artidoro, non ebbero figli e lei si è dedicata alle adorate nipoti Lidia e Zaira, lui lo ricordo per una foto nell’album di famiglia che lo ritrae con un gruppo di persone nel recinto davanti alla sua casa, l’ultima della parte nuova del paese costruita con i risparmi di una vita di lavoro, e nel gruppo si nota mia madre giovane che tiene tra le braccia un infante nato da poco, mio fratello Salvatore ancora in fasce.
E ancora mi ricordo di Pottonio reduce della Grande Guerra, con la mutilazione di un piede che non gli impediva di svolgere i suoi lavori nei campi e in paese, come se avesse il fisico perfettamente integro, l’ho visto tante volte salito sopra il tetto del suo pagliaio per sistemarlo da solo, la sua cara moglie negli anni sessanta sarebbe scomparsa prematuramente e la sorella di lei Mariannella, che spesso capitava a casa nostra legata alle mie zie praticamente coetaneee, nella famiglia c’erano anche le due figlie, bimbe carine e poi giovani donne, di età poco meno della nostra, Freda la maggiore, il nome una chiara reminiscenza del passato militare del papà che in quelle zone di guerra lo aveva sentito e gli era piaciuto…o ne aveva ammirata una in carne ed ossa, e Nivia dolce sorriso e maniera di porsi, scomparsa di recente, l’altra prematuramente molti anni fa.
Si affollano i miei ricordi, c’è Luna con l’amato Osvaldo, una famiglia ammodo con le figlie, lei una bella donna, occhi chiari luminosi, forse li ritrovavi anche in quelli della figlia minore Stellina e lui, maestro elementare, nelle lunghe estati “pretarole” si scatenava valente giocatore di bocce, la sua perizia si palesava soprattutto quando bocciava senza… pietà la boccia avversaria ben posizionata, uno spettacolo i tre passi della rincorsa di prammatica tenendola di mira con lo schiocco dell’impatto conclusivo che sostituiva di netto con la propria l’altra boccia espellendola, e accanito giocatore di carte sia napoletane che francesi, tressette o ramino, nelle due osterie del paese allora pienamente funzionanti. Era bravo nel giocare a bocce anche il padre di Corrado Adriani – con Corrado siamo stati compagni nelle comitive estive e rimasti amici, ha avuto importanti incarichi amministrativi in Abruzzo, ha una bella famiglia – ricordo anche la madre così dolce e riservata.
E come non ricordare Mariuccia “di Sofia”, con l’immancabile appellativo che così la identificava, bella e ammirata in paese, andata sposa al medico Sivitilli, prematuramente scomparso e risposata poi da Venturino, che l’aveva amata da sempre, non l’aveva potuta avere con sé prima e poi per i casi della vita era riuscito a coronare il suo sogno; e ancora il medico Panza detto Pallino che però non esercitava a Pietracamela per essere la condotta medica tenuta prima dal mitico medico Montauti, che c’era già quando i miei genitori erano giovani, l’abbiamo conosciuto negli anni quaranta, ero piccolo; mio fratello Salvatore di due anni più grande di me ricorda qualche pomeriggio quando con i miei siamo andati a trovarlo nella sua casa, autorevole quanto lui stesso, con il portone sulla sommità di una scalinata all’esterno, erta e dritta, sormontata da una volta ad arco e chiusa da un cancello dabbasso che incuteva timore reverenziale. Ricordo anche i nipoti figli figli di una sorella del medico Pasquale e Alberto, da picolo, insieme a mio fratello Salvatorem giocavo con loto sul terrazzo interno semicircolare, divennero affermati professionisti, quante discussioni nei ritorni estivi soprattutto con Pasquale, molto motivato! Al medico Montauti successe nella condotta Bruno Marsilii, scalatore, fece parte come medico a diverse spedizioni sull’Himalaya, ne ricordo le lunghe sistematiche passeggiate fino al bivio di Collepiano anche nell’età molto avanzata.
Ancora rivedo l’imponente Lucia, alta con i capelli raccolti a corona intorno al capo e suo marito Curino, bonario e silenzioso, brav’uomo tutto dedito al lavoro quotidiano nelle “terre”, che tornava a sera dopo una giornata di fatiche e soprattutto, nella stessa famiglia – abitavano tutti nella casa sulla piazzetta proprio davanti a noi – suo fratello Ferrante, distinto e autorevole, segaligno e molto alto anche lui, che doveva essere stato importante in paese, soprannominato Cavallo, perché aveva l’onorificenza di Cavaliere…del Regno; credo l’avesse avuta per intercessione di mio nonno Salvatore, anche lui Cavaliere, la sorella Elvira, che stava soprattutto in casa e si vedeva poco nella piazzetta; e poi Giovanna, la sorella di Mario di Ferrante. Nella casa attigua con il caratteristico portico d’ingresso Calata con la figlia Dilvira che tornava d’estate, a fine stagione prima di ripartire faceva una grande raccolta di funghi ch essiccava; la invidiavo, io sono andato a funghi pochissime volte al seguito di conoscitori. .
I ricordi si susseguono, penso adesso a Dario e Romolo, il primo gran conduttore della Corriera che univa il paese al… resto del mondo, abile nel sistemare con le valige dei passeggeri i più svariati involucri sul tetto dell’automezzo che si chiamava con nome altisonante l’“imperiale” e vi si accedeva da una scaletta che faceva bella mostra di sé sul retro e per noi era perfettamente naturale che ci fosse. Era succeduto in quell’incombenza ad Aladino, altra persona notevole per le sue molteplici iniziative, era stato lui il primo con la Corriera e dai trasporti era passato all’allevamento e macellazione delle pecore: non ho dimenticato il disgusto che si provava nelle nostre passeggiate quotidiane verso il mulino al sentire il puzzo nauseante che emanava dalle loro pelli ad essiccare al sole poco sotto la strada, poi abbandonò anche questa attività per impegni di ben maggiore livello, divenne affermato albergatore, realizzando un albergo ai Prati di Tivo ben dimensionato per l’entità della richiesta turistica e in posizione di primo piano all’arrivo sul Piazzale, senza essere da meno delle realizzazioni degli altri due pretaroli albergatori da sempre in paese e poi anch’essi ai Prati, Mimì Amorocchi con il fratello – cui è intitolato il piazzale di ingresso dei Prati – e i fratelli Montauti, Gino, Lino e Tonino, scomparso di recente.
Ritornando ai fratelli Dario e Romolo, del primo ho già parlato, l’altro è stato un bravo professionista, geometra tra Pietracamela e Teramo, era molto libero d’estate come noi e anche con lui chiacchierate in piazza e qualche gita insieme, particolarmente apprezzata la moglie Berta, donna affabile e molto in gamba con una professione preziosa, la levatrice, come si chiamava allora, i loro due figli conosciuti da bambini sono bravi professionisti. Aggiungo alla lista i bravi e rispettati agenti forestali – venivano chiamati “guardiaboschi ” – Gianni Filippi da Longarone e il maresciallo Ernesto Villani, i maestri Iepa e Giggit, i cinque fratelli De Laurentiis Gabriele e Peppino, Giuliana, Vittorio e Mario cari cugini con cui ho condiviso tanti momenti nell’infanzia e adolescenza, con i loro genitori; e ripenso a “La Volpe” e a “La Visciuccia”, che riposano in Canada, capostipiti di una grande famiglia che ha fatto fortuna in America, insieme ai figli Mimì e Ardino, Orlando e Pierino, il quale si gode meritatamente la vita a Toronto con la sua bella famiglia, e le sorelle Giuseppina e Teresina, tutti protagonisti di una epopea migratoria che fa onore al nostro paese inteso anche come Nazione.
Poi molti altri, penso a Mimì “il Signore”, con Luigina e Stellina, a Silvana e Luciana, a Peppino Trinetti, chiamato Jeppson per la sua maestria calcistica esibita nelle sfide estive ai Prati di Tivo che hanno anticipato le”partite del cuore” – la “Terra” contro la “Villa” – seguite con un tifo da Palio di Siena, poi sarà acuto commentatore sul bollettino della Pro Loco; infine, Enrico e Diego, Tutuccio e Nivia, Giuseppina e Tonino, Marina, Lea e Carla accomunate in tempi diversi dalla fine prematura, che riporta a tempi lontani: a Nando, faceva il muratore come suo padre che gli aveva insegnato il mestiere, di lui mi è rimasta impressa la struggente epigrafe della compagna, “Nando, aspettami”.
Sono assenze e insieme presenze virtuali dei paesani i cui occhi mi guardano quando visito, ora idealmente, lo “Spoon River” pretarolo, e ripenso anche alle tragedie montanare, evocate nella mia infanzia, di Cambi e Cichetti, Annina e Rubina cui Pasquale ha dedicato scritti e iniziative encomiabili: in particolare, il libro “L’ultima ascensione” per i due bravi e sfortunati alpinisti – il monumento al Piano delle Mandorle e il cippo sul vicino Rio d’Arno dove li avevano ritrovati erano una meta carica di emozione delle mie gite – e il sentiero da Forca di Valle a Cima alta dove la tormenta fu fatale per le due coraggiose e sfortunate paesane a loro intitolato. E’ di pochi giorni la dolorosa notizia della scomparsa del figlio di Giovanni e Fiorina, Alberto, mi fa pensare con vicinanza e partecipazione alla famiglia riunita Lassù anche con Marina, un pensiero triste e dolce insieme.
Il ricordo dei tornei al campo da tennis dinanzi all’Hotel Miramonti, sempre ai Prati di Tivo, prima tra paesani, a cui ho partecipato, poi anche con i turisti, attenua la malinconia di queste storie con tanti cari assenti che restano pur sempre presenti: la Comunità rimane intatta nella sua consistenza, con le sue storie, che ne evocano la vita, si è solo spostata….; come si spostava per la festa della Madonnina la prima domenica di agosto in un pellegrinaggio devoto con la santa Messa ai 2000 metri. Vedo con commozione la Comunità pretarola stretta intorno ai miei genitori Argene e Gino e ai miei avi che mi sorridono da Lassù.
Dalle persone indimenticabili alla vita di allora che torna a sprazzi nella mia memoria. Le teorie di muli carichi di legna portata a valle dalle teleferiche provvisorie guidati dai “cavallari”, il gregge di pecore che la sera sciamavano dal largo sentiero che scendeva dal Canale, quasi un tratturo, e attraversavano la piazza verso le stalle alle “Pagliare” fino a quando non fu vietato perché “si faceva brutta figura con i forestieri”. Ricordo anche il rullo dei tamburi nell’intera giornata da una parte all’altra del paese con libagioni di vino, alla festa di San Rocco dopo Ferragosto, anche questo mi pare che cessò perché sembrava poco elegante per i forestieri.
Non facevano brutta figura le donne vestite di nero che tornavano dai Prati di Tivo con in testa le fascine, e neppure quelle che prendevano l’acqua nella fontana in piazza con le conche portate sulla testa protetta dal “torcinello”, dato che alla Villa – il quartiere sorto successivamente in posizione rilevata e separata dall’agglomerato dei vecchi quartieri dal Rio della Porta – non arrivava l’acqua finché non finì questa grave limitazione; allora noi, che per tale motivo andavamo nei ritorni estivi nella casa paterna alla “Terra”, ci spostammo nella casa materna alla “Villa”.
E poi le processioni, solo una volta ho assistito a quella del Cristo morto, con il canto struggente, “sono stato, io l’ingrato…”, mentre la santa Messa domenicale era “obbligata” fin da quando con don Andrea c’era la divisione dei banchi tra Donne e Uomini, con gli uomini che però restavano fuori lasciando vuoti i “loro” banchi – mentre molte donne si affollavano in piedi – per sottrarsi alla filippica alla Savonarola del parroco, ma è preistoria. Poi ci sarà padre Archimede, cugino alla lontana e compagno d’infanzia di mio padre, rientrato dall’America con il suo clergyman – allora motivo di cutiosità mista a stupore – scorrazzava in auto tra il paese e i Prati di Tivo. Don Andrea era stato un prete dimesso e ieratico nello stesso tempo, ineguagliabile il suo carisma paesano, e fino alla sua scomparsa “padre Archimé” fu devoto coadiutore pieno di attenzioni che venivano dal rispettoso affetto che nutriva per lui, poi si applicò con impegno per sostituirlo degnamente.
Archimede ben diverso dal beneamato predecessore, era uomo di mondo con tanta esperienza sacerdotale americana, di lui ho ancora in mente un quadro solennemente esposto in casa, nel quale vi era l’Attestato di Benedizione che Papa Pio XI impartiva agli sposi miei genitori “come implora da S.S. padre Archimede De Luca umilmente prostrato”. Uno strascico dell’altra sua vita in America fu il servizio sensazionale che Maurizio Costanzo gli dedicò con una appariscente foto a figura intera che occupava tutta la prima pagina del suo giornale “L’Occhio”, quotidiano dalla vita breve lanciato a quel tempo sulla ribalta nazionale, servizio nel quale si rivelavano particolari che il nostro doveva conoscere sui tanti misteri degli italiani emigrati colà ed entrati in “cosa nostra”, non escluso addirittura lo stesso Al Capone, ma lui sempre e soltato uomo di fede.
Mi vengono in mente altri due parroci: don Marco, che celebrò le esequie di Mamma riportata al paese nella settimana di Pasqua ai primi di aprile del 1984, nell’ideale unione del lutto familiare con la Passione di Cristo, usando parole toccanti rimaste nel cuore; l’anno successivo se ne andò Papà, nell’estate senza di lei andava ogni mattina a trovarla al cimitero, riposano vicini nella pace eterna. Fino al giovane don Filippo, mi ricordo quando, nella messa di insediamento come parroco officiata dal Vescovo, a lui da poco sacerdote il sindaco Giorgio Forti, con tanto di fascia tricolore, disse che quel primo compito era particolarmente formativo, c’era da”spaccarsi le ossa” nei rigori invernali, e lui, come prima don Marco, “si fece le ossa”, entrambi hanno ottenuto in seguito importanti destinazioni, don Filippo ad Atri con la cura anche del celebre Museo.
Ora il mio pensiero va al sindaco Forti che non c‘è più, a lui si deve l’ingresso del paese tra i “borghi più belli d’Italia” un riconoscimento meritato ma non facile da ottenere, è stato sindaco per dieci anni. Di don Marco ricordo anche una messa suggestiva alla Madonnina, a 2000 metri, la prima domenica di agosto come sempre, da piccolo ci andavo con i miei attraverso il bosco dell’Aschiero su un mulo che camminava rasente il bordo del sentiero anche in punti molto esposti; poi l’annuale visita alla Madonnina lungo l’era erbosa dei Prati di Tivo, attraverso Fonte Monaca e Fonte Cristiana fino alla roccia della Luna. In una di queste visite con altri paesani riscendemmo lungo i prati insieme a don Marco e gli chiedemmo scherzosamente rispetto alla fede: “E se non fosse vero niente, che … fregatura sarebbe per noi!” Stette allo scherzo e rispose: “Figuratevi per me!”.
Da questi ultimi, indimenticabili, personaggi torno ai lontani ricordi di vita. La mia fantasia di adolescente si scatenava sul Monte Calvario, con le grandi rocce al culmine che erano una calamita, finché una frana non indusse a “spianare” la vetta e spostare le croci più in basso. Ma prima del Calvario c’era una modesta paretina rocciosa che provocava… la mia ansia di arrampicarmi. Sì, perché anche in questo sono stato “turista” particolare, un’unica ascensione sulla “Ciai Pasquale” con la guida di Angelino, l’indimenticabile Clorindo Narducci con cui trascorrevo molte delle mie serate di conversazioni, anche lui gloria del paese con gli altri “Aquilotti del Gran Sasso” di cui il 30 dicembre 2023 si è celebrato il centenario inaugurando il monumento nella “Piazza degli Eroi”; da “vigile urbano” in una breve stagione, a “turista” estivo anche lui dopo il trasferimento per lavoro a Fossa nel versante aquilano del “suo” Gran Sasso che ha celebrato in “Un vecchio zaino pieno di ricordi” come ha celebrato la “sua “Pietracamela, tra storia e leggenda” nell’altro aureo libretto, ho reso omaggio alla sua scomparsa commentando queste sue opere scritte con il cuore..
Un’unica “ascensione” alpinistica la mia, dunque, quella che ho citato sulla “Ciai Pasquale con la guida di Angelino, ma da “turista” escursionista estivo un punto di orgoglio. la prima salita a Corno Grande da solo, a vent’anni, a piedi dai Prati, ovviamente nella via “normale”, impiegai due ore in tutto, come scrissi narcisisticamente nel registro in vetta. Torna alla memoria la settimana trascorsa al Rifugio Franchetti, con mio fratello Salvatore, al mattino si doveva attendere che l’acqua si scongelasse, più in alto la Sella dei due Corni, il ghiacciaio allora ben innevato, vi andavano a sciare; io no di certo, le uniche mie sciate ai Prati di Tivo dove tornai eccezionalmente in una invernata nell’anno della maturità classica, con l’amichevole insegnamento di un campione come il caro paesano Mario di Ferrante, e molto dopo ci tornai nelle settimane bianche con moglie, figlio e nipoti schierati disciplinatamente alle lezioni nella scuola di sci rimaste a livello elementare.
Invece sono state infinite le mie “arrampicate”, sempre estive, salivo spesso sugli alberi usando il reticolo di rami come una scalinata, ma soprattutto le rocce avevano su di me una forza attrattiva irresistibile, quelle sotto il ponte al vecchio mulino diventarono una palestra continua. Ed era piena di fascino la santa Messa domenicale nella chiesetta di Collemulino purtroppo caduta in rovina ma con immagini sacre miracolosamente intatte. Come mi attiravano i boschi, dove mi inoltravo non temendo di perdermi, e il Rio d’Arno dove facevo il bagno nelle “caldaie” allora piene di acque risalendolo di roccia in roccia sentendomi come un esploratore, indimenticabile l’emozione della prima volta alle sorgenti, con l’imponente cascata del Calderone; mi torna in mente l’emozione provata nell’infanzia quando Papà mi portò a vedere il mulino in funzione, con l’acqua del Rio d’Arno che piombava tumultuosa nella “gora” per far muovere le macine in basso, ne rimasi molto impressionato.
Mi piaceva, da ragazzo e poi adolescente, “esplorare” nel cuore del paese, con l’intrico di scalinate e di discese con tanti archi e archetti, in un sorta di labirinto che eccitava la mia immaginazione, come quando mi avventuravo nei boschi. “Vena grande”, la roccia identitaria che sovrasta Piazza degli Eroi, mi affascinava, ci sono salito con molta circospezione, e la prima volta mi sentivo come giunto in vetta; mi è rimasto impresso quando, dopo il 25 luglio 1943, eravamo in vacanza e dalla piazza in basso assistetti con i paesani alla demolizione della scritta DUX che campeggiava sul grande pilone di sostegno della roccia, ad opera di alcuni saliti su una lunga scala con gli scalpelli; analoga scritta continuai a vederla da giovane nei ritorni in auto da Roma e viceversa, impressa dall’apposito taglio degli alberi in un bosco che si vedeva in alto lungo il percorso, a Pietracamela era bastato scalpellare, ma lì restava.
Nei ricordi personali si inserisce a questo punto una memoria coinvolgente, non la fienagione di luglio, ma la raccolta del grano che la terra povera poteva dare, ricordo di aver visto quando si “scamava” per separare grano dalla pula sollevando all’aria le spighe nel “Pagliai”, poi venne la trebbiatrice. Ho anche una esperienza “contadina”, ero ancora piccolo e andammo a “cavare” le patate in un pezzo di terra nostro che si coltivava ancora, ricordo l’emozione nel trovare le patate ad una ad una come fosse ogni volta una conquista.
E’ troppo poco, a parte l’”Antologia di Spoon River” pretarola….. rispetto a quanto possono evocare i “residenti” effettivi e non solo i “naturali” come il sottoscritto, del resto la mia è stata una “Spoon River” forzatamente “da remoto” pur se quanto mai evocativa. Ma è comunque una testimonianza che può rievocare tante cose al cuore di ognuno come è successo a me: : ho scritto di getto queste sentite parole appena mi è stato ripetuto l’invito che in un primo momento avevo declinato proprio per i limiti appena ricordati, con le parole “Grazie Romano. Però se pensi di mettere giù qualche ricordo dei mesi estivi trascorsi a Pietracamela non mi dispiacerebbe, Un abbraccio”. E allora l’ho fatto subito, è stata una immersione nel tempo e nei ricordi, un tuffo nel “natio borgo selvaggio” tanto amato nel quale gli immancabili ritorni estivi si sono arrestati, da cinque anni, per il Covid e per problemi familiari persistenti. Poi ho integrato con le storie del nostro “Spoon River” suggerite da mio fratello Salvatore, sempre presente con me nei ritorni estivi e dalla memoria quanto mai lucida per questa rievocazione appassionata.
Mi viene di citare il poeta.. “per ch’i no spero di tornar giammai, ballatetta, in Toscana, va tu leggera e piana dritt’a la donna mia che ti farà tanto onore.”…. Spero di essere pessimista, comunque la destinazione non è la Toscana né una donna, ma il grande Pasquale che con il suo inatteso invito mi ha fatto tornare spiritualmente e idealmente al mio “natio borgo selvaggio” alle falde del Gran Sasso e non posso che ringraziare immedesimandomi con tanta emozione. Non è una “ballatetta” la mia… ma uno sfogo genuino profondamente sentito con il cuore e con l’animo.
28 luglio 2024
Info
Si tratta della parte della manifestazione di domenica 28 luglio “Ricordando Marta Iannetti e la festa della fienagione a Pietracamela” dedicata alla testimonianza dei paesani sui tempi passati, con il nostro ricordo che è stato letto ai partecipanti. Cfr. i nostri articoli in questo sito, per la cronaca della manifestazione citata, insieme con la “Festa dell’arrampicata”, e per la contemporanea “Riapertura della chiesa di San Leucio”, sempre a Pietracamela, il 10 e 8 agosto 2024. Ai numerosi nostri articoli su Pietracamela si accede, in questo sito, cliccando “Pietracamela” in “cerca”, posto sulla sinistra; qui citiamo solo quelli cui abbiamo fatto riferimento: su Guido Montauti, nel centenario 2018, 1. Il ricordo dell’uomo 13 luglio, 2. L’uomo e l’artista 22 luglio, 3. Dagli esordi alla svolta plastica 29 luglio, 4. Dal periodo parigino alle ‘Pitture rupestri‘ 3 agosto, 5. Dal Pastore bianco all’empireo 11 agosto, 6. Il recupero delle ‘Pitture rupestri’ 19 agosto; 2012, Mostra fotografica su di lui al Grottone 29 agosto (le immagini degli articoli sul centenario sono saltate nel trasferimento a questo sito, saranno reinserite prossimamente). Clorindo Narducci-Angelino 2016, 1. Il ‘suo’ Gran Sasso che domina il ‘nido delle aquile’ 3 luglio, 2. La storia del ‘natìo borgo selvaggio rivissuta con amore 6 luglio(; Bruno Bartolomei- Brunitt In memoria di Brunitt, caduto sul lavoro 2021, 21 maggio ( e 1990 luglio-settembre su “Mondo Edile”) Ginevra Bartolomei-“la Gina” 2024, 1. Il ‘pretarolo’, l’analisi linguistica sui versi della poetessa popolare ‘la Gina’ 3 giugno, 2. I versi della ‘Gina’, la poetessa del ‘pretarolo’: amore per il paese, devozione, umanità. 17 giugno (in questi ultimi due articoli molte altre immagini del centro storico di Pietracamela).
Photo
Le immagini inserite nel testo sono a fini evocativi legate ai ricordi, a parte le 3 foto (di Marta Iannetti) che seguono l’immagine di apertura (di Aligi Bonaduce) su alcuni momenti della manifestazione “Ricordando Marta Iannetti e la festa della fienagione di Pietracamela”; dalla n. 5 alla 9 foto d’epoca (Fondo Aligi Bonaduce), la 10 e la 11 meno antiche (di Salvatore Levante), la 12 sulle Croci abbassate del Monte Calvario (di Romano Maria Levante), dalla 13 alla 17 su Guido Montauti (le 13 e 17 di Aligi Bonaduce, da 14 a 16 di Romano Maria Levante), dalla 18 alla 27, centro storico con la residenza del medico Montauti nell’itinerario pianeggiante verso Porta Fontana la 18, e soprattutto angoli, scalinate e archetti caratteristici, fino alle 28 e 29 con i ruderi del vecchio mulino sul Rio d’Arno e la vicinissima piccola “cavea” per gli spettacoli (tutte di Romano Maria Levante); in conclusione la foto 30 dell’antico parroco don Andrea e le 31 e 32 personali che seguono, più la foto 33 della scampagnata canora ai Prati di Rivo (tutte e 4 di Salvatore Levante); infine 3 panorami, la 34 veduta insolita di Pietracamela (di Aligi Bonaduce), le 35 e 36 immagine panoramica del paese nel verde con il Gran Sasso la prima, il Gigante che dorme o la Bella addormentata al risveglio… la seconda (di Romano Maria Levante). A tuti gli autori delle immagini inserite nel testo, che abbiamo citato espressamente, il nostro più vivo ringraziamento.
Abbiamo dato conto con una “cronaca da remoto” della Riapertura della chiesa madre di San Leucio, l’evento centrale avvenuto a Pietracamela – il borgo appenninico tra i più belli d’Italia alle falde del Gran Sasso – domenica 28 luglio 2024 nel tris di eventi che ci hanno fatto ripensare alla sigla televisiva di tanti anni fa “una domenica così non la potrò dimenticar ”. Ora diamo conto, sempre “da remoto”, degli altri due eventi della stessa giornata , il precedente e il successivo, che hanno creato un ingorgo festoso. Come nella prima cronaca abbiamo avuto l’apporto decisivo di una paesana impegnata nella valorizzazione del territorio, anche per questi altri due eventi siamo stati aiutati dalle notizie e dalle immagini fornite da due paesani altrettanto impegnati in modi diversi per le fortune della nostra terra, il “natìo borgo selvaggio”.
La “Festa dell’arrampicata”
Il primo evento è stata la 7^ edizione della “Festa dell’arrampicata”, iniziata il 26 luglio e protrattasi per tre giorni, organizzata da “ASD Mondi verticali”, con questo intento di valore non solo sportivo: “Ai piedi del Gran Sasso educazione sanitaria ad alta quota” mediante “Esercitazioni di BLS-D, disostruzione vie aeree, gestione emergenze in montagna”.
Ed ecco il programma: Venerdì 26 luglio, ore 14 Apertura iscrizioni e inizio Maratona, ore 20 Talks – Proiezione con Klaas Willems. A seguire Dj set. Sabato 27, ore 9,20 Apertura desk, ore 10 MRB tour, ore 12 Highline meeting, ore17,20-18,30 Hata Yoga, ore 20 Talks e proiezione con Roger Schaeli, ore 22 Live music Cuba casual e Dj set. Domenica 28, ore 9,30 Apertura desk, ore 10 MTB Tour, ore 12, Inizio Street Boulder, ore 17,30-18,30 Hata Yoga, ore 17 Termine Maratona, ore 18 Termine Street boulder, ore 19 Finali, ore 20 Premiazioni.
