De Chirico, Rosai e Campigli, De pisis e Caporossi, Baj e Fontana, a Teramo

di Romano Maria Levante

– 23 settembre 2009

“Tra figura e segno”, una cavalcata nel Novecento pittorico nella mostra allestita presso la Pinacoteca Civica dal 1 al 27 settembre 2009

Il Novecento, con il suo tumultuoso sviluppo scientifico e tecnologico senza eguali rispetto al passato, non poteva non avere un forte impatto su tanti altri aspetti della vita e della cultura. Se poi si aggiungono le due guerre mondiali che hanno sconvolto l’Europa nella prima metà del secolo, si può comprendere appieno come tutto sia stato rimesso in discussione, comprese le concezioni filosofiche e artistiche.

La rivoluzione pittorica del Novecento

Non considerando le opere ispirate direttamente dalla rivoluzione scientifica e dalle vicende belliche, nell’arte ha fatto irruzione l’interpretazione della realtà nelle sue innumerevoli forme in continuo divenire come le scoperte e le conoscenze, le innovazioni e in definitiva il progresso.
Gli artisti non vanno più alla ricerca della bellezza nelle forme in senso classico, ma seguono un percorso ben più complesso e personale. La realtà viene ricercata e rappresentata non solo per come è – in una molteplicità di manifestazioni di per sé notevole – ma per come potrebbe essere nell’immaginazione mentale e nel trasporto onirico: la realtà pensata e la realtà sognata che perde, quindi, ogni fattezza figurativa per assumere un aspetto indefinibile e spesso indecifrabile.

Ma non basta, c’è la realtà come contenitore dell’interiorità dell’artista e proiezione dei propri pensieri in un contesto enigmatico e misterioso dove il figurativo è soltanto apparente.
Sulla tela, in definitiva, non si va più alla ricerca della bellezza in astratto e neppure in concreto; e nemmeno della realtà nella sua evidenza visiva, ma nella sua rielaborazione mentale per cui diventa un campo di battaglia nel quale non appaiono soltanto le trasfigurazioni cromatiche e grafiche di pensieri spesso imperscrutabili, ma persino lacerazioni o buchi, affollamenti o assenza di segni.

In questo modo si consuma il passaggio dalla raffigurazione del mondo reale, idealizzato o meno nella bellezza, all’immagine pensata, dalla figurazione all’astrazione, dalla figura al segno.
Ed è proprio “tra figura e segno” il passaggio scandito dalla mostra presso la Pinacoteca Civica di Teramo dal 1° al 27 settembre, con il titolo principale “Da de Chirico a Fontana”: una cavalcata che prende l’avvio dalla pittura metafisica di de Chirico degli inizi del secolo, per spaziare dal cubismo al futurismo, dall’astrattismo fino allo spazialismo di Fontana, un approdo prestigioso come l’avvio.

Manuela Valleriani, come per la mostra sul Futurismo a Giulianova, ha fatto da apripista, con il suo bel servizio sull’apertura della mostra, nel quale dà conto degli Enti promotori e delle dichiarazioni delle autorità, dal Sindaco Brucchi alla Di Felice, Direttore dei musei civici di Teramo, al curatore Alberton; e ne delinea i contorni, con un “excursus” sul Novecento, dal figurativo all’astrattismo.
Antonella Gaita ha poi fornito altre informazioni utili e una carrellata visiva, dando uno scorcio indicativo, pur se necessariamente parziale, di quanto il visitatore potrà troverà nell’esposizione.
Da parte nostra, come di consueto, il racconto di una visita che ci ha soddisfatto molto andando oltre ogni aspettativa: come appare sobria la presentazione e la promozione così risulta notevole la resa spettacolare e didattica. Perché si gode della vista di opere importanti di pittori celebri e si impara; si è portati a capire ciò che prima appariva incomprensibile, la scomparsa della figura sostituita dal segno.

Non solo si comprende questo passaggio, ma lo si segue in un percorso accidentato come lo è stato il Novecento, reso trasparente dalle schede dedicate ad ogni artista che ne illustrano la biografia e ne illuminano la cifra stilistica e l’orientamento pittorico, come la stessa Valleriani ha giustamente sottolineato perché sono un aspetto rimarchevole della mostra.

Sincero encomio al curatore Roberto Alberton, che abbiamo incontrato all’inizio, prima di visitarla, e non abbiamo trovato la domenica alla nostra seconda visita, gli avremmo manifestato a voce l’apprezzamento; valeva la pena tornarci per un bis come quando si sente il bisogno di rivedere un film per approfondire passaggi sfuggiti alla visione iniziale per seguire la trama. C’è una trama in questa rassegna, il merito è aver offerto il filo di Ariana per orientarsi nel labirinto del Novecento, definito una “torre di Babele” di stili e di linguaggi, ma non poteva essere altrimenti.

Alberton ci ha dato anche una chiave di lettura permanente, una sorta di “passepartout” nel decifrare le tre opere – un Polittico e due dipinti – poste all’ingresso, quasi vigilate dalle nere sculture del “Fauno” di Pagliaccetti e della “Pantera” di Crocetti collocate a presidio virtuale della bella Pinacoteca Civica all’inizio del viale Bovio all’angolo di Piazza Garibaldi, dov’è la Villa comunale.

L’opera del Maestro dei Polittici Crivelleschi della prima metà del XV secolo, con San Bonaventura e San Sebastiano, nella sua iniziale ricerca di prospettiva, nella “scansione spaziale” degli aggetti delle colonne lignee e nel suo “guardare dentro”, si proietta idealmente nelle multidimensionali “Tessitrici” di Campigli, quasi un polittico profano, fino alla “Ricerca spaziale” di Fontana, dove la materia viene lacerata “per lasciare il posto allo spazio”, divenuto protagonista assoluto.

Un percorso lungo come la storia dell’arte, dopo che Giotto forzò l’immobilità ieratica bizantina immersa nell’adorazione del divino per calarsi sulla terra attraverso la prospettiva, realizzata con lo spazio più colore e luce, penetrando in una realtà fatta di sentimenti e di sofferenza, insomma di vita quotidiana che rendendolo più umano avvicinava il sacro alla gente comune.

Dalle tante varianti sul tema della realtà, dal ritratto all’ambiente e al paesaggio, dalla scomposizione della luce e del colore degli impressionisti e dei divisionisti il salto nella Babele del ‘900, una fucina di ricerca e sperimentazione, un crocevia di stili e di movimenti nei quali, dice Alberton, “la problematica dello spazio va avanti, ognuno la interpreta a suo modo fino a Fontana che la porta alle estreme conseguenze facendone l’elemento portante del quadro”.

Entriamo, dunque, in questa Babele, teniamo stretta la chiave che ci ha dato il curatore, il filo di Arianna ci accompagnerà nell’itinerario della mostra, guidato dalle schede degli Autori ordinati nelle belle sale sovrapposte, dove si accede per le moderne scalette di spesso cristallo.

Da Baj a Giò Pomodoro

L’ingresso è morbido, sono le cravatte di Baj e alcuni suoi disegni accattivanti posti in un vetro trasparente al centro della sala, molto “humor” nella ricerca di stupire e divertire. Così preparati non ci sorprendono gli “spiritelli” spiraliformi, con grossa testa e collo filiforme, una sorta di ET “ante litteram”, che Carlo Rambaldi non si sia ispirato a loro piuttosto che al gatto di casa come ebbe a dire? Ma non rimangono tali, assumono forme a fungo e a ombrello, a sfera peduncolata e testa quadrangolare anche su lego e collage, insomma una mutazione onirica; fino all’approdo alla dignità farsesca di generali e ammiragli con il petto coperto di decorazioni.

Dino Buzzati immagina, in un pagina molto divertente, che per placare l’inquietudine di mutanti insoddisfatti degli “spiritelli”, l’unico modo fu promuoverli a “comandanti, generali, ammiragli” con gli onori grotteschi del caso: “Li vestì di tutto punto con damaschi e broccati, li coprì di nastrini di guerra, di medaglie, di stelle, di scintillanti patacche, di spettacolose mostrine, pendagli, cordoni d’oro e d’argento, sontuose spalline, bandoliere, cartucce, collare, aquile, e così vennero al mondo i generali famosi”.

Nella mostra ci sono tre “Personaggi”, due del 1956-57, con il testone e il collo filiforme, uno in collage del 1974, un “Semaforo animato”, “personaggio” anch’esso così chiamato per il colore e forse in senso satirico; e finalmente il “Generale”, che è del 1980, quindi ha subito mutazioni che lo allontanano dal modello del collo filiforme, pur avendo le decorazioni. Molto diverso il “Minotauro”, ricorda Picasso di “Guernica”, un carboncino le cui fattezze si trovano nel disegno quasi cubista del “Generale” posto nel vetro centrale.

Diversissimi i vicini Besozzi, Crippa e Birolli, rappresentati da due opere ciascuno. Del primo .non abbiamo le “trasparenze lacustri” nei caratteristici collage notati da Baj, bensì due oli su tela del 1962-65 il primo dei quali, “Ramificazione”, è una composizione di forme a uovo in varie posizioni. Colorata sul rosso la “Macchina agricola” di Birolli, mentre il “Senza titolo”, del 1955 come il primo, unisce molto verde, quasi che la macchina agricola sia scesa ad operare nella campagna; c’è qualcosa di Matisse e Picasso, che conobbe a Parigi ed ebbero influenza su di lui. Il verde scuro brillante trionfa nelle due opere di Crippa, pilota abile e appassionato che morì in un volo acrobatico, nelle “Spirali” espresse questa sua passione per il volo: gli “Elefantini” sono sovrastati da qualcosa che vola, sembra un’auto, mentre gli “Insetti” sembrano pervasi dal movimento necessariamente aereo.

Non c’è solo Baj dei celebri, c’è anche Giò Pomodoro, la cui vita artistica ha uno stretto sodalizio con il fratello Arnaldo, lo scultore delle grandi sfere della Terra della Farnesina a Roma e dell’Onu a New York, scultore egli stesso che lascia spazi vuoti per far irrompere la luce solare. “Sole”, infatti, si intitola la principale opera esposta, una tempera del 1956 con un cerchio intersecato da segni e figure su una sorta di cartiglio d’epoca di foggia leonardesca. Il sole, soggetto attivo, “non semplice riflesso sulla superficie, ma elemento cardine della vita umana” non figura invece nelle altre tre opere esposte, dello stesso periodo, “Senza titolo”: di colorazione diversa, dal verdino al bianco-rosso, all’azzurro-nero sembra una ricerca di ricomposizione: l’intrico di rami si dissolve nel big bang del secondo fino a trovare delle forme scure su un azzurro cielo oppure l’inverso, chissà.

Da Sironi a Rosai

A fare da anticamera alla sala con Sironi e Rosai ci sono cinque bei dipinti di Guidi, che prese parte alle due mostre sul “Novecento italiano” nel 1926 e 1929, fu nel gruppo di “Valori Plastici”, espose con de Chirico e Carrà, Morandi e Soffici; non solo, ma aderì allo “spazialismo” di Fontana e firmò due “Manifesti dell’Arte Spaziale”. Il colore e la forma insieme alla luce – diventerà “luce spaziale” – sono nella sua pittura, che risente del cromatismo di Renoir e Cezanne. Le due “Angosce”, del 1950-55, esprimono questo cromatismo luminoso con bianco e celeste che si muovono paralleli, colori più scuri in “Testa di donna” del 1950 e “Paesaggio” del 1960, verdi delicati nella “Marina” del 1950.

Due quadri di Cassinari ci portano nel cromatismo opposto, cupo e violento, tali sono i verdi di “Estate” e i blu di “Composizione”. Anche lui fu parte attiva di movimenti, si orientò verso un astrattismo impressionistico che troviamo nelle due opere esposte, fino ad avvicinarsi al cubismo.
Vi approdò Meloni, almeno nelle due opere esposte del 1950, “Il bue” e “L’uomo che dorme”, con dei richiami a Picasso. Venti anni dopo tornerà al figurativo inframmezzato negli inserti di collage.
In pieno figurativo troviamo Marussig, dopo un percorso tra l’impressionismo e l’espressionismo che lasciò i segni nella sua pittura. Fu tra i fondatori del gruppo “Novecento” – con Sironi cui si aggiunsero Carrà e Campigli – che perseguiva una classicità moderna imperniata sulla plasticità delle forme e l’interesse alla vita borghese, a paesaggi e ritratti femminili: proprio le opere esposte, “Paesaggio”, con una strada di campagna, una casetta e un monte sullo sfondo, e “Corsetto rosso”, una donna seduta con un libro aperto che guarda lontano, ripensa alla vicenda che ha letto.

Paesaggi e ancora paesaggi nei quattro dipinti di Lilloni, di un cromatismo luminoso che colora di verdi e celesti tenui un figurativo delicato. Del resto aveva dato vita al gruppo dei “chiaristi”, con la pittura a fondo chiaro, anche se preferiva definirsi “naturalista” per la sua visione intimista della realtà. Da “Sponda del Lario” del 1949 a “Montegeneroso” del 1969 non si avvertono mutamenti, e così in “Torrente a Brivio”, mentre l’elemento umano appariva nell’altrettanto figurativo “Seminatori di grano” del 1933.