Non ci azzardiamo minimamente nel decrittare le voci del programma, molte delle quali per noi profani sono indecifrabili. Ci piace invece riportare le parole che ci hanno fatto rivivere il clima della manifestazione e vedere partecipanti venuti anche da lontano. Sono di Diana Di Giuseppe – sempre mobilitata nella valorizzazione del territorio diffondendo notizie e immagini suggestive – le abbiamo trovate in un suo Post del 31 luglio su Facebook, in cui è molto presente. Riportiamo testualmente la sua appassionata descrizione di alcuni momenti della “Festa dell’arrampicata” che l’hanno colpita e ha trasmesso condividendo la propria emozione con queste parole.
“Il paese si riempie di centinaia di ragazzi appassionati di questo sport e quest’ anno le presenze sono aumentate tantissimo.
Per chi non si arrampica, come me, girare nel paese da spettatore è un vero spettacolo.
Oltre a vedere i ragazzi che scalano ogni muro, casa o roccia in posizione verticale è impressionante ed è spettacolare vedere chi attraversa in alto il cavo o filo a tutte le ore del giorno.
Il simbolo della Festa sono i materassini di ogni colore e dimensione portati a spalla dai giovani e meno giovane sportivi da una postazione, attività oppure da una gara a l’altra per tutto il giorno.
In questi tre giorni tutto il territorio di Intermesoli Pietracamela e Prati di Tivo e tutte le attività ricettive, Bar e Ristoranti si riempiono di persone.
In Piazza degli Eroi a Pietracamela le serate vengono animate da musica dal vivo con birra e arrosticini ed è un momento di socializzazione anche per i residenti delle tre località che approfittano dell’occasione di svago.
Era presente anche Elsa, l’Ambulante Fast Food, amica nostra che sosta a Intermesoli durante le nostre Feste.
I partecipanti, che vengono da ogni parte dell’Italia e del mondo…durante la mattina non esitano di farsi una escursione per sentieri e una scalata sulle pareti del Gran Sasso d’Italia..
Grazie e a l’anno prossimo”.
Diana Di Giuseppe
Il tutto documentato da una serie di immagini in cui si vedono le situazioni descritte.
Nella nostra “cronaca da remoto” non aggiungiamo altro ringraziando Diana Di Giuseppe per l’opportunità offertaci con le sue belle parole e le immagini del suo Post su FB che inseriamo nel testo.
La “Festa della fienagione” nel ricordo di Marta Iannetti
L’evento che ha chiuso la giornata è stato particolarmente intrigante perché l’omaggio a una persona di grande sensibilità è stato collegato a una tradizione campestre della montagna, la “Festa della fienagione” che cadeva nei giorni di luglio sulla quale la persona celebrata aveva fornito una testimonianza appassionata. “Ricordando Marta Iannetti e l’antica festa della fienagione di Pietracamela” si intitola la manifestazione svoltasi secondo un programma anch’esso intrigante.
Raduno alle ore 18 in Piazza degli Eroi, la maggiore del paese sovrastata da Vena grande, la roccia identitaria che reca ora la scritta “La Prota”, di lì in 10 minuti di cammino attraverso il paese, da Porta Fontana o dal sentiero delle vecchie mura da poco riaperto i partecipanti hanno raggiunto la meta, la “Piana degli orti”, un angolo delizioso. Alle 18,30 è stato presentato il progetto “a li Pit de Castiégl”(ai Piedi del Castello) e sono stati illustrati i lavori effettuati per ripristinare i vecchi sentieri comunali e vicinali, dal paese al vecchio mulino, alla chiesa della Madonna della Spina, alla sottostante frazione di Intermesoli, all’altipiano isolato dei Pacini, alle terre e agli orti coltivati.
Protagonista della presentazione Pasquale Iannetti, dell’Associazione Tecnoalp, che oltre ad essere uno scalatore appassionato di queste montagne con molti primati, da sempre è stato impegnato in iniziative di gestione e valorizzazione con interventi personali diretti di notevole portata, fino alla costituzione della associazione citata nella quale la sua opera assume una dimensione ancora più rilevante. Ed è proprio Pasquale Iannetti che ci ha fornito il testo e le fotografie che ci consentono di documentare la manifestazione essendo la nostra cronaca, lo ripetiamo con rammarico, “da remoto”.
A Marta Iannetti è stata dedicata la parte della manifestazione definita “Donne che crescono”, con l’intervento di Emanuele Di Paolo dell’Associazione Bambun Aps sul contributo di questa donna straordinaria al Gran Sasso e sul progetto “Tramontana”. Si è conclusa con la degustazione di prodotti tipici e vino allietata da musica e balli della tradizione locale, ma prima la testimonianza di alcuni abitanti di Pietracamela che hanno vissuto i tempi andati. C’è stata anche la testimonianza del sottoscritto, sempre “da remoto”, con la lettura di un nostro ricordo, da “pretarolo verace” che ha rievocato i suoi innumerevoli ritorni estivi nel paese natale; Il testo che è stato letto nella manifestazione lo riporteremo prossimamente-
Ora ne riportiamo uno ben più rilevante e fortemente identitario, una conversazione di Marta Iannetti con Lucia Panza dal libro di Marta Iannetti “Bellina che sei nata alla montagna – Donne, agro-pastoralismo e migrazioni a Pietracamela”, con in primo piano la “Festa della fienagione”: Ecco il testo fornitoci da Pasquale Iannetti, con le fotografie della manifestazione di Maria Iannetti che illustrano questo testo e ringraziamo veramente.
Alla riscoperta della Valle degli Orti (L’tièrr d’ la Prota) di Pietracamela
PitCastiègl’ Ai piedi del castello
foto: Collezione Luca Angeletti (L’Aquila)
T’arraccaunt (Ti racconto)
Da “Bellina che sei nata alla montagna” dialogo di Marta Iannetti con Luigina Panza
…. A marzo, una volta sciolta la neve, gli appezzamenti di terra coltivabile, sparsi lungo le scomode dorsali della montagna, si cominciavano a popolare, chi da un parte, chi da un’altra, chi di più, chi di meno, ognuno lavorava un pezzo di terra di cui era padrone. All’avvio della stagione, per prima cosa si trasportava lo stabbio per concimare la terra, poi si iniziava a zappare. La famiglia di Luigina Panza iniziava a lavorare un fazzoletto di terra in basso, posizionato verso il paese di Intermesoli, detto L’Casarèn. Si arava, si seminava, ci si prendeva cura della fase vegetativa, in un crescendo di attività che raggiungevano l’apice tra luglio ed agosto, con i grandi lavori di mietitura e di fienagione.
La stagione fertile volava, erano mesi concentratissimi dove si faticava incessantemente per strappare alle coste ripide, tutto il supporto alimentare indispensabile per le famiglie e gli animali. Era questo il tempo più faticoso e più intenso, quando gli sforzi estremi di una agricoltura di auto sussistenza non meccanizzata si consumavano sotto il sole tanto atteso dopo la lunga neve. I prati, i boschi ed i campi erano pieni di gente e “SantMartèn t’ l’arcrascia” (San Martino ti faccia ricrescere) si diceva, salutandosi durante il lavoro, perché San Martino è un santo che ti fa ricrescere la roba. La distribuzione dei terreni era altamente irregolare: quelli più bassi, nelle vicinanze del paese, solitamente, venivano destinati alla produzione del necessario per nutrire la popolazione, mentre quelli più alti erano destinati alla fienagione e poi al pascolo.
Una conoscenza intima delle caratteristiche dei terreni permetteva di compiere scelte funzionali, calibrate sulle qualità particolari di ogni pezzetto di terra e ciascuna coltura aveva il suo luogo ideale. L’Casarèn (alle Casarine), più esposte al sole e basse, si mettevano le patate che poi si cavavano a settembre, duravano fino alla primavera ed erano destinate all’alimentazione umana e per i maiali. I ijervcrescevano là agl’ RijArnèl, erano simili a piccoli ceci scuri ai quali, dopo averli ammollati, si aggiungeva la farina di granturco, si mettevano in una canaletta e si davano da mangiare agli agnelli. Era questo un nutrimento importante per gli agnelli svezzati che, a loro volta ben ingrassati, venivano venduti per Pasqua.
Ai Pit Castièglc’era la giusta umidità per i fagioli sia bianchi che neri insieme alla lonta la lenticchia), che veniva tanto dagne(bella). Luigina ricordava: In quel pezzetto di terra un anno ne raccogliemmo un quintale. Poi si metteva la cicerchia, la revaglia, la veccia, che si consumava cruda come i piselli; si seminavano anche i cereali, grano e orzo. S’m’tévaIaijorvalá agl’ RijArnèl (si mieteva l’erba là al Rio Arnale). Ad agosto l’ rén s’m’tèva (si mieteva il grano) là a l’Ploij, lá a Cagliengh (a Collelungo) là a L’PischPlèn (Pesco Piano). Si assemblavano I maniuppij (i covoni), si trescava nelle aie ben pulite e si trebbiava con gli asini. Il grano bisognava poi lavarlo, pulirlo, facendo volare la pula al vento della notte in zone strategiche, come lo slargo davanti alla chiesetta di San Rocco.
Si provvedeva anche alla seconda semina d’l’ rènmarzarùol (del grano marzaiolo), una qualità dalla crescita rapida, ma la produzione cerealicola non bastava comunque mai per l’annata e bisognava procurarsene a valle ed erano le donne che scendevano a Ponte Arno, per riportare il grano in paese, a piedi o, chi lo possedeva, con il somarello. L’ordinata geografia culturale vedeva allora il bosco addomesticato sfumare nel mosaico di campi coltivati, c’era un ordine con cui veniva gestito l’ambiente prima, quando il legame essenziale con le risorse circostanti rendeva le terre simili a un libro, una carta geografica, un settebello. Il Comune provvedeva ad organizzare le famiglie in modo tale che i maschi dovevano fornire la disponibilità di dieci giornate obbligatorie per andare a pulire strade e sentieri.
Con questa manutenzione collettiva le strade ed i sentieri erano resi funzionali dagli uomini di ciascuna famiglia cheijévan ad ass’tté l’vuij (andavano ad aggiustare le strade dopo l’inverno). L’fav’cié (il falciare) Il momento culmine del calendario locale, il più intenso tra i ricordi, è quello della falciatura dei prati. All’inizio di luglio tutto il paese iniziava lo sfalcio del fieno necessario a nutrire gli animali in stalla durante l’inverno. (segue)
Note: U RijArnèlsi trova dopo Fonte Monica, verso la casetta Mirichigni. iJL’casarèn è sotto la chiesa grande; dove ora c’è il parcheggio, sotto la chiesa invece si chiama “u T’rratèr. Ci sono due PischPlèn: uno piccolo sempre sotto la chiesa, l’altro dove sta il monumento a Cichetti, nella valle del Rio Arno. La lenticchia si seminava pure sulle Cannavun, sotto il canale, intorno al Calvario vecchio. Elaborazione dei testi in lingua pretarola di Lidia Montauti.
Ritroviamo Lidia Montauti, nel suo impegno instancabile di natura culturale e organizzativa che abbiamo già sottolineato nell’articolo sull’evento centrale, la riapertura della chiesa di San Leucio, come abbiamo ricordato l’impegno divulgativo e non solo di Diana Di Giuseppe.
Il resto del programma dell’estate 2024 di Pietracamela
A questo punto, rinviando alla prossima pubblicazione il nostro ricordo dei tempi passati che è stato letto nella manifestazione, potremmo concludere, ma pensiamo ancora alla festosa sigla televisiva “Una domenica così non la potrò dimenticar” con cui abbiamo aperto la nostra cronaca, che proseguiva così: “Ed io non so cosa darei per farla sempre ritornar”. Ebbene, a Pietracamela l’amministrazione comunale con il sindaco Antonio Villani e la Pro Loco, l’hanno fatta “ritornar”: giorni così – pur senza il festoso ingorgo del 28 luglio – si sono susseguiti e proseguono nell’intera estate, in un ciclo intenso di manifestazioni culturali, di intrattenimento e non solo che ravvivano il soggiorno nella splendida località dalle grandi bellezze naturali. Basta leggere il programma per il mese di agosto dell’Estate 2024 del Comune: Venerdì 2 agosto, “Enrico Ruggeri in concerto”. Sabato 3, “Cittadinanza onoraria a Stefano Ardito”, Presentzione del libro ‘La vita capita’ di Rosanna Narducci, e “La maglia rossa sulla parete Nord del Monte Camicia”, documentario di Ferdinando di Fabrizio. Domenica 4, “Inaugurazione mostra fotografica di Aligi e Flavio Bonaduce” e “Festa della Madonnina”. Giovedì 8 “Raffaele Bifulco e Clara Gizzi in concerto”. Venerdì 9, “Presentazione libro ‘Bibliografia del Gran Sasso d’Italia”. Sabato 10 e Domenica 11, “Borgo in Arte”. Giovedì 15, “Festa di Santa Maria Assunta”. Venerdì 16, “Festa di San Rocco” con concerto. Per il week end 10-11 agosto un affollarsi di eventi che ricorda la domenica del 28 luglio anche quella dell’11 agosto “non la si può dimenticar” E nel mese di luglio, prima dei tre eventi di domenica 28 di cui abbiamo dato conto, c’è stato il 12, 13, 14 l’“Ultra trail del Gran Sasso” e sabato 13 “Letture in piazza”. Un impegno rimarchevole dell’amministrazione, per la soddisfazione dei locali e del tanti turisti.
Il “cronista da remoto” ne dà atto con piacere da “pretarolo” verace, e nello stesso tempo con il rammarico di non poter partecipare in parte attenuato dall’aver potuto dar conto dei tre eventi di una “domenica che non potrò dimenticar”.
Info
Si tratta del 2° dei 3 articoli dedicati agli eventi di domenica 28 luglio 2024 a Pietracamela – del club Anci “i borghi più belli d’Italia”, alle falde del Gran Sasso – riguardante la “Festa dell’arrampicata” e “Ricordando Marta Iannetti e l’antica festa della fienagione di Pietracamela”. La descrizione del primo evento e’ riportata testualmente dalla pagina di Facebook del 31 luglio 2024 di Diana Di Giuseppe, che ringraziamo; il testo Bellina che sei nata alla montagna” dialogo di Marta Iannetti con Luigina Panza”, alla riscoperta della valle degli orti, ci è stato fornito da Pasquale Iannetti, che ringraziamo. Il primo articolo, sulla Riapertura della Chiesa di San Leucio“, patrono del paese, è uscito in questo sito l’8 agosto, il 3° e ultimo articolo, sui “Ricordi di un ‘pretarolo’ verace, turista estivo” uscirà prossimamente.
Photo
Le prime 9 immagini, sulla “Festa dell’arrampicata”, sono tratte dal Post sulla pagina di Facebook del 31 luglio 2024 di Diana Di Giuseppe, che ringraziamo con gli eventuali altri titolari dei diritti, siamo pronti ad eliminare le immagini delle quali non fosse gradita la pubblicazione, alla semplice richiesta dei titolari, precisando che l’inserimento nell’articolo ha solo scopo informativo senza alcun intento pubblicitario od economico. Le successive 9 immagini, quasi una sequenza cinematografica, relative a “Ricordando Marta Iannetti e l’antica festa della fienagione di Pietracamela”, sono state fornite da Pasquale Iannetti che ringraziamo, come ringraziamo l’autrice di tali scatti fotografici, Maria Iannetti.
“Un domenica così non la potrò dimenticar… ”, era la sigla di una trasmissione televisiva di successo di quasi sessant’anni fa, potrebbe essere la sigla di domenica 28 luglio a Pietracamela, il borgo montano alle falde del Gran Sasso. per l’ingorgo festoso di tre manifestazioni celebrative e identitarie contemporanee: La “Festa dell’arrampicata”, da venerdì 26 a domenica 28 ha aperto il tris di eventi, “Ricordando Marta Iannetti e l’antica festa della fienagione di Pietracamela” domenica alle 18,30 lo ha chiuso, al centro l’evento religioso lungamente atteso, domenica alle 17,30 la Riapertura al culto della Chiesa madre intitolata a San Leucio il giorno della festa del patrono – dopo la chiusura dovuta al terremoto del 6 aprile 2009, un’inagibilità durata ben 15 anni! – con il “ritorno” della statua di San Leucio nella “sua” chiesa portata in processione dalla chiesa di San Giovanni nel centro storico.
La processione addirittura ha dovuto fare lo slalom tra i partecipanti alla “Festa dell’arrampicata” passando tra “blocchi” ben definiti nel programma. Un ingorgo comunque segno di vitalità e forte spirito identitario di “uno dei borghi più belli d’Italia”, il cui idioma è stato celebrato recentemente a livello nazionale ed europeo, sulla base dei versi in “pretarolo” della poetessa popolare “la Gina”, Ginevra Bartolomei, come abbiamo già documentato, che associamo alla festeggiata di domenica, Marta Iannetti , altra figura paesana meritevole di essere onorata.
Nell’assenza forzata da un evento evocativo di tanti momenti vissuti nel paese natale, per la nostra cronaca “da remoto” ci avvaliamo dell’apporto fondamentale, anzi totale – senza il quale non avremmo potuto scriverla – di chi ha partecipato direttamente e fattivamente all’evento. Lidia Montauti, sempre impegnata nella valorizzazione del territorio, dalle mostre sui costumi di una volta curate dieci anni fa con Celestina De Luca, all’attuale mobilitazione per l’idioma della “Prota”, anche con iscrizioni bilingue, ci ha fornito le notizie e le immagini riprese nella processione di San Leucio e nella chiesa madre riaperta al culto. Raffaele Renzi ci ha dato a sua volta una colta sintesi della storia della chiesa di San Leucio, dalle più antiche vestigia agli sviluppi successivi, risultato della ricerca svolta con il nipote Marco Intini . Un grazie di cuore ad entrambi che ci hanno consentito di dar conto dell’’evento, e di sentirci virtualmente partecipi di un qualcosa profondamente sentito anche da noi.
Ecco le notizie essenziali fornite da Lidia Montauti. Molti hanno contribuito all’evento, oltre alle autorità civili e religiose tanti paesani, come Paolo Trentini che si è mobilitato, Diana di Giuseppe e Massimo di Taranto. La messa celebrativa è stata officiata dal vescovo S. E. R. Lorenzo Leuzzi, la Comunità pretarola , con il sindaco Antonio Villani in fascia tricolore, insieme ai turisti, si è riunita nella Chiesa madre dopo la processione con cui è stata riportata nel suo altare la statua di San Leucio dalla chiesa di San Giovanni dove era stata spostata dopo il terremoto del 6 aprile 2009. E qui risaltano alcune particolarità: l’altare è stato ornato con fiori di colore arancione per conservare una tradizione intrigante, legata alla fioritura, nella parte alta dei Prati di Tivo, proprio nei giorni della festa di San Leucio, di bellissimi gigli selvatici arancioni chiamati appunto “i giglie de Sante Leuzzije”, che venivano messi a ornamento dell’altare come non si è mancato di fare alla riapertura, sono fiori oggi regolarmente in vendita dal fioraio. Lidia precisa: “I portafiori erano conche di rame, tipiche di quando si andava a prendere l’acqua a Porta fontana”. E aggiunge: “Le poche voci femminili pretarole , accmpagnate dlla chitarra di Massimo Di Taranto, hanno animato la Messa. A fine Messa un ricco rinfresco preparato dalle donne di buona volontà, in primis Diana Di Giuseppe, ha concluso la bella festa nel sagrato della chiesa”. Hanno scosso i cuori il rintocchi a festa delle 4 campane, rimaste silenziose per 15 anni, mosse da appassionati campanari, Franco De Santis, Reno, Claudio, Gianluigi, e Paolo Di Furia; come sempre in passato, la Comunità è accorsa e si è unita al richiamo fesstoso e coinvolgente.
Ed ora, dopo le notizie sulla cerimonia di riapertura, illustrate dalle immagini, la storia della Chiesa di San Leucio con i risultati della ricerca svolta in poche ore da Raffaele Renzi insieme al nipote Marco Intini – su richiesta del parroco Don Giacobbe, tramite l’onnipresente Lidia Montauti – consultando i testi disponibili e riesumando racconti ascoltati negli anni dagli abitanti di Pietracamela che si tramandavano a voce ricordi di tempi lontani. Ecco il testo integrale fornitoci da Raffaele Renzi.
Breve storia della chiesa di San Leucio a Pietracamela
di Raffaele Renzi e Marco Intini
1. Una pergamena del secolo XIII, per la nomina dei Parroci, conservata nell’Archivio dell’Archidiocesi di Pescara-Penne, fa riferimento a una Chiesa di San Leucio (rif. a, pag. 64). Tale chiesa non si sarebbe trovata nel luogo attuale ma in una località più lontana, chiamata “S. Leutii de Petra”, che dovrebbe essere identificata con le terre che si distendono tra la Centrale di Collepiano e la curva della S.P. per Rio Arno chiamata “La Roccia”.
Alcuni abitanti di Pietracamela raccontano ancora oggi che, in passato, esistevano tre centri abitati separati, posti in luoghi diversi da dove oggi sorge il paese. Oltre al complesso di San Leucio, collocato come sopra descritto, esisteva quello di Plicanti e quello di Rio Ruso, collocati dove oggi esistono ancora i terreni con questi nomi. Poi nel tempo gli abitanti di queste località si erano trasferiti, forse per scopi difensivi, dove è sorta l’attuale Pietracamela, e la chiesa di San Leucio ha dovuto seguire lo stesso spostamento.
2. Dell’antica Chiesa su “La Roccia” si riparla nel 1324 in un documento (rif. b) in cui si menziona che “S. Leutii de Petra” pagava le decime papali. Il successivo riferimento a una Chiesa con questo nome riguarda una visita pastorale del 1757 (rif. a, pag. 64) e poi se ne riparla quando fu costruita la Chiesa presente, tra il 1776 e il 1780, quando ormai tutta o quasi tutta la popolazione si era trasferita dove è ora.
3. Dunque non si hanno riferimenti sugli eventi che hanno accompagnato la storia di questa Chiesa tra il 1324 e il 1757. Ma tali eventi si possono ricostruire, con buona approssimazione, da una relazione del 14 agosto 1860. Allora la Chiesa attuale era stata costruita da ottant’anni e necessitava di ristrutturazioni. Di conseguenza era sorta la necessità di definire quale ente (Comune, chiamato “Universitas” negli atti ufficiali, o la Curia) dovesse sobbarcarsi i costi dell’impresa.
Con quella data esiste una relazione a firma del Vescovo di Penne Vincenzo d’Alfonso (rif. a, pag. 69) al Ministro e Real Segreteria di Stato degli Affari Ecclesiastici in cui si ricordano le vicissitudini della Chiesa scrivendo “….Quanto poi alla Chiesa è da sapere che, esistendo essa in origine alla distanza di quasi due miglia dall’abitato (che era ormai l’attuale Pietracamela, formatasi tra il 1300 e il 1700 con il trasferimento degli abitanti dei tre agglomerati sopra citati, che a poco a poco scomparvero, n.d.s.), per infrequenza del popolo fedele e per mancata custodia, andò in totale deperimento sì che di presente non ruderi ma solo memorie esistono del luogo dove la medesima una volta era piantata. Fu quindi che sorse il bisogno a quella popolazione di costruirsi un’altra Chiesa ed è appunto quella per cui si reclamano oggi sollecite riparazioni. L’università …….la costruì. Di tal fatto rende chiara testimonianza una lapide posta sopra la porta della Chiesa medesima dov’è scritto – Tempore Preposite Rev. D. Francisci de Lauretiis anno domini 1780 Universitas-“.
4. La Chiesa fu quindi costruita in questo luogo in sostituzione di quella de “La Roccia”. E’ probabile, secondo alcuni, che prese il posto di una preesistente costruzione (rif. a., pag. 65).
5. Dal rif.a, pag. 65, si sa che il 3 luglio 1776 il cancelliere dell’Università Saverio Narducci sottoscrisse un verbale su pubblico bando ….per assegnare …. i lavori per la fabbrica della Chiesa e, il 9 luglio 1776, venne stipulato l’atto notarile con l’assegnazione dei lavori ai “fabricatori” di Montorio, Diego Roberti e Egidio Massari. Il prezzo fissato fu di 659 ducati e 50 grana.
6. I lavori si conclusero nel 1780 come indicato sulla lapide già citata, murata sulla facciata. La Chiesa costruita era a tre navate, come l’attuale, ma la volta della navata centrale era a botte. Di conseguenza anche la facciata era sormontata, al centro, da una struttura circolare e non triangolare.
7. A cavallo degli anni 1950-1960, la volta della navata centrale fu cambiata e divenne a spioventi, come è adesso, e, di conseguenza il frontone centrale della facciata divenne triangolare.
Riferimenti:
a. Istituto Abruzzese di Ricerche Storiche: “PIETRACAMELA: storia, arte, vita, economia” Ed. APRUTIUM 2000;
b. “Rationes decimarum Italiae: Aprutium Molisium – secoli XIII-XIV” (da ricerca su Internet).
Pietracamela, 28 luglio 2024″
Da parte nostra ci sentiamo di aggiungere soltanto che il campanile da tempi lontani in parte è in pietra e in parte in mattoni, ci ha sempre sorpreso questo abbinamento inconsueto dovuto a una antica ricostruzione parziale, chissà perchè non fu utilizzata la pietra con cui è realizzata l’intera chiesa, e crediamo fosse reperibile in loco, ma usarono i mattoni! Concludiamo con questo piccolo mistero la rievocazione della bella festa religiosa, identitaria e popolare.
Info
La Chiesa di San Leucio, patrono di Pietracamela, si trova all’ingresso del paese sulla provinciale da Ponte Arno, ha una torre campanaria con 4 campane. Le altre chiese: nel centro storico, la Chiesa di San Giovanni con la campana che scandisce le ore della giornata, e la Chiesa di San Rocco nella parte superiore del paese, nella strada verso l’antico mulino, la Chiesa di Collemulino,, completamente in rovina. Il testo sulla storia della chiesa di San Leucio, riportato integralmente, ci è stato fornito dall’autore Raffaele Renzi (con il nipote Marco Intini) che ringraziamo. Cfr. i nostri articoli in questo sito: sulla storia di Pietracamela e i ricordi di Clorindo Narducci, “La storia del ‘natìo borgo selvaggio’ rivissuta con amore” e “Il suo Gran Sasso, che domina il ‘nido delle aquile” 5 e 3 luglio 2016; sulla poetessa di Pietracamela, citata all’inizio, “I versi della ‘Gina’, la poetessa del ‘pretarolo’, amore per il paese, devozione, umanità” e “Il ‘pretarolo’, l’analisi linguistica sui versi della poetessa popolare, ‘la Gina’” 17 e 3 giugno 2024; sulle mostre a Pietracamela sui costumi di una volta, anch’esse citate, curate da Lidia Montauti con Celestina De Luca, “Una mostra sui bambini di una volta” e “Le mostre sulla vita di ieri: lo sposalizio” 14 agosto e 17 luglio 2014.
Foto
Le prime 3 foto sono della chiesa di San Leucio pronta per la riapertura, nelle foto da 4 e 6 la statua di San Leucio viene presa dalla Chiesa di San Giovanni per essere riportata nella Chiesa madre con la processione – in testa il parroco Don Giacobbe, segue la Comunirà con il sindaco Antonio Villani in fascia tricolore – alla quale sono dedicate le foto dalle 7 alla 10; la ricollocazione della statua del Santo fino alla sua nicchia è nelle foto 11 e 12, mentre la foto 13 mostra in primo piano i “giglie de Sante Leuzzije” che come da tradizione adornano la chiesa in onore del Santo, infine, nella foto 14 un’immagine d’epoca della chiesa di San Leucio con il campanile nel lontano passato, e, in chiusura, la locandina delle manifestazione religiosa. Le immagini citate inserite nel testo sono state fornite da Lidia Montauti, che le ha scattate, a parte la foto 7 scattata da Tiziana Giganre, che la ritrae (a dx) con a fianco Maria e Lola mentre dalla chiesa di San Giovanni vanno verso la piazza per seguire la processione e la 14 tratta dal libro di Clorindo Narducci su Pietracamela di cui abbiamo citato in “info” la nostra recensione illustrata con le immagini contenute nel libro tra cui quella della chiesa di San Leucio. Ringraziamo Lidia Montauti per averci consentito la cronaca dell’evento, con le notizie essenziali che abbiamo riportato nel testo, e la sua illustrazione fotografica con le immagini che ci ha trasmesso.
Ieri 6 e oggi 7 luglio 2024 si svolge in Abruzzo, a Piano Roseto nel comune di Crognaleto, provincia di Teramo, la 169^ Fiera della Pastorizia, una manifestazione antichissima con la partecipazione di istituzioni, associazioni e soprattutto di operatori dl settore, imprese allevatrici, e singoli pastori con la presenza anche dei veri protagonisti., greggi di pecore, ecc. Oggi ripubblichiamo il nostro articolo sulla Fiera del luglio 2009, uscito allora sul sito “cultura.inabruzzo.it”, nel quale abbiamo inserito immagini più recenti. Erano trascorsi solo tre mesi dal disatroso terremoto, fu una prova molto positiva di grande vitalità deglla terra d’Abruzzo.. Un “come eravamo” dopo quindici anni che potrebbe far confrontare la realtà di allora – diversi protagonisti non ci sono più, come il compianto commissario al Parco Nazionale Arturo Diaconale – e la realtà di oggi vissuta dai partecipanti attuali.
Sentir parlare di cultura nel cuore dei Monti della Laga è stata una bella sorpresa nella giornata conclusiva della “151^ Fiera della Pastorizia” svoltasi tra Teramo, San Giorgio e Piano Roseto, nei comuni di Crognaleto e Cortino, tra il 2 e il 5 luglio 2009. Come è stata una bella sorpresa sentir parlare in un certo modo del Parco nazionale Gran Sasso Monti della Laga.
Prima di arrivare alla giornata conclusiva che abbiamo seguito direttamente per dare la sintesi finale e il messaggio politico, vogliamo rendere conto brevemente delle due precedenti.
La prima giornata si è svolta a Teramo con un Convegno nella mattina del 2 luglio presso la Camera di Commercio aperto dal presidente Di Carlantonio, organizzatore dell’intera manifestazione insieme a Febbo, assessore all’Agricoltura della Regione Abruzzo e ai sindaci di Crognaleto D’Alonzo e di Cortino Minosse. Si è discusso dell’economia dell’allevamento ovino, in particolare dei consorzi di tutela, dei marchi di qualità e della sicurezza alimentare, argomento questo di grande attualità anche per la contraffazione e l’adulterazione della denominazione di origine, all’ordine del giorno anche dell’imminente G8 dell’Aquila. Le conclusioni le ha tratte l’Assessore regionale.
Il 4 luglio a San Giorgio, frazione di Crognaleto – nella sede della Pro loco che con il presidente Campanella ha dato un apporto fondamentale all’organizzazione – si è svolto un intenso pomeriggio aperto dal 3° Concorso sui “Formaggi della Transumanza”, cioè “Formaggi Ovini e Caprini Rocca Roseto”, proseguito poi sullo stesso tema con il “Laboratorio del gusto, pecorini e caprini”. Dal gusto si è passati alla memoria con l’apertura del Museo della pastorizia e di un Mostra fotografica; i tratturi e la transumanza ne sono stati al centro, anche con racconti e rievocazioni dal titolo poetico “Presso gli stazzi con i pastori sotto le stelle”; nella serata il folklore di Rappoppò con altri artisti.
Le due sorprese della giornata conclusiva
La giornata del 2 luglio ha visto entrare in scena i protagonisti dell’arte della pastorizia, i pastori e le pecore. E in modo operativo, quasi fosse il teatro delle operazioni e non una kermesse. All’alba l’alloggiamento degli animali negli stazzi, poi la Santa messa con la Preghiera del pastore seguita dal Raduno Ufficiale del Cane Pastore Maremmano Abruzzese scritto in tutte maiuscole, se lo merita. Quindi, in successione, la visita guidata agli stazzi con la valutazione delle razze ovine e caprine presenti da parte di un’apposita commissione. Una specie di Miss Italia a quattro zampe e un bel manto lanoso anche in piena estate. La premiazione dopo gli interventi delle autorità.
A questo punto, nella parte che doveva essere rituale, quella riservata alle autorità all’interno di un grande tendone ben attrezzato, ci sono state le due sorprese cui si è accennato, a noi molto gradite. Forse c’è del personale in questo portare alla ribalta di una manifestazione così ampia e partecipata questi due elementi, ma ci sembra abbiano rappresentato il vero momento innovativo. Il merito va ai due personaggi di spicco intervenuti insieme a uno stuolo di autorità, non per una partecipazione di circostanza ma per lanciare precisi messaggi cui non mancheranno iniziative concrete. Sono il Sottosegretario all’Interno Michelino Davico e il Commissario del Parco nazionale Gran Sasso e Monti della Laga, Arturo Diaconale: il primo arrivato da Cuneo, di cui è originario (anzi è della rurale Bra), con un blitz che la dice lunga sul suo dinamismo e la sua passione per la montagna; il secondo, famoso e combattivo direttore-giornalista originario di Montorio al Vomano, di Teramo.
E’ qui la festa! Abbiamo esclamato come se avessimo conquistato una vetta dopo la scalata. Una festa del popolo montanaro, ancora vivo e vitale nonostante la decimazione subita con l’esodo. E comparso miracolosamente, quasi materializzandosi nella piana, dopo che l’attraversamento dei Monti della Laga si era svolto in assoluta solitudine. Abbiamo avuto questa impressione e ci è piaciuto sentire il Senatore Davico descriverla all’inizio del suo intervento come propria sensazione, non sapeva dove potesse portare quella strada deserta tutte curve in continua ascesa imboccata lasciando la “Strada Maestra” del Parco nazionale. Tanto meno a un campus così vivo e stimolante.
Spiegare il motivo personale è semplice per il riferimento alla cultura, ci eravamo recati alla Fiera nella convinzione di assistere a un fatto culturale che la nostra Rivista non poteva ignorare, e così è stato, ma si è superata ogni nostra aspettativa. E non é stato semplice restare a Piano Roseto per la pioggia battente e la nebbia fitta e pungente; come non era stato facile arrivarci, la località non é indicata né sulla carta stradale né sui cartelli, abbiamo capito di essere giunti alla meta solo dalla lunghissima fila di auto in sosta che abbiamo superato fino a quando si è aperto dinanzi a noi lo sterminato pianoro verde punteggiato di stazzi di pecore per la Fiera e di un’infinità di stand.
Il motivo personale per il Parco nazionale è più soggettivo, perché avevamo avuto modo di verificare, in negativo, l’impostazione passata dell’azione e iniziativa del Parco per cui ci è apparsa come una palingenesi e autentica soddisfazione quella che il nuovo Commissario intende dare. Parliamo allora di queste due sorprese, che hanno chiuso praticamente la manifestazione, perché ci danno una chiave di lettura privilegiata per vederne i vari risvolti in una luce particolare.
Il “comunalismo” del sottosegretario Davico
Dunque, ecco il sottosegretario venuto da lontano dopo avere mostrato, nella concitata fase post terremoto, un interesse inconsueto chiedendo di incontrare gli amministratori dei Comuni limitrofi al “cratere” epicentro del sisma – anch’essi fortemente colpiti pur senza avere lo stesso riconoscimento dato agli altri Comuni – e di toccare con mano i problemi del territorio. Lo ha sottolineato il sindaco di Crognaleto, il Comune ospitante, D’Alonzo, impegnato in un confronto con le istituzioni centrali perché siano considerati in modo più adeguato i gravi danni subiti dalla sua comunità; e perchè si possa rimediare alla devastazione anche culturale che il sisma ha arrecato al concetto stesso della montagna e della sicurezza della “casa in pietra con il tetto in legno”, sede di tradizioni e di memorie personali e collettive da difendere. Il suo impegno nell’opporsi alla chiusura indiscriminata delle scuole montane di cui al decreto Gelmini, che porta all’abbandono del territorio, è tale da riprendere la parola per sollecitare un intervento del sottosegretario al riguardo.
Il senatore Davico ha detto subito che non è venuto per raccogliere istanze e richieste particolari ma per far sentire lo Stato non come entità astratta e lontana ma reale e presente. Poi è partito da lontano, come nel viaggio da Cuneo, dalle origini della crisi finanziaria nei derivati e prodotti tossici con i quali si sono cercate scorciatoie fallaci al lavoro serio e onesto per costruire qualcosa di stabile, duraturo e non effimero come le ricchezze accumulate all’improvviso facilmente e poi svanite con la stessa rapidità e facilità. Il lavoro serio e onesto porta al territorio e alle comunità che lo popolano, alle radici e alle tradizioni. Con tutto questo ci si deve confrontare per far venire alla luce i problemi e cercare di risolverli, mediante la verifica sul luogo, l’ascolto di comunità e amministratori, il confronto fino alla decisione. “Le eccellenze produttive nel territorio sono valori importanti che hanno fatto cultura, questa è cultura. Dovrebbero essere sostenute dal Ministero dei Beni e Attività culturali perché tali vanno considerate, invece di disperdere risorse in iniziative spesso inutili. La vera cultura è quella della gente, del territorio con i suoi valori e le sue produzioni che vengono dalla tradizione”.
Il sottosegretario ha rimarcato che essere al 151° anno vuol dire per la Festa della pastorizia custodire un grande patrimonio, entrare nella storia; concetto ripreso dal presidente Rainaldi della Camera di commercio dell’Aquila – per le cui vittime c’è stato un minuto di silenzio oltre a ripetuti omaggi – che orgogliosamente ha rivendicato i 50 anni dell’omologa manifestazione aquilana gemellata a quella teramana, osservando “forse noi abbiamo cominciato a registrarle più tardi…” con una battuta identitaria quasi a voler rivalutare una memoria atavica oltre le statistiche ufficiali.
Per difendere questi valori occorre battersi e Davico lo ha fatto a favore delle scuole nella montagna, la cui chiusura accelera lo spopolamento, anche in un caso limite che ha ricordato dove da quattro si era passati a un solo alunno che però consentiva di mantenere in vita una cultura millenaria, quella Provenzale alla base dei nostri valori. “Quando sparisce una cultura millenaria – ha detto – dietro cui ci sono valori, memorie, prodotti tipici, modi di essere, sparisce una parte della nostra storia che può essere importante e va mantenuta”.
Abbiamo capito che non si tratta di scivolare nel pittoresco, c’è un convincimento profondo dove tutto si tiene, memoria e tradizioni, identità e consapevolezza, il tutto riassunto nella cultura e radicato nelle persone, nel territorio. Lo ha chiamato “comunalismo”, la forza dei sindaci e dei territori, in definitiva della gente e dei valori, si deve confrontare con gli interessi generali per trovare un punto di equilibrio. Ma occorre una mentalità nuova, la partenza dal basso con la ricomposizione in alto, previo ascolto e partecipazione per il confronto e la decisione. Ha fatto una promessa, di tornare il prossimo anno, spera con il Ministro delle risorse agricole Zaia.
Non potevamo non chiedergli, al termine, un messaggio particolare per i nostri lettori, dopo avergli manifestato la condivisione per aver messo la cultura al centro dei valori espressi dal territorio. Il suo messaggio, ci ha detto, è che “dietro ogni prodotto, ogni attività, c’è molto di più della lavorazione e della tecnica che lo ha generato, c’è la tradizione e la memoria, l’azione degli amministratori e l’iniziativa dei cittadini, l’economia locale e anche la lingua locale, c’è la cultura”. E come sigillo ci ha dettato lo scritto di Cesare Pavese che rende poeticamente tale concetto: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle case, nella terra, c’è qualcosa di tuo che anche se non ci sei resta ad aspettarti”. Ebbene, oltre a Bra, aspetterà Davico anche Crognaleto.
L’impegno del Commissario al Parco, Diaconale
Ed ecco il Commissario del Parco che viene da vicino, Arturo Diaconale è originario di Montorio al Vomano, abbiamo detto, dove ogni anno c’è la manifestazione “La vetrina del Parco”, anche se la vita professionale di grande giornalista costantemente impegnato sulla trincea dei valori liberali lo ha tenuto lontano dai luoghi nei quali sonno rimaste le sue radici da lui, peraltro, sempre coltivate e che ora sono la maggiore garanzia per una azione appassionata oltre che dinamica ed efficace.
Diaconale ha detto subito di voler cogliere l’occasione per formulare dinanzi alle istituzioni locali presenti i suoi primi orientamenti sulla gestione del Parco dopo la recente nomina. E ha ricordato come nel parco Gran Sasso Monti della Laga, come in tutti gli altro parchi nazionali, la linea seguita in passato è stata “la difesa del territorio con effetti positivi che hanno impedito devastazioni ma hanno incontrato anche le resistenze delle popolazioni locali, perché con la sola conservazione della natura si perde la consapevolezza che ci vivono anche le persone”. E’ seguito subito il nuovo orientamento politico e gestionale: “Va chiusa una fase dell’ambientalismo per aprirne una nuova basata sulla collaborazione con chi vive nel territorio”.
Questa esigenza appare rafforzata dopo il terremoto che induce l’intero Abruzzo, “regione verde d’Europa”, a riflettere su come procedere nella nuova situazione che si è creata. Dove ci sono gli aspetti tragici delle vittime e quelli dolorosi delle sofferenze e delle perduranti tensioni; “ma anche aspetti positivi da considerare, senza che questo possa essere considerato cinismo”.
E li ha così precisati: “Sono caduti alcuni stereotipi sugli abruzzesi che venivano accomunati a un deteriore lassismo meridionalista mentre hanno dimostrato di essere forti e tenaci, dignitosi e capaci. Si sono accesi dei riflettori sulla nostra Regione, finora poco conosciuta, che con il G8 all’Aquila entrerà nelle case di tutti in ogni parte del mondo”.
L’effetto congiunto di questi due aspetti dà opportunità che vanno utilizzate adeguatamente per un rilancio alla grande secondo modelli e dimensioni finora non proponibili: “Il Parco – ecco l’impegno programmatico – svolgerà un’azione di stimolo per iniziative che mantengano piena visibilità alla nostra Regione, aspetto prioritario perché dopo il G8 non ci sia un ritorno al passato”. L’impegno è notevole per una minaccia grave: “Il Parco vuole collaborare con le popolazioni, il pericolo da evitare è che dopo il terremoto si formi una nuova ondata di esodo, e si vada verso il totale spopolamento”. E ha concluso con un’espressione efficace e un impegno preciso: “Una montagna spopolata è una montagna degradata, il Parco intende impedire che ciò avvenga”.
Come con il senatore Davico alla fine della manifestazione abbiamo parlato con il commissario Diaconale, ricordandogli che nella ricerca del Censis sui territori di eccellenza, di cui abbiamo dato conto sulla Rivista, quelli abruzzesi si contano sulle dita di una mano, ma il Gran Sasso figura, forse unico tra tutti, tra gli “eccellenti” in due categorie su tre (nell’accoglienza e nell’innovazione tecnologica, la terza è l’eccellenza produttiva). Grandi sono, quindi, le responsabilità del Parco, che in sostanza ha il “governo” di questo territorio di duplice eccellenza. Ha ribadito che “impegno primario del Parco sarà promuoverlo sul piano nazionale e internazionale. Il solo difetto di questo territorio di eccellenza è di essere poco conosciuto. Questo per raggiungere il risultato più importante a cui l’azione del Parco sarà rivolta, quello di evitare lo spopolamento”. A questo si procederà, ha concluso, “con il diretto coinvolgimento delle istituzioni locali. Oggi è solo l’inizio”.
Il Ministero dei beni e attività culturali, convitato di pietra
Vogliamo collegare le due posizioni, che hanno costituito per noi la piacevole sorpresa, quella del sottosegretario Davico incentrata sulla valorizzazione della cultura del territorio in cui si ricomprendono i suoi valori, compresa la lingua, e le sue produzioni; e questa del Commissario al Parco Diaconale che affida alla visibilità a livello nazionale e internazionale, del territorio ora rivalutato per la sua tenuta di fronte alla tragedia, la possibilità di evitarne il deleterio spopolamento. Ci sembra di poter trovare un denominatore comune nella cultura e nei valori, nelle tradizioni e nella memoria, base dell’identità come matrice positiva e della visibilità come strumento di rilancio.
Ci viene in mente che tutto questo sembra in linea con le tesi elaborate dal Censis, a seguito di accurate indagini di campo nelle realtà territoriali, sulla necessità di un’azione calata sui singoli territori per coglierne le peculiarità che sono risultate, insieme al coinvolgimento delle istituzioni e associazioni locali ritenuto necessario anche da Diaconale, il maggiore fattore di resistenza alla crisi, anche nei territori che non rientrano tra le “eccellenze” nella produzione, nell’accoglienza, nell’innovazione tecnologica.
E ci sembra in linea anche con il nuovo orientamento del Ministero dei Beni e Attività culturali, chiamato in causa dal senatore Davico, di spostare l’interesse dalla difesa statica dei “beni” alla promozione dinamica delle “attività” culturali, anche attraverso la loro “circolazione”. Di esse fanno parte le attività alle quali il sottosegretario si riferiva, riassunte in ciò che è espressione delle tradizioni a loro volta prodotto della cultura di un popolo; e anche la visibilità nazionale e internazionale richiesta dal Commissario al Parco Diaconale richiede la promozione di tali attività affinché possano “circolare”, come si è fatto con la mostra itinerante negli Usa del “Trittico del Maestro di Beffi” per la raccolta dei fondi in aiuto ai terremotati d’Abruzzo.
L’impostazione del Ministero non è soltanto un orientamento astratto, si è concretizzata proprio nei mesi successivi al terremoto in tante iniziative di ampio respiro, come la Giornata della musica popolare che ha visto a Roma, nella cornice di Piazza di Spagna, corali, bande musicali e gruppo folklorici da ogni parte d’Italia (quattro dalla zona terremotata dell’aquilano) seguita dalla Giornata delle diversità culturali, e dalla Giornata della musica, sulla base del concetto della “circolazione” e del confronto tra identità come premessa a un accrescimento culturale nell’interesse di tutti.
Se questa costruzione non é instabile e velleitaria si potrebbe fare della montagna abruzzese, che ha nel Gran Sasso la fascia di eccellenza riconosciuta dal Censis, il territorio nel quale calare in termini operativi gli orientamenti appena esposti tenendo conto che si dispone di uno strumento straordinario di governo come il Parco Nazionale in aggiunta alle istituzioni locali che agiscono in sintonia e con un coinvolgimento continuo.
Il tavolo degli oratori all’incontro conclusivo a Piano Roseto ne era la manifestazione visiva, le dichiarazioni d’intenti collaborativi l’intento espresso. C’erano rappresentati, oltre alla Camera di Commercio di Teramo, organizzatrice, con il suo presidente che ha diretto i lavori, e quella dell’Aquila, la Regione, la Provincia, il Comune e l’Università di Teramo – con il prof. Carluccio che ha chiesto espressamente di utililizzarne le competenze di eccellenza in particolare nella Veterinaria – nonché il Prefetto dott. Camerino, che ha simpaticamente ricordato le sue origini foggiane e come la sua terra sia di pianura ma anche di montagna con l’Appennino Dauno, e fosse legata all’Abruzzo dall’atavica transumanza.
C’erano anche Zachetti del B.I.M., Di Pasquale del Consorzio agrario provinciale, Di Pietro del Ruzzo reti, e tanti rappresentanti di Associazioni professionali e di categoria.
I presupposti dunque ci sono, per quel coinvolgimento che fa la forza di un territorio, e la volontà politica anche, lo abbiamo registrato dagli impegni assunti. Ora occorre partire con un programma concreto. E’ troppo chiederlo ai protagonisti dell’incontro e al convitato di pietra evocato da Davico? Da parte nostra ci impegniamo a seguire attentamente, e appassionatamente diremmo, quanto verrà promosso, e anche quanto dovesse venire omesso, e a darne conto ai lettori.
Lo svolgimento della manifestazione a Piano Roseto, una festa popolare.
L’attenzione che abbiamo dedicato alle due “sorprese” non deve far pensare che si sia riassunta in esse la sostanza della festa, tutt’altro. Perché entrambe convergono nel porre in primo piano, anche rispetto alle bellezze naturali, figurarsi ai discorsi politici, la gente con le sue tradizioni e le sue memorie, insomma la sua cultura. Che si esprime a livello popolare sotto tutti gli aspetti che la rendono riconoscibile, anche identitaria ma aperta al confronto fecondo e alla contaminazione reciproca.
E come si esprime lo abbiamo visto all’opera in una giornata in certi momenti di tregenda per il temporale che si scatenava a tratti e la nebbia che avrebbe raffreddato ogni entusiasmo. Non l’entusiasmo dei convenuti alla Fiera della Pastorizia. Un territorio senza la sua gente è “bello senz’anima” come scrivemmo al precedente Presidente del Parco senza ottenere risposta, e oggi l’anima è emersa in una passione e vitalità che ha vinto anche le intemperie. Ma “la montagna è anche questo”, è stato detto, anzi “la montagna è questa”. E bisogna essere forti e fieri che sia così.
Non di solo entusiasmo si è trattato e neppure di una semplice festa ma di una consacrazione. Del lavoro compiuto nell’anno, espresso dagli splendidi esemplari ovini raggruppati in un gran numero di stazzi con le iniziali marchiate sulla lana e intorno i protagonisti dei loro allevamenti. Ci vorrebbe una competenza specifica per valutarli oppure più tempo per cercare testimonianze, ma non sarebbe neppure il momento, sono impegnati vuoi nelle discussioni e contrattazioni, vuoi negli attestati ai più meritevoli, ricevuti dopo le valutazioni dell’apposita commissione in una lunga giornata iniziata alle sei del mattino, vuoi in libagioni e pasti calorici per scacciare il freddo della nebbia.
Ci basta rendere conto della manifestazione nei suoi aspetti popolari, con un’organizzazione che è riuscita a sopperire al repentino mutamento delle condizioni climatiche con presidi e accorgimenti di emergenza che hanno consentito di attuare il programma prefissato. Un vero miracolo tenendo conto che non c’era alcun presidio fisso ma solo le tende e le strutture apposite montate per l’occasione e forzatamente precarie.
Una fila ininterrotta di “stand” ciascuno dei quali presentava una produzione tipica con esposizione e succulenti assaggi rappresentava la lunghissima quinta laterale della grande rappresentazione. Il campo era occupato dagli stazzi degli ovini selezionati e non mancavano i richiami comuni alle feste popolari: il complessino con costume e musica tradizionali, le rivendite presenti in ogni fiera e manifestazione, tutti elementi che concorrono al carattere popolare e per questo non vanno sottovalutati ma al contrario valorizzati.
I posti di ristoro, pur nella situazione di emergenza data dagli scrosci di un acquazzone intermittente ma pervicace hanno funzionato bene, gli arrosticini come le porchette, i formaggi come i vini, venivano sfornati in continuità e gli equilibrismi tra le zolle verdi e il fango dilagante riuscivano miracolosamente, anche per l’uso di provvidenziali passerelle come per l’acqua alta a Venezia.
Nessuno scoramento, nessuno sbandamento né da parte di chi forniva i servizi in condizioni difficili né da parte di chi ne usufruiva esposto all’inclemenza del tempo. La consolazione per tutti era la frase che abbiamo già riportato – detta anche dal sindaco di Crognaleto nel suo pur breve intervento, iniziato nel diluvio e concluso nel sole – “questa è la montagna”, che riportava a normalità quella che aveva tutta l’aria di essere un’emergenza. E nella normalità della montagna che può essere inclemente ci si adattava con pazienza chiamando a raccolta le doti di inventiva e l’arte di arrangiarsi; e anche la solidarietà e la collaborazione nel dividersi panche e tavoli divenuti poco affidabili e poco gestibili ma ciononostante utilizzati al meglio senza incidenti.
Un’altra manifestazione, per fortuna dinanzi a un’inclemenza della natura del tutto innocua, di quel carattere forte e dignitoso che sa affrontare le avversità, balzato in tutta evidenza con il sisma distruttivo e che siamo certi si manifesterà anche nella ricostruzione alla ripresa di una vita normale.
Photo (aggiornamento)
Le immagini non riguardano la 151^ manifestazione del luglio 2009 di cui all’articolo, ma le Fiere successive e sono state inserite in questa ripubblicazione a titolo illustrativo, essendosi perdute le immagini di allora nel passaggio dell’articolo da un sito all’altro. Sono tratte dai siti web sotto indicati di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta con la loro documentazone pubblica. L’inserimento non ha alcun intento economico o pubblicitario, e se la pubblicazione di qualche immagine non è gradita ai titolari dei siti da cui è stata tratta basta comunicarlo e sarà immediatamente eliminata. Ecco i siti nell’ordine di successione delle immagini: Il Centro, abruzzo city rumors, abruzzo live, habitual tourist, espression 24, virtù quotidiane, habittual tourist, habitual tourist, life in Abruzzo, abruzzo web, il Faro, abruzzo city rumors, you tube 2013, testimone news, ekuonews, il Centro, l’Aquila blog, Teramo news, virtù quotidiane, Teramo news, tg Abruzzo 24, Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, il Giornale di Montesilvano a Pescara. Grazie di nuovo a tutti.