In netta contrapposizione a questo cromatismo delicato il segno forte e la violenza cromatica della pennellata di Maccari, di cui è esposto “Donne” del 1945, cinque visi marcati in un magma oscuro.
Di tutt’altra natura i tre dipinti di Sironi, l’artista dalle molte vite che ricordiamo nella pittura celebrativa, in particolare del lavoro, utilizzata dal regime fascista fino a formulare un’estetica basata su forme geometriche e plasticismo in opere monumentali anche murali; abbiamo pure la sua produzione cartellonistica pubblicitaria legata al Futurismo e una pittura intima e personale, che abbiamo commentato a suo tempo parlando della mostra presso la Fondazione Crocetti a Roma, portata anche nella sala “Carino Gambacorta” della Banca di Teramo. Sironi nel gruppo “Novecento” fu fautore di un ritorno all’antico con il recupero del classicismo. Qui vediamo esposta la bella tempera “Bersaglieri”, ben marcata e dinamica, baionette e penne al vento; e due “Composizioni” su carta che si stendono in orizzontale, quasi fregi ornamentali.

E finalmente siamo ad Ottone Rosai, con quattro opere. E’ uno dei grandi, ha attraversato futurismo, cubismo e metafisica per approdare, soprattutto negli ultimissimi anni ai quali si riferiscono i quadri esposti, ad una visione diretta della realtà, che aveva perseguito anche nella corrente del “Purismo”, orientata al recupero della vita quotidiana avendo in primo piano gli “omini” e le osterie, le viuzze e le casette rispetto all’energia futurista da tempo abbandonata. Da “La Villa” del 1946 a “Paesaggio” del 1956 c’è un’evoluzione nella chiarezza dei colori liberati dai toni cupi; negli altri due dipinti, “Carabinieri” del 1956 e “Cupolone con Campanile” del 1957, l’anno della morte, la nitidezza dei colori e delle linee diventa ancora più evidente, si riposa la vista.

Usciamo da questa sala molto espressiva di correnti e orientamenti stilistici, si è sentito il fervore culturale del Novecento fatto di salti in avanti e di ritorni, una fucina d’arte e di pensiero, tra futurismo ed espressionismo fino all’approdo neofigurativo di Rosai. La sala che ci attende ci riporta subito alle astrazioni più estreme, in un otto volante di emozioni e di sensazioni.

Da Scanavino a Caporossi

Il primo dipinto che vediamo è di Scanavino, “Prima luce” del 1954, la forma si è dissolta: sono linee sottili quasi a definire una planimetria; punto di arrivo dopo un inizio figurativo influenzato anche da Van Gogh e dopo esperienze postcubiste. Nel 1951 c’è stato anche un soggiorno a Londra dove è colpito dalle esperienze pittoriche di Bacon e Matta, Sutherland e Martin, l’anno successivo l’incontro con Baj e Crippa. Il segno perde ogni contatto con la realtà, diviene simbolo, siamo alla “realtà pensata”; il “nodo stilizzato” diventa la sua cifra stilistica, e lo si vede nell’opera esposta, il groviglio di linee esprime l’angoscia esistenziale dell’uomo.

I due “Senza titolo” di Tancredi Parmeggiani e Corpora più diversi non potrebbero essere. Il primo è un colorato addensarsi di piccole sagome uguali allineate come fossero in una scatola di gomitoli, frutto della sua concezione “spazialista”: è un moltiplicarsi di piccole forme ripetute come avviene, in grandi dimensioni e in forma umana per le quattro “Tessitrici” di Campigli. L’assenza di titolo ci lascia libero campo per esplorarne il pensiero, potrebbe non essere estranea la televisione, che per lui è “un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti”.
Non proviamo neppure a fare delle ipotesi per il dipinto del 1957 non titolato di Corpora, una macchia di un verde intenso con qualche balugine dove si potrebbe vedere tutto e il contrario di tutto. D’altra parte l’autore ha battagliato contro il gruppo “Novecento” orientato al recupero dei classici, per un “Fronte nuovo delle arti” e poi per il “Gruppo degli Otto” della corrente “astratto-concreta”, di cui il critico Lionello Venturi diceva “Non sono e non vogliono essere degli astrattisti, essi non sono e non vogliono essere dei realisti: si propongono di uscire da questa antinomia che minaccia di trasformare l’astrazione in un rinnovato manierismo”. Un artista nel guado, dunque.

Nigro invece si schiera apertamente nel movimento “Arte concreta”, che rifugge da simbolismi e astrazioni per proiettare le intuizioni dell’artista in immagini che mirano a cogliere, come teorizzò Dorfles nel 1949, “quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori”. Così abbiamo le “griglie” verdi che troviamo anche in una delle due “Composizioni” del 1955-56 esposte, l’altra è una sorta di carta geografica tormentata. In seguito semplificherà ancora di più la ricerca degli spazi, passerà a un nuovo ciclo denominato “Tempo totale”.

Essenziale appare Turcato, che segue il percorso di Corpora tra i movimenti di rottura rispetto al passato. Nelle due “Senza Titolo”, con tecnica mista e collage, delinea nella prima una superficie ininterrotta con qualche ombra vagante, nella seconda una sezione a foglia d’acero percorsa da reticoli che non la privano della sua forma e struttura. Ma con “Superficie lunare”, un magma verde con macchie rosse vulcaniche, del 1969, che fa parte di una serie, supererà l’informale dopo uno studio originale che lo porterà alla rielaborazione della forma-colore.

I puntini rossi di Turcato esplodono nelle “Composizioni” di Veronesi, siano ellissi che si intersecano, come quella del 1953, o cerchi solari inscritti l’uno nell’altro su un cielo di diverse tonalità rosse, o infine la “Costruzione in rosso”, figure e linee geometriche con la costante del colore squillante, queste due ultime del 1974. Nasce figurativo ma presto passa all’astrattismo anche come tecnica fotografica e cinematografica, le sue eleganti geometrie vengono da Kandinskij. Rosso è anche il “Senza titolo” di Milani, del 1963, un colore con delle macchie che lo rendono indefinito, a fare da sfondo plastico per un artista soprattutto scultore.

Ed eccoci approdati a Caporossi, un “unicum” forse nel Novecento, anche lui inizia come figurativo e solo nel dopoguerra, era nato nel 1900, lo abbandona per l’astratto, “il mestiere per la fantasia” scrisse il critico Seuphor, ma per poco. Prendendo lo spunto da una composizione cubista, per sottrazione arriva a un segno semplificato così definito dallo stesso critico: “Questo artiglio, questa mano, questo tridente, questa forca, è già uno stile… non dipinge altro che questa medesima sillaba, questo medesimo segno sommario che non vuol dire nulla, non vuol significare nulla, ma che è quello che è”. Sarà chiamato anche “fonema, “modulo espressivo”, fatto si è che viene ripreso infinitamente con il suo sapore arcaico e misterioso. Ovviamente lo si ritrova, diversamente declinato, nei due dipinti esposti, “Composizione” e “Senza titolo”, del 1955.

Da Campigli a de Pisis

Siamo arrivati al “clou” della mostra. In una delle due sale superiori, quella sopra Sironi e Rosai, troviamo due dipinti di Campigli e cinque di de Pisis. Fronteggiati da ben otto de Chirico.
Paradossalmente tutto si fa più chiaro, la Babele pittorica viene decifrata sempre meglio, l’apprendimento nel percorso del Novecento dà i suoi frutti in questa sezione spettacolare.
Campigli è divenuto familiare dall’inizio, le “Tessitrici” del 1958 all’ingresso ci sono apparse figure composte, inserite nello spazio come in un polittico profano, abbiamo detto. Così non sono una sorpresa “Le Bagnanti” del 1953 e la “Figura femminile” del 1955: forme arcaiche, prese dall’arte etrusca che scoprì nel 1928 al Museo di Valle Giulia e furono per lui una rivelazione; di lì vennero le donne “a clessidra” o “ad anfora”, di lì la sua pittura arida con colori spenti ocra o terracotta; di lì la ricerca di segni-simbolo spesso geometrici che costituiscono il suo alfabeto in una dimensione sospesa, atemporale.

Ed ora de Pisis, dopo tanta fuga nell’indistinto, nel codice dei segni o nell’antico, riporta alla realtà naturale nei suoi colori e nelle sue linee portanti, anche se le forme vengono lasciate fluttuare. Ci giunge con un percorso non solo pittorico, ma letterario e poetico, che gli ha fatto attraversare la metafisica e, con l’influsso di de Chirico, lo ha portato ad approfondire i classici, da Rubens a Guercino fino alle nature morte del seicento napoletano. La residenza stabile parigina fa immettere in queste esperienze e influssi pittorici la ventata dell’impressionismo che scioglie i volumi nel colore e nella pennellata rapida e luminosa. Il suo segno diventa evanescente ma ben delineato, come evocato, lontano dal classicismo ma anche dall’astrattismo; la realtà è nei suoi colori e soprattutto nel suo clima, fatto di sensazioni e di emozioni, in definitiva di poesia. Così, nelle belle opere esposte, “Natura morta” del 1933 e “Hommage à Morandi” del 1937’, la seconda con le caratteristiche bottiglie dell’artista omaggiato, colori tenui, pastello, forme fluttuanti; ancora di più in “Parigi” del 1937 e nei due “Fiori” dello stesso anno e del 1939, straordinari esempi di come il pensiero e il sogno possano trasferirsi nella tela senza perdere i contorni della realtà ma facendoli fluttuare sulla spinta del sentimento che il pennello riesce a rendere come in una magia.

De Chirico

L’approdo a de Chirico non poteva essere più trionfale. Gli otto dipinti sono espressivi di tre suoi motivi caratteristici: i cavalli, la mitologia, i gladiatori e la metafisica in senso stretto.

Dei primi abbiamo “Cavalli in riva al mare”: due destrieri, il primo dei quali imbizzarrito con la testa rivolta all’indietro, ci sembra di potervi vedere un “d’aprés” del “Cavallo selvaggio spaventato che emerge dall’acqua” di Delacroix, 1828, già ripetuto in un disegno a carboncino su carta del 1952. Troviamo la stessa ambientazione di colore verde cupo nella “Vita silente”, anch’esso esposto, una sorta di natura morta all’aperto fatta di grossi grappoli e un frutto spaccato a metà, con un rudere sullo sfondo. Anche l’altro dipinto, “Cavalli con cavaliere”, ricorda le criniere al vento del pittore francese e, per certi versi, il “Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro” dello stesso de Chirico ispirato al “Cavallo pomellato” di Géricault.

Anche nelle pitture mitologiche si potrebbero trovare le assonanze che declinava esplicitamente nei suoi “d’aprés”, indicando o meno nella firma il riferimento ispiratore a seconda del grado di derivazione. Vi era, comunque, pur sempre il suo segno caratteristico, anche nei motivi per i quali si rifaceva espressamente ai classici. Ed ecco “Ippocrate che rifiuta i doni” del 1960, ed “Esculabio proctologo” del 1950-55, in un ambiente scuro con rossi mantelli e il tempietto sullo sfondo.
“I Gladiatori (La Lutte)” è un dipinto espressivo del tema divenuto costante proprio dal 1927-29 (l’opera esposta è degli inizi, datata 1929), e declinato in varie forme, in grovigli affollati – come nel “Combattimento di gladiatori” del 1969 allorché lo riprende – e in composizioni semplici di ambiente metafisico. Qui siamo nella composizione semplice, il “Combattimento” di quarant’anni dopo riprenderà la visione di spalle della lotta, ma quello del 1929 ha corpi michelangioleschi in primo piano.

Entriamo infine nella metafisica, al confine con la “Neometafisica”, così viene chiamato il suo ritorno alla metafisica dall’inizio degli anni ’60. insieme alla produzione barocca e classicheggiante. Abbiamo due opere rappresentative dei due filoni, la piazza metafisica e il manichino.

“Piazza d’Italia” del 1956 è molto suggestivo, oltre che espressivo di questo filone portante della sua arte, gli alti porticati a destra e a sinistra, l’edificio cilindrico sullo sfondo, lontane colline, si intravede anche il classico treno con vapore, il monumento al centro della piazza e l’ombra netta che si staglia in primo piano in un ambiente dove le due figurette umane accentuano il deserto e la solitudine. C’è “un’impalpabile interiorità” che si proietta su un ambiente, si invera nelle cose ma ne è nascosta, di qui l’enigma e il mistero. E le cose che creano l’ambiente sono tanto più nette e precise, quanto più appaiono impenetrabili e impraticabili, quasi fosse un teatro dove mancano gli attori. “Teatro ma non teatrale”, tanto è il rigore e l’ordine, “maestoso silenzio, scenari di realtà e finzione – si legge – specchi di realtà finta e di finzione reale” che esprimono sentimenti: la malinconia di una strada deserta o l’angoscia di una partenza.