Abbiamo dato conto in precedenza dell’accurata analisi linguistica sul “pretarolo”, l’idioma di Pietracamela – il borgo montano a 1005 metri di altitudine alle falde del Gran Sasso d’Italia, dal 2008 nel Club dei “borghi più belli d’Italia”, contenuta nel libro dal titolo evocativo “La lingua degna” , a cura di Giovanni Agresti (direttore della ricerca), Graziano Mirichigni, Silvia Pallini. La ricerca, condotta con criteri scientifici, è basata soprattutto sulla raccolta dei versi in “pretarolo” di una paesana, Ginevra Bartolomei, “la Gina”, di indubbio talento e forte vitalità, che esprime l’anima popolare in vicende e situazioni ambientali anche estreme, nell’arco del secolo scorso in cui è vissuta tra il duro lavoro per la sopravvivenza e le stagioni inclementi, con una parentesi quinquennale di emigrazione in Canada dove, meno impegnata rispetto a com’era in paese, ha cominciato ad esprimersi in versi poetici all’età di quasi 50 anni e non ha smesso fino alla sua scomparsa nel 2007 all’età di 98 anni. Ricordiamo che le sue poesie, dal valore popolare e identitario, hanno ispirato l’artista Mara Di Giammatteo per i suoi lavori e allestimenti di arte conteporanea attraverso l’antica arte della tessitura e del ricamo presentati nella mostra “Rapsodikòs” inaugurata a Bruxelles, nella sede della Regione Abruzzo, il 4 giugno 2024; insieme alla mostra è stato presentato il libro citato con l’intervento del sindaco di Pietracamela Antonio Villani e degli autori. Lo abbiamo scritto nel primo articolo pubblicato il 3 giugno u. s. , ma ci sembra opportuno ripeterlo per inquadrare compiutamente i riflessi che ha l’opera della poetessa, come premessa a una sommaria antologia delle sue espressioni poetiche: queste non solo rievocano i costumi di una volta nel borgo montano isolato tra mille difficoltà e le situazioni cui si doveva far fronte con tanta determinazione – con la parentesi canadese – ma rappresentano anche una introspezione sulla intemerata e incrollabile devozione religiosa e i pensieri dell’età avanzata, vissuta con serena, disincantata accettazione.
Il commento letterario di Silvia Pallini si apre evidenziando otto raggruppamenti tematici delle poesie della “Gina”, da quelle sul paese natio, isolando i componimenti sul lavoro in campagna e gli eventi atmosferici inattesi, la mancanza dell’acqua e gli aneddoti, fino al periodo canadese, alle poesie sulla devozione religiosa e sull’età avanzata: quindi i costumi e le difficoltà da un lato, le interiorità religiose e umane dall’altro, come sopra accennato. E compie una carrellata sui contenuti dei versi valorizzando l’importanza di una testimone così sensibile e attenta nel cogliere tanti aspetti significativi della vita di una volta nell’intrecciarsi con la modernità che suscitano riflessioni spontanee da filosofia popolare provenienti dalla sensibilità della poetessa la quale non le considera riservate a se stessa, le offre a chi si sente di condividerle, e lo fa spesso in apertura o chiusura dei suoi componimenti.
Nelle conclusioni la Pallini evidenzia la presenza nelle poesie spontanee e apparentemente semplici di figure retoriche come la “metonimia”, il “tropo”, l'”apostrofe”, di alterazioni morfologiche come l'”apocope”, la ricerca delle rime, “baciate” o “alternate” ma spesso “imperfette”, con “assonanze e consonanze” , l’attenzione alla “cadenza ritmica del verso”, fino all’invito finale a leggere i suoi componimenti. Per questo, oltre che di vitalità e sensibilità si deve parlare di talento di una testimone che diventa anche una “icona” popolare da ammirare e non dimenticare.
Per parte nostra intendiamo spigolare “fior da fiore” nelle sue poesie, la cui continuità fa rivivere un periodo molto lungo caratterizzato da cambiamenti vistosi in condizioni difficili come quelle in cui si è svolta la sua vita. Rivivere e rievocare il secolo scorso con i versi della poetessa è non solo istruttivo, ma anche quanto mai emozionante. I due terzi delle poesie sono in italiano, per lo più in quartine, salvo alcune in distici, un terzo in “pretarolo”, che riporteremo nella versione italiana operata nel libro, per ovvi motivi di comprensione e trascrizione. Sceglieremo una serie di poesie significative come le tante nel “corpus” delle 105 contenute nel libro, riportandole in qualche caso integralmente senza stralci od omissioni di versi per non interferire nell’espressione poetica della “Gina”, negli altri casi per brevità abbiamo “saltato” alcune parti evidenziandolo con i puntini di sospensione.
Il paese, Pietracamela, con i Prati di Tivo
Iniziamo riportando integralmente la poesia più lunga, circa 100 versi in 26 quartine:, un affresco della vita nel suo paese tra i ricordi di una vita difficile e i radicali cambiamenti nel tempo con il rovescio della medaglia: “Come in un riassunto ho voluto fare/ Di Pietracamela un po’ voglio parlare/ Del nostro bel paesello natìo/ Vi dirò tutto ciò che ricordo io. // Chi ha più anni certo lo sa meglio/ Io ricordo questo in tutto il tempo/ Com’era prima e com’è diventato/ Case e strade tutte accomodate// Ora incomincio subito a raccontare/ Tutto quello che s’è dovuto penare/ Per andare a Montorio a fare la spesa/ Diciotto chilometri tutti a piedi.// Diciotto solo con l’andata/ Altrettanti se ne facevano al ritorno/ In testa si portava un gran peso/ Erano strapazzi nessuno lo crede.” Segue il confronto con il progresso. “Quando ci fecero la strada maestra/ Oh che bella comodità è questa/ A tale cosa non ci si pensava/ Con la macchina dappertutto puoi andare// La strada a Intermesoli, a Collepiano/ Da Pietracamela ai Prati di Tivo/ Non dobbiamo mai cessare / Nostro Signore di ringraziare”.
Ma non è soltanto questo, con la modernità è cambiata la vita quotidiana: “Ora le comodità ne sono troppe/ Quant’era brutto a girar di notte/ Prima non c’era proprio niente/ Dovevi portar sempre la lanterna. // Quant’era brutto pure nella casa/ Si teneva un lampioncino acceso/ Nel fuoco si metteva la legna bianca/ Pur ci faceva luce la bella fiamma.// Quando ti occorreva l’acqua/ Si andava alla fontana con la conca/ Adesso acqua e luce tutto in casa/ E più tutto il paese illuminato.// L’acqua ci rimaneva pur lontana/ Poi ogni tanto entro il paese fecero le fontane/ Anzi più di una se ne hanno or nelle case/ Le povere fontane fuori abbandonate. // A pochi passi dalla vecchia fontana/ C’era il lavatoio dove si lavava/ Tutti là, l’estate e l’inverno/ Adesso non si riconosce più niente.// A fianco a questa ancora c’è la bella chiesina/ Chiamata la Madonna del Col Mulino/ Tutta pericolante lesionata/ Ma della Vergine è intatto il quadro.” Ora è divenuta un rudere distrutto, ma il quadro della Vergine resta intatto. Nel ricordo la chiesetta torna a vivere: “Quando la campanella suonava/ Ciò che si stava facendo si lasciava/ Tutto correvano, uomini e donne/ Si ridice la messa alla Madonna.” E il pensiero si sposta più avanti, al vecchio mulino sul torrente del quale restano solo i ruderi di due arcate: “Quando si andava a macinare/ Il mulino era distante assai/ Ora il mulino non è più presente/ E nemmeno l’acqua correre si sente.”
E’ unodei danni collaterali della modernità, il prelievo dell’acqua dai torrenti per la centrale elettrica: “Tutta quella ch’era il rio Arno/ E pure tutto il Rio della piazza/ Gli era necessaria e fu levata/ Per comodità di luce a noi data. // Passando in piazza alzavi in su gli occhi/ Vedevi le belle tre croci esposte/ Ora a che punto s’era arrivato/ Pure il Monte Calvario disprezzato.// E delle belle tre croci i pezzi/ Chi buttati a sinistra chi a destra/ Poi la fecero una grande di ferro/ Son parecchi anni giace ancora per terra.// Ed il buon padre Archimede/ Su tutto questo ebbe molta fede/ Chiamò i giovani al lavoro/ E rimisero le tre croci di nuovo.”
Quindi non manca di sottolineare le sue delusioni, pur nella soddisfazione per il progresso che ha trasformato le condizioni di vita si rende conto che chi non ha vissuto le difficoltà dei suoi tempi non può capire: “Quando si riparla del passato/ La gioventù si fa delle risate/Perché loro non ci si son trovati/ Credono sempre che così sia stato. //Loro nel nuovo mondo sono nati/ Mentre noi abbiamo tribolato/ La carne solo a Natale e a Pasqua/ Adesso è rifiutata pur da cani e gatti.// A quell’epoca tutti i capo famiglia/ Per sostenere la moglie ed i figli/ Partivano ed andavano lontano/ Per paesi e città cardando la lana.” Un rapido sguardo alla nuova vita: “Qualche novità prima sul giornale/ Ma alle cose buone non gli si dice male/ Nel mondo che ci troviamo ora/ Si sa tutto per radio e per televisione.” L’osservazione si ferma su un fenomeno epocale che l’ha riguardata personalmente: “Quand’era tutto in buone condizioni/ Subito si sviluppò l’emigrazione/D’allora in poi quanti ne son partiti/ Ognuno ha voluto migliorar vita.” Con queste conseguenze che non sfuggono al suo sguardo attento: “Le vecchie case che hanno lasciate/ Tutti i forestieri l’han comprate/ Come palazzi son già accomodate/ Per venirci l’inverno, ma più l’estate.” Poi la riflessione amara, subito temperata dall’accettazione fatalista. “Se ritornassero quei poveri vecchi / Ma come è avvenuto tutto questo?/ Pure un proverbio a tutti ce lo impara/ Ci dice campa se vuoi ricordare.” Infine la conclusione: “E ormai si deve far finita/ E’ stato troppo non più altro vi dico/ Già tutto quello che ho pensato l’ho detto/ Adesso basta mi fermo su questo.”
Ha detto veramente tutto sulla vita nel suo paese, ma prima di fermarci anche noi , vogliamo citare altre riflessioni e ricordi altrettanto significativi sui Prati di Tivo, il vasto declivio erboso a 6 Km dal paese, 1450 metri di altitudine, congiunto in alto alla catena montuosa dl Gran Sasso: “Come già tutti sappiamo/ Si sono sviluppati in tal maniera/ Che tutto quello che c’è adesso/ Sicuro prima non c’era.// Io che ho l’età molto avanzata/ Perciò ricordo bene gli anni passati/ Solamente quando si falciava/ Delle persone ce n’erano assai.// E voglio ripeterlo di nuovo/ Mentre si falciavano i Prati di Tivo/ Allora la bella gioventù/ Faceva un po’ d’allegria.// Però si davano tutti da fare/ Chi aveva la bestia, chi in testa/ Si doveva trasportare il fieno/ E far viaggi da mattina a sera.// Finiti questi lavori, finito tutto/Non c’era più niente/ Soltanto noi donne/ Qualche volta per un fascio di legna.// Poi se ci si andavano a pascolare/ Delle mucche e pecorelle/ Adesso per fortuna/ Son finite pure quelle.// A pascolar ci vanno/ Ora qualche pecoraio/ Ma dai Prati di Tivo/ Devono stare lontani assai” // … “Or le comodità ci sono tutte/ Divertimenti, ciò che vuoi fare/ D’inverno la sciovia per sciare/ Eppur la segiovia puoi volare.// C’è un gran traffico di macchine/ nei giorni feriali e più nei festivi/ Fanno come le formiche/ Chi riparte e chi arriva. // Da parecchie città lontane / Venivano dei gran signori/ Non siam stati più niente noi/ Son diventati padroni loro.”//….Perciò ci vanno i ricchi signori/ Vedendo quello gli si rallegra il cuore/ Ma ora sentite questo che vi dico/ E’ in terra, non più in cielo il Paradiso”. Si riferisce al nuovo lussuoso grande albergo, anche se non manca di lamentarsi dei danni dell’affollamento: “Solo una cosa mi dispiace/ Tutti i prati l’hanno massacrati/ Non v’è posto dove non son passati/ Questo è un problema senza risultati.”
La vita in Canada, negli anni da emigrata
Dalla vita in paese con i suoi radicali cambiamenti alla vita del tutto diversa nella parentesi canadese, ecco le sue espressioni in una poesia molto gustosa e per molti versi sorprendente: “Mi dicono povera Gina senza lavoro/ Sta sempre dentro casa e fa le canzoni/ Sì, fo le canzoni e pure le storie/ E adopero tutta la mia memoria.// Quando sono a casa / E non devo far niente/ Scrivo un po’/ e mi passa il tempo.// Per trovare lavoro/ ho girato parecchio/ ma non prendono le giovani/ figuratevi una vecchia.// Così lo posso dire/ Con piena ragione/ Che son venuta in America/ E fo la signora.// In Italia/ Non avevo tempo/ Farmi la croce/ Mentre qua, dormo e mi riposo.// E ringrazio Iddio/ Di questa cuccagna/ Che benché non lavoro/ Si beve e si mangia// Lo dice pure il proverbio/ Ed è cosa vera/ Che chi lavora mangia/ E chi no, mangia e beve.”
Ma non è così per tutti la mancanza di lavoro, descrive l’altra faccia dell’emigrazione in un’altra poesia: “Da tutte le parti/ Non soltanto dall’Italia/ Per venir qua/ Fanno la voglia grande.// E nemmeno partire con la nave/ Per far più presto/ Preferiscono volare.// Vendono tutto/Case e poderi/Arrivati qua/ Non si trovano bene.// E neanche/ Il figlio al padre crede/ Ognuno vuole/ Metterci il piede.// Alcuni stavano/ Discretamente/ Ed ora riempiono/ Toronto di bestemmie.// Non solo i vecchi/ Ma pure i giovani fan compassione/ Vedendoli sempre in giro/ In cerca di lavoro.// Non c’è persona / Che non si sente lamentare/ Che ogni giorno gli arrivano/ I billi da pagare.// Ma tutti e sempre tirano a venire/ E dopo dieci giorni/ Vorrebbero ripartire.// Somiglia alla favola/ Del nostro calderone/ Che tutti volevano/ Mangiare i maccheroni. //Qui soltanto/ Chi lavora sta bene/ Ma tanta povera gente/ Soffrono le pene.// Perciò, si chiama fortuna/ Ed è come un ruota questa/ C’è a chi gira a diritto/ E chi al rovescio.// Ma li mondo per il passato/ Sempre così è stato/ E ancor vi sarà/ Lo ricorda benissimo colui che vivrà.”
In un’altra poesia insiste sulla difficoltà di trovare lavoro e va oltre: … “Tutti hanno diritto/ un po’ di lavorare/ contentarsi pur di poco/ non se ne chiede assai.// Se in Italia delle volte/ succedeva di non aver niente/ andavi in bottega/ ti facevano credenza.//Credenza qua non si usa/ devi uscir sempre con i soldi in mano/ e non sia mai se mancassero/ ti puoi morir di fame. // Si dice che una donna/ andò a far la spesa/ poi non si poté pagare/ e glie se la ripresero // Sentire tale cosa/ fa proprio compassione/ forse simile a questa/ non v’è altra nazione.”
A parte le riflessioni amare sulla vita degli emigrati, non manca di criticare la vita dei canadesi con il suo spirito di osservazione penetrante e la sua sincerità disarmante: “Chi dice bella a questa terra/ forse gli manca un po’ di cervello/ La nostra Italia non ha paragone/ Solo a mirare i bei palazzoni. // Le case di qua sono belle solo dentro/ Che l’inverno ci fa caldo invece del freddo/ Sono tutte di legno sì, mandano calore/ Ma ogni momento ti trema il cuore. // A chiunque sembra al fronte stare/ Che da ogni parte si sente suonare/ I poveri pompieri non hanno pace/ Correndo notte e giorno, smorzando le case. // Mentre da noi una sola paura/ Pregando Sant’Emidio che ci regga le mura/ Un’altra cosa vi voglio notare/ Di tutta la gente che va a lavorare // La sera tornndo mezzo storpiati/ Se devono parlare non hanno il fiato/ Son come soldati che vanno alla guerra/ Ogni mattina gli suona la sveglia // Chi dice che questa è una menzogna/ Commette due cose, peccato e vergogna/ Perchè la persona si deve strapazzare/ Per tanto poco che ci resta da campare // Lavorano la Pasqua, ed il Natale/ Si credono di far bene mentre fanno male/ Non riguardano feste nè piccole, nè grandi/ Oh forse pernsano che gli altri muoiono loro campano //Se si seguita così/ Si campa davvero poco/ E nessuno si gode/ Un’ora di riposo.” Detto da lei – che come le altre donne del paese a Pietracamela portava più volte al giorno in testa fascine di legna dai Prati di Tivo e grossi pesi sempre in testa nella costruzione della strada da Ponte Arno, secondo il suo racconto – fa capire come senta molto diverso lo spirito nel lavoro libero all’aria aperta rispetto alla costrizione forzata che vede in Canada.
In questo c’è anche nostalgia, e quando il parroco di Pietracamela don Andrea andò a Toronto in visita ai paesani emigrati, gli dedicò una poesia con espressioni di gioia: …“Appena dell’arrivo noi sapemmo/ Come valanga ci precipitammo…. // Bene accolto il prete e compagnia/ Si bevvero bicchieri in allegria. // Mentre noi allegri si cantava/ il Parroco di gioia lacrimava. // Il bello venne il giorno seguente/ Vedendo l’affluir di tanta gente. // In quella chiesa, da noi onorata,/ di S. Gabriele dell’Addolorata. // Per le parole che disse dall’altare,/ molti di noi dovemmo lacrimare. // Dal popolo lo ebbero gli onori/ I quattro o cinque organizzatori. // Che nella grande sala per rispetto/ Fu servito anche un buon banchetto. // Soddisfatti e con piena armonia/ Ognun di casa prese la via”….
La devozione religiosa
Dalle osservazioni esteriori, pur esse intense e appassionate, sul paese e sull’emigrazione, con l’evocazione di S. Gabriele, passiamo ai suoi sentimenti interiori cominciando dalla devozione religiosa, per poi concludere con i pensieri nell’età avanzata, attingendo, sempre “fior da fiore”, dalle poesie, quando sono in “pretarolo” le citiamo forzatamente nella versione italiana. Un quinto del suo “corpus” poetico è ispirato dalla religiosità, spicca l’invocazione a Gesù Cristo nella maggior parte delle poesie. E’ molto sentita la devozione per la Madonnina del Gran Sasso, la cui festa si celebra ogni anno la prima domenica di agosto, con il pellegrinaggio e la messa ai 2000 metri, la statua è in una nicchia all’inizio della salita verso il Rifugio Franchetti e poi Corno Grande.
Ecco la cronaca serena del pellegrinaggio del 5 agosto: “Alle nove del mattino/ partì la bella comnpagnia/ piano, piano, di buon passo/ sulla Madonnina del Gran Sasso.//…. “Il sacerdote andava avanti/ portava la croce/ e l’auto parlante/ per far sentir meglio la voce. // Quelli che aspettavamo/ tutti in allegria/ con un batter di mani/ gridam Viva Maria. // Loro senza sentir stanchezza/ tutti contenti ed orgogliosi/ ringraziarono la Vergine/ e poi fecero riposo. // Fu una bella giornata/ con messe, canti, e preghiere/ dalla mattina alla sera/ alla nostra madre del cielo. // Del Gran Sasso/ Vergine bella/ sei per noi/ fulgida stella.” La invoca anche negli anni in Canada come “la Bianca Castellana”. “Ai piedi del Gran Sasso/ Dentro una capannina/ C’è la Vergine Maria/ Col suo divin figliuol. // O bianca castellana/ Vergine santa e bella/ Sei la fulgida stella/ Che rallegri i nostri cuor. // Appena spunta il sole/ Indora le colline/ Ma la bellezza tua Maria/ Illumina terra e ciel.// Ogni anno in compagnia/ A visitarti venivamo/ Ed ora si troviam lontano/ Non si vedremo più. // Ma questa lontananza/ E’ soltanto di persona/ Però il nostro pensiero/ Non si allontana da te.// Nei nostri bisogni/ T’invochiamo O Maria/ Madre nostra e di Dio/ Solo tu ci puoi salvar. // Sei la madre del cielo/ Miracolosa e vera/ E non vi è chi non spera/ Poter stare vicino a te. // Apriteci le porte/ Venire in paradiso/ Restar con te e con Gesù uniti/ Per tutta l’eternità”. In un’altra poesia in “pretarolo” si rivolge a lei chiedendole aiuto e non per se stessa: “O Madonna del Gran Sasso/ aiutaci tutti/ perché ci troviamo proprio/ in un mondo difficile. // Tra terremoti e guerre/ è davvero un disastro/ Vergine benedetta/ noi per tutti preghiamo. // Dinanzi a te, Madonna/ davvero di cuore/ mamma nostra del cielo/ abbi pietà del mondo intero.”
E poi San Gabriele, il cui santuario in basso nella vallata che si domina da Cima Alta è meta di incessanti visite di pellegrini, anche qui il pensiero devoto negli anni in Canada con l’accorato appello mosso dalla struggente nostalgia per il paese lontano: . “O S. Gabriele puro e sincero/ Facci ritornare a Pietracamela/ Facci tornare, facci tornare/ Per venirti a visitare. // Quand’eravamo al paese natìo/ La contentezza mai finiva / Quand’eravamo al paese nostro/ A qualunque festa venivam di corsa // Durante il cammino si cantavano/ Per te O S. Gabriele le preci più care/ Si recitavano rosari e preghiere/ tutte in onore a te O S. Gabriele // Ed affrettando il passo/ Si giungeva ad Isola del Gran Sasso/ Arrivati al convento che meraviglia/ S. Gabriele sembrava un giglio //Ed a sinistra c’è il tesoro/ S. Gabriele più bello di un fiore/ Quelle nobil feste che si facevano/ Sembrava a tutti trovarsi sul cielo // Ora forse il destino così ha voluto/ Qui tutti in america ci siamo perduti/ Da che vi abbiam lasciato ci sembra tanto/ Mentre è poco più di un anno// Datosi che ora qua ci troviamo/ S. Gabriele ci devi aiutar/ Nella mia famiglia d’amici e parenti/ S. Gabriele guardaci sempre // E se il signore salute ci dà/ Speriamo un giorno poter ritornar/ Di cuore preghiamo te e Iddio/ Tornando al paese con tanta allegria // Di grazie e miracoli è pien terra e cielo/ Tutti ti onorano O S. Gabriele”. Speranza esaudita, dopo quattro anni tornerà all’amato paese natìo.
Dedica una cronaca serena, con una notazione semplice e intrigante, alla festa del patrono san Leucio cui è intitolata la chiesa madre: “Domenica otto Luglio/ si fece la festicciola/ in onore di S. Leucio/ nostro Protettore. // Senza fuochi artificiali/ nemmeno la banda/ suonarono le campane/ a festa tutte quante. // La solenne messa/ la bella processione/ sia sempre ringraziato/ il nostro Protettore. // Se si chiamano i cantanti/ vogliono i milioni/ noi senza spendere niente/ cantammo tante canzoni. // Con il suon della chitarra/ e con il mandolino/ tutta la popolazione/ stemmo in allegria. // Finito tutto questo/ ci fu pure il rinfresco /offerto da don Marco/ e completammo la festa. // Con i ringraziamenti/ infiniti/ andammo tutti a casa/ contenti e felici.”
Ed ecco come parla del nuovo parroco don Marco dopo il suo arrivo: “Oh miei cari paesani/ ringraziamo di vero cuore/ il Signore/ che ci ha mandato il nuovo pastore. // Noi siamo le sue pecorelle/ dobbiam cambiar pure/ non essere/ sempre quelle.// Quando predica/ la sua parola/ ci riempie il cuore/ di gioia. // Però non è/ da tutti ascoltarla/ chi rimane fuori/ chi in piazza, e chi dentro casa. // Se si vedono/ un po’ più persone/ la sera del Venerdì Santo/ e la festa del protettore. // Specie quando/ ci sono gli sposi/ non son soltanto io/ siamo tutti curiosi. // Chissà Don Marco/ se rimase contento/ sabato sera/ della nostra accoglienza. // Credo che a tutti/ come a me/ fece bella impressione/ conoscemmo pure i suoi genitori. // Sono buone persone tutti lo dicono/ e che il Signore li benedica. Quando don Marco si assenta per una lunga missione scrive un appello accorato: …. “Da chiunque si sente/ Don Marco nominare/ i nostri occhi/ cominciano a lacrimare. // Lo Spirito Santo ci ha messo/ in mente queste parole/ così noi tutti preghiamo/ con l’anima e con il cuore. // Dio mio aiutalo/ durante la missione/ e fa che sano e salvo/ riviene in mezzo a noi. // Siam poche persone/ in chiesa la sera/ ma diciamo sempre/ questa breve preghiera. // Recitiamo insieme/ un pater ave gloria/ ed aspettiamo con gioia/ il suo buon ritorno.”
Il parroco cambia ancora, arriva il giovane don Filippo Lanci, gli dedica subito due poesie in “pretarolo”, non più in quartine ma in distici: “Grazie di cuore, Signore/ che qui a Pietracamela abbiamo il nuovo pastore. // Saluta, è buono, bravo veramente/ quando predica rimaniamo tutti contenti. // Però, ci dispiace molto/ che deve servire quattro parrocchie. // Che Dio lo benedica/ gli auguriamo tanta salute e lunga vita”. E dopo due anni: “O Don Fili, ca volevi la poesia in dialetto/ eccola già sta scritta su questo foglietto. // Leggila credo che ti piace/ dico tutta la verità niente inventato. // Gesù Cristo lo sa, la gioia che provasti/ la prima volta che la santa messa cantasti. // In chiesa tutta la popolazione, il vescovo/ i preti, il fratello e i genitori. //Come passa il tempo – se Dio vuole/ il trenta Ottobre sono giusto due anni./ Sei giovane, bello, che Dio ti benedica/ qualsiasi persona che vedi subito la saluti. // Quando predichi quelle belle parole/ ci si rallegra a tutti il cuore. // Ma a servire quattro parrocchie/ il povero cervello lavora troppo. // Dicesti che pure la scuola fai/ o per una cosa, o per un’altra non ti fermi mai. // Penso, ripenso, ma da dire non so più niente/ la cosa, pensata e scritta, la poesia qui finisce.”
La devozione le fa chiedere spesso aiuto al Signore, con espressioni anche ingenue ma fortemente sentite, per risolvere i suoi problemi personali e soprattutto familiari, oltre a quelli di tutti. “O Gesù Cristo/ sia tu benedetto/ da tutta questa neve/ liberaci il tetto. // Fa che ci cade/ come facciamo?/ tu lo sai/ come ci troviamo. //Graziano è studente/ Paola poco bene si sente/ a Giovannino duole il braccio/ io ho 83 anni, sono vecchia. // O Gesù Cristo/ aiutaci sempre/ dacci un po’ di salute/ non farci succedere niente”. E la devozione la fa anche ringraziare: “Ringrazio infinitamente Dio/ la Madonna, e tutti i Santi/ per quanto ho camminato/ in questi ottantaquattro anni // La mia povera testa/ quanto peso ha portato!/ Le mie povere braccia/ quanto hanno lavorato! // (Un bel proverbio dice/ tutto ha fine) // Adesso m’è rimasta/ quella cosa che tutti dobbiamo fare/ è quella che si parte/ e non si può più ritornare.” L’età si fa sentire, ma non le dà apprensione, la affronta con fiducia affidandosi al Signore, anche le poesie su se stessa si chiudono quasi sempre con espressioni di intensa devozione religiosa.