L’altro dipinto esposto, “Le Maschere” del 1960, rappresenta il tipico motivo metafisico, i manichini, questa volta in una resa originale: due teste in primo piano, la prima a foggia di armatura, una squadra e sullo sfondo una finestra che si apre su alti edifici metafisici. “Il manichino – scriveva l’artista che ci ha lasciato libri e saggi con le sue concezioni dell’arte – è un oggetto che possiede a un dipresso l’aspetto dell’uomo, ma senza il lato movimento e vita”; così come abbiamo visto che le sue piazze, pur figurative per tanti aspetti, non intendono rappresentare la realtà, vuote come sono anch’esse di vita, ma quasi stanze di un interno nel quale si proietta l’interiorità dell’artista, forse i manichini sono anche una chiave di lettura delle piazze, apparente realtà vuota del suo contenuto.

Non lascia un senso di vuoto, tutt’altro, la vista degli otto de Chirico, densi di contenuti oltre che espressivi di forme dietro le quali c’è un approfondimento pittorico nutrito dal continuo riferimento ai grandi classici come maestri indiscutibili cui si è ispirato per tutta la vita. Il vuoto forse, verrà adesso, con la “tabula rasa” delle forme per far irrompere lo spazio, siamo arrivati a Fontana.

Fontana

Fontana è nell’altra sala superiore, sul lato opposto di quella con de Chirico. La raggiungiamo, con gli occhi e la mente ancora immersi nei meandri della mitologia e soprattutto nell’enigma delle piazze metafisiche che, al di là del loro significato recondito, fanno sentire la malinconia di un pomeriggio, di una strada deserta, fanno provare l’angoscia della partenza, della solitudine.
Per affrontare bene Fontana occorre prima un “default”, qualcosa che cancelli queste immagini e ci restituisca la mente sgombra e l’animo aperto. Questo ruolo lo svolge Manzoni, esposto nella stessa sala, con i due dipinti e con le sue parole riprodotte nella scheda. Due “Achrome” del 1959 e del 1962-63 evidenziano questa cancellazione di immagini e colori, la piazza è stata spazzata via e se resta ancora in noi è realmente vuota di tutto, anche dei suoi enigmi e della sua solitudine. La “tela grinzata” del primo presenta soltanto delle increspature al centro, definiti “labili fili di Arianna senza un confine; i “pallini di polistirolo e caolino” del secondo configurano, secondo il critico, “uno spazio assoluto” nel “rigore assoluto del non colore” che tutto annulla. L’artista non solo ne è consapevole, ma vuole proprio questo risultato. Nel criticare i pittori che considerano un quadro come “una superficie da riempire di colori e di forme” e lo considerano terminato solo quando segno dopo segno, colore dopo colore, lo hanno riempito, afferma: “Una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?”.

E siamo così giunti, nella cavalcata del Novecento pittorico, allo spazio totale, allo “spazialismo” di Fontana. La “tabula rasa” di Manzoni è stata provvidenziale, siamo pronti a riempirla di spazio. Anzi, qualora ci fossero state le opere successive di Fontana, avremmo trovato la stessa monocromia, spesso sul bianco, la stessa “tabula rasa” interrotta soltanto da un segno quale labile traccia e testimonianza. Le opere esposte sono tra il 1956-58, lo spazio aveva ancora un contenuto.

Vi sono cinque quadri di dimensioni consistenti dallo stesso titolo, “Concetto spaziale”, con dei vuoti nei quali irrompe una forma, un oggetto, una figurazione, tutti da decifrare. Cui si aggiungono due delicati disegni su carta del 1941, prima del “manifesto” del 1946.
Ci aiutano a decifrare lo “spazialismo” dell’artista le sue stesse espressioni pubbliche, ricordando che questo stile rivoluzionario nasce allorché nota che nel barocco “le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio”. Così proclama nel “Manifesto Blanco” del 1946: “Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. E’ necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo”. E qual è questa “arte maggiore”? Quella che ha come protagonista assoluto, e non più come elemento prospettico, lo spazio, proclamato come nuovo sovrano dell’arte come il Futurismo aveva fatto per l’energia, il dinamismo e il movimento.

Non è più delimitato dalla forma, è esso stesso il quadro, per cui “la tela diviene superficie plastica, supporto in cui lo spazio si concretizza e viene plasmato in tagli, buchi, squarci, nelle infinite modulazioni che egli viene a realizzare”. Viene sovvertito il rapporto luce-spazio, nel senso che quest’ultimo è un elemento concreto, ha la prevalenza: vera luce uguale vero spazio. Leggiamo che come la materia nella relatività, così l’opera definisce e congloba lo spazio: “Ci troviamo di fronte alla più totale rivoluzione copernicana, anzi einsteiniana dell’arte”.

L’“Ambiente spaziale” lo realizzò plasticamente nel 1949 immergendo il visitatore in un ambiente che, per l’oscurità rotta da una luce spettrale con un arabesco in alto “coagulo di materia primordiale”, faceva sentire in un isolamento non enigmatico come quello metafisico, ma abissale; così da percepire “lo spazio in tutta la sua immateriale fisicità”. Ecco, dunque, il significato degli “arabeschi” di forma diversa che troviamo nel suo “Concetto spaziale”: sia esso una grande ellisse come un uovo nero, oppure una specie di decorazione o ancora un magma frastagliato rosso e giallo, tutti del 1956, i due ultimi sono con “tecnica mista e pietre su tela”; il primo invece in “aniline e inchiostri su tela”, la tecnica anche delle due opere del 1957, su sfondi pastello variegati due sagome longitudinali o quadrate-circolari sospese; fino alla losanga su sfondo nero del 1958.
Sono dipinti nei quali troviamo anche buchi e lacerazioni della tela, così interpretati nel bel Catalogo della mostra, veramente istruttivo nelle sue schede per Autore: “Lo spazio deve essere, come egli afferma, materia plastica da plasmare. Ecco allora che i vituperati buchi, tagli, squarci, possono essere percepiti nel loro reale significato: sono articolazioni, modulazioni, scansioni ritmiche dello spazio che non è più evocato o delimitato dalle forme, bensì è il quadro, la tela che diviene superficie plastica, supporto vero in cui lo spazio si concretizza e viene plasmato in tagli, buchi, squarci, nelle infinite modulazioni che egli viene a realizzare. Sono tracce, percorsi, segni che vengono a delineare quasi una sorta di scrittura, come di uno spartito musicale”.
La tela viene bucata e lacerata per fare posto allo spazio, come ci diceva Alberton prima della visita agli ottanta dipinti esposti, un viaggio istruttivo e affascinante tra le contraddizioni del Novecento.

E’ proprio vero e non rituale quanto ha scritto l’Assessore regionale alla Cultura Mauro Di Dalmazio: “Il percorso espositivo, tracciato all’interno della Pinacoteca Civica del Comune di Teramo, si rende fruibile al grande pubblico che, oltre all’esperienza emozionale, potrà assorbire il vissuto e la storia innescando il circolo virtuoso della conoscenza”.
Il vissuto e la storia di un secolo come il Novecento riempiono gli occhi e la mente. E una mostra che li ha riproposti pensando al visitatore non si dimentica facilmente.

1 Commento

  1. Besozzi Walter

Postato settembre 30, 2009 alle 6:38 PM

mostra molto interessante

De Chirico, Rosai e Campigli, De Pisis e Caporossi, Baj e Fontana, a Teramo

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 23 settembre 2009

“Tra figura e segno”, una cavalcata nel Novecento pittorico nella mostra allestita presso la Pinacoteca Civica dal 1 al 27 settembre 2009

Il Novecento, con il suo tumultuoso sviluppo scientifico e tecnologico senza eguali rispetto al passato, non poteva non avere un forte impatto su tanti altri aspetti della vita e della cultura. Se poi si aggiungono le due guerre mondiali che hanno sconvolto l’Europa nella prima metà del secolo, si può comprendere appieno come tutto sia stato rimesso in discussione, comprese le concezioni filosofiche e artistiche.

La rivoluzione pittorica del Novecento

Non considerando le opere ispirate direttamente dalla rivoluzione scientifica e dalle vicende belliche, nell’arte ha fatto irruzione l’interpretazione della realtà nelle sue innumerevoli forme in continuo divenire come le scoperte e le conoscenze, le innovazioni e in definitiva il progresso.
Gli artisti non vanno più alla ricerca della bellezza nelle forme in senso classico, ma seguono un percorso ben più complesso e personale. La realtà viene ricercata e rappresentata non solo per come è – in una molteplicità di manifestazioni di per sé notevole – ma per come potrebbe essere nell’immaginazione mentale e nel trasporto onirico: la realtà pensata e la realtà sognata che perde, quindi, ogni fattezza figurativa per assumere un aspetto indefinibile e spesso indecifrabile.

Ma non basta, c’è la realtà come contenitore dell’interiorità dell’artista e proiezione dei propri pensieri in un contesto enigmatico e misterioso dove il figurativo è soltanto apparente.
Sulla tela, in definitiva, non si va più alla ricerca della bellezza in astratto e neppure in concreto; e nemmeno della realtà nella sua evidenza visiva, ma nella sua rielaborazione mentale per cui diventa un campo di battaglia nel quale non appaiono soltanto le trasfigurazioni cromatiche e grafiche di pensieri spesso imperscrutabili, ma persino lacerazioni o buchi, affollamenti o assenza di segni.

In questo modo si consuma il passaggio dalla raffigurazione del mondo reale, idealizzato o meno nella bellezza, all’immagine pensata, dalla figurazione all’astrazione, dalla figura al segno.
Ed è proprio “tra figura e segno” il passaggio scandito dalla mostra presso la Pinacoteca Civica di Teramo dal 1° al 27 settembre, con il titolo principale “Da de Chirico a Fontana”: una cavalcata che prende l’avvio dalla pittura metafisica di de Chirico degli inizi del secolo, per spaziare dal cubismo al futurismo, dall’astrattismo fino allo spazialismo di Fontana, un approdo prestigioso come l’avvio.

Manuela Valleriani, come per la mostra sul Futurismo a Giulianova, ha fatto da apripista, con il suo bel servizio sull’apertura della mostra, nel quale dà conto degli Enti promotori e delle dichiarazioni delle autorità, dal Sindaco Brucchi alla Di Felice, Direttore dei musei civici di Teramo, al curatore Alberton; e ne delinea i contorni, con un “excursus” sul Novecento, dal figurativo all’astrattismo.
Antonella Gaita ha poi fornito altre informazioni utili e una carrellata visiva, dando uno scorcio indicativo, pur se necessariamente parziale, di quanto il visitatore potrà troverà nell’esposizione.
Da parte nostra, come di consueto, il racconto di una visita che ci ha soddisfatto molto andando oltre ogni aspettativa: come appare sobria la presentazione e la promozione così risulta notevole la resa spettacolare e didattica. Perché si gode della vista di opere importanti di pittori celebri e si impara; si è portati a capire ciò che prima appariva incomprensibile, la scomparsa della figura sostituita dal segno.

Non solo si comprende questo passaggio, ma lo si segue in un percorso accidentato come lo è stato il Novecento, reso trasparente dalle schede dedicate ad ogni artista che ne illustrano la biografia e ne illuminano la cifra stilistica e l’orientamento pittorico, come la stessa Valleriani ha giustamente sottolineato perché sono un aspetto rimarchevole della mostra.

Sincero encomio al curatore Roberto Alberton, che abbiamo incontrato all’inizio, prima di visitarla, e non abbiamo trovato la domenica alla nostra seconda visita, gli avremmo manifestato a voce l’apprezzamento; valeva la pena tornarci per un bis come quando si sente il bisogno di rivedere un film per approfondire passaggi sfuggiti alla visione iniziale per seguire la trama. C’è una trama in questa rassegna, il merito è aver offerto il filo di Ariana per orientarsi nel labirinto del Novecento, definito una “torre di Babele” di stili e di linguaggi, ma non poteva essere altrimenti.

Alberton ci ha dato anche una chiave di lettura permanente, una sorta di “passepartout” nel decifrare le tre opere – un Polittico e due dipinti – poste all’ingresso, quasi vigilate dalle nere sculture del “Fauno” di Pagliaccetti e della “Pantera” di Crocetti collocate a presidio virtuale della bella Pinacoteca Civica all’inizio del viale Bovio all’angolo di Piazza Garibaldi, dov’è la Villa comunale.

L’opera del Maestro dei Polittici Crivelleschi della prima metà del XV secolo, con San Bonaventura e San Sebastiano, nella sua iniziale ricerca di prospettiva, nella “scansione spaziale” degli aggetti delle colonne lignee e nel suo “guardare dentro”, si proietta idealmente nelle multidimensionali “Tessitrici” di Campigli, quasi un polittico profano, fino alla “Ricerca spaziale” di Fontana, dove la materia viene lacerata “per lasciare il posto allo spazio”, divenuto protagonista assoluto.