La vita personale, i pensieri nell’età avanzata
Riflette serenamente sulla vita, in particolare nell’età avanzata, ed esprime poeticamente i propri sentimenti interiori in almeno venti poesie, ne citeremo soltanto alcune. Eccone una nella quale fa un primo bilancio della sua vita: “Quando avevo quarantotto anni/ sulla mezza età, né giovane, né vecchia ero/ ma soltanto su cose necessarie/ qualche lettera scrivevo. // Mai, e poi mai, chi c’avrebbe pensato/ che in Canada sarei andata/ partimmo tutti insieme, la famiglia/ noi genitori e i due figli. // Con cinque anni di emigrazione/ neppure uno ne feci di lavori/ pochi giorni in fabbrica, un po’ più nella campagna/ ma risultava pochissimo guadagno.// Su qualsiasi parte mi presentavo/ mi dicevan che ero troppo anziana/ Per passare il tempo, come facevo?/ Prendevo penna e carta, e scrivevo. // Parecchie poesie feci in Canada/ e di tutte le specie le ho fatte qua/ e chiunque le poesie sente/ ci rimane assai contento. // Sto per compiere settantasette anni/ mi dicon son pochi, a me sembrano tanti/ vi dico questo: ho cominciato a pensare/ che m’è rimasto poco da campare. // Ho trascorso tutti quest’anni/ in buona salute e pochi malanni/ di vero cuore ringrazio Iddio/ e qui finisce la mia poesia”.
Dopo otto anni scrive. “Grazie a Dio/ non mi lamento/ perché fin’ora/ nessun dolore mi sento. // Solo quando cammino/ le ginocchia sembrano legate/ forse quand’ero giovane / con il troppo peso furono sforzate. // Portando in testa/ mezzo quintale/ credo non era tanto facile/ poter bene camminare. // Ottantacinque anni già compiuti/ è l’età molto avanzata/ dunque questo non è proprio niente/ ringrazio Iddio infinitamente”. In un’altra poesia in “pretarolo” si rivolge direttamente alle gambe: “Ieri mattina/mentre andavo a messa/ alle gambe volli dire questo. // Ma che siate/ benedette le gambe/ perché non camminate come nel passato/ pure adesso nel presente? // Veloce, veloce/ mi diedi la risposta/ ci siamo fatte vecchie e/ non abbiamo più la forza. // E se tu hai ancora da campare/ piano, piano vai camminando/ con un bel bastone/ invece di due ne sono tre di gambe. // Ne vuoi mettere tre e / ne vuoi mettere due/ si cammina sempre meglio/ con una in più.”
Sembra una battuta consolatoria, comunque la sua visione seppur consapevole dei problemi dell’età, è serena, e la esprime in “pretarolo”in questa e in altre poesie: “O Gesù Cristo tu sia benedetto/ la vecchiaia quant’è brutta/ l’età migliore è la gioventù/ ma passa in fretta e non torna più. // Ma quando sui venti/ e trent’anni che ti ci trovi/ ovunque vuoi andare, puoi andare/ e puoi fare quello che ti pare. // Ma adesso, non puoi andare,/ e più niente puoi fare/ perché manca la forza/ e ti devi stare. // O Gesù Cristo/ che tu sia benedetto/ non farmi succedere niente / se campo un altro pochetto.”
Non manca di osservare anche il suo aspetto e sottolineare in modo impietoso gli altri inconvenienti dell’età avanzata, ma sempre con un’accettazione devoita che li rende sopportabili: “O Gesù Cristo/ che tu sia benedetto/ mi serve il bastone/ non cammino più dritta // Se me l’avessero detto/ chi lo sa se gli avrei creduto/ che a tutti questi anni/ sarei arrivata // Avevo i capelli belli neri/ adesso mi rimangono curiosi/ a vedermi la testa bianca/ ma più curiosa la bocca senza i denti // E questo/ è un problema grande/ che faccio schifo da me stessa/ a vedermi mentre mangio // Vuoi col coltello/ vuoi con la mano/ qualunque cosa devo sminuzzare/ e sennò non posso mangiare // Ho provato/ un dispiacere grande/ che [mi] si sono morti fratelli e sorelle giovani/ e io ancora campo. //Ma qualsiasi persona/ su questo non può fare niente/ Gesù Cristo ci ha creati/ e lui comanda.”
E’ una filosofia esistenziale più profonda di quanto possa sembrare a prima vista, non si nasconde la realtà ma senza deprimersi, anche perché si affida sempre e comunque al Signore: “O Gesù Cristo tu sia benedetto/ ho ottantanove anni, sono parecchi // Ma vorrei vivere un altro poco/ per godermi questa casetta così carina // Quello che successe a noi non è successo a nessuno/ senza la casa venticinque anni a ramengo // Io Gesù Cristo ti ringrazio tanto/ a quest’età i dolori non me li sento./ Questi figli ti raccomando/ dà loro la salute e non gli far succedere niente.”
Sette anni dopo, il 15 maggio 2005, due brevi distici con una nuova speranza: “A più di 96 anni una donna/ ed è madre e nonna // Prega Dio che la faccia campare/ che pure bisnonna vorrebbe diventare”. Segue una poesia altrettanto breve: “O Gesù Cristo, tu sia benedetto/ fammi campare un altro pochetto // E ti raccomando/ non mi far succedere niente // vorrei vedere il bel bambino/ poi muoio contenta. Gesù Cristo che tu sia benedetto.” La sua accorata supplica viene accolta, è nato il pronipotino al quale il 2 luglio dello stesso anno si rivolge con questi versi: “Coccolino, Coccolino/ vorrei tenerti qui vicino. // Vorrei tenerti qui accanto/ per baciarti ogni tanto // Ma stai così lontano / con 7 ore di treno si giunge a Milano. // Contenti, e felici la bella famiglia/ padre, madre e figlio. //Che Dio vi benedica/ e vi auguro tanta salute e lunga vita, / Nonna e bisnonna Gina. Ciao.”
Segue una poesia in cui chiama il pronipotino per nome: “Maicol Mirichigni/ il giorno 30 del 5-2025/ Nacque a Vimercate il 27 agosto / qui alla chiesa di Pietracamela il primo battezzato // figlio di genitori Laureati/ il padre Ingegnere la madre Avvocato / Possa essere un bella giornata/ felici noi e i parenti invitati // Auguro buona salute a tutti/ non più altro vi dico la poesia è già finita // Tanti baci da bisnonna Gina/ Dio ti benedica ciao.” I problemi dell’età avanzata sono dimenticati, si sente tutto l’orgoglio per il nipote Graziano e la moglie Lorena cui aveva dedicato poesie in occasione della loro laurea e del matrimonio invocando la protezione del Signore.
Ed ecco l’ultima poesia, dell’8 settembre 2005”: “Maicol caro tesorino/ 21 giorni ci sei stato qui vicino // Il 27 Agosto fosti battezzato/ e poi ripartiste a Vimercate // Quando si ritorna tutti contenti/ quando si riparte si rimane dispiacenti // Quando Paola telefona a Lorena/ domando come sta Maicol? Sta bene. // Che Dio lo benedica/ parecchie volte al giorno così dico // La mattina mi diceste nonna mantieniti forte/ se Dio vuole a Natale ritorniamo un’altra volta // Va bene ma ancora c’è tempo per Natale/ quattro mesi devono passare // Ne vorrei ricordare tanto/ ma c’è il Signore che comanda // Sono la più anziana del paese/ ho compiuto 96 anni e 7 mesi //Ho detto tutto, che bella poesia // e son vostra nonna e bisnonna Gina. Ciao.”
I quattro mesi passarono, e ci sarà un altro Natale l’anno successivo, il 2006, con il “coccolino” Michael e gli amati genitori, Graziano e Lorena, fino al 22 febbraio 2007 quando la Gina ha raggiunto il Signore da lei tanto invocato. Il giorno prima il parroco di Pietracamela don Filippo Lanci – al quale aveva dedicato poesie colme di ammirazione – che le era stato molto vicino anche negli ultimi momenti mandò questo messaggio: “Gina è in agonia e la montagna da stamattina è coperta di nebbia, perché sempre ci si vela il volto quando muore un poeta”.
Commiato
E ‘ una nebbia che torna velando di malinconia il sole sfolgorante di questa giornata di giugno. Abbiamo ripercorso momenti che ci sono sembrati particolarmente significativi del percorso poetico della “Gina”, un percorso umano individuale divenuto anche collettivo. Le poesie che abbiamo riportato riguardano il suo paese e la vita da emigrata, la devozione religiosa, la vita personale e l’età avanzata; ma non esauriscono il suo “corpus “ poetico, nel quale troviamo una vasta quanto gustosa serie di aneddoti, sulla vita nel paese e il suo spopolamento, il censimento spiritoso delle famiglie rimaste, fino ad episodi curiosi nei quali può manifestare tutta la sua “verve”. Del resto, anche nelle poesie più intense e accorate troviamo passaggi che ne attenuano l’impatto emotivo, nel segno di una filosofia esistenziale che non è fatalismo ma fiducia incrollabile nella volontà dell’essere superiore che va accettata perchè protegge e dispone secondo fini imperscrutabili
Il migliore commiato è quello che ha lasciato lei stessa, non c’è altro da aggiungere se non riportare le due quartine nelle quali c’è tutto il suo spirito semplice e profondo: “Dei miei nipoti/ Graziano è il primo/ gli consegno questo quaderno/ con tante poesie // E chiunque le leggerà/ O mio caro buon Gesù/ Si ricorderà di me/ Quando non ci sarò più.”
Hai ragione, “Gina” carissima, abbiamo letto le tue poesie e ci ricorderemo sempre di te, siamo certi che non sarai mai dimenticata da coloro che leggeranno quelle riportate nella nostra rievocazione mossa da sentimenti di immedesimazione: come te siamo figli del “nido delle aquile”, il nostro “natio borgo selvaggio” e ci sentiamo vicini e partecipi di tante tue osservazioni esteriori e riflessioni interiori. E così sarà per tutti, non solo per i paesani! che ti hanno conosciuta.
Info
Le poesie di Ginevra Bartolomei, “la Gina”, sono tratte dal libro “La lingua ‘degna’. Pietracamela e il pretarolo nei testi di Ginevra Bartolomei. Profilo linguistico, norme di lettura, antologia poetica”, a cura di Giovanni Agresti (dir.), Graziano Mirichigni, Silvia Pallini, Territori della parola. Una collana di Odellum , Observatori de les lingues d’Ruropa i de la Mediterrania (Universitat de la Girona) – Iker (CNRS Université Bordeaux Montaigne – Université de Pau et desPays de L’Adour) – Associazione LEM Italia, Lingue d’Europa e del Mediterraneo, dicembre 2020 pp. 396. Introduzione trilingue, in italiano, catalano e francese, testo in italiano.. Nel libro le 102 poesie – riportate a stampa da pag. 125 a pag. 325, tratte da due quadernetti e da fogli sparsi tutti manoscritti dall’autrice – sono pecedute da un’approfondita analisi linguistica del “pretarolo”; a questa analisi abbiamo dedicato il primo articolo pubblicato in questo sito il 3 agosto 2024. Molte poesie in tale idioma sono riportate con il testo in “pretarolo” a fronte e la versione in italiano di Silvia Pallini a cui si deve anche il “Commento letterario” a conclusione del libro. Le poesie riportate, integralmente o parzialmente, sono le seguenti, nell’ordine in cui sono nel testo (tra parentesi le pagine del libro da cui sono state tratte): Il suo Paese, Pietracamela, con i Prati di Tivo: “Riassunto di Pietracamela” (pp. 125-28), “Poesia dei Prati di Tivo” (129-32), La vita in Canada, negli anni da emigrata: “Questa poesia fatta in Canada” (132-33), “Per gli emigranti in Canada” (141-43), “Poesia fatta in Canada pr motivo di lavoro” (162-63), “Le case che vanno a fuoco in Canada” (140-41), “A Don Andrea” (320-21). La devozione religiosa: “5 agosto. La Madonnina del Gran Sasso” (164-65), “La Bianca Castellana (scritta in Canada)” (135-36), “La Madonnina del Gran Sasso” (158-159), “Questa è di San Gabriele pure in Canada” (137-38), “Festa di San Leucio” (156), “Questa è l’accoglienza di Don Marco” !160-61), “Mancanza del sacerdote” (190-91), “Pietracamela 24-9-2000. Volevo scrivere queste poche parole sul nostro parroco Don Filippo proprio ora” (295), “Poesia su Don Filippo Lanci” (296-97), “Poesia sulla nostra casa” (246-47), “Mia piccola poesia” (249). La vita personale, i pensieri nell’età avanzata: “Poesia sulla mia età'” (182-83), “Un’altra piccola poesia” (255), “Poesia sulle gambe” (256-57), “Piccola poesia sulla mia vecchiaia” (272-73), “Non trovo mai fine alle poesie” (282-85), “Sentite questo 1998” (280-81), “Poesia di poche parole” (307), “Piccola poesia 15 maggio 2005″ (308-09), “Voglio scrivere pure questa piccola poesia sul mio pronipotino 2 luglio 2005″(309), “Poesia sul bimbo Michael” (310), “Pietracamela 8 settembre 2005″ (311).
Photo
Nel testo sono inserite, ad esclusione di grafici e tabelle, tutte le 21 immagini contenute nel libro citato in un diverso ordine di successione – con le relative didascalie in corsivo e virgolettate – sulla poestessa e su Pietracamela dove si è svolta gran parte della sua vita; in più, sono riportate 11 immagini del centro storico e dei panorami – con le didascalie in tondo e non virgolettate – che si aggiungono alle 19 immagini, la maggior parte sulle caratteristiche “scalinate” del paese, contenute nel primo articolo. Questo per rendere con l’evidenza visiva l’ambientazione alla quale va riferita idealmente l’ispirazione genuina e l’espressione spontanea della poetessa. Viene indicata di seguito l’attribuzione delle singole immagini fotografiche, iniziando con le 21 tratte dal libro citate espressamente, mentre per le altre 19 immagini l’attribuzione è unica, con la precisazione che il numero identificativo per l’attribuzione si riferisce all’ordine di successione nell’articolo. Le immagini tratte dal libro sono di: Graziano Mirichigni: Foto n. 1, 16, 27; Fondo n. 2, 13, 21. Aligi Bonaduce: Foto n. 4, 6, 25, 26, Fondo n. 5, 14, 15, 17, 28, 29 ( su quest’ultima, intitolata nel libro “Don Andrea (1935)”, va precisato che è stata scattata da Salvatore Levante con Romano Maria Levante nell’agosto 1955 usando camera Ferrania Condor, e presentata nello stesso anno con altre 4 foto tipiche di Pietracamela, al 1° Concorso fotografico dell’Università di Bologna). Michael Mirichigni: Foto n. 9, 30. Emilio De Rogatis Foto n. 8. Gianfraco Spitilli Foto n. 32. Le altre immagini del centro storico e dei panorami sono tutte del 2018 di Romano Maria Levante, n. (3), 7, 10, 11,12, 18, 19, 20, 22, 31,33, salvo l’ultima tratta dal sito del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, si ringrazia l’Ente titolare per l’opportunità offerta. In apertura, “Ginevra Bartolomei”, seguono, “La Madonnina del Gran Sasso, In dialetto. Manoscritto di Ginevra Bartolomei”, e “Sempre poesie”, LXXIV poesia della “Gina” in “pretarolo”con testo in italiano a fronte di Silvia Pallini; poi, “Pietracamela, Prati di Tivo e Massiccio del Gran Sasso d’Italia (settembre 2008″), e “Pietracamela, in processione (anni ’40)”; quindi, “Le campane di San Giovanni (2000)”, e Centro storico, l’ingresso di via Roma, verso l’antica sede del Municipio; inoltre, “Parlando in strada (1996)”, e “Pietracamela dal Monte Calvario (2021)”; ancora, Il Monte Calvario, a dx, di cui parla in una poesia, a sin. il qurtiere meno antico, “la Villa”, e Centro storico, via Roma dopo l’arco di ingresso; continua, Centro storico, un angolo caratteristico, e “In Canada, Ginevra Bartolomei e Pietro Mirichigni, a sinistra. e Giovanni Mirichigni, a destra nella foto (1957 o 1958″; prosegue, Vita pretarola (anni 1950-1960)”, e ” I De Luca verso la Madonnina in ‘cestovia’ (primissimi anni ’50). Genitori: Luigina Panza e Salvatore De Luca; nelle ceste: Celestina e Antonio De Luca”; poi. “La Madonnina del Gran Sasso (26 dicembre 2015)”, e “Padre Archimede celebra la prima messa sul Corno Piccolo (1946″); quindi, Centro storico, antico edificio con il tradizionale balcone in legno, e Centro storico, uno scorcio caratteristico; inoltre, Centro storico, un altro scorcio caratteristico, e “Ginevra Bartolomei e il nipote Graziano Mirichigni (1971)”, ancora, Centro storico, una delle poche vie pianeggianti verso Porta Fontana, e Il Belvedere Guido Montauti; continua, Centro storico, un angolo con antichi edifici”, e “La roccia sul pagliaio. Sullo sfondo, Pizzo Intermesoli (aprile 2008″); prosegue, “Annina, la nonna di Aligi, con la conca, d’inverno (verso 1965)”, e“Ginevra Bartolomei (1994); poi, “Verso Pietracamela, la prima automobile (1940)”, e “Don Andrea,” agosto 1955; quindi, “Da Pietracamela (2021)”, e La casa natale di Ginevra Bartolomei, la poetessa “Gina” ; inoltre, “Ginevra Bartolomei (2004)”, e I Pratidi Tivo, cui è dedicata una poesia, in primo piano; in chiusura, Pietracamela alla falde del Gran Sasso dì’Italia , il “nido delle aquile” della poetessa “Gina”.
L’8^ tappa del Giro d’Italia l’11 maggio 2024 ha visto i riflettori del grande evento sportivo accendersi sull’arrivo in salita ai Prati di Tivo, superando di 6 Km l’abitato di Pietracamela – il borgo montano che dal 2008 fa parte del club dell’Anci “i borghi più belli d’Italia – di cui tale località è il culmine alle falde del Gran Sasso, la catena montuosa con Monte Corno che troneggia in alto nelle due vette di Corno Grande e Corno Piccolo, distese come il “gigante che dorme” o “la bella addormentata”. E la maglia rosa operando uno scatto irresistibile, ha onorato con una vittoria prestigiosa tale scenario spettacolare, bella la scena del sindaco AntonioVillani in fascia tricolore, che gli mette al collo la medaglia nel palco con i boschi e l montagna a fare da cornice incomparabile. Siamo a Pietracamela, il “nido delle aquile”, che il 30 dicembre 2023 ha onorato con un monumento nella piazza principale all’ingresso del paese, i suoi “Aquilotti”, i primi “locali” a cimentarsi nelle scalate, precedendo gli “Scoiattoli di Cortina” e i “Ragni di Lecco”, aprendo le vie alpinistiche sulle rocce dolomitiche del Gran Sasso.
Le due manifestazioni per il “pretarolo” verace della “Gina”
A questi due eventi ci piace collegarne due di ben diversa natura ancora più strettamente legati alla storia e alle tradizioni di un paese che resta vitale pur nello spopolamento della montagna, da non confondersi con l’abbandono, tanto i suoi figli sono rimasti legati al “natio borgo selvaggio” dove ritornano dai luoghi dove gli avi e i padri sono emigrati, in Italia o all’estero per lo più nelle lontane Americhe. Entrambi gli eventi riguardano un libro, frutto di una accurata ricerca sulle radici di tutto questo come risultano dalla “lingua degna”, la parlata paesana, il “pretarolo”, che va ben oltre il dialetto per le sue peculiarità che la distinguono nettamente da quella abruzzese e non solo, con una connotazione linguistica e socialogica del tutto particolare; ricerca basata sui componimenti in “pretarolo” di una poetessa popolare, Ginevra Bartolomei detta “la Gina”. Sono due eventi, il primo c’è stato a Roma il 26 gennaio 2023 – nel concorso “Salva la tua lingua locale” in Campidoglio è stato conferito al libro il 2° premio “Tullio De Mauro” – il secondo evento ci sarà a Bruxelles domani 4 giugno 2024 nella sede della Rappresentaza della Regione Abruzzo in Avenue Luise 210, dove sarà inaugurata la mostra personale “Rapsodikòs” dell’artista Mara Di Giammatteo – aperta fino al 28 agosto – con lavori e allestimenti di arte conteporanea attraverso l’antica arte della tessitura e del ricamo ispirati alle poesie della “Gina” fissando nella materialità della tela con un lavoro ispirato alla tradizione il senso di alcune parole esprimendo così il valore popolare e identitario del “pretarolo” per evidenziarne la validità da preservare dal rischio dell’oblio.
Come nella premiazione a Roma, interverranno, nella presentazione del libro, il sindaco di Pietracamela Antonio Villani e gli autori, a Bruxelles anche il rappresentante della Regione Abruzzo e la critica d’arte curatrice della mostra Maria Chiara Wang sul tema “La fragilità della memoria”. Una onsacrazione internazionale di un libro di per sé internazionale, con l’Introduzione in tre lingue – italiano-catalano-francese – e il suo inserimento nella serie “Territori della parola “ che documenta le lingue regionali, minoritarie nell’area euro-mediterranea, con la direzione di Giovanni Agresti professore dell’Università Bordeaux-Montaigne e Federico II di Napoli, e coautori Graziano Mirichigni attivo custode dell’opera scritta e orale della nonna poetessa, e Silvia Pallini alla quale si deve il “Commento letterario” conclusivo sulle oltre 100 poesie in “pretarolo” riportate nel libro. A Bruxelles la presentazione rientra nelle manifestazioni per l’Anno delle radici italiane nel mondo.
Ma è questo un primo ossimoro, dal locale più chiuso e ristretto all’internazionale, però quanto mai suggestivo. L’altro ossimoro – peraltro apparente come il primo – è dato dal fatto che l’accurata ricerca con l’adozione delle metodologie più elaborate e sofisticate si concentra su quanto vi è di più spontaneo e immediato, l’espressione di pensieri, sentimenti ed emozioni che diventa poetica nella forma e nel contenuto proprio perché si manifesta in modo naturale senza il benché minimo intento letterario: protagonista assoluta una figlia del popolo, Ginevra Bartolomei, da tutti chiamata “la Gina”, animata da un’indomabile vitalità che ha trovato uno sfogo irresistibile nel corso di decenni in una declamazione poetica nella “lingua degna” del suo paese arroccato tra i monti, con le difficoltà inenarrabili di una vita nell’assoluto isolamento e nell’inclemenza della natura.
Non ci addentreremo nei meandri impenetrabili dell’approfondita analisi svolta con criteri strettamente scientifici di cui apprezziamo l’alto livello professionale e lo spessore culturale, ma ci limiteremo a dar conto sommariamente di quelli che ci sono sembrati i principali risultati conoscitivi sulla “lingua” di un territorio che è anche il nostro “natìo borgo selvaggio” e sulla poetessa protagonista e testimone. Per poi dare la parola alle sue espressioni poetiche per rievocare la vita e il sentire di una comunità cui anche noi siamo profondamente legati.
Il ”pretarolo”, la “lingua degna” per le sue straordinarie peculiarità
L’analisi della “lingua degna” viene effettuata con l’ausilio di interviste dirette ai paesani sull’uso del dialetto e le loro percezioni, nonché di risposte a due questionari in ambito locale e nel territorio circostante, e ci si avvale anche dei risultati di una tesi di laurea di Gabriella Francq nel 2016 sul “pretarolo”.
Si inizia con l’”inquadramento socio-linguistico” nel quale vengono analizzati i nessi tra la “lingua” e la comunità che la utilizza, in base alle risposte date dai locali, e anche dagli abitanti dei paesi vicini, sulle loro percezioni inerenti i modi con cui si esprimono. Ebbene, è confermata la consapevolezza della singolarità della loro “parlata”, delle nette differenze rispetto a quella abruzzese in generale e anche a quella dei paesi limitrofi – compresa la vicinissima frazione di Intermesoli – il che rappresenta un elemento fortemente identitario; come la consapevolezza del progressivo deterioramento del fonema originario per le contaminazioni di vario tipo – con i forestieri sempre più invasivi per lo spopolamento e i ritorni degli emigrati con le loro interpolazioni straniere – che trasformano e diluiscono il paesaggio linguistico.
Interpolazioni nei tempi passati anche dell’italiano puro da parte dei “cardatori” di ritorno dalla Toscana, dove andavano soprattutto nei mesi invernali in cui il lavoro in paese era precluso dalla rigidità del clima di alta montagna; tali interpolazioni furono valorizzate da uno studioso, Tommaso Bruno Stoppa, che voleva inserire il “pretarolo” nell’”Atlante linguistico italiano”, poi non andato in porto. Il mestiere della cardatura della lana da parte dei “pretaroli” anche in Umbria e Romagna, oltre che in Toscana, era tanto diffuso da far nascere una variante linguistica del “pretarolo”, il “trignano” utilizzato dai cardatori nel parlare tra loro per rendersi ancora più incomprensibili ai forestieri che li ospitavano. A parte questo, la percezione della singolarità della “lingua”portava anche a ritenere non proponibile la sua scrittura quasi fosse limitata alla sola oralità, mentre tale convinzione è stato smentita dall’opera della poetessa Gina, oltre che da altre circostanze; per questo il “pretarolo” non può essere declassato né confinato tra le espressioni dialettali minori, ma ha la dignità di una lingua, una “lingua degna” come viene intitolato il libro.
Queste “percezioni” individuate in una ricognizione preliminare, sono validate dall’accurata ricerca effettuata nella tesi di laurea sul “pretarolo” sopra citata, con due questionari diffusi nel paese direttamente interessato, Pietracamela, e in alcuni paesi vicini per misurarne la consistenza e l’ampiezza: un questionario dedicato all’idioma e l’altro al significato identitario che assume nella comunità. .Le domande sono molto semplici, ma frutto di una sofisticata impostazione di carattere scientifico della quale si trovano nel libro tutti gli elementi conoscitivi e i riferimenti culturali. Si è trattato di “pensare una lingua e un’identità”, riguardo al “peso delle rappresentazioni sociali” , per arrivare a definire “le rappresentazioni sociali della lingua e dell’identità pretarola”.