Un percorso lungo come la storia dell’arte, dopo che Giotto forzò l’immobilità ieratica bizantina immersa nell’adorazione del divino per calarsi sulla terra attraverso la prospettiva, realizzata con lo spazio più colore e luce, penetrando in una realtà fatta di sentimenti e di sofferenza, insomma di vita quotidiana che rendendolo più umano avvicinava il sacro alla gente comune.

Dalle tante varianti sul tema della realtà, dal ritratto all’ambiente e al paesaggio, dalla scomposizione della luce e del colore degli impressionisti e dei divisionisti il salto nella Babele del ‘900, una fucina di ricerca e sperimentazione, un crocevia di stili e di movimenti nei quali, dice Alberton, “la problematica dello spazio va avanti, ognuno la interpreta a suo modo fino a Fontana che la porta alle estreme conseguenze facendone l’elemento portante del quadro”.

Entriamo, dunque, in questa Babele, teniamo stretta la chiave che ci ha dato il curatore, il filo di Arianna ci accompagnerà nell’itinerario della mostra, guidato dalle schede degli Autori ordinati nelle belle sale sovrapposte, dove si accede per le moderne scalette di spesso cristallo.

Da Baj a Giò Pomodoro

L’ingresso è morbido, sono le cravatte di Baj e alcuni suoi disegni accattivanti posti in un vetro trasparente al centro della sala, molto “humor” nella ricerca di stupire e divertire. Così preparati non ci sorprendono gli “spiritelli” spiraliformi, con grossa testa e collo filiforme, una sorta di ET “ante litteram”, che Carlo Rambaldi non si sia ispirato a loro piuttosto che al gatto di casa come ebbe a dire? Ma non rimangono tali, assumono forme a fungo e a ombrello, a sfera peduncolata e testa quadrangolare anche su lego e collage, insomma una mutazione onirica; fino all’approdo alla dignità farsesca di generali e ammiragli con il petto coperto di decorazioni.

Dino Buzzati immagina, in un pagina molto divertente, che per placare l’inquietudine di mutanti insoddisfatti degli “spiritelli”, l’unico modo fu promuoverli a “comandanti, generali, ammiragli” con gli onori grotteschi del caso: “Li vestì di tutto punto con damaschi e broccati, li coprì di nastrini di guerra, di medaglie, di stelle, di scintillanti patacche, di spettacolose mostrine, pendagli, cordoni d’oro e d’argento, sontuose spalline, bandoliere, cartucce, collare, aquile, e così vennero al mondo i generali famosi”.

Nella mostra ci sono tre “Personaggi”, due del 1956-57, con il testone e il collo filiforme, uno in collage del 1974, un “Semaforo animato”, “personaggio” anch’esso così chiamato per il colore e forse in senso satirico; e finalmente il “Generale”, che è del 1980, quindi ha subito mutazioni che lo allontanano dal modello del collo filiforme, pur avendo le decorazioni. Molto diverso il “Minotauro”, ricorda Picasso di “Guernica”, un carboncino le cui fattezze si trovano nel disegno quasi cubista del “Generale” posto nel vetro centrale.

Diversissimi i vicini Besozzi, Crippa e Birolli, rappresentati da due opere ciascuno. Del primo .non abbiamo le “trasparenze lacustri” nei caratteristici collage notati da Baj, bensì due oli su tela del 1962-65 il primo dei quali, “Ramificazione”, è una composizione di forme a uovo in varie posizioni. Colorata sul rosso la “Macchina agricola” di Birolli, mentre il “Senza titolo”, del 1955 come il primo, unisce molto verde, quasi che la macchina agricola sia scesa ad operare nella campagna; c’è qualcosa di Matisse e Picasso, che conobbe a Parigi ed ebbero influenza su di lui. Il verde scuro brillante trionfa nelle due opere di Crippa, pilota abile e appassionato che morì in un volo acrobatico, nelle “Spirali” espresse questa sua passione per il volo: gli “Elefantini” sono sovrastati da qualcosa che vola, sembra un’auto, mentre gli “Insetti” sembrano pervasi dal movimento necessariamente aereo.

Non c’è solo Baj dei celebri, c’è anche Giò Pomodoro, la cui vita artistica ha uno stretto sodalizio con il fratello Arnaldo, lo scultore delle grandi sfere della Terra della Farnesina a Roma e dell’Onu a New York, scultore egli stesso che lascia spazi vuoti per far irrompere la luce solare. “Sole”, infatti, si intitola la principale opera esposta, una tempera del 1956 con un cerchio intersecato da segni e figure su una sorta di cartiglio d’epoca di foggia leonardesca. Il sole, soggetto attivo, “non semplice riflesso sulla superficie, ma elemento cardine della vita umana” non figura invece nelle altre tre opere esposte, dello stesso periodo, “Senza titolo”: di colorazione diversa, dal verdino al bianco-rosso, all’azzurro-nero sembra una ricerca di ricomposizione: l’intrico di rami si dissolve nel big bang del secondo fino a trovare delle forme scure su un azzurro cielo oppure l’inverso, chissà.

Da Sironi a Rosai

A fare da anticamera alla sala con Sironi e Rosai ci sono cinque bei dipinti di Guidi, che prese parte alle due mostre sul “Novecento italiano” nel 1926 e 1929, fu nel gruppo di “Valori Plastici”, espose con de Chirico e Carrà, Morandi e Soffici; non solo, ma aderì allo “spazialismo” di Fontana e firmò due “Manifesti dell’Arte Spaziale”. Il colore e la forma insieme alla luce – diventerà “luce spaziale” – sono nella sua pittura, che risente del cromatismo di Renoir e Cezanne. Le due “Angosce”, del 1950-55, esprimono questo cromatismo luminoso con bianco e celeste che si muovono paralleli, colori più scuri in “Testa di donna” del 1950 e “Paesaggio” del 1960, verdi delicati nella “Marina” del 1950.

Due quadri di Cassinari ci portano nel cromatismo opposto, cupo e violento, tali sono i verdi di “Estate” e i blu di “Composizione”. Anche lui fu parte attiva di movimenti, si orientò verso un astrattismo impressionistico che troviamo nelle due opere esposte, fino ad avvicinarsi al cubismo.
Vi approdò Meloni, almeno nelle due opere esposte del 1950, “Il bue” e “L’uomo che dorme”, con dei richiami a Picasso. Venti anni dopo tornerà al figurativo inframmezzato negli inserti di collage.
In pieno figurativo troviamo Marussig, dopo un percorso tra l’impressionismo e l’espressionismo che lasciò i segni nella sua pittura. Fu tra i fondatori del gruppo “Novecento” – con Sironi cui si aggiunsero Carrà e Campigli – che perseguiva una classicità moderna imperniata sulla plasticità delle forme e l’interesse alla vita borghese, a paesaggi e ritratti femminili: proprio le opere esposte, “Paesaggio”, con una strada di campagna, una casetta e un monte sullo sfondo, e “Corsetto rosso”, una donna seduta con un libro aperto che guarda lontano, ripensa alla vicenda che ha letto.

Paesaggi e ancora paesaggi nei quattro dipinti di Lilloni, di un cromatismo luminoso che colora di verdi e celesti tenui un figurativo delicato. Del resto aveva dato vita al gruppo dei “chiaristi”, con la pittura a fondo chiaro, anche se preferiva definirsi “naturalista” per la sua visione intimista della realtà. Da “Sponda del Lario” del 1949 a “Montegeneroso” del 1969 non si avvertono mutamenti, e così in “Torrente a Brivio”, mentre l’elemento umano appariva nell’altrettanto figurativo “Seminatori di grano” del 1933.

In netta contrapposizione a questo cromatismo delicato il segno forte e la violenza cromatica della pennellata di Maccari, di cui è esposto “Donne” del 1945, cinque visi marcati in un magma oscuro.
Di tutt’altra natura i tre dipinti di Sironi, l’artista dalle molte vite che ricordiamo nella pittura celebrativa, in particolare del lavoro, utilizzata dal regime fascista fino a formulare un’estetica basata su forme geometriche e plasticismo in opere monumentali anche murali; abbiamo pure la sua produzione cartellonistica pubblicitaria legata al Futurismo e una pittura intima e personale, che abbiamo commentato a suo tempo parlando della mostra presso la Fondazione Crocetti a Roma, portata anche nella sala “Carino Gambacorta” della Banca di Teramo. Sironi nel gruppo “Novecento” fu fautore di un ritorno all’antico con il recupero del classicismo. Qui vediamo esposta la bella tempera “Bersaglieri”, ben marcata e dinamica, baionette e penne al vento; e due “Composizioni” su carta che si stendono in orizzontale, quasi fregi ornamentali.

E finalmente siamo ad Ottone Rosai, con quattro opere. E’ uno dei grandi, ha attraversato futurismo, cubismo e metafisica per approdare, soprattutto negli ultimissimi anni ai quali si riferiscono i quadri esposti, ad una visione diretta della realtà, che aveva perseguito anche nella corrente del “Purismo”, orientata al recupero della vita quotidiana avendo in primo piano gli “omini” e le osterie, le viuzze e le casette rispetto all’energia futurista da tempo abbandonata. Da “La Villa” del 1946 a “Paesaggio” del 1956 c’è un’evoluzione nella chiarezza dei colori liberati dai toni cupi; negli altri due dipinti, “Carabinieri” del 1956 e “Cupolone con Campanile” del 1957, l’anno della morte, la nitidezza dei colori e delle linee diventa ancora più evidente, si riposa la vista.

Usciamo da questa sala molto espressiva di correnti e orientamenti stilistici, si è sentito il fervore culturale del Novecento fatto di salti in avanti e di ritorni, una fucina d’arte e di pensiero, tra futurismo ed espressionismo fino all’approdo neofigurativo di Rosai. La sala che ci attende ci riporta subito alle astrazioni più estreme, in un otto volante di emozioni e di sensazioni.

Da Scanavino a Caporossi

Il primo dipinto che vediamo è di Scanavino, “Prima luce” del 1954, la forma si è dissolta: sono linee sottili quasi a definire una planimetria; punto di arrivo dopo un inizio figurativo influenzato anche da Van Gogh e dopo esperienze postcubiste. Nel 1951 c’è stato anche un soggiorno a Londra dove è colpito dalle esperienze pittoriche di Bacon e Matta, Sutherland e Martin, l’anno successivo l’incontro con Baj e Crippa. Il segno perde ogni contatto con la realtà, diviene simbolo, siamo alla “realtà pensata”; il “nodo stilizzato” diventa la sua cifra stilistica, e lo si vede nell’opera esposta, il groviglio di linee esprime l’angoscia esistenziale dell’uomo.

I due “Senza titolo” di Tancredi Parmeggiani e Corpora più diversi non potrebbero essere. Il primo è un colorato addensarsi di piccole sagome uguali allineate come fossero in una scatola di gomitoli, frutto della sua concezione “spazialista”: è un moltiplicarsi di piccole forme ripetute come avviene, in grandi dimensioni e in forma umana per le quattro “Tessitrici” di Campigli. L’assenza di titolo ci lascia libero campo per esplorarne il pensiero, potrebbe non essere estranea la televisione, che per lui è “un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti”.
Non proviamo neppure a fare delle ipotesi per il dipinto del 1957 non titolato di Corpora, una macchia di un verde intenso con qualche balugine dove si potrebbe vedere tutto e il contrario di tutto. D’altra parte l’autore ha battagliato contro il gruppo “Novecento” orientato al recupero dei classici, per un “Fronte nuovo delle arti” e poi per il “Gruppo degli Otto” della corrente “astratto-concreta”, di cui il critico Lionello Venturi diceva “Non sono e non vogliono essere degli astrattisti, essi non sono e non vogliono essere dei realisti: si propongono di uscire da questa antinomia che minaccia di trasformare l’astrazione in un rinnovato manierismo”. Un artista nel guado, dunque.

Nigro invece si schiera apertamente nel movimento “Arte concreta”, che rifugge da simbolismi e astrazioni per proiettare le intuizioni dell’artista in immagini che mirano a cogliere, come teorizzò Dorfles nel 1949, “quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori”. Così abbiamo le “griglie” verdi che troviamo anche in una delle due “Composizioni” del 1955-56 esposte, l’altra è una sorta di carta geografica tormentata. In seguito semplificherà ancora di più la ricerca degli spazi, passerà a un nuovo ciclo denominato “Tempo totale”.

Essenziale appare Turcato, che segue il percorso di Corpora tra i movimenti di rottura rispetto al passato. Nelle due “Senza Titolo”, con tecnica mista e collage, delinea nella prima una superficie ininterrotta con qualche ombra vagante, nella seconda una sezione a foglia d’acero percorsa da reticoli che non la privano della sua forma e struttura. Ma con “Superficie lunare”, un magma verde con macchie rosse vulcaniche, del 1969, che fa parte di una serie, supererà l’informale dopo uno studio originale che lo porterà alla rielaborazione della forma-colore.

I puntini rossi di Turcato esplodono nelle “Composizioni” di Veronesi, siano ellissi che si intersecano, come quella del 1953, o cerchi solari inscritti l’uno nell’altro su un cielo di diverse tonalità rosse, o infine la “Costruzione in rosso”, figure e linee geometriche con la costante del colore squillante, queste due ultime del 1974. Nasce figurativo ma presto passa all’astrattismo anche come tecnica fotografica e cinematografica, le sue eleganti geometrie vengono da Kandinskij. Rosso è anche il “Senza titolo” di Milani, del 1963, un colore con delle macchie che lo rendono indefinito, a fare da sfondo plastico per un artista soprattutto scultore.

Ed eccoci approdati a Caporossi, un “unicum” forse nel Novecento, anche lui inizia come figurativo e solo nel dopoguerra, era nato nel 1900, lo abbandona per l’astratto, “il mestiere per la fantasia” scrisse il critico Seuphor, ma per poco. Prendendo lo spunto da una composizione cubista, per sottrazione arriva a un segno semplificato così definito dallo stesso critico: “Questo artiglio, questa mano, questo tridente, questa forca, è già uno stile… non dipinge altro che questa medesima sillaba, questo medesimo segno sommario che non vuol dire nulla, non vuol significare nulla, ma che è quello che è”. Sarà chiamato anche “fonema, “modulo espressivo”, fatto si è che viene ripreso infinitamente con il suo sapore arcaico e misterioso. Ovviamente lo si ritrova, diversamente declinato, nei due dipinti esposti, “Composizione” e “Senza titolo”, del 1955.

Da Campigli a de Pisis

Siamo arrivati al “clou” della mostra. In una delle due sale superiori, quella sopra Sironi e Rosai, troviamo due dipinti di Campigli e cinque di de Pisis. Fronteggiati da ben otto de Chirico.
Paradossalmente tutto si fa più chiaro, la Babele pittorica viene decifrata sempre meglio, l’apprendimento nel percorso del Novecento dà i suoi frutti in questa sezione spettacolare.
Campigli è divenuto familiare dall’inizio, le “Tessitrici” del 1958 all’ingresso ci sono apparse figure composte, inserite nello spazio come in un polittico profano, abbiamo detto. Così non sono una sorpresa “Le Bagnanti” del 1953 e la “Figura femminile” del 1955: forme arcaiche, prese dall’arte etrusca che scoprì nel 1928 al Museo di Valle Giulia e furono per lui una rivelazione; di lì vennero le donne “a clessidra” o “ad anfora”, di lì la sua pittura arida con colori spenti ocra o terracotta; di lì la ricerca di segni-simbolo spesso geometrici che costituiscono il suo alfabeto in una dimensione sospesa, atemporale.

Ed ora de Pisis, dopo tanta fuga nell’indistinto, nel codice dei segni o nell’antico, riporta alla realtà naturale nei suoi colori e nelle sue linee portanti, anche se le forme vengono lasciate fluttuare. Ci giunge con un percorso non solo pittorico, ma letterario e poetico, che gli ha fatto attraversare la metafisica e, con l’influsso di de Chirico, lo ha portato ad approfondire i classici, da Rubens a Guercino fino alle nature morte del seicento napoletano. La residenza stabile parigina fa immettere in queste esperienze e influssi pittorici la ventata dell’impressionismo che scioglie i volumi nel colore e nella pennellata rapida e luminosa. Il suo segno diventa evanescente ma ben delineato, come evocato, lontano dal classicismo ma anche dall’astrattismo; la realtà è nei suoi colori e soprattutto nel suo clima, fatto di sensazioni e di emozioni, in definitiva di poesia. Così, nelle belle opere esposte, “Natura morta” del 1933 e “Hommage à Morandi” del 1937’, la seconda con le caratteristiche bottiglie dell’artista omaggiato, colori tenui, pastello, forme fluttuanti; ancora di più in “Parigi” del 1937 e nei due “Fiori” dello stesso anno e del 1939, straordinari esempi di come il pensiero e il sogno possano trasferirsi nella tela senza perdere i contorni della realtà ma facendoli fluttuare sulla spinta del sentimento che il pennello riesce a rendere come in una magia.

De Chirico

L’approdo a de Chirico non poteva essere più trionfale. Gli otto dipinti sono espressivi di tre suoi motivi caratteristici: i cavalli, la mitologia, i gladiatori e la metafisica in senso stretto.

Dei primi abbiamo “Cavalli in riva al mare”: due destrieri, il primo dei quali imbizzarrito con la testa rivolta all’indietro, ci sembra di potervi vedere un “d’aprés” del “Cavallo selvaggio spaventato che emerge dall’acqua” di Delacroix, 1828, già ripetuto in un disegno a carboncino su carta del 1952. Troviamo la stessa ambientazione di colore verde cupo nella “Vita silente”, anch’esso esposto, una sorta di natura morta all’aperto fatta di grossi grappoli e un frutto spaccato a metà, con un rudere sullo sfondo. Anche l’altro dipinto, “Cavalli con cavaliere”, ricorda le criniere al vento del pittore francese e, per certi versi, il “Cavaliere con berretto rosso e manto azzurro” dello stesso de Chirico ispirato al “Cavallo pomellato” di Géricault.

Anche nelle pitture mitologiche si potrebbero trovare le assonanze che declinava esplicitamente nei suoi “d’aprés”, indicando o meno nella firma il riferimento ispiratore a seconda del grado di derivazione. Vi era, comunque, pur sempre il suo segno caratteristico, anche nei motivi per i quali si rifaceva espressamente ai classici. Ed ecco “Ippocrate che rifiuta i doni” del 1960, ed “Esculabio proctologo” del 1950-55, in un ambiente scuro con rossi mantelli e il tempietto sullo sfondo.
“I Gladiatori (La Lutte)” è un dipinto espressivo del tema divenuto costante proprio dal 1927-29 (l’opera esposta è degli inizi, datata 1929), e declinato in varie forme, in grovigli affollati – come nel “Combattimento di gladiatori” del 1969 allorché lo riprende – e in composizioni semplici di ambiente metafisico. Qui siamo nella composizione semplice, il “Combattimento” di quarant’anni dopo riprenderà la visione di spalle della lotta, ma quello del 1929 ha corpi michelangioleschi in primo piano.

Entriamo infine nella metafisica, al confine con la “Neometafisica”, così viene chiamato il suo ritorno alla metafisica dall’inizio degli anni ’60. insieme alla produzione barocca e classicheggiante. Abbiamo due opere rappresentative dei due filoni, la piazza metafisica e il manichino.

“Piazza d’Italia” del 1956 è molto suggestivo, oltre che espressivo di questo filone portante della sua arte, gli alti porticati a destra e a sinistra, l’edificio cilindrico sullo sfondo, lontane colline, si intravede anche il classico treno con vapore, il monumento al centro della piazza e l’ombra netta che si staglia in primo piano in un ambiente dove le due figurette umane accentuano il deserto e la solitudine. C’è “un’impalpabile interiorità” che si proietta su un ambiente, si invera nelle cose ma ne è nascosta, di qui l’enigma e il mistero. E le cose che creano l’ambiente sono tanto più nette e precise, quanto più appaiono impenetrabili e impraticabili, quasi fosse un teatro dove mancano gli attori. “Teatro ma non teatrale”, tanto è il rigore e l’ordine, “maestoso silenzio, scenari di realtà e finzione – si legge – specchi di realtà finta e di finzione reale” che esprimono sentimenti: la malinconia di una strada deserta o l’angoscia di una partenza.

L’altro dipinto esposto, “Le Maschere” del 1960, rappresenta il tipico motivo metafisico, i manichini, questa volta in una resa originale: due teste in primo piano, la prima a foggia di armatura, una squadra e sullo sfondo una finestra che si apre su alti edifici metafisici. “Il manichino – scriveva l’artista che ci ha lasciato libri e saggi con le sue concezioni dell’arte – è un oggetto che possiede a un dipresso l’aspetto dell’uomo, ma senza il lato movimento e vita”; così come abbiamo visto che le sue piazze, pur figurative per tanti aspetti, non intendono rappresentare la realtà, vuote come sono anch’esse di vita, ma quasi stanze di un interno nel quale si proietta l’interiorità dell’artista, forse i manichini sono anche una chiave di lettura delle piazze, apparente realtà vuota del suo contenuto.

Non lascia un senso di vuoto, tutt’altro, la vista degli otto de Chirico, densi di contenuti oltre che espressivi di forme dietro le quali c’è un approfondimento pittorico nutrito dal continuo riferimento ai grandi classici come maestri indiscutibili cui si è ispirato per tutta la vita. Il vuoto forse, verrà adesso, con la “tabula rasa” delle forme per far irrompere lo spazio, siamo arrivati a Fontana.

Fontana

Fontana è nell’altra sala superiore, sul lato opposto di quella con de Chirico. La raggiungiamo, con gli occhi e la mente ancora immersi nei meandri della mitologia e soprattutto nell’enigma delle piazze metafisiche che, al di là del loro significato recondito, fanno sentire la malinconia di un pomeriggio, di una strada deserta, fanno provare l’angoscia della partenza, della solitudine.
Per affrontare bene Fontana occorre prima un “default”, qualcosa che cancelli queste immagini e ci restituisca la mente sgombra e l’animo aperto. Questo ruolo lo svolge Manzoni, esposto nella stessa sala, con i due dipinti e con le sue parole riprodotte nella scheda. Due “Achrome” del 1959 e del 1962-63 evidenziano questa cancellazione di immagini e colori, la piazza è stata spazzata via e se resta ancora in noi è realmente vuota di tutto, anche dei suoi enigmi e della sua solitudine. La “tela grinzata” del primo presenta soltanto delle increspature al centro, definiti “labili fili di Arianna senza un confine; i “pallini di polistirolo e caolino” del secondo configurano, secondo il critico, “uno spazio assoluto” nel “rigore assoluto del non colore” che tutto annulla. L’artista non solo ne è consapevole, ma vuole proprio questo risultato. Nel criticare i pittori che considerano un quadro come “una superficie da riempire di colori e di forme” e lo considerano terminato solo quando segno dopo segno, colore dopo colore, lo hanno riempito, afferma: “Una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?”.

E siamo così giunti, nella cavalcata del Novecento pittorico, allo spazio totale, allo “spazialismo” di Fontana. La “tabula rasa” di Manzoni è stata provvidenziale, siamo pronti a riempirla di spazio. Anzi, qualora ci fossero state le opere successive di Fontana, avremmo trovato la stessa monocromia, spesso sul bianco, la stessa “tabula rasa” interrotta soltanto da un segno quale labile traccia e testimonianza. Le opere esposte sono tra il 1956-58, lo spazio aveva ancora un contenuto.

Vi sono cinque quadri di dimensioni consistenti dallo stesso titolo, “Concetto spaziale”, con dei vuoti nei quali irrompe una forma, un oggetto, una figurazione, tutti da decifrare. Cui si aggiungono due delicati disegni su carta del 1941, prima del “manifesto” del 1946.
Ci aiutano a decifrare lo “spazialismo” dell’artista le sue stesse espressioni pubbliche, ricordando che questo stile rivoluzionario nasce allorché nota che nel barocco “le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio”. Così proclama nel “Manifesto Blanco” del 1946: “Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. E’ necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo”. E qual è questa “arte maggiore”? Quella che ha come protagonista assoluto, e non più come elemento prospettico, lo spazio, proclamato come nuovo sovrano dell’arte come il Futurismo aveva fatto per l’energia, il dinamismo e il movimento.

Non è più delimitato dalla forma, è esso stesso il quadro, per cui “la tela diviene superficie plastica, supporto in cui lo spazio si concretizza e viene plasmato in tagli, buchi, squarci, nelle infinite modulazioni che egli viene a realizzare”. Viene sovvertito il rapporto luce-spazio, nel senso che quest’ultimo è un elemento concreto, ha la prevalenza: vera luce uguale vero spazio. Leggiamo che come la materia nella relatività, così l’opera definisce e congloba lo spazio: “Ci troviamo di fronte alla più totale rivoluzione copernicana, anzi einsteiniana dell’arte”.

L’“Ambiente spaziale” lo realizzò plasticamente nel 1949 immergendo il visitatore in un ambiente che, per l’oscurità rotta da una luce spettrale con un arabesco in alto “coagulo di materia primordiale”, faceva sentire in un isolamento non enigmatico come quello metafisico, ma abissale; così da percepire “lo spazio in tutta la sua immateriale fisicità”. Ecco, dunque, il significato degli “arabeschi” di forma diversa che troviamo nel suo “Concetto spaziale”: sia esso una grande ellisse come un uovo nero, oppure una specie di decorazione o ancora un magma frastagliato rosso e giallo, tutti del 1956, i due ultimi sono con “tecnica mista e pietre su tela”; il primo invece in “aniline e inchiostri su tela”, la tecnica anche delle due opere del 1957, su sfondi pastello variegati due sagome longitudinali o quadrate-circolari sospese; fino alla losanga su sfondo nero del 1958.
Sono dipinti nei quali troviamo anche buchi e lacerazioni della tela, così interpretati nel bel Catalogo della mostra, veramente istruttivo nelle sue schede per Autore: “Lo spazio deve essere, come egli afferma, materia plastica da plasmare. Ecco allora che i vituperati buchi, tagli, squarci, possono essere percepiti nel loro reale significato: sono articolazioni, modulazioni, scansioni ritmiche dello spazio che non è più evocato o delimitato dalle forme, bensì è il quadro, la tela che diviene superficie plastica, supporto vero in cui lo spazio si concretizza e viene plasmato in tagli, buchi, squarci, nelle infinite modulazioni che egli viene a realizzare. Sono tracce, percorsi, segni che vengono a delineare quasi una sorta di scrittura, come di uno spartito musicale”.
La tela viene bucata e lacerata per fare posto allo spazio, come ci diceva Alberton prima della visita agli ottanta dipinti esposti, un viaggio istruttivo e affascinante tra le contraddizioni del Novecento.