Dalla ricerca è emersa “un’indefinitezza legata alle origini: diversi miti di fondazione” e “diversi tratti di prossimità linguistica” e tra questi “il problema del toponimo, dell’origine controversa del nome del paese”. Sulle origini dei fondatori si va dalle vicine Puglie alle più lontane Albania e Grecia, sulla vicinanza linguistica si aggiungono assonanze francesi, a parte quelle abruzzesi ma limitate; il mestiere itinerante dei cardatori pretaroli – con il loro gergo “trignano” – ha reso apporti e contaminazioni. Il nome Pietracamela, secondo la prima rilevazione, richiamerebbe la forma dei massi sopra il paese simile alle gobbe di un cammello, fino a “sommità”; più avanti diremo degli approfondimenti al riguardo riferiti anche ai più antichi popoli e ad altre caratteristiche ambientali.
L’incertezza di queste prime risultanze non ne riduce l’importanza perché derivano dall’analisi “etnica”, di natura percettiva e soggettiva rispetto alla comunità locale: “domande e risposte sono componenti indissolubili e indispensabili di un unico processo di scoperta e di accrescimento dell’autocoscienza dei membri della comunità pretarola”. L’analisi “etnica” si aggiunge all’analisi “etica” di natura oggettiva, limitata per la perdita degli antichi archivi distrutti da un incendio.
Al centro della ricerca c’è stato l’idioma locale, analizzato con l’approccio scientifico degli analisti esercitati nei “Territori della parola”, che collegano strettamente la lingua nelle sue varie espressioni alla comunità locale, definita nei suoi riferimenti storici e nei fattori identitari. Il tutto con la testimone d’eccezione, la poetessa “Gina”, preziosa interprete dei due versanti, quello linguistico e quello identitario nella sua espressione poetica che ne accresce l’eccezionale unicità.
L’origine del nome “Pietracamela”, dagli antichi popoli alle caratteristiche ambientali
Ed ecco cosa è risultato nello scavo sul “profilo linguistico” del “pretarolo”, fino a definirlo “lingua degna”, cioè “bella” per la sua singolarità e unicità delle sue peculiarità positive. L’analisi inizia con l’approfondimento del nome del paese, “Pietracamela” – da cui deriva ovviamente il “pretarolo” – di cui abbiamo citato in precedenza le percezioni verificate sul campo.
Si parte dall’età romana, l’insediamento montano nel Regio V. Picenum è chiamato “Petra Cimmeria” e riferito all’antico popolo italico dei Pretuzi che si trovava tra i fiumi Tronto e Vomano, quindi non al nome del popolo ma a un toponimo diffuso in aree anche molto lontane come la Crimea e l’Albania e collegato ad etimologie di varia natura e origine che richiamano la “collina”, il “torrente” fino alle “tenebre profonde” della Sibilla Cimmeria, intese come “oscurità”. Ma i Cimmeri erano anche un popolo storicamente originario della Crimea, diffuso in Tracia, Anatolia e Vicino Oriente; mentre nella mitologia sono presenti i “Cimmeri omerici” citati nell’Odissea. “di nebbia e nube avvolti” nel tenebroso regno dei morti, e i “Cimmeri flegrei” citati da Strabone presso il lago d’Averno dove vivevano in case sotterranee collegate da gallerie con “l’oracolo dei morti” consultato pure da stranieri; e Plinio il Vecchio li colloca anche lui nell’Averno.
Analogamente per il nome “Petra Cameria” che con riferimento a Pietracamela si trova citato nel “Dizionario ragionato del Regno di Napoli” del 1804, perché la parola “cameram” nell’etimologia significa “soffitto a volta” – che richiama la curvatura dei monti circostanti a gobba di cammello – mentre un riferimento allo spagnolo “cambre” richiama “cima”, “culmine”, “punto più elevato”. Ma il collegamento può essere anche al popolo italico dei “Camerti” insediati sul versante adriatico dell’Appennino centrale, dove si trova Pietracamela, che hanno dato il nome a diverse altre località del’Appennino centrale, come Camarda e Camerino.
Il riferimento alla gobba di cammello dei monti e in particolare di Pizzo Intermesoli (e forse di “Vena grande”, la roccia identitaria che sovrasta la piazza principale) qualifica Pietracamela come “pietra/roccia a forma di cammello”, identificazione fissata nello stemma comunale con un cammello, immagine tanto eloquente quanto discussa, non essendo presente nel catasto preonciario del secolo XVII. Del resto sulla prima parte del nome, “Pietra” non vi sono dubbi, nell’espressione pretarola l’intero nome è “La Prota” senza aggiunte.
A questo problematico excursus filologico, storico e ambientale insieme, segue una sintesi particolarmente intrigante, perché mostra come le qualifiche delle diverse interpretazioni si ritrovano tutte nella descrizione dl borgo di Pietracamela: “situato in un punto elevato, sormontato da una formazione rocciosa in evidenza, spesso in ombra, a bacio (proprio perché sormontato da tale formazione rocciosa) e per di più esposto a Nord, collegato al fondo valle da un torrente, non di rado avvolto da nubi e nebbia”. Nebbia che ritroviamo in un distico dialettale della poetessa Gina, che in italiano recita così: “Quando la nebbia va in su/ Prendi la conca e vai alla fontana// Quando la nebbia va in giù/ Prendi la zappa e vai alla terra”.
Breve cenni al profilo linguistico del “prtarolo”
Non è giunto ancora il momento di parlare della poetessa, prima qualche accenno al “profilo linguistico” che viene analizzato in modo approfondito, dopo la dissertazione sul nome del paese. Ci limitiamo a citare il “vocalismo”, che presenta notevole complessità, con “almeno quattro suoni vocalici con valore fonologico (distintivo) assenti nell’italiano standard”, mentre “il consonantismo del “pretarolo non si discosta sostanzialmente da quello dell’italiano. Fanno eccezione soprattutto alcuni suoni fricativi”.
Di qui parte l’analisi dei “tratti linguistici distintivi”, che si avvale soprattutto dei testi della poetessa Gina – 100 poesie in 2 aurei quadernetti con altri fogli staccati – del questionario di Francesco d’Ovidio di un secolo fa, dagli etnotesti orali in “pretarolo “ raccolti da Maria Iannetti nel 2021 ed ora trascritti, e infine di due conversazioni a più voci, di una pagina ciascuna, edite in versione bilingue pubblicate nel Bollettino parrocchiale di San Leucio vescovo, “La Madonna del Gran Sasso” nell’ottobre-novembre 1947 e nel marzo 1948. E’ un’analisi molto tecnica dei tratti che caratterizzano i dialetti centro-meridionali che vengono accostati al “pretarolo” per evidenziarne le peculiarità con citazioni di esempi specifici per ciascun tratto. Si inizia con la “fonetica pennese” richiamata dal vocalismo del “pretarolo” per poi entrare nel tecnicismo glottologico più arduo, nei seguenti aspetti a ciascuno di quali viene dedicato un paragrafo nel libro: “Metaforesi(o metafonia) a flessione interna” e “Centralizzazione”, “Frangimento e dittongazione delle vocali toniche” e “Assimilaziuoni”, “Betacismo” e “Trattamento di [l ] + consonante”, “Sviluppo di [j-] e di consonante + [j], e “Sviluppo di nessi latini [- kj -] e [- ng -] + [e] / [i], “Sviluppo di [- bj -] e di [- sj -] e “Lo sviluppo di /- / -/ e / – ll – /”, “Trattamento di [ pl – ] e [ fl -] latini”, e “Possessivo enclitico”, “L’espressione della ripetizione” e “Dimostrativi”, “Plurale alla latina” e “Marche di numero, genere e determinanti”, “L’imperfetto indicativo” e “Superlativo assoluto iterativo”, l’iperbole analitica con cui si conclude un tecnicismo fino all’estremo che conferma l’accuratezza dell’analisi di una idioma da considerare lingua vera e propria.
Naturalmente non possiamo minimamente darne conto, mentre qualche cosa possiamo aggiungere riguardo al “lessico” che evidenzia i tratti distintivi di una lingua alimentata nel lontano passato anche delle espressioni gergali dei cardatori che la rendono criptica e in tempi più recenti dalle interpolazioni degli emigrati. Ci sono “forme arcaiche, forestierismi e singolarità”, le parole “vescia” cioè ragazza e figlia, e “r(j)uf”, cioè bambina e bambino, nei nostri ricordi della parlata familiare il primo termine era più affettuoso del secondo; “Iona” adesso, e “Cant(a) come, “Domèna” mattina, e “Digna” o “Dagna” bella, “Utri” soltanto e “”Zalla” piccola, fino alle forme gergali del “trignano” dei cardatori che ne rendeva incomprensibili ai terzi le conversazioni.
La “Gina”, poetessa di talento espressivo e vitalità popolare
Ed ora non ci resta che presentare rapidamente la figura che sottende a queste approfondite analisi glottologiche avendole consentite di fatto con le sue espressioni in “pretarolo”, per di più in forma poetica raccolte, come già accenanto, in due quadernetti oltre che in fogli sparsi su stimolo del nipote Graziano che capì come fosse importante far fissare in scritti preziosi la spontanea poetica orale della cara nonna. Ginevra Bartolomei, la Gina per i paesani, nata nel 1909, vissuta per l’intero secolo XX entrando per 7 anni nel XXI secolo, è morta nel 2007, dopo una lunga vita sempre a Pietracamela, salvo la parentesi di 5 anni in Canada dal 1957 al 1962, periodo molto significativo in quanto fu allora che iniziò il suo percorso poetico perché aveva del tempo libero in attesa del primo lavoro e poi tra un lavoro e l’altro, con le difficoltà a trovare occupazione dai 48 anni dell’arrivo ai 53 della partenza. In quei lunghi momenti nei suoi pensieri irrompevano i sentimenti mossi dal distacco – quello che viene definito il “dolore del ritorno” – dall’amato paese “il quale, forse per compensazione, prende corpo nell’interiorità. La parola, prima sentita, poi espressa, quindi fissata sulla pagina, diventa territorio e prende il testimone del territorio assente”, commenta Giovanni Agresti.
I suoi testi sono preziosi come testimonianza straordinaria del “pretarolo” scritto in forma poetica , e formano un affresco altrettanto straordinario dei costumi del secolo scorso, della vita difficile nell’alta montagna dove si lavorava duramente per la sopravvivenza con i magri frutti di una terra arida con la stagione invernale particolarmente inclemente. Un lavoro molto duro per gli uomini ovviamente, che nei mesi invernali si spostavano come cardatori della lana nelle regioni del Centro Nord, Marche e Umbria, Toscana e Romagna; e ancora più duro per le donne impegnate, oltre che nei lavori domestici – con il lavare i panni al lavatoio e prendere l’acqua alla fontana con la conca, cucinare alla fornacelle o al focolare – nel portare in testa legna e fascine dai Prati di Tivo, dove andavano anche più volte al giorno ad almeno 1450 metri di quota mentre il paese è a 1005 metri, e la Gina era una di loro; anzi racconta di aver lavorato persino nella costruzione della strada provinciale che sale per 9 km dalla statale a Ponte Arno, portando in testa i materiali usati, sassi e cemento, travi di ferro e acqua.
Ma non c’è solo questa testimonianza nei preziosi quadernetti e nei fogli sparsi che ha lasciato, bensì le sue continue valutazioni disincantate sul valore della modernità che eliminava i tremendi disagi del passato ma con essi offuscava anche tanti valori di una tradizione profondamente radicata che rischiava di venire cancellata. Anche perché l’emigrazione all’estero e lo spopolamento per l’incalzante urbanizzazione erodeva inesorabilmente la popolazione locale con il rischio di sparizione. L’emigrazione l’ha vissuta in prima persona, come abbiamo accennato, per cui ne descrive, come per il resto, croce e delizie. Tutto questo riguarda in vari modi la vita esteriore, quella di tutti i giorni vissuta e vista sempre con una prospettiva di più ampio respiro.
Alla vita interiore ha dedicato una vasta serie di componimenti particolarmente intensi: e questo riguarda l’aspetto religioso con la profonda devozione unita ad osservazioni disincantate e, soprattutto nell’ultima fase, l’aspetto dell’età avanzata, anche qui con espressioni non fataliste ma di una filosofia di vita che fa meditare, fino alle battute di uno “humor” spontaneo e gustoso. Le sue poesie molto spesso hanno una premessa o una conclusione che dà loro un valore più vasto del semplice sfogo personale dell’autrice, perché si rivolge anche all’esterno e spiega, quasi come se volesse giustificarsi, il motivo per il quale si è decisa ad esternare i suoi sentimenti interiori.
Un alto valore umano oltre che storico e letterario, dunque, che fa della poetessa Gina una vera icona, oltre che una testimone preziosa. Del resto, questo fu compreso ben prima dell’attuale consacrazione, quando nel capoluogo di Teramo, al Cinema Smeraldo, alla fine degli anni ’80, fu premiata pubblicamente; nel 1989 fu intervistata dalla Rai da Monica Leofreddi nella trasmissione “Uno mattina”e nel 2006 in un articolo sul settimanale “Famiglia Cristiana” Alberto Bobbio scrisse che “la Gina s’inventa versi nella mente e poi li recita a chi la viene a trovare”. Dice tutto d’un fiato perchè sa che il tempo è breve…”, morirà l’anno dopo a 98 anni. Non possiamo quindi, che dare la parola a lei, ai suoi versi, che riempiono circa 200 pagine del libro, in “pretarolo” con la “versione” italiana operata dagli autori, ovviamente riporteremo stralci dei suoi componimenti in italiano data la difficoltà della “lingua degna” di essere non solo compresa ma anche trascritta. Ne emergerà l’affresco storico, ambientale e umano che abbiamo tratteggiato, l’excursus nella poetica popolare della “Gina” uscirà presto in questo sito.
Info
Libro “La lingua ‘degna’, Pietracamela e il pretarolo nei testi di Ginevra Bartolomei. Profilo linguistico, norme di lettura, antologia poetica. A cura di Giovanni Agresti (dir.), Graziano Mirichigni, Silvia Pallini,“. Territori della parola. Una collana di Odelleum, Observatori de les liungues d’Europa i de la Mediterrania (Università de Girona) CNRS – Université Bordeaux-Montaigne – Université e Pau et des Pays de l”Adour. Edito da Associazione LEM Italia – Lingue d’Europa e del Mediterraneo, dicembre 2020, pagg. 396, Introduzione trilingue, in italiano, catalano e francese, testo in italiano.
Photo
Le immagini – salvo la seconda panoramica con Pietracamela alle falde del Gran Sasso d’Italia che la mostra immnersa nella natura fino a confondersi in essa, tratta da “Tesori d’Italia”, di cui si ringraziano i titolari – sono state riprese da Romano Maria Levante nell’agosto 2018 e, a parte la terza con una panoramica della parte più antica, “La terra”, e della roccia identitaria “Vena grande”, rappresentano la visita nel centro storico con le sue scalinate e i suoi archi. L’immagine conclusiva mostra una delle “pitture rupestri” a Pietracamela del “Pastore bianco”, il gruppo pittorico guidato dalla gloria paesana il pittore Guido Montauti, alla presentazione dell’opera restaurata il 10 agosto 2018 con il restauratore Corrado Anelli, nella foto davanti alla pittura.
Oggi è il 1° maggio, la Festa del lavoro, che suscita in me anche un ricordo d’infanzia molto vivo e coinvolgente. Anni ’40, vivevo a Colonnella, in provincia di Teramo, in cima a una collina al confine tra Abruzzo e Marche, dove i miei genitori maestri di scuola si erano trasferiti dalla natìa Pietracamela con me e mio fratello Salvatore, entrambi molto piccoli. Il 1* maggio veniva festeggiato issando un grande albero nella piazza principale del paese, conficcato nel pavimento svettava per qualche giorno, poi veniva rimosso, come avviene oggi per gli alberi di Natale nelle principali piazze cittadine, a Roma a Piazza Venezia e a Piazza San Pietro; poi ho saputo che era una tradizione francese, e si chiamava “albero della Libertà”, dal nostro terrazzo si dominava la piazza, e l’albero si imprimeva nella mia memoria infantile. Questo ricordo ne porta con sè un altro, riguarda il 25 aprile 1945 , la sfilata degli alleati liberatori sui loro veicoli osannati dalla gente, un compassato commendatore gridava a gran voce “Viva Ciurcìl, viva Rosevèlt!!!!” (sic!) c’erano anche i Partigiani del Bosco Martese con i mitra a tracolla, tra loro qualche “imbucato” che non si era mai mosso dal paese ma brandiva ugualmente il mitra, una giornata di festa popolare con baci e abbracci, era fnita la guerra e l’incubo dei bombardamenti e dei rastrellamenti tedeschi: la Liberazione! Anche questo vissuto dall’alto del terrazzo nei miei 9 anni. Un altro ricordo si collega a questo, e riguarda Pietracamela, quando nella Piazza principale assistemmo alla scalpellatura della scritta DUX sul pilastro che sorregge Vena grande, il grande masso identitario a forma di cammello che sovrasta la piazza stessa, non ricordo l’anno, era di certo estate nei nostri ritorni per la villeggiatura, ma pur nell’incertezza assoluta mi piace pensare al 25 luglio 1943 , quando dopo la caduta di Mussolini – rimosso da Capo del governo e arrestato per opera del Re – esplose la gioia popolare con la distruzione di statue, scritte ed altri reperti del fascismo, mi sono rimaste impresse le lunghe scale da dove scalpellavano. La scritta DUX si continuava a vedere nei ricorrenti ritorni da Roma, nei pressi di Città Ducale, in un bosco in alto dove erano stati tagliati gli alberi in modo che da lontano risaltasse tale scritta, questo per molti anni, credo che poi avranno ripiantato alberi per cancellarla.
Come ciliege, i ricordi d’infanzia si susseguono spinti dalla forza della memoria, tornano a Colonnella, sempre nella piazza principale dove si trova la grande chiesa madre con un campanile molto alto, e nel lato adiacente la mia abitazione di allora con il terrazzo-belvedere. Ricordo la grande bandiera rossa con falce e martello che il parroco Don Alfredo con simpatie comuniste aveva consentito fosse issata sulla sommità del campanile della chiesa, per cui dal nostro terrazzo ce l’avevamo davanti agli occhi, si era nella campagna elettorale per le elezioni della Costituente del 1946. Appena giunsero i risultati con la sconfitta dei comunisti, la piazza si riempì e con alla testa il vice parroco Don Angelo – di forti simpatie democristiane come di norma per la Chiesa, aveva fatto anche campagna elettorale, un “don Camillo” anrte litteram rispetto al parroco “Peppone” anch’egli ante litteram – dei giovani salirono sul campanile e tolsero la bandiera rossa tra gli applausi della folla, l’ho rievocato moltissimi anni fa in un mio articolo. Mi fermo qui nei ricordi, per presentare ciò che si trova di seguito, una nuova conversazione dei “tre amici al bar” – Gelasio detto Gero ed io entrambi “pretaroli” e Tonino “montoriese”, figli dell’Abruzzo “forte e gentile”, che segue le due conversazioni pubblicate in questo sito l’8 e 9 settembre 2023, sul “Tricolore” e sul “25 luglio 1043”, degli stessi “tre amici al bar”. Questa volta la discussione è sulla festa del 25 aprile, soprattutto sul tema dell’antifascismo che torna in modo ossessivo nella cronaca quotidiana. Come le due precedenti anche questa conversazione si è svolta su Facebook, nella settimana dopo il 25 aprile, e ugualmente ho aggiunto immagini rievocative non presenti su FB, per questo vi riporto il link del presente articolo. A chi è interessato alla nostra conversazione sul 25 aprile buona lettura, se lo desidera può anche commentare online per dire la sua.
I “tre amici al bar” discutono sul 25 aprile, inizia Gelasio detto Gero con il suo augurio “Buon 25 aprile a tutti”. :
Viva la Liberazione dell’Italia e omaggio commosso, memore e riconoscente ai 90 mila soldati americani caduti nel territorio italiano per liberare il nostro paese, sepolti in 42 cimiteri di guerra, da Udine a Siracusa, e ai circa 7000 partigiani che secondo l’Anpi persero la vita nella generosa e vittoriosa resistenza contro i tedeschi. In quei cimiteri è doveroso celebrare la Liberazione!
Anche se piccolo ricordo come un incubo i tedeschi con i fascisti con manganelli nelle mani per le strade del mio paese, i bombardamento, ponti sul fiume Vomano minati saltare, l’arrivo degli americani il ritorno dalle montagne dei partigiani con fucili a tracollo, la fame, i pidocchi, partigiani feriti, la vendetta sui fascisti non scappati, le emigrazioni con famiglie che si dividevano, partigiani o soldati uccisi che non tornavano, gli arrivi dall’America vestiti usati e viveri in scatola per noi bambini il legame sempre più forte
Il giorno della liberazione grande festa per tutto il paese, ragazze che offrivano garofano di carta rosso, tentativo dei comunisti di prendersi i meriti della sconfitta dei fascisti: FALSO – i meriti vanno agli americani fortemente affiancati dai partigiani. Molti fascisti o scappati all’estero o vigliaccamente diventavano comunisti
La rinascita dell’Italia si deve esclusivamente a De Gasperi sostenuto da Pio XII con il mondo cattolico e dagli aiuti economici ottenuti da Alcide dagli americani
Fascismo sconfitto, Partito comunista sostenuto dalla Russia non riuscì a conquistare il governo dell’Italia grazie e soprattutto alla nascita del partito Democrazia Cristiana
Storia da me vissuta e nel discorsi del Presidente Mattarella ci sono molti riferimenti
Gelasio amico caro ora i neo fascisti con pochi voti mal governano il nostro bellissimo paese per alcuni italiani nostalgici di ciò che non hanno vissuto [ la guerra ] e da creduloni di promesse impossibili da mantenere
Caro Tonino, anche io conosco la criminale storia del ventennio fascista e i danni morali e materiali che inflisse alla nostra povera italia, non per averla vissuta, ma per averla studiata. Tuttavia la liberazione del nostro Paese avvenne sicuramente grazie l’intervento degli Alleati, ma non si può non ricordare e rendere merito e onore a tutti i Partigiani che, sacrificando la loro vita, contribuirono ad abbattere dall’interno il feroce nazi-fascismo che, negli ultimi due anni di guerra civile, con l’acqua alla gola per la pressione della Resistenza, massacravano uomini, donne e bambini con efferate stragi come quella di Civitella di Val di Chiana omaggiata, il 25 aprile, con una corona di alloro dal nostro Presidente della Repubblica. Vorrei ricordarti, tuttavia, che la liberazione dal nazi-fascismo in Europa, di cui l’Italia era parte integrante anche se ancora non unita, fu dovuta anche al sacrificio della Russia che perse ben 20 milioni di uomini nel corso di tutta la guerra e che, da est, liberò parte dell’Europa dove il nazismo aveva messo in atto la Soluzione Finale degli ebrei uccidendone ben sei milioni.
Per quanto attiene a De Gasperi ciò che dici è vero, ma il Piano Marshall non fu un regalo, poiché De Gasperi dovette accettare non solo la presenza di molte basi militari Statunitensi che ancora oggi sono operative con la presenza di armi nucleari, ma dovette impegnarsi a cacciare dal primo governo i comunisti e i socialisti e successivamente condurre una campagna elettorale mistificatoria dove si affermava che i comunisti mangiavano i bambini arrostiti e questa non è una barzelletta, ma è la pura verità. Oggi siamo governati da una destra che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse elettorali: Gli sbarchi degli immigrati sono decuplicati e non c’è stato alcun blocco navale, i salari degli italiani sono i più bassi d’Europa e questo governo non accetta nemmeno di stabilire un salario minimo per legge, la sicurezza sul lavoro è diventata tragica per l’aumento della mortalità, il governo aveva assicurato di tassare gli extraprofitti delle banche ma poi si è tirato indietro, La sanità oramai è stata quasi interamente privatizzata, anche se gli italiani seguitano a pagare le tasse per una sanità pubblica in via di eliminazione, dal punto di vista politico la censura, poi, la fa da padrone: Scurati, Saviano, la perdita nella RAI delle menti più brillanti dal punto di vista culturale, le denunce da parte del potere a intellettuali e giornalisti che, pur esercitando il loro diritto di critica, sono costretti a sostenere in tribunale una difesa impari con le massime autorità di governo. Per fortuna nella nostra Costituzione la ricostruzione del partito fascista è vietata, cosi come è vietata l’apologia del fascismo dando luogo così ad una Costituzione Antifascista, termine oramai inviso e impronunciabile.
Io la storia non l’ho letta ma vissuta in un paese con tedeschi e fascisti che creavano terrore anche a noi bambini e dove molti giovani chiamati per fare la guerra preferivano scappare in montagna ( tra questi mio fratello di 18 anni) dove si riunivano come partigiani armati di fucili e bonbe a mano e, grazie agli americani che con carri armati con cannoni armatissimi, uniti riuscirono a liberare l’italia-Vero è che in russia esisteva lo sterminio del cristianesimo con stupri alle suore, uccisioni dei sacerdoti, chiese usati come granai cristiani perseguitati etc e che per questo nella propaganda elettorale si aggiungeva “mangiatori di bambini” e che noi cristiani avevamo paura che i comunisti alleati alla russia potessero vincere le elezioni così come i comunisti facevamo propaga con accuse infamanti contro lo scudo crociato
La liberazione è solo merito dei partigiani con i fucili che con l’aiuto e il sostanzioso sostegno dagli americani riportarono la democrazia e la libertà in Italia
La concessione all’America di alcune basi con sommergibili atomici e villaggi per soldati americani dava maggiore protezione all’Italia e i militari presenti consumi di prodotti locali e lavoro
L’America accolse milioni di emigranti italiani
Di ciò che accadeva a livello Europeo tra America, Inghilterra, Russia lo abbiamo verificato con la spartizione delle nazioni
L’Italia,sogno dei comunisti/russi, al mondo cattolico Pio XII, De Gasperi e all’America non siamo finiti colonia Russa come Jugoslavia, Ungheria, Polonia, Romania etc dove la dittatura russa significava assenza di libertà fame e sofferenze fisiche e umane.
Caro Tonino, comunque tu la voglia mettere, De Gasperi ci vendette all’America facendo in modo che l’Italia fosse una colonia americana come molti altri Paesi. La presenza di basi atomiche americane in molti siti italiani ci espone, proprio oggi, che siamo in un clima di guerra, agli attacchi di nemici con armamento nucleare, quindi non siamo più sicuri sotto l’ombrello americano ma siamo sicuramente più esposti a pericoli di attacco atomico. Guarda la Svizzera, indipendente, avulsa da quasiasi partecipazione a unioni militari, libera di fare le politiche dettate dal popolo e patria di perseguitati e oppresi. Io ricordo i comunisti che mangiavano i bambini con molta paura, ricordo la propaganda cattolica impegnata con sermoni e propaganda a dipingere i comunisti come mostri assetati d sangue mentre, come afferma Romano, il ministro della giustizia Palmiro Togliatti, avulso da spirito vendicativo, ammnistiò i reati dei fascisti. Non dimentichiamoci poi l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse che si realizzò proprio nel momento in cvui l’importante statista stava per dare attuazione al “compromesso storico” con il partito comunista italiano. Riflettiamo bene!!! Un abbraccio Gero.
Gero caro, credo le nostre visione storiche dipendono dalle conescenze/esperienze vissute e non inperpretate o lette da storici con le loro interpretazioni
Senza i soldi e la protezione dell’America in cambio di alcuni siti con sommergibili atomici
“Do ut des”
Mi rifiuto di ricordare la situazione dell’Italia in mano ai nazifascisti, alla tragica situazione psicologica degli italiani con famigliari morti, malattie, fame, migranti a cercare lavoro
Allo stesso modo mi rifiuto di immaginate che Togliatti con la banda rossa non avesse permesso ai russi ciò che successe in Ungheria, Jugoslavia etc e la loro storia, dittatura, persecuzioni, fame etc.
Ricordo molto bene i manifesti vignettati di tutti i partiti ( portavo il barattolo della colla fatta con la farina a mio fratello cattolico come in famiglia) per i manifesti della DC
Contestualizzando confermo che senza gli americani in Italia la democrazia non sarebbe mai arrivata.
Ho avuto l’onore in Piazza di Gesù di scambiare qualche pensiero con Aldo Moro molto preparato e deciso
Lo condividevo e sostenevo nel progetto con Berlinguer meravigliosa persona
Il figlio del capo scorta di Moro Leonardi dopo un anno dall’uccisione del padre lo presi nel mio gruppo di collaboratori nell’Ente dove anche Romano lavorava
Vita vissuta direttamente e personalmente e non letta sui libri
Io credo, però, che la conoscenza dei fatti storici attraverso lo studio della storia stessa faccia conoscere molti più dettagli di quelli che si hanno attraverso una limitata esperienza personale. Un saluto.
Naturalmente i libri utilissimi per far sviluppare l’immaginario del possibile, vero, falso di con arte li scrive soprattutto storici ma difficilmente provoca emozioni che invece chi di persona li ha vissuti direttamente e personalmente con momenti di dolore, sofferenze, gioie e indifferenze
Vero è che molti dettagli e particolari degli accordi dei potenti interessati sono stati immaginati e interpretati dagli storici e trasmessi con libri cosi anche a chi li ha direttamente vissuti nei limiti delle informazioni dei mezzi del tempo ( radio e giornali e passa parola)
Un fatto vero:
Un calzolaio comunista comprava tutte le mattine l’Unità. Non sapendo leggerlo lo faceva leggere a un suo amico il quale una mattina legge: … porca miseria, cumpà qui c’è scritto che hanno visto volare un asino;
il calzolaio: cunpà, questa è troppo grossa, non pò essere!:
Il lettore: cumpà leggi tu!;
Il calzolaio: no no no ci credo !!!!
In poco tempo la vicenda girava per il paese e chi non sapeva legge era d’accordo con il calzolaio
Mi riconosco del tutto nella visione odierna di Tonino e nei ricordi di allora, avevo 9 anni, ero con la famiglia a Colonnella al confine tra Abruzzo e Marche, a parte i manganelli, i bombardamenti li vedevamo dal “colletto”, la posizione panoramica del paese, in basso sulla stazione di Martinsicuro. Il 25 aprile esplose la felicità per la fine della guerra, terminava l’incubo dei rastrellamenti tedeschi e di tutto il resto, quando sfilarono gli alleati osannnati da tutti – “viva Ciurcill, viva Rosevelt!” (sic!( gridava quasi fuori di sè per la gioia un personaggio solitamente compassato – in testa anche partigiani del Bosco Martese con il mitra a tracolla,, alcuni in verità … imbucati, non avevano mai lasciato Colonnella. Fu un giorno di felicità e di riconoscenza per chi ci aveva regalato quella gioia imperitura, il sollievo allontanava i ricordi delle sofferenze, che semmai accrescevano la gioia. Perchè oggi non celebrare la Liberazione di allora con quello spirito gioioso? Con il doveroso omaggio a coloro che hanno sacrificato le loro giovani vite per la nostra libertà, magari andandoli a venerare nei cimiteri di guerra: i Partigiani ovviamente ma soprattutto gli americani, morti in 90 mila in Itaia e sepolti in 42 cimiteri di guerra, con i soldati di tante nazioni venuti a combattere e morire nel nostro paese contro l’oppressore tedesco.
Non mi sembra ci fossero russi, caro Gelasio, anche se furono decisivi per la sconfitta della Germania ma per fortuna non arrivarono fino all’Italia, altrimenti, come dici, ci avrebbero “liberato” come fecero per i paesi poi soggiogati nell’Unione Sovietica. Il regine fascista si era autodissolto il 25 luglio di due anni prima, con il dittatore Mussolini arrestato dal Re cui aveva portato la delibera del Gran Consiglio del fascismo che lo sfiduciava , e il nuovo governo Badoglio instaurato al suo posto mancò ai propri doveri provocando il “tutti a casa” del nostro esercito lasciato allo sbando e alla mercè del tedesco divenuto nemico e assetato di vendetta contro coloro che considerava “traditori”, in 600 mila deportati nei lager tedeschi dove moritono in diecine di migliaia, sopravvisse Giovannino Guareschi di cui sono stato affezionato lettore negli anni liceali nel Candido” da lui diretto. Le malefatte fasciste e le stragi naziste possono essere rievocate nella loro ignominia e nei lutti che hanno seminato con dolenti celebrazioni nel giorno della loro ricorrenza, invece di essere affastellate nel 25 aprile in cui invece è bello festeggiare con gioia la Liberazione con quel che ne è seguito, Costtuzione in testa. L’unità si trova nel segno della libertà riconquistata, senza nulla di divisivo, come non lo è la Costituzione in cui tutti si possono e devono riconoscere. E’ la più bella del mondo perchè i suoi valori sono l’opposto di quanto praticano tutte le dittature in termini di discriminazioni e oppressioni, prevricazioni e soprusi, e proprio per questo sarebbe limitativo, per usare un eufemismo, considerarla “antifascista” tanto più oggi dopo 80 anni dalla fine del fascismo che ne segnerebbe il sostanziale esaurimento.
Il grande merito dei Padri Costituenti è stato proprio non dichiararla “antifascista”, evitando di citare tale termine in tutto il “corpus” dei principi e delle regole – di per sè opposti a quelli fascisti, ma non solo a quelli, a tutti i regimi dittatoriali, autoritari e anhe illiberali – relegando nelle “Disposizioni transitorie e finali” dedicate a norme procedurali e temporanee, il divieto della “ricostituzione del disciolto partito fascista”, ma la XII disposizione – alla quale segue quella abrogata da anni del divieto ai Savoia di entarre in Itaia – che i”capi del regime fascista” non potevano essere esclusi dall’elettorato e dalle cariche pubbiche per più di cinque anni. E dire che presidente dell’Assemblea Costituente era Umberto Terracini, che aveva trascorso venti anni nelle carceri fasciste, e c’era Pertini anch’egli incarcerato. La Costituzione non vieta l’apologia del fascismo – forse Gelasio si è espresso male nello scriverlo – al punto che quando nel 1952 la legge Scelba di attuazione lo introdusse come reato, questa disposizione dell’art. 4 fu dichiarata incotituzionale da due sentenze della Corte Costituzionale del 1957 e 1958 perchè la norma era contraria alla libertà di pensiero garantita proprio dalla Costituzione, e meritoriamente. Ammirazione quindi per i Padri Costituenti che guardavano lontano, pur sentendo molti nelle loro carni le sofferenze delle malefatte fasciste, ma senza spirito vendicativo bensì di pacificazione, che portò addirittura all’amnistia del ministro della Giustizia, il capo comunista Palmiro Togliatti per i reati dei fascisti. “Il Borghese” aveva una rubrica fotografica allusiva intitolata “vecchi fusti e nuovi fusti”, in cui i primi spiccavano per grandezza, i secondi erano l’opposto. Ebbene, nei “vecchi fusti” ci vedo i Padri Costituenti, i “nuovi fusti” non serve indicarli, imperversano nei “talk show ” televisivi e non solo, primo tra loro il censurato più ascoltato al mondo…. .
Caro Romano, ieri non ho avuto il tempo per risponderti, tuttavia vorrei iniziare dal fatto ribadendo che i russi non vennero a liberare l’Italia, ma contribuirono a liberare l’intera Europa, di cui l’Italia faceva parte, dal terribile regime nazi-fascista e per questo sacrficio lasciarono sul campo ben 20 milioni di morti. Io dico che oltre a ringraziare gli anglo-americani bisognerebbe ricordare anche i russi per il loro impegno unitario che ci liberarono da Hitler e da Mussolini. Riguardo poi alla questione costituzionale il reato di “Apologia del fascismo” non è “relegato” nelle disposizioni transitorie e finali della nostra Costituzione ma è parte integrante di essa grazie all’articolo 4 della legge Scelba del 1952. Infatti tali disposizioni, presenti nella nostra costituzione sanciscono che: “E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Ciò significa che la nostra Costituzione è antifascista e non mi risulta che tale disposizione sia mai stata abolita poiché dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale, scusa iol giro di parole, nel 1957 e 1958. Essa è tuttora vigente e la legge punisce con la reclusione di svariati anni di carcere e multe fino a 6.000 euro: “Chiunque propaganda le immagini o i contenuti proprii del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco […] anche solo attraverso la produzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli ad essi chiaramente riferiti […]”. (Versione più recente in fase di approvazione). Concordo pienamente su tutte le tue altre considerazioni sulle malefatte fasciste e stragi naziste avvenute in Italia che io chiamerei stragi nazi-fascste, che vengono rievocate dolorosamente nei giorni della loro ricorrenza. Tuttavia io penso che l’evento, forse il più importante per lo sviluppo economico e sociale italiano nella pace e nella serenità, cioè la liberazione dalla dittatura nazi-fascista debba comunque essere celebrata con meno polemiche ma con il ripudio totale da parte di tutti di quella dittatura in cui vennero abolite tutte le libertà e sia la violenza sia la guerra erano i cardini fondanti di quel regime. Caro Romano, voglio dirti comunque che io sono molto orgoglioso di poter dissertare con te su questioni storiche e politiche, poiché tu hai sempre qualcosa da insegnarmi anche perché conosci, in parte, il mio pensiero per aver affinato i miei testi rendendoli più scorrevoli per il lettore. Un abbraccio Gero.
Mi dispiace dover discettare dei russi per il nostro 25 aprile, nel quale continuo a pensare che non … c’azzecchino…, ma il tuo reiterato riferimento mi porta ad una modesta ripetizione del mio pensiero. E’ vero che i russi hanno avuto il terrificante sacrificio di 20 milioni di morti – quanto i tedeschi aggressori – ma non per il generoso sforzo di liberare l’Europa – pensiamo al precedente patto Molotov-Ribbentrop – bensì perché sono stati invasi e si sono difesi eroicamente respingendo e poi inseguendo le armate tedesche fino a Berlino e ad altri paesi occupati dai tedeschi che hanno liberato da una oppressione ma li hanno assoggettati ad una dittatura che è stata quanto mai oppressiva. Ovviamente in questo modo contribuendo alla liberazione dell’Europa, ma senza arrivare all’Italia, per nostra fortuna, sempre a mio avviso; nessun soldato russo è caduto nella liberazione dell’Italia, quindi non si può pensare a loro nella festa della Liberazione. Ben diverso il pensiero memore e riconoscente da rivolgere ai soldati americani caduti in 90.000 nella campagna d’Italia dopo gli sbarchi in Sicilia, ad Anzio e Salerno, e l’America non era stata invasa come la Russia, dall’altra parte dell’oceano gli americani potevano sentirsi protetti dalle mire di Hitler, sono loro che generosamente ci hanno liberati, insieme ad altri paesi, perfino Neozelanda e Australia con i loro soldati; e gli americani non hanno liberato solo l’Italia ma anche l’Europa – oltre ai russi – con lo sbarco in Normandia, anche lì lasciando sul terreno diecine di migliaia di vittime nei combattimenti. Nell’anniversario dello sbarco in Normandia anche i russi devono essere ricordati per l’incontro tra la loro armata e quella sbarcata nella morsa in cui fu stretto l’esercito tedesco fino al Reichstad, ma nella nsotra festa della Liberazione c’entrano poco.
Mi dispiace anche di dover insistere su quanto modestamente ho sostenuto sull’altro punto da te riproposto, quello dell’apologia del fascismo, credevo di aver equivocato .le tue parole ora molto chiare. Non è la mia opinione ma è un fatto che il reato di apologia di fascismo, introdotto non dalla Costituzione, ma dall’art. 4 della legge Scelba del 1952, è stato dichiarato incostituzionale da due sentenze della Corte del 1957 e 1958, proprio perché violava la norma costituzionale che garantisce la libertà di pensiero. Ne voglio parlare più che in termini giuridici, andando ai fatti: le manifestazioni nostalgiche di Acca Laurentia e simili possono essere ripetute ogni anno proprio perché atti di apologia sono ammessi, come è ammessa la vendita a Predappio di tutta l’oggettistica fascista in bella mostra, mentre tu scrivi che è vigente la condanna al carcere e alle multe di chi fa propaganda fascista anche “attraverso la produzione, diffusione e vendita di beni raffiguranti persone, immagini e simboli ad essi chiaramente riferiti”; non mi sembra. L’art. 4 della legge Scelba non è stato abrogato, come dici, ma è inefficace, tanto che Mancino per ovviare a questo fece approvare una legge che punisce atti discriminatori e simili, ma non si ritengono tali quelli genericamente apologetici del fascismo, Acca Laurentia docet. Che i valori della nostra Costituzione siano l’opposto dei disvalori del fascismo è tanto evidente da non doversi affermare, pensare in modo diverso sarebbe offendere i Costituenti non solo sicuramente antifascisti ma alcuni come il presidente Terrracini e Pertini incarcerati dal fascismo; ed è altrettanto evidente che non hanno voluto limitare la Costituzione all’antifascismo, altrimenti lo avrebbero citato nei principi fondamentali, magari nell’art. 1, come ha detto impropriamente Bertinotti secondo cui per la Costituzione “l’Italia è una repubblica democratica fondata sull’antifascismo”, mentre si legge che è fondata sul lavoro… . Io penso che la grandezza dei nostri Padri Costituenti è stata proprio nel dare carattere generale e permanente, anzi perenne, ai nobili principi della democrazia, contro oppressioni, razzismi, per l’uguaglianza e tantissimo altro, quindi è contro ogni dittatura, autoritarismo, sistema illiberale e non solo contro il fascismo ritenuto giustamente da loro definitivamente sconfitto e destinato solo a non essere riproposto ricostituendo “il disciolto partito fascista” cui si riferisce la norma nella parte marginale della Costituzione, non nei principi basilari. .
Chi chiede professioni di antifascismo oggi e ne parla in modo ossessivo con fare degno dell’Inquisizione – si deve dire esattamente “sono antifascista” e non basta dire di non avere nostalgie né simpatie o simili per il fascismo – fa rivivere idealmente il fascismo morto 80 anni fa con grande gioia dei nostalgici mentre è relegato nella storia. Diversa è la vigilanza e l’eventuale allarme su pulsioni antidemocratiche che non sono fasciste ma autoritarie, dittatoriali e illiberali e vanno combattute per quello che sono. Chi vuole fare imposizioni sul libero pensiero con pretese antidemocratiche richiama sì, metodi fascisti, non è il tuo caso, ovviamente, la tua impostazione è esattamente opposta. . Ricambio le espressioni generose e immeritate nei miei riguardi, apprezzo molto la tua acutezza e tenacia di ricercatore e anche la maestria di narratore come la tua passione civile da cui è permeata anche la tua ultima nota, le mie sono chiose forse banali ma tra noi questi scambi sono legati alla grande stima reciproca e diventano per ciò stesso irrefrenabili e, almeno i miei post, interminabili e me ne scuso. . E ancora, viva il 25 aprile, viva la Liberazione, viva l’Italia democratica !
Caro Romano, ti rispondo sinteticamente in quanto per un errore di battitura ho cancellato la mia lunga risposta. Cerco di essere breve: Se i tedeschi non fossero stati sconfitti dalla Russia il loro esercito, ammontante a tre milioni di uomini, sarebbe stato utilizzato da Hitler per sconfiggere gli Alleati sia sul fronte occidentale impedendo lo sbarco in Normandia, sia sul fronte sud cioè in Italia. Tutti gli storici concordano che con una tale situazione Hitler avrebbe realizzato il suo impero millenario formato da teutonici di razza ariana con gli occhi blu e i capelli biondi. Ne sarebbe conseguito un potere sempre più saldo di Hitler con l’Italia ancora nelle mani di Mussolini suo amico e maestro. Ne consegue che, con l’ipotesi da me avanzata, oggi l’Italia sarebbe ancora, con ogni probabilità, sotto il regime fascista. Indirettamente, quindi, il sacrificio della Russia è servito anche a liberare dalla dittatura il nostro Paese. Per quanto attiene alla legittimità della legge 20 giugno del 1952 o legge Scelba io so che in processi portati avanti dai tribunali di Torino, Roma e Perugia riguardanti “l’apologia del fascismo” e in cui le difese avevano impugnato le sentenze per illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 20 giugno 1952, la Corte Costituzionale, pronunciandosi con un’unica sentenza sui tre provvedimenti riuniti, così si espresse: la Corte dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale contenuta nell’Art. 4 della legge 20 giugno 1952 in riferimento alle norme contenute nella XII delle disposizioni transitorie e finali. Così deciso in Roma, nella sede della corte Costituzionale, Palazzo della Consulta il 16 gennaio 1957. Quindi, a mio modestissimo avviso, la nostra Costituzione è antifascista. I fatti di Acca Larenzia e simili, la vendita di gadget che ricordano il disciolto partito fascista sono stati tollerati da governi di qualsiasi colore per non creare scontri che aggraverebbero le manifestazioni, ma le nuove proposte avanzate da alcuni esponenti politici come l’on. Fiano sono propensi ad applicare una minore tolleranza. Un abbraccio.
Caro Gero, penso sia stucchevole il nostro ping pong su due temi del tutto lontani dai problemi reali, ma dato che insisti non posso non rispondere ancora scusandomi con i lettori per questa specie di accanimento, ma la tua passione civile unita a vis polemica è irrefrenabile, e ti fa onore.. Continuo a non attribuire ai russi il merito della riconquistata libertà dalla dittatura fascista, dissoltasi per implosione il 25 luglio 1943, e non ti seguo nella tua fantasiosa immaginazione, “cosa sarebbe successo se…”, mi hanno insegnato che la storia non si fa con i “se.”…. Il merito di averci liberato anche dalla feroce occupazione nazista lo attribuisco – non dimenticando il contributo dei Partigiani e dei soldati di altre nazioni sacrificatisi anch’essi nel nostro paese – soprattutto agli americani, hanno perduto la vita 90 mila giovani morti in Italia combattendo senza essere stati investiti, come i russi, dalla furia nazista nella loro terra oltre oceano. E mi sarebbe piaciuto che il 25 aprile fosse stato celebrato nei 42 cimiteri di guerra sparsi in Italia, da Udine a Siracusa, piuttosto che nei luoghi degli eccidi da celebrare nei rispettivi anniversari.
Puoi benissimo provare quella riconoscenza per i russi che io non sento dentro di me, perchè hanno dovuto difendere se stessi, non lo hanno fatto per noi, anche se rendo onore al loro sacrificio, ma tutto qui. Sull’apologia del fascismo e la legge Scelba, al di là delle considerazioni giuridiche ci sono i fatti che ho ricordato, da Acca Laurentia alla vendita libera di oggettistica fascista, e non per mera tolleranza come dici, ma c’è di più. Nel 1981 Giorgio Pisanò fondò il partito “Fascismo e libertà” che fu ammesso come legittimo nelle sentenze di molti tribunali – i quali archiviarono o bocciarono i taanti ricorsi – perchè non configurava la ricostituzione del “disciolto” partito fascista pur avendolo nel nome, forse perchè c’era anche la parola “libertà” estranea al “disciolto” fascismo, quidi era altro. Anche sull'”apologia di fascismo” confermo che le sentenze della Corte Costituzionale del 1957 e 1958 sulla legge Scelba del 1952, pur mantenendola in vita, lhanno negato il reato quando l'”apologia del fascismo” è una “difesa elogiativa” mentre si considera reato solo se l'”esaltazione è tale da poter condurre alla ricostituzione del disciolto partito fascista” sempre in omaggio alla libertà di pensiero garantita dalla Costituzione che vieta soltanto lo “ricostituzione” oltretutto del “disciolto” partito fascista, e non eventuali nostalgie elogiative fini a se stesse. Poi ci possono essere tribunali che interpretano in modo diverso, con sentenze destinate ad essere cassate, ma è evidente la logica applicata alla lettera della Costituzione, l’art. XII Dsposizioni transitorie, e soprattutto allo spirito nobilmente democratico che garantisce la libertà di pensiero quale esso sia. E’ stata questa la grandezza dei Padri Costituenti che dobbiamo ringraziare per il loro spirito veramente democratico. E a quei tempi, con le ferite ancora aperte, sono stati degli eroi!
Cari amici Romano e Tonino, vi ringrazio per questa bella discussione, molto articolata e dettagliata, su temi che hanno riguardato la conquista delle nostre libertà individuali e collettive di cui noi tutti oggi godiamo pienamente. Un abbraccio.
Ricambio il ringraziamento e l’abbraccio finale a Gero il cui augurio “BUON 25 APRILE A TUTTI” e la mia risposta “Viva la Liberazione dell’Italia e omaggio commosso, memore e riconoscente” ai tanti Caduti per la nostra libertà, sono stati seguiti da uno scambio di idee quanto mai intenso e appassionato – cui ha partecipato anche Tonino – mosso da passione civile in un confronto, animato dal rispetto e dalla stima reciproca, di idee anche diverse ma convergenti nello spirito autenticamente democratico, quello che anima la nostra Costituzione nata dalla Liberazione del 25 aprile 1945. E per domani, “BUON 1° MAGGIO A TUTTI”.
Caro Romano, ti ringrazio immensamente dell’onore che hai voluto farmi inserendo la discussione condotta alcuni giorni fa sul 25 aprile fra “Tre amici al bar” cioè tu, Tonino e io, nel tuo sito www.arteculturaoggi.it. su cui hai pubblicato, da giornalista bravo quale sei, centinaia di articoli sull’arte, ma anche su argomenti di attualità. Ricordo che hai voluto onorarmi anche pubblicando, in passato, sunti dei miei libri e io non posso fare altro che ringraziarti anche in funzione della nostra collaborazione culturale ancora oggi in pieno svolgimento. ti saluto e ti abbraccio Gelasio.
Caro Gero, questo sul 25 aprile è stato il terzo incontro dei “tre amici al bar” di FB, intenso e … combattuto come gli altri due – sul Tricolore e sul 25 luglio 1943 – anch’essi su FB, dei quali, come ricorderai, ho pubblicato i tanti Post in due articoli nel mio sito l’8 e 9 settembre 2023 sempre integralmente. Scambi di idee e confronti di posizioni diverse all’nisegna della stima reciproca che alimenta la riflessione su temi basilari in modo ben diverso dalle asserzioni tanto superficiali quanto apodittiche che si sentono troppo spesso. Per il resto, aver recensito, anzi raccontato, il contenuto dei tuoi libri che spaziano da Dio e il Cosmo ai Carabinieri – dopo il libro su Gesù, l’uomo – è stato occasione di un arricchimento culturale per me data l’accuratezza della tua ricerca e il ooraggio delle tue interpretazioni di temi controversi e al contempo elevati, e non ti sei fermato, stai continuando ancora nei tuoi approfondimenti colti e appassionati che portano a scoperte di elementi inediti spesso sorprendenti; la forma espressiva avvincente rende leggera e coinvolgente una lettura per altri versi istruttiva e mai pedante. Ricambio le generose espressioni nei miei riguardi, onorato di questa intesa senza piaggeria – come dimostrano i nostri scambi su FB anche acutamente polemici ma sempre risopettosi – al’insegna delle nostre radici abruzzesi, che ci rendono “forti e gentili”, e in particolare “pretarole”, che ci rendono anche tenaci e pervicaci.. E con questo tuffo nella nostra terra ti abbraccio veramente di cuore. Romano.
Info
Il testo, tranne l’introduzione, riporta lo scambio di Post dei “tre amici al bar” dopo il messaggio “Buon 25 aprile a tutti” postato da Gelasio Giardetti sulla propria pagina di Facebook il 25 aprile, l’ultimo post di Romano Maria Levante è del 30 aprile, vigilia del 1° maggio cui si riferisce l’Introduzione, con i ricordi d’infanzia in essa evocati.
Photo
Le immagini, che non figurano nei Post di Facebook, sono state inserite a mero titolo illustrativo senza alcun intento economico, tratte da una serie di siti web di pubblico dominio di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, pronti a eliminare le immagini di cui non fosse gradita la pubblicazione su semplice richiesta. I siti sono i seguenti, nell’ordine di insrimento delle imamgini: ilmessaggero, isrlaspezia, corrieredellasera, archivioluce, focus, lavoceeil tempo, universitadibologna, bolognaonline, wikipedia, lavoceeiltempo, vigevano24, corriere, milanofree, spazio50, italialessandria, strettoweb, luinonotizie, 2duerighe, panorama, panorama: grazie di nuovo a tutti. Per lo più sono alternate immagini dell’ingresso degli Alleati con i loro mezzi corazzati tra la folla plaudente con immagini di Partigiani – la prima con i capi partigiani che sfilano a Milano il 25 aprile – e della popolazione ebbra di felicità che festeggia la Liberazione.
Si cconclude il nostro ricordo celebrativo di Ennio Calabria, l’artista scomparso il 1° marzo 2024, con l’ultimo dei 3 articoli usciti a commento della grande mostra antologica a Palazzo Cipolla, a fine 2018-inizi 2019. Abbiamo ripubblicato il primo articolo, sulla sua impostazione filosofico-artistica, il 1° aprile scorso, il giorno del trigesimo della scomparsa, il secondo articolo il 4 aprile sulle sue opere del trentennio 1958-88; l’ultimo articolo odierno, uscito il 10 gennaio 2019, riguarda le opere dal 1989 al 2018 quando si svolse la mostra. E significativo che la rievocazione sia iniziata il giorno di Pasqua, avendo negli occhi le sue suggestive Crocifissioni.
Dopo aver ripercorso i primi 30 anni del sessantennio 1958-1988, si conclude, con il trentennio successivo 1989-2018, la visita alla mostra antologica “Ennio Calabria, verso il tempo dell’essere. Opere 1958-2018”, aperta dal 20 novembre 2018 al 27 gennaio 2019 a Palazzo Cipolla, promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele, ideatore della mostra, organizzata da “Poema” con “Archivi Calabria”, supporto tecnico di “Civita mostre”, a cura di Gabriele Simongini, che ha curato anche il catalogo bilingue, italiano-inglese, della Silvana Editoriale.