E’ proprio vero e non rituale quanto ha scritto l’Assessore regionale alla Cultura Mauro Di Dalmazio: “Il percorso espositivo, tracciato all’interno della Pinacoteca Civica del Comune di Teramo, si rende fruibile al grande pubblico che, oltre all’esperienza emozionale, potrà assorbire il vissuto e la storia innescando il circolo virtuoso della conoscenza”.
Il vissuto e la storia di un secolo come il Novecento riempiono gli occhi e la mente. E una mostra che li ha riproposti pensando al visitatore non si dimentica facilmente.

1 Commento

  1. Besozzi Walter

Postato settembre 30, 2009 alle 6:38 PM

mostra molto interessante

Aiardi, la legge finanziaria com’era

 di Romano Maria Levante

Riproponiamo un’intervista-saggio che nel 1981 l’On. Alberto Aiardi rilasciò al nostro Romano Levante per la rivista «Realtà del Mezzogiorno». Aiardi, già intervistato da AbruzzoCultura.it per il suo libro “Persona e città. Politica, economia ed etica” (Galaad Edizioni, pp. 240, Euro 14), è stato responsabile dell’Ufficio Studi della Camera di Commercio di Teramo, docente universitario, Vice Sindaco di Teramo, deputato alla Camera per cinque legislature e Sottosegretario al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica.

Carenze e vizi mostrati sin dal 1981, rivisti oggi che “la finanziaria non c’è più”, o è “light”.

E’ stata presentata in questi giorni la legge finanziaria per il 2010, definita “light” per la sua leggerezza, non solo in termini di manovra, appena 3 miliardi di euro in complesso, ma per la sua stessa consistenza. Tanto che il ministro dell’Economia Tremonti, che ne è l’artefice, ha detto addirittura nel presentarla, “e la finanziaria non c’è più…”, con la stessa soddisfazione dell’omino in pigiama nello spot che esclamava “e la pancia non c’è più…”. E ha aggiunto che è l’ultima finanziaria, il prossimo anno ci sarà la “legge di stabilità” prevista nella nuova riforma.

In effetti la finanziaria di quest’anno, che inizia ora l’iter parlamentare, si compone di soli tre articoli, e anche se il secondo articolo sul bilancio dello stato ha cinquanta commi, non supera i settanta commi. Va considerato che a luglio c’è stato il provvedimento con le misure anticrisi, anch’esso snello, composto di 26 articoli per circa 70 commi; lo scorso anno gli articoli erano stati quattro per un totale di 100 commi, dopo la cosiddetta “manovra d’estate” con altri 100 commi.

Perché citiamo in modo inusuale questi ultimi, che sono la scansione logica degli articoli e non hanno una propria specificità? Perché le leggi finanziarie per quattro anni consecutivi sono state costituite addirittura di un solo articolo, diviso in un numero di commi compreso tra un media di 600 per il 2005 e il 2006 e una media di 400 per il 2007 e il 2008. E’ stato l’effetto vistoso del costume che era invalso di far decadere con il voto di fiducia mediante un maxiemendamento ad articolo unico le molte centinaia di emendamenti ostruzionistici e anche di “assalto alla diligenza” per far andare sulla corsia preferenziale della finanziaria provvedimenti spesso clientelari di spesa, le “leggine” dette di collegio. Un “buco” coperto da una “toppa” non certo appropriata né elegante.

L’intervista che ci concesse più di ventotto anni fa Alberto Aiardi, allora Vicepresidente della Commissione Bilancio della Camera e da poco relatore alla legge finanziaria per il 1981, è molto significativa, ci rivela i “buchi” e le “toppe” di ieri. Viene bene rileggerla oggi che ci si prepara a un nuovo sistema, in parte avviato, perché veniva poco dopo l’entrata in vigore della legge di riforma dell’epoca, varata nel 1978, non ancora a regime, e ne metteva a nudo le pecche subito emerse.

Ecco, dunque, il testo integrale dell’intervista, a parte l’alleggerimento della nostra introduzione dalla quale abbiamo stralciato le parti attinenti ai fatti economici contingenti. Fu pubblicata nel numero di aprile del 1981 sul mensile di politica economia cultura “Realtà del Mezzogiorno”, che per quindici anni ha ospitato, oltre ai nostri articoli di collaboratore fisso, le “corrispondenze abruzzesi” di Giammario Sgattoni raccontate di recente in cinque articoli di ricordo e di memoria.

La legge finanziaria nel racconto del relatore On. Alberto Aiardi

Nuovi interrogativi si aggiungono a quelli che la legge ha suscitato sin dalla sua introduzione con il provvedimento-quadro numero 468 del 1978 che ha ridefinito l’intera materia delle procedure di bilancio; e ci riferiamo non solo alla legge finanziaria per il 1981 ma anche a quella dello scorso anno, allorché fu inaugurato il nuovo modo di programmare e gestire la spesa pubblica.

Si è passati a un dimezzamento del numero degli articoli, dagli 88 dello scorso anno ai 44 del testo approvato dalla Camera; ma va sottolineato che il testo del Governo era di soli 17 articoli, portati già in Commissione a 32 e quindi ulteriormente aumentati ai 44 ora ricordati Non é stato certo il fatidico 17 dell’articolato governativo a produrre i due raddoppi successivi nel numero degli articoli; e neppure l’integrazione per far fronte alle esigenze eccezionali delle zone terremotate che si ritrova solo nelle cifre degli allegati e non negli Articoli della legge. E allora, cos’è avvenuto lungo l’iter di approvazione della legge per determinarne la lievitazione? E’ uno degli aspetti oscuri le cui motivazioni potranno essere approfondite ma che comunque potrà essere pragmaticamente evidenziato dal confronto dei diversi schemi normativi. Le aggiunte più vistose appaiono la quadrimestralizzazione della scala mobile dei pensionati, i nuovi strumenti di raccolta del risparmio e la parte relativa al Mezzogiorno il cui capitolo era del tutto assente nel primitivo testo governativo.

E’ innegabile tuttavia che la possibilità di includere o meno un capitolo di tale importanza sta a significare per lo meno una estrema latitudine ed indeterminatezza nel contenuto della legge finanziaria. E’ questa l’altra faccia del problema del carattere “omnibus” giustamente rigettato almeno nelle intenzioni; nel definire le ‘esclusioni’ vanno anche definite le ‘inclusioni’ necessarie perché la legge finanziaria possa essere validamente composta.

Problemi di metodo, come si vede, si mescolano a problemi di contenuto e di sostanza. Come dire che le premesse di cui abbiamo parlato all’inizio non si sono ancora tradotte in fatti conseguenti. Tanti interrogativi, dunque, si affollano sulla legge finanziaria. Abbiamo ritenuto che la cosa migliore fosse porli al Relatore di maggioranza che più di ogni altro può approfondirne gli aspetti più controversi nella duplice attività governativa e parlamentare.

Venti domande all’On. Alberto Aiardi

Alberto Aiardi, quarantacinque anni, deputato di Teramo per la Circoscrizione abruzzese da tre legislature, per la DC, Vicepresidente della Commissione bilancio, programmazione e partecipazioni statali dalla scorsa legislatura, è stato il relatore di maggioranza della legge finanziaria e del bilancio di previsione 1981 alla Camera.

In tale ramo del Parlamento si è svolto praticamente l’intero lavoro di approfondimento, revisione e discussione dei successivi testi della legge che ha impegnato il dibattito in Commissione e in Aula per 5 mesi (dal 30 settembre del 1980 al 1 marzo del 1981). Al Senato la legge è stata approvata in via definitiva nel testo licenziato dalla Camera dopo una discussione rapidissima (dal 4 al 27 marzo scorsi).

L’On. Aiardi ne ha seguito, quindi, passo passo la faticosa gestazione ed è l’interlocutore ideale per dare una risposta ai numerosi interrogativi che restano aperti pur dopo l’approvazione finale della legge. Interrogativi, come si è detto nell’introduzione, di metodo e di contenuto, sui quali non è eccessivo soffermarsi data l’importanza assunta dal provvedimento nel meccanismo istituzionale del governo dell’economia.

D Puoi dire, in breve, ai lettori di “Realtà del Mezzogiorno”, a cosa serve, in definitiva, questa legge finanziaria le cui vicende sono sempre così burrascose?

R. Si era sempre messo in evidenza, prima della legge numero 468 del 1978, come il bilancio dello Stato rappresentasse ormai, data la rilevanza e complessità assunte dalla spesa pubblica, un documento scarsamente significativo di fronte alla esigenza di una concreta valutazione della manovra di politica economica che il Governo intende, annualmente e nel breve periodo, mettere in atto. Ora, il compito della legge finanziaria è sinteticamente quello di adeguare le spese dello Stato e degli altri Enti che concorrono a formare il settore pubblico allargato agli obiettivi di politica economica che con il bilancio annuale e quello poliennale si intendono conseguire. Con la determinazione del livello massimo di ricorso al mercato finanziario si stabilisce, per spiegarci in modo semplice, il massimo dei debiti che possono contrarsi dallo Stato nell’ambito delle compatibilità generali della manovra di intervento nella economia. Praticamente la legge finanziaria determina l’ammontare complessivo delle spese che si possono sostenere, anche se soltanto in termini di competenza, e che si determinano tenendo conto da un lato delle poste già contenute in bilancio per spese alle quali si dovrà comunque in buona parte far fronte o che siano state già decise, dall’altro delle nuove spese che si ritiene di dover affrontare, e che appunto vengono stabilite con tale provvedimento. Con la legge finanziaria si incide pertanto sulle modalità operative, determinando quantità e tempi di spesa per rendere concreta la manovra di bilancio, in riferimento tra l’altro ai contenuti della Relazione previsionale e programmatica, con la quale si esplicitano le coerenze e le compatibilità della politica economica.

D. Come rispondi alle critiche della Commissione Affari Costituzionali sull’incoerenza tra l’impostazione della legge finanziaria e quella della legge di bilancio, in particolare sui criteri diversi adottati per le previsioni di spesa (a legislazione invariata) e di entrata (scontando incrementi di gettito anche per “misure tributarie allo studio”)?

R. In effetti questo è un problema che si è posto con le prime esperienze della legge finanziaria e segnatamente con quella di quest’anno, in considerazione della impostazione – a mio parere corretta – del bilancio di previsione a legislazione invariata. E’ certo comunque che scontare con il bilancio a legislazione invariata maggiori entrate, per le quali, a parte previsioni di ragionati incrementi sulla base della normativa esistente, si prevedono nuove misure tributarie allo studio, pone questioni di rilevanza anche costituzionale, per possibile inosservanza dell’art. 81 della Costituzione. E’ da dire però che il problema è stato in buona parte superato con l’approvazione a suo tempo del nuovo decreto fiscale e con l’emendamento del Governo soppressivo dell’art. 1, concernente in particolare l’Ilor. Una più corretta soluzione del problema, non tenuto presente a suo tempo con la riforma di contabilità attuata con la legge 468, dovrà trovarsi in sede di aggiustamento della legge 468 stessa, valutando questo aspetto come altri che si sono evidenziati nella pratica attuazione.

D. Ed alle critiche sul perdurare della superata concezione “omnibus” per la quale la stessa Commissione cita, tra l’altro, le spese per consulenze, pubblicazioni, del Ministero di grazia e giustizia, ma potremmo ricordare anche le borse di studio del Ministero della pubblica istruzione ed altri esempi ancora?

R. Notevoli passi avanti si sono fatti quest’anno per restituire, secondo lo spirito della legge 468, alla legge finanziaria, il suo reale contenuto, evitando che potesse rappresentare l’occasione per introdurvi una serie di norme che invece devono trovare sistemazione in specifiche leggi sostanziali. Su questa linea si era mosso il Governo, con la presentazione di un testo composto soltanto di diciassette articoli. Per la verità quest’anno si è registrato un ribaltamento di posizioni, se ricordiamo le polemiche precedenti. Cioè proprio da parte del Parlamento, negli anni passati fortemente critico verso la linea del Governo che aveva approfittato della finanziaria per far passare una serie di norme specifiche, per cui si coniò la definizione di legge ‘omnibus’, si è operato per l’inserimento di norme che più opportunamente avrebbero dovuto formare oggetto di provvedimenti ad hoc. Basti pensare soltanto alla tormentata questione delle pensioni. In realtà la legge finanziaria deve prevedere soltanto le risorse da destinare alla soluzione di un determinato problema, lasciando poi all’attività legislativa normale la approvazione della nuova normativa con legge specifica, evitando così anche di espropriare le Commissioni di merito di loro fondamentali competenze. Resta pertanto valida, a mio parere, la critica sulla introduzione anche quest’anno di norme sostanziali, alcune peraltro di scarsa rilevanza, che finiscono per appesantire e snaturare la legge finanziaria, facendo perdere di vista il dibattito ed il confronto sulle scelte fondamentali di politica economica.

D. Ma andiamo a critiche più sostanziali: così com’è composta come può la legge finanziaria adempiere al suo compito primario di valutare – come osserva la Commissione citata – ‘la fattibilità oltre che l’opportunità del programma legislativo complessivamente proposto dal Governo e la congruità dei relativi accantonamenti finanziari’?

R. Ritengo, anche per le osservazioni avanzate in precedenza, che se viene sfrondata da aspetti marginali o che comunque, pur rilevanti, devono formare oggetto di specifici provvedimenti sostanziali, la legge finanziaria, ed in particolare quella di questo anno, offre un quadro coerente ed organico del programma legislativo che si intende attuare nel corso dell’anno. Ad ogni buon fine, l’opportunità del programma e la congruità degli accantonamenti formano oggetto di valutazione da parte del Parlamento, che può modificarli come è avvenuto per comparti significativi.

D. Allora, come credi che si possa articolare la legge in modo che o rifletta il programma di governo dell’economia per l’anno a venire oppure, all’estremo opposto, si limiti a definirne la cornice?

R. L’articolazione della legge, a parte i problemi accennati di rapporto tra questa e la legge di bilancio, ritengo che debba rispondere alle caratteristiche indicate con la legge 468, e cioè contenere essenzialmente la rimodulazione annuale delle leggi di spesa in essere, la definizione dei nuovi fondi speciali, la determinazione del livello massimo di ricorso al mercato.

D. Non credi che in mancanza di questa ‘impostazione rigorosa’ si aprano paradossalmente varchi insperati per la produzione delle ‘leggine’ che tanto danno economico arrecano ai conti dello Stato; e ciò attraverso la compiacente copertura offerta dai ‘fondi globali’ i cui accantonamenti tendono ad essere sopravalutati creando capaci ‘pieghe di bilancio’?

R. E’ stata questa una preoccupazione tenuta ampiamente presente in sede di esame della legge finanziaria, soprattutto nel lavoro preliminare della Commissione Bilancio. E proprio per evitare gli inconvenienti accennati si è affermata la linea, condivisa da tutti i gruppi politici, rivolta a dare precisa caratterizzazione alle voci dei fondi speciali così da trovare nel corso del programma legislativo chiaro riferimento, oltre che alle coperture, alle scelte che si sono volute operare con la legge finanziaria. Il risultato certamente non è ancora perfetto, ma, come è facilmente intuibile, l’ottenimento di una più rigorosa gestione del Bilancio dipende moltissimo dal Parlamento. Vorrei inoltre rammentare due aspetti importanti. Il primo riguarda i nuovi fondi speciali. Questi, riflettenti la manovra che parte nel 1981 e quantificati nella finanziaria, consentono di distinguere l’ammontare del nuovo programma di spesa dal riflesso finanziario sul 1981 del programma precedente ed ancora in corso di approvazione. Il secondo concerne la netta volontà espressa dalla Commissione Bilancio circa il ripristino delle apposite tabelle dei fondi speciali, da approvarsi in maniera esplicita e non soltanto per l’ammontare complessivo, anche per non privare il Parlamento di un esame specifico delle singole voci che concorrono a formare detto ammontare.

D. Come credi si possa risolvere l’annoso problema – evocato anche nella discussione sulla legge –della copertura delle leggi di spesa ex art. 81 della Costituzione anche in relazione a spese future?

R. E’ da premettere che nel quadro dei problemi rimasti aperti in questi primi anni di applicazione della legge 468 del 1978 emerge quello della copertura delle leggi di spesa, con particolare riguardo a quelle che dispongono spese a carattere pluriennale o continuativo. In questa materia, infatti, come ho avuto modo di rilevare in sede di replica, la legge di riforma ha delineato un sistema di strumenti e procedure che, sia per la mancata attuazione in ordine a suoi elementi essenziali, come il bilancio pluriennale programmatico, che per una sua certa difficoltà interpretativa, non ha potuto sinora tradirsi in concreto. Ne è conseguita una conferma della prassi tradizionale, per la quale la disciplina stabilita con il quarto comma dell’articolo 81 della Costituzione viene sostanzialmente assicurata con riguardo agli oneri deliberati a carico dell’esercizio in corso o, al massimo, del successivo e non anche per quelli disposti a carico degli esercizi futuri. Il nuovo sistema delle decisioni di spesa sembra che si possa così delineare: la legge poliennale determina obiettivi, procedure e livello massimo della spesa, verificandone la copertura sulla base del bilancio pluriennale e per gli anni in questo considerati; mentre la decisione di bilancio – cioè, in base all’articolo 18 della legge 468, la legge finanziaria – rende attuale anno per anno il riscontro globale di copertura effettuato all’atto della approvazione delle leggi di spesa, commisurandolo alla loro modulazione nell’ambito della manovra perseguita. Apparirebbe così raggiungibile l’obiettivo di rendere le decisioni di spesa al contempo flessibili e responsabili.

D. Nella tua replica c’è stata una differenziazione interessante a questo riguardo tra spese correnti e spese in conto capitale nel senso che i criteri di copertura dovrebbero privilegiare queste ultime a differenza del passato in cui esse sono state considerate per lo più un ‘residuo’. Potresti illustrare questo punto?

R. Il sistema posto dalla legge è noto e si traduce, nella perspicua interpretazione fissata dalla Corte dei Conti, nella relazione al Parlamento sul Rendiconto del 1078, nel ‘vincolo di non peggioramento dei saldi netti da finanziare (per le spese in conto capitale) e dei saldi di parte corrente (per le spese correnti ed i rimborsi dei prestiti) rispetto alla misura fissata per gli uni e gli altri nel bilancio pluriennale’. Le nuove e maggiori spese di parte corrente (o per il rimborso prestiti), disposte a carico degli esercizi considerati dal bilancio pluriennale, devono cioè trovare copertura all’interno del differenziale tra le entrate tributarie ed extra-tributarie e le spese correnti (risparmio pubblico) fissato dal bilancio pluriennale per quei medesimi esercizi. Nel senso o di sostituire oneri già previsti e compresi nel risultato differenziale o di aggiungersi agli oneri previsti indicando come copertura ‘il miglioramento nella previsione per i primi due titoli delle entrate rispetto a quella relativa alle spese di parte corrente’ (articolo 4, comma VIII). Le nuove e maggiori spese di parte capitale, invece, oltre a trovare copertura con la previsione o l’introduzione di incremento delle entrate, possono anche riferirsi al risultato differenziale tra le entrate finali e spese finali (saldo netto da finanziare) cioè, in sostanza, all’indebitamento previsto per ciascuno degli esercizi finanziari considerati dal bilancio pluriennale. Come più volte osservato questo sistema non soltanto definisce un parametro quantitativo per il riscontro di copertura ma esprime una scelta sulla qualità della spesa, privilegiando quella di parte capitale, che può essere finanziata in ‘deficit’, rispetto a quella di parte corrente, per la quale si richiede una ‘copertura reale’.

D. Potresti spiegare anche i motivi per cui a tre anni dall’approvazione della legge 468 che regola il bilancio il sistema non né ‘a regime’ ma presenta anzi gravi carenze ed anomalie; non solo quelle di cui fin qui si è discusso ma anche la non attuazione di strumenti istituzionali formalmente previsti?

R. E’ indubbio che una riforma delle procedure di contabilità dello Stato, come prospettato dalla legge 468, non sia pienamente attuabile nel breve tempo, considerando le complesse implicazioni di metodo e di strumentazione che essa comporta. Di fatto, ad esempio, il bilancio pluriennale programmatico non è stato sinora presentato, per cui la stessa metodologia delle coperture non ha potuto giovarsi degli strumenti propri previsti dalla legge.

D. A parte questi problemi il cui approfondimento porterebbe lontano, puoi esplicitare l’intero disegno – che ci auguriamo veder realizzato presto almeno per poterlo discutere e, se del caso, criticare – dal bilancio pluriennale programmatico alla Nota di variazione in connessione con gli strumenti già in atto?

R. Come è noto, lo stesso bilancio pluriennale a legislazione vigente, pur incorporando la proiezione per gli esercizi considerati delle determinazioni su cui si basa il bilancio approvato, inclusi i fondi speciali, espone dati ad un elevato livello di aggregazione. Un primo, utile intervento, sembra possa essere quello della proiezione disaggregata dei fondi speciali ‘nel bilancio pluriennale e limitatamente all’arco temporale da questo considerato’, come ribadito dalla Corte di Conti nella relazione sul Rendiconto per il 1979 e come già proposto in sede di studio. Per conseguire questo scopo sembra sufficiente, con riguardo alla discussione in atto, che il Governo si impegni ad esporre la proiezione disaggregata dei fondi speciali approvati con la legge finanziaria (insieme con quelli approvati con la legge di Bilancio) nella sede del Bilancio pluriennale, attraverso le operazioni e con i medesimi metodi, con cui, secondo la relazione governativa, una tale proiezione era stata già approntata, per la presentazione del disegno di legge finanziaria. Strumento a tale fine potrebbe essere la nota di variazioni con cui si trasferiranno sul disegno di legge di bilancio (che è anche di approvazione del bilancio pluriennale) le deliberazioni della legge finanziaria. Una tale procedura, va comunque, ribadito, resta soltanto e assai parzialmente surrogatoria della presentazione di un vero bilancio pluriennale programmatico, avente le caratteristiche di struttura e funzione previste dalla legge di riforma.

D. Puoi riassumere le principali differenze tra vecchio e nuovo sistema della legislazione di spesa precisando cosa è già acquisito degli auspicati vantaggi e cosa invece deve essere ancora perfezionato?

R. Le principali modifiche introdotte con il nuovo sistema sono: una impostazione più articolata, anche ai fini di una migliore conoscenza e di un più adeguato controllo, dei conti della finanza pubblica, la predisposizione del bilancio di cassa accanto a quello di competenza, l’estensione del bilancio al settore pubblico allargato, la stesura del bilancio pluriennale, la determinazione dei limiti d’indebitamento, un adeguamento della disciplina dei residui, la presentazione delle relazioni sulla stima del fabbisogno di cassa, e quindi la legge finanziaria. Se passi significativi si devono registrare per quanto attiene alla migliore comprensione dell’intero sistema della contabilità pubblica e se un primo importante obiettivo viene raggiunto con la legge finanziaria, che individua e determina i caratteri e le possibili influenze della manovra annuale di politica economica, molti problemi restano aperti: il collegamento tra legge finanziaria, bilancio annuale e bilancio pluriennale programmatico, anche in riferimento, come si è avuto modo di notare in precedenza, alle coperture di spesa; la conoscenza degli effettivi movimenti di cassa e della collegata manovra dei residui, anche per determinare il fabbisogno di cassa del settore pubblico allargato, e quindi il reale disavanzo di cassa da finanziare, senza dimenticare una maggiore capacità operativa delle strutture amministrative ed un più moderno utilizzo dei relativi strumenti.

D. Pur senza fare classificazioni od avanzare giudizi di valore quali ritieni siano i provvedimenti, come si suol dire, più qualificanti della legge finanziaria e quali i loro presumibili effetti in campo economico?

R. La destinazione di risorse aggiuntive per il 1981, determinate con la legge finanziaria, è andata nella direzione di un positivo incremento della spesa per investimenti. A parte le sensibili risorse finalizzate alla ricostruzione delle zone terremotate, possiamo fare riferimento agli investimenti per il Mezzogiorno, alle spese per l’adeguamento delle strutture giudiziarie e penitenziarie, agli interventi in materia di opere pubbliche, agli investimenti nel settore agricolo, in quello dell’edilizia, al sostegno del credito per l’artigianato e per le esportazioni, alle misure particolari per alcuni settori dell’economia, con particolare riguardo all’industria e relativo fondo per l’innovazione, così pure per le Partecipazioni statali, senza dimenticare il sensibile incremento dei fondi per l’aiuto ai paesi in via di sviluppo. E’ evidente che gli effetti di una manovra come quella prevista, tendente a favorire processi di ristrutturazione e di riequilibrio sia sotto il profilo territoriale che settoriale, sono strettamente collegati alla capacità di accelerare la realizzazione degli investimenti.