Abbiamo ccncluso la rievocazione dei primi 30 anni dell’itinerario artistico e umano di Ennio Calabria sottolineando la nuova direttrice, con cui accentua ulteriormente il suo rifiuto di tradurre nell’arte le ideologie precostituite impegnandosi invece nella ricerca sull’essere umano nel mondo in cui vive mediante l’aderenza alla realtà, ma non al realismo, in una visione complessa con base filosofica volta alla conoscenza per percepire i germi del futuro.
La fiducia nella pittura e la coscienza del proprio ruolo
Ecco le sue parole illuminanti del 1985: “Ho dipinto quadri politici per molti anni, e continuo a dipingerne. L’unica differenza consiste nel fatto che prima io portavo confusamente nel ‘politico’ il mio privato anelito, il mio desiderio oscuro di trovare nel gesto politico una risposta ai problemi che evidentemente erano più profondi, e forse anche miei personali”; di certo, aggiungiamo noi, non suscitati dai dettati dei partiti della sinistra dai quali, pur aderendo alla loro visione politica, aveva segnato la più assoluta autonomia. E ora? “Questa presa di coscienza di oggi non significa una rottura col politico, significa una distinzione, una consapevolezza dei due livelli di partecipazione e di conoscenza”.
Ha ancora più fiducia nella sua arte: “Da qui per me è rinata, negli anni recenti, una forte rivalutazione della pittura come strumento per conoscere la realtà, strumento più valido della parola parlata, scritta e inflazionata, che serve più a nascondere che a far emergere”. E, di conseguenza, piena coscienza del proprio ruolo: “In questo senso, ho capito il contributo che un artista può dare anche al movimento politico, ed è usare il proprio strumento in modo conoscitivo. In sostanza, io posso essere un pittore che cerca di interpretare la realtà per gli altri. E quindi sono al di fuori del servizio di una ideologia”.
I canoni del Realismo socialista del tutto rovesciati, è l’artista a incidere con la ricerca di verità sulla politica, l’opposto che ridursi a megafono della sua propaganda.
Ci siamo soffermati su queste dichiarazioni perché ci sembrano di straordinario valore in assoluto, oltre a introdurre nel modo più adeguato il percorso del trentennio successivo, l’ultimo nel quale la politica, anche nella sua visione non ideologica, lascia il posto all’ispirazione sociale ma soprattutto esistenziale: “Il suo modo di vivere e confrontarsi con la realtà – afferma Ida Mitrano – è cambiato e guarda ora nel proprio profondo, dentro di sé”. Lo stesso artista dichiara di aver compreso come “si debba riconsiderare il mondo partendo da noi, da dentro, e che il mondo va rifondato attraverso noi stessi. In questo senso va interpretato lo spostamento avvenuto nella mia pittura”.
E’ stato sempre attento alla realtà, fuori dalle ideologie, ma ora “il processo di identificazione ha cominciato ad accadere per via interiore, cioè ho continuato l’analisi del mondo esterno dall’interno. In altre parole, è come se il cannocchiale si fosse spostato dentro di me”. Nel guardare dentro di sé vede che “le uniche informazioni importanti vengono dal tuo Sé profondo e non dal tuo Sé ideologico”.
Dal 1989 al 2000
Per la fine degli anni ’80, precisamente il 1989, sono esposti “Evento sull’acqua”, con la bandiera rossa caduta nel Tevere che “si scinde… si scinde… si scinde assumendo il metamorfismo dell’acqua”, e “Biografia rivisitata”, la madre scomparsa tre anni prima, vestita da sposa; “Inchiesta autobiografica” con le scure proiezioni dell’inconscio, e 2 opere dal cromatismo più vivo, “Rosso lacerazioni”, in cui torna il colore dell’”Evento nell’acqua”, e “Dallo scoglio” 1989, ci ricorda la rivelazione che fu per lui la rifrazione dell’acqua in mille immagini sugli scogli battuti dalle onde. Ne deriva che l’ispirazione dell’artista non fa riferimento a idee o progetti definiti, ma a una realtà in continuo divenire, il che determina una sorta di spaesamento con la ricerca di forme espressive sempre nuove, in grado di interpretare l’incessante processo di cambiamento, stimolate anche dalla riflessione a livello filosofico che accompagna come sempre l’evoluzione sul piano artistico.
Un’intrinseca instabilità non c’è solo nella realtà interna, ma anche nella sfera interiore. Perciò le forme delle sue composizioni diventano più sfuggenti e indefinite, per un metamorfismo insito nel cambiamento, e questo lo avvicina solo apparentemente all’informale, perché è sempre legato alla “realtà vista come capacità percettiva dei più”, che resta al centro della sua visione.
Afferma lui stesso che “non si pone di fronte ai fenomeni e agli accadimenti con il proprio ‘io’, già concluso e blindato, ma ne accetta la precarietà culturale, mentre lo valorizza come strumento sensibile e vibrante, che a petto delle sollecitazioni oggettive, smuove ed eccita l’intero arco della psiche, e quindi tutti gli strumenti che la personalità ha, al fine di conoscere”. E conclude: “Egli ricompone il proprio ‘io’ a valle, dopo averlo negato come identità conclusa a monte”. Nessuna regola prefissata, si tratta di rendere l’imprevedibilità delle trasformazioni del reale con il “sincronismo” e il “metamorfismo”, immagini di tipo nuovo che assumono una valenza simbolica.
Un’introspezione così complessa non può che tradursi in opere dall’interpretazione altrettanto complessa, che alla spettacolarità delle grandi dimensioni uniscono l’intrigante incertezza sul loro significato, con la suggestione delle forme più o meno evanescenti che animano le composizioni.
Per gli anni ’90 sono esposte 4 opere della serie “Ambiguità dell’intravisto”: 3 sono del 1992, si tratta di “Dinamismo della staticità”, “Uomo che guarda il mare” e “Donna e mare”: l’ossimoro del primo titolo deriva dalle forme coesistenti diverse tra loro e rispetto “a quell’immagine finale e complessiva che accadrà”, senza alcun rapporto di causa ed effetto, del resto negato dal sincronismo unito al metamorfismo; mentre negli altri due titoli il genere espresso trova vaga rispondenza in forme evocative per quanto fluide e indistinte.
Nell’opera del 1993, “Eretto antropomorfo”, è delineato l’uomo “antitetico all’automatismo della natura”, capace di “concepire la ‘fenomenologia del senso’”. Chiude il decennio “Accade in città” 1999, forme che si affollano in un intenso magma cromatico. In quest’ultimo anno partecipa alla XIII Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, per la sua mostra a Bagnacavallo esce il catalogo 1995-96 dal titolo eloquente: “I confini del mondo nell’opera incisa di Ennio Calabria”.
Inizia il terzo millennio
Con il terzo millennio l’evoluzione continua, pur nella continuità ideale di fondo, il linguaggio pittorico diventa sempre più aderente al nuovo soggetto. Così lo vede la Mitrano: “Il contesto esterno sembra venire meno, perché l’attenzione è rivolta a se stesso come sedimento cui attingere, come magma entropico da cui la figura prende forma”. Ed ecco come si manifesta nella composizione pittorica: “Alcuni elementi, come un colore, un segno, un’ombra si rivelano significativi senza alcuna intenzione. E la figura, un pretesto per l’emersione di contenuti inconsci che attraverso quegli elementi acquisiscono forza esterna connotando lo spazio pittorico con la loro presenza”. Ancora più chiaramente: “Il segno non è descrittivo, ma contorna. E’ segno-colore che, come già sottolineato, non giunge mai ad esiti informali o astratti”, nasce sempre dalla realtà che è comunque contraddittoria nell’assenza di relazioni di causa-effetto e nell’imprevedibilità. Una contraddittorietà che è creatrice di un nuovo significato, generato da nuovi presupposti. La forma si afferma e si nega entro il vortice di quei segni-colore, dove l’artista rimane assolutamente centrale”. Ciò perché la forma è un mero “contenitore” di contenuti mutevoli, e le figure – è sempre la Mitrano – “appaiono, allora, come campi energetici dove si scontrano, se le forze centrifughe dilaniamo le figure, quelle centripete tendono ad aggregare le forme”.
Non ci potrebbe essere migliore preparazione alla vista delle opere del quinto decennio, perché mentre fornisce una chiave interpretativa delle figurazioni, solleva anche dall’ansia di capire.
Le 2 opere esposte del 2003, “Arcaica navigazione”, e ““Linee d’energia”, mostrano entrambe una labile figura umana in balia di forze esterne; la navigazione si riferisce al “mare delle tecnologie”, con l’”Intelligenza artificiale”, la mente sembra adattarsi finché l’istinto di sopravvivenza fa insorgere “per difendere la nostra identità umana”. Seguono, del 2003, “Passa un aereo”, con la scia nel cielo e l’enigma delle forme a terra; del 2008, “Presentimento d’acqua”, evocata da una striatura blu, mentre in“Ombre del futuro”, dello stesso anno, si addensano piccolissime figure umane che diventano tre sagome che si stagliano, alte e sottili, come in una tragica crocifissione.
Di questo decennio sono esposte due serie con 3 ritratti ciascuna, una dedicata a papa Giovanni Paolo II, l’altra intitolata “Il volto e il tempo”.
Nei primi due ritratti del papa, “Un papa polacco” 2004, e “Le linee del dolore” 2005, emerge la sofferenza in chiave anche figurativa, nel terzo, “Il vero e il falso” 2005, con la folla ai funerali torna la visione popolare degli inizi, evoca “Un’Annunciazione del nostro tempo” del 1963. Questi dipinti fanno parte del ciclo di 22 ritratti papali esposti in apposite mostre; nel catalogo della mostra di Cracovia si legge che il volto di papa Wojtyla è “luogo simbolico, ma al tempo stesso fisico nella tensione dei segni che si caricano di significati oscuri. Un luogo dove le contraddizioni dell’uomo contemporaneo convivono e diventano espressione inequivocabile di quella condizione umana di cui Giovanni Paolo II, ogni volta, in questi ritratti, appare dolorosamente farsi carico”.
La figura umana è dominante anche nell’altra serie, lo vediamo in “Pantani nell’accadere del ricordo” 2005, eretto sulla sua bicicletta con le braccia aperte nel segno della vittoria che diventa anche la sua crocifissione; “Uomini del deserto. Ritratto di Ahmadinejad” 2008, presenta il discusso presidente iraniano in modo non diverso da “Jorge Louis Burges. La manovra dell’ombra” 2009, le loro teste sono al culmine di un’immagine totemica con i corpi innervati da segni e forme oscure.
Paola Di Giammaria afferma che “anche un ritratto, per la verità dell’unicità soggettiva del suo autore, ha la potenzialità che può consentirgli di diventare una rappresentazione collettiva ‘della esiliata dimensione complessa della nostra personalità’”, esprimendo l’introspezione profonda. Del resto, anche al di fuori dei Ritratti, si è visto che la figura fa emergere all’esterno i contenuti inconsci, le “posizionature della mente”.
Mostre in cui sono esposti i dipinti di questo decennio si svolgono nel 2000 a Roma, nell’ex Mattatoio, e nel 2001 a Chieti, nel 2002 a Roma alla Galleria “Lombardi” per i ritratti di papa Giovanni Paolo II, mostra ripetuta in altre città, nel 2003 a Roma nella Galleria “Il Narciso” e nel 2004 a Pescara e a Castiglioncello, nel 2005 a Siena e a Palermo, nel 2006 a Gemini e a Fondi, nel 2008 a Giulianova sui ritratti e a Cracovia specificamente su quelli del papa polacco, nel 2009 a Milano, Chieti e Viareggio con “La forma da dentro”.
Scopriamo un’attività espositiva forse al di fuori dei circuiti “istituzionali” più accreditati, ma senza soluzione di continuità, alla quale si associa la pubblicazione di cataloghi e monografie con gli approfondimenti critici.Vedremo come tale presenza, discreta ma costante, continua anche in seguito. Inoltre partecipa attivamente a convegni e incontri nei quali sostiene il valore della testimonianza dell’artista in grado di dare all’arte un valore sociale, affermando che “la pittura può e deve contrapporsi all’egemonia della documentazione di derivazione fotografica, e deve dimostrare di essere portatrice di verità e comunque di un numero e di una qualità di informazioni diverse ma altrettanto attuali di quelle di cui la foto è capace”.
Gli ultimi due anni del decennio lo vedono intervenire nel 2008 al “Tavolo di coordinamento per l’arte contemporanea”, nel quale con gli operatori del settore presenta una serie organica di proposte per migliorare la condizione degli artisti, che saranno incluse nel documento sulle “Problematiche dell’arte figurativa”. a conclusione dell’indagine parlamentare. E nel 2009 fonda l’associazione culturale “in tempo”, con un manifesto che sarà seguito nel 2017 dal “Manifesto per l’arte, pittura e scultura”, vi partecipano importanti personalità dell’arte e della cultura.
L’ultimo decennio
Si apre l’ultimo decennio con una personale a Catania nel 2010, dal titolo eloquente,”L’occhio del dentro”, seguita nel 2011 dalla partecipazione al Padiglione Italia Regione Lazio a Roma, nella Biennale di Venezia curata da Vittorio Sgarbi nel 150° dell’Unità d’Italia, con l’opera “Il pensiero del corpo”. Nel 2012 personale a Roma con la nuova opera “Patologia della luce”, corpi distesi all’ombra di un aereo come cupo presagio. Anche nella crisi dell’arte come specchio della decadenza della società in lui c’è sempre la volontà di rifondarla ritrovando valori condivisi; é protagonista, nello stesso anno, del video “Spunto di vista”. Nuova mostra a Marino nel 2013, il titolo “Il tempo, i tempi” fa tornare alle sue speculazioni di tipo filosofico, che ritroviamo nel suo intervento al convegno a Roma nello stesso anno, “Creatività e forma tra arte e diritto” sul tema “Riforma delle mutazioni”: il “pensante” non può più riferirsi al “già pensato” travolto dalla crescente velocità, non c’è il dualismo dei contrari, è subentrato “l’io irrazionale”, da artista sta riflettendo su come rispondere a questa mutazione.
Siamo nel 2014, partecipa all’Esposizione Triennale di Arti visive a Roma, con opere sull’invasività della tecnologia e la conseguente mutazione dei processi psicofisici. E’ un tema che segue da decenni, aggiornandolo con le innovazioni tecnologiche: il telefono cellulare diventa soggetto di dipinti in cui esprime la contraddizione tra la possibilità di comunicare ovunque con tutti e l’incapacità di instaurare relazioni dirette e umane, perdendo il rapporto con se stesso e con gli altri.
Nel 2015 la retrospettiva “Visioni fantastiche. Trame dell’invisibile” alla Biennale Internazionale di Arte e cultura a Roma, una serie di eventi collettivi a Roma, al Macro, e a Venezia. Ancora a Roma nel 2016, è presente alla mostra “7 artisti in 7 chiese per il Giubileo della Misericordia” con “L’Uomo e la Croce”, a dicembre alla mostra a Palazzo Montecitorio “Il Vo(l)to di Donna”; la sua associazione “in tempo” organizza una mostra sull’invadenza della tecnologia e l’esigenza di rifondare l’arte basandola sulla forza creativa dell’essere umano, il suo tema ricorrente.
Il 2017 lo vede in due mostre collettive, a Roma e a Francavilla a mare, esce un libro e un filmato su di lui. E siamo al 2018, con le mostre “Sum ergo cogito”, a Roma nello “Spazio Arte Fuori Centro”, e “Il corpo” a Sofia, poi una collettiva a Firenze e infine l’antologica a Palazzo Cipolla che porta nel 2019, dall’apertura a novembre 2018 alla chiusura nel gennaio 2019.
Abbiamo fatto questa cavalcata nelle mostre e nelle presenze dirette dell’artista sulla scena artistica per evidenziarne l’inesauribile vitalità pur se certa critica e certi livelli istituzionali lo hanno trascurato, si sono dovuti attendere 30 anni per questa grande antologica meritoriamente voluta da Emanuele. Ma torniamo alla sua impostazione culturale e filosofica, richiamando ancora l’interpretazione della Mitrano: “Una società in cui gli opposti tendono a essere esclusi e la dinamica delle cose risolta dalla pragmaticità del vivere, Calabria non risponde negando quelle che ritiene siano ormai delle trasformazioni radicali e irreversibili, ma ricercando nell’uomo, nelle sue parti inconsapevoli e irrazionali, nuove possibilità espressive di un’inedita condizione umana”.
Vediamo come lo esprime nelle opere esposte per l’ultimo decennio. Del 2010, “Il pensiero nel corpo”, per la mostra citata del 150° dell’Unità d’Italia, le bandiere vi aderiscono diventando una seconda pelle, è “la cultura della storia”. Ecco, del 2012, “Patologia della luce”, anch’essa già citata, figure di bagnanti su una spiaggia che scivola “in un rapporto di causa-effetto storicamente inedito che è la sfida del futuro”, sono le sue parole; e “Garrula morte”, tanti pappagalli petulanti e “logorroici”. Tra il 2013 e il 2015, della serie “Questa lunga notte”, due dipinti oscuri, il secondo ha come sottotitolo “La luce dei telefonini”, in effetti una “luce” modesta e abbiamo spiegato prima il perché. Con il 2016 i cellulari dopo il titolo entrano nel quadro con “Fusione celibe”, due innamorati abbracciati ma soli “ciascuno se ne va con il proprio sogno, e nell’abbraccio ciascuno se ne va con il proprio telefonino”; “L’Uomo e la Croce” mostra Cristo “su una croce di pietra che è già tomba”, osserva il curatore, è “un pugno nello stomaco” per la straordinaria potenza drammatica, “uno choc visivo che è anche un omaggio universale ai martiri e alle vittime innocenti della violenza umana”. Il 2017 è presente con “Azzurri coltelli del mare”, in cui si intravedono le sagome di due corpi nel fluire dell’acqua, l’elemento liquido è congeniale all’artista.
Lo troviamo anche in “Lo scoglio”, del 2018, ricordiamo l’opera già citata sullo stesso tema del 1989, senza dimenticare la rivelazione che ebbe dalle mille immagini prodotte dalle rifrazioni dell’acqua viste proprio su uno scoglio, nelle quali identificò “il prodursi del ‘senso’ attraverso ‘accidenti’ e forme che non vi concorrono nella loro specificità”, come nella sua pittura, per cui gli parve di “riconoscere qualcosa che ha a che fare con me”. Sempre del 2018, l’ultimo anno,“Gravido mistero”, una sinfonia sul celeste con “le icone di Maria” che si intravedono mentre si innalzano tra albe e tramonti, vita e morte fino all’ultima, incinta, con il vento del parto fuori dagli schemi canonici, come il suo Crocifisso. Torna l’immagine di insicurezza del 1973, nella prima fase del percorso artistico, con “L’ombrello è rotto: paura dell’acqua”, così la commenta l’artista: “Oggi percepiamo la paurosa fine delle protezioni. Siamo soli. Incalzati da domande senza risposta”, il celeste-grigio diventa cupo, dell’ombrello inservibile spiccano le esili stecche del tutto inutili, mentre l’acqua tracima. Torna la figura umana, anche se appena distinguibile, nei due dipinti esposti della serie “La lunga notte”, “Parlamento”e“Il branco”, non è un malizioso accostamento il nostro, e tanto meno un’associazione, però rileviamo che la parte sinistra del secondo dipinto sembra un ingrandimento dell’analogo lato del primo con le teste che si affollano.
I ritratti “Mio padre viene da Tripoli lontana”, 2010, e “Benedetto XVI, la rivoluzione della fragilità” 2018, sono toccanti, per la vicinanza alla sensibilità dell’artista, mentre i due ultimi, della serie“Un volto e il tempo”, di “Marcel Proust. La manovra dell’acqua” 2012, e“Italo Calvino. Voglia di eterno” 2013, li mostrano come l’artista vede i loro volti e corpi, ben distinguibili, fluttuanti negli elementi cui collega la loro identità e la lezione che hanno lasciato.
Una serie di piccoli dipinti conclude la spettacolare galleria di tele di notevoli dimensioni, sono “Pastelli” e “Autoritratti”: lo vediamo ritrarsi, con il viso ben delineato, come “Pittore volante” nel 1961, con “La luce, il gioco, il pensiero” nel 2003, all’insegna di “Viva la pittura” nel 2007, con “Il pensiero, il caso e la carne” nel 2008, infine con “La verità nell’enfasi” nel 2011.
Ma non c’è mai enfasi nella verità di Calabria, bensì lucida consapevolezza frutto di conoscenza, e sono significative le parole che Simongini ricorda essergli state rivolte dall’artista “in un’afosa serata estiva”. Gli disse: “In viaggio verso il tempo dell’essere”. Così il curatore interpreta questo viaggio: “Calabria è costantemente immerso in un inestricabile magma creativo ed esistenziale in cui il futuro della pittura è immaginato come parte di un avvenire più ampio e decisivo, quello degli esseri umani e della sopravvivenza della nostra specie”. E conclude: “Per lui è questa la posta in gioco e dunque l’arte si identifica anche in una presa di responsabilità morale e in un complesso atto conoscitivo che rifiutano l’immagine facile, superficiale e disimpegnata, per far sentire, dal profondo e nella sua totalità più autentica, la ‘drammatica gioia del vivere’”.
Conclusione
Il percorso di arte e di vita che abbiamo rievocato ci ha mostrato un artista che rappresenta un “unicum” nel suo genere. Nell’arte è legato alla realtà, al fatto, ma non aderisce al realismo pittorico, e tanto meno al Realismo socialista, pur nel suo orientamento progressista; nella vita è militante soprattutto della sinistra sindacale, ma non usa l’arte nella sua azione politica e nel suo impegno sociale, non si concentra sulle denunce delle ingiustizie, ma sull’essere umano nella sua interezza, si rivolge al presente ma nelle sue opere entrano i germi del futuro, descrive i fatti ma in una visione che supera il contingente diventando metaforica, il tutto con assoluta coerenza.
Diverso e speculare rispetto a Renato Guttuso per il quale l’artista deve usare l’arte come strumento della propria milizia politica, e lo ha fatto con straordinaria forza fin dagli anni della resistenza ai nazisti, proseguendo poi con la sua pittura di denuncia; ma c’è stato anche il “Guttuso privato”, contemporaneo al “Guttuso rivoluzionario”, e per quanto riguarda l’uso della pittura nella milizia politica ricordiamo che, divenuto parlamentare – quindi avendo altri strumenti per portare avanti l’azione spinta dall’ideologia -la sua pittura si dedicò solo al privato, senza più opere di denuncia.
Calabria invece non ha avuto altri riferimenti costanti che l’essere umano, senza diversioni, né nell’ideologia – a parte i manifesti sindacali ispirati comunque al sociale come proiezione dell’essere – né nel privato, in una straordinaria costanza e continuità; mentre il processo evolutivo ha riguardato la forma e l’intensità della ricerca che ha prodotto anche l’evoluzione delle sue riflessioni filosofiche trovando modi personali e suggestivi di esprimere un “pensiero complesso”.
I pensieri della sua speculazione filosofica li abbiamo visti arricchire i titoli dati ai suoi dipinti con riferimenti profondi, accompagnati da commenti ispirati, in una traduzione visiva manifestata attraverso linee fluide o aggrovigliate, figure deformate per un inedito figurativo che chiameremmo informale, con un ossimoro che gli calza a perfezione.
Questo è stato Ennio Calabria nei sessant’anni di itinerario artistico, questo è tuttora nella prosecuzione di un’attività pittorica che si rinnova di continuo trovando sempre nuove forme di espressione di quanto si muove intorno all’essere umano: nella vita e nella società in continua evoluzione dalla quale cerca di cogliere i segni del futuro per innervare la visione del reale quale appare alla sua ricerca incessante e portarne alla luce il senso vero, rivelando ciò che è recondito
Info
Palazzo Cipolla, Via del Corso 320, Roma. Tutti i giorni, escluso il lunedì, ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 7, ridotto euro 5 per gli under 26 e over 65, forze dell’ordine e militari, studenti universitari e giornalisti, convenzionati; gratuito under 6 anni, disabili con accompagnatore, membri ICOM e guide turistiche. Tel. 06.2261260. I primi due articoli del servizio sulla mostra sono usciti questo sito, con 11 immagini ognuno, il 31 dicembre 2018 e il 4 gennaio 2019. Per quanto citato nel servizio, cfr. i nostri articoli, in questo sito: per Renato Guttuso, “Guttuso rivoluzionario” 14, 26, 30 luglio 2018, “Guttuso innamorato” 16 ottobre 2017, “Guttuso religioso” 27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, “Guttuso antologico” 16 e 30 gennaio 2013;per “Picasso” 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, “Cèzanne” 24, 31 dicembre 2013, il “Padiglione Italia Regione Lazio” 8 e 9 ottobre 2013; per i “Futuristi” 7 marzo 2018, sui singoli artisti, “Thayaht” 27 febbraio 2018, “Marchi” 24 novembre 2017, “Tato” 19 febbraio 2015, “Dottori” 2 marzo 2014, “Erba” 1° dicembre 2013, “Marinetti” 2 marzo 2013; per “Deineka” 26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012, “Franco Angeli” 31 luglio 2013; per la Pop Art e le altre avanguardie americane“Guggenheim” 23 e 27 novembre, 11 dicembre 2012; per gli “Astrattisti italiani”, 5 e 6 novembre 2012 ; in abruzzo.cultura.it, per i “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011, per gli “Irripetibili anni ’60”, 3 articoli il 28 luglio 2011, per il “Futurismo” 30 aprile, 1° settembre e 2 dicembre 2009,per “Picasso” 4 febbraio 2009 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito).
Nota di aggiornamento: per la sua partecipazione attiva al dibattito culturale con la società “in tempo” da lui fondata, e al dibattito artistico con il “Manifesto per l’arte” cfr. il nostro articolo in questo sito del 3 aprile 2020 nel quale si dà conto di un incontro con la mostra dei 25 artisti firmatari, con lui capofila direttamente intervenuto nella presentazione.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia la Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, con gli organizzatori e i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta. Le 10 foto dei dipinti di Ennio Calabria coprono i secondi 30 anni del sessantennio 1958-2018. In apertura,Ennio Calabria, al centro,chiude la presentazione della mostra, alla sua dx. il curatore Gabriele Simongini, dietro “Il peniero nel corpo”, 2010; seguono, “Evento nell’acqua”, 1989, e “Biografia rivisitata”, 1989; poi, “Dallo scoglio”, 1989, e “Accade in città”, 1999; quindi, “Ombre del futuro”, 2008, e “Patologia della luce”, 2012; inoltre, “L’Uomo e la Croce”, 2016, e “L’ombrello è rotto: paura dell’acqua”, 2018; infine, i Ritratti “Uomini del deserto. Ritratto di Ahamdinejad”, 2008, a sin. – “Stalin “, a dx. e, in chiusura, gli Autoritratti con “Mio padre vien e va da Tripoli lontana,”, 2010, a sin. – “Autoritratto: il pensiero, il caso, la carne”, 2008, al centro – “Autoritratto, la luce, il gioco, il pensiero”, 2003, a dx.