D. Alcuni dei provvedimenti che hai citato non erano nel testo generale del Governo; più in generale vi è stata una completa revisione del testo in Commissione prima ed in aula poi. Anche se ciò può ritenersi normale, anzi qualifica l’intervento delle varie istanze come apporto costruttivo e non come mera ratifica, non si può negare che in questa circostanza si è fatto ‘tabula rasa’ della proposta governativa iniziale; come si concilia questo con il ruolo che alla finanziaria si vuole assegnare di verifica della fattibilità del programma di governo per l’anno a venire?

R. Non direi che si è fatta tabula rasa dell’iniziale proposta governativa. D’altronde non possiamo dimenticare che il primitivo testo venne presentato a settembre, da un altro governo ed in una situazione congiunturale che si è venuta drammaticamente modificando nel giro di pochi mesi, senza parlare del verificarsi dell’evento del sisma, che ha imposto l’esigenza del reperimento di nuove e consistenti risorse finanziarie da destinare alla ricostruzione. In pratica nel confronto tra Governo e Parlamento, sulla base anche della prima nota di variazioni e degli emendamenti al testo della finanziaria presentati dal Governo stesso, si è operato in un continuo raccordo tra programmi di spesa, obiettivi di politica economica e manovra finanziaria. Circa quest’ultimo aspetto infatti, nonostante l’introduzione della nuova spesa per le pensioni, ed a parte le necessità intervenute successivamente per porre vincoli ulteriori all’espansione del disavanzo (situazione valutaria internazionale, peggioramento ulteriore della bilancia dei pagamenti, eccetera), non sono stati superati in modo rilevante i limiti posti responsabilmente dal Governo per la determinazione del livello massimo del ricorso al mercato finanziario, nell’ambito delle compatibilità di una manovra coerente di politica economica.

D. Ponendoci su di una tematica più generale, qual è il disegno di politica economica che emerge dalla legge finanziaria approvata nel persistente dilemma tra stretta creditizia antinflazione e politica di sviluppo per l’occupazione?

R. Certamente la linea di politica economica sottesa alla legge finanziaria ed al conseguente quadro di bilancio è quella individuata già, nei riferimenti di fondo, nella Relazione previsionale e programmatica per il 1981, e secondo la quale la correzione degli squilibri economici interni, accentuati dai fattori esterni di crisi, dipende da una decisa azione antinflazionistica, sostenuta da guadagni di produttività del sistema e quindi da maggiori investimenti. A tal fine importanti risultano gli obiettivi intermedi: contenimento (sul 5% del Pil) della quota di disavanzo corrente del settore pubblico allargato; aumento degli investimenti pubblici, specialmente in settori strategici; mantenimento, entro valori compatibili, del livello del fabbisogno complessivo di detto settore pubblico. Pertanto la legge finanziaria 1981, come licenziata dalla Camera e poi, senza variazioni, approvata definitivamente dal Senato, ha retto a mio parere, sul fronte del collegamento con i suddetti obiettivi di politica economica. In effetti si è determinato un livello di risparmio pubblico negativo (il disavanzo di parte corrente) coerente con tale impostazione, almeno in termini di competenza.

D. La notizia dell’approvazione definitiva della legge al Senato è stata data da ‘la Repubblica’ del 28 marzo con il titolo ‘La maggioranza ha approvato una legge tutta da rifare’. Ciò, evidentemente, in relazione sia agli ‘sfondamenti’ operati da leggi di spesa approvate dal Parlamento, sia alle misure della ‘domenica nera’ del 22 marzo che avrebbero stravolto l’intero quadro finanziario. Cosa pensi di questo giudizio e come ritieni che si colleghi la legge all’attuale situazione economico-finanziaria del Paese e agli impegni che ne derivano?

R. Che le decisioni del Parlamento e l’aggravarsi della situazione economica abbiano determinato l’adozione di nuovi provvedimenti monetari, tra cui la ulteriore restrizione creditizia, e la necessità di comprimere ulteriormente la spesa corrente, non significa che vengono meno le ipotesi sulle quali si fonda la legge finanziaria; esse, anzi, ne ricevono positiva conferma. Una qualificazione della spesa nella direzione degli investimenti, in coerente rapporto con le linee del Piano Triennale e rivolta a privilegiare una concreta politica dell’offerta, è indispensabile per accrescere la produttività, come una delle condizioni più importanti per contribuire a combattere le cause che sono alla base di un così elevato tasso di inflazione nel nostro Paese. Non vedrei pertanto contraddizione tra misure restrittive in atto e sostegno, in termini produttivistici, ai settori dell’economia, come possibilità offerte dalla finanziaria. L’uscita dalla crisi e la ripresa economica non dipendono certamente da più o meno dure strette creditizie. Esse sono necessarie se non si aggrediscono, attraverso responsabilità congiunte di Governo e di forze sociali, i complessi nodi che alimentano gli elevati impulsi inflazionistici che sono, come è ben noto, da domanda e da costi al tempo stesso, e da costi interni ed esterni contemporaneamente. Lo Stato deve fare la sua parte, organizzando meglio le sue spese, da un lato contenendo al massimo quelle che hanno connotazioni chiaramente improduttive e parassitarie, e dall’altro assicurando tempestività di sostegni agli investimenti. Gli altri centri di decisione devono assumersi le loro responsabilità, anche per un approfondito esame delle conseguenze di indicizzazioni esasperate ed illogiche di fronte ad un tasso di inflazione a due ‘decine’ se non a tre.

D. Ti chiediamo ora delle notazioni personali, se ce lo consenti: quali sono state le più petulanti richieste di modifica della legge e i momenti di maggiore imbarazzo nel non accettare istanze astrattamente giustificate ma in contrasto con le compatibilità ed i vincoli finanziari?

R. Non direi che si siano avute richieste per così dire ‘petulanti’, a parte il tentativo d’inserire nella legge problemi marginali e riguardanti soluzioni particolari di interesse di zone e categorie. Debbo dire che questo tentativo in elevata misura non ha avuto udienza. Un momento di reale imbarazzo è certamente stato quello della discussione sugli emendamenti per i trattamenti pensionistici, ed in particolare per l’aspetto relativo ai benefici quantitativi da concedere. Resto invece convinto che a parte la previsione di spesa necessaria per assolvere a tale impegno, la materia non avrebbe dovuto trovare posto nella legge finanziaria, come non ha niente a che vedere con la legge la prima parte, introdotta con voto dell’aula, e relativa a disposizioni di materia fiscale.

D. A parte questo aspetto particolare ma restando sempre nelle notazioni personali, non ti chiediamo i momenti ‘politicamente’ più difficili anche perché a tutti noti, ma quelli ‘umanamente’ più frustranti, Ci riferiamo all’andamento della discussione sul quale nella tua replica hai avuto accenti critici anche per l’ostruzionismo strisciante messo in atto da alcuni gruppi. Cosa puoi dirci al riguardo e quali rimedi si possono prospettare?

R. Proprio l’andamento della discussione generale in Aula è stato motivo di conferma dello svilimento in cui rischia di cadere sempre più l’attività del Parlamento, se non si ribadiscono condizioni per ridare tono e interesse al dibattito in un confronto serrato e più vivace. Posso comprendere i lunghi ripetitivi interventi, che diventano di fatto soliloqui nel deserto dei banchi parlamentari, quando si mette in atto un ostruzionismo che può avere una sua dignità di fronte a temi politici rilevanti. Ma non comprendo assolutamente un andazzo che tende unicamente ad intralciare il lavoro parlamentare. In particolare, in occasione del dibattito sul bilancio e sulla legge finanziaria, atti fondamentali di indirizzo e di controllo dell’azione di Governo, è inconcepibile procedere come in questi ultimi anni. Come ho detto nella mia replica, ritengo che sia indispensabile, oltre che serio, dedicare, come del resto prevede il regolamento della Camera, una specifica sessione autunnale alla discussione ed all’approvazione della legge finanziaria e del bilancio. E’ un periodo nel quale l’attenzione del Parlamento, e quindi del Paese, deve essere interamente accentrata su decisioni tanto determinanti per la vita sociale, quali quelle relative alla politica economica. Il dibattito inoltre dovrebbe essere più serrato, con brevi interventi, che favoriscano repliche immediate, in un confronto diretto e continuo. Si ravviverebbe in tal modo l’interesse a stare in Aula da parte dei parlamentari, si ricreerebbe il gusto di sentirsi partecipi delle decisioni.

D. Non ritieni, però, che le disfunzioni siano ancora più vaste e diffuse, come emerge dalle defatiganti discussioni svolte in tutte le Commissioni dalle quali – ad eccezione della Commissione bilancio che ha gestito di fatto la legge e della Commissione affari costituzionali che ne ha compiuto una penetrante analisi critica – sono venuti pareri di una estrema povertà con l’unico scopo spesso di inserire richieste di stanziamenti particolari, peraltro molto marginali? Non si lega a tutto questo anche il discorso, che monta sempre di più, della riforma istituzionale e costituzionale?

R. E’ proprio il modo attuale di procedere dei lavori parlamentari, con l’accavallarsi dei problemi e la conseguente farraginosità dei meccanismi, che crea una dispersione di interesse e rende spesso superficiale l’esame dei provvedimenti. Proprio restando alla finanziaria ed al bilancio, se l’intero Parlamento sapesse di essere chiamato per quindici-venti giorni di seguito a trattare soltanto di tali argomenti, sulla base di un calendario preciso, io ritengo che ogni parlamentare sarebbe stimolato a seguire, ad approfondire, a confrontarsi, per gli specifici settori nell’ambito delle rispettive Commissioni e poi in assemblea. Non legherei quindi il problema alla tanto vexata quaestio delle riforme costituzionali. Per me personalmente non è questa la via per risolvere il gap che si è creato tra istituzioni e cittadini. Certamente alcuni aggiustamenti di determinate norme costituzionali sono anche necessari, ma non investono aspetti di fondo. Modifiche elettorali o regolamentari sono peraltro sempre possibili. L’importante, ritengo, è che ognuno cerchi di far procedere meglio le cose per la parte di responsabilità che ha. Anche per il Parlamento, dipende dalla buona volontà di tutti farlo funzionare meglio. Se a tal fine è necessario apportare qualche modifica al regolamento della Camera, lo si faccia e presto.

D. Consentici di introdurre un’altra domanda personale con una citazione del relatore di minoranza alla legge, l’On. Carandini che in sede di replica ha osservato che ‘tra i tanti primati del nostro paese c’è quello del più alto rapporto fra spesa pubblica e prodotto interno lordo e del più basso rapporto fra discussione di temi di politica economica e dibattito politico generale’. A parte un tuo commento su questa affermazione, ci interesserebbe una tua notazione spontanea sull’esperienza – certamente importante per un uomo politico che è anche un ‘tecnico’ in materia economica – di aver vissuto dal di dentro per alcuni mesi la gestazione di un provvedimento chiave per l’economia del Paese.

R. Mi sento di concordare con questa affermazione di Carandini. D’altro canto molti mali della nostra vita politica derivano dalla eccessiva ideologizzazione delle posizioni, per cui il confronto, o lo scontro, si alimenta soprattutto delle tematiche teoriche e degli equilibri necessari per la governabilità, mettendo in zona residua la differenziazione concreta sulle scelte e sulle soluzioni. Non che la vita politica non debba alimentarsi di tensione ideale, ma essa è chiamata anche a risolvere i problemi della gente, e da questa bisogna farsi capire. Proprio tenendo presente ciò vorrei rispondere alla seconda parte della domanda. Dico anzitutto che questa esperienza è stata per me senz’altro significativa, anche se, non proprio come relatore, avevo avuto modo di viverla molto da vicino già negli anni precedenti. La notazione spontanea: sono sempre più convinto della necessità che si trovino i modi più opportuni e semplici per far capire alla gente le questioni delle quali si discute, e questo a maggior ragione in occasione dell’approvazione della finanziaria e del bilancio, i motivi delle scelte che si fanno, gli obbiettivi che si intendono raggiungere. Si tratta cioè di facilitare il riavvicinamento tra cittadino e Stato. Perché, ad esempio, dopo l’approvazione del bilancio, non si pensa a stampare un semplice e chiaro opuscolo illustrativo dello stesso, da diffondere nel Paese, a cominciare dalle scuole superiori?

D. La ventesima ed ultima domanda vorremmo che fossi tu stesso a proporla: puoi rispondere a quella domanda che avresti voluto ti fosse posta e che invece non figura nel ‘terzo grado’ a cui con molta cortesia hai accettato di assoggettarti? Grazie anche a nome dei nostri lettori.

R. La domanda: ‘con tutti i problemi, soprattutto di procedura, che la legge finanziaria ha sollevato, la aboliresti?’ Risposta: No. Pur con le accennate esigenze di apportare miglioramenti alla legge numero 468, ritengo la legge finanziaria un significativo passo avanti nell’adeguamento dell’intero sistema di contabilità pubblica, anche ai fini di una più moderna attuazione dei compiti di indirizzo e di controllo da parte del Parlamento, che proprio nel controllo delle spese del Re ebbe il fondamento iniziale della sua giustificazione storica.

Conclusione

La domanda finale che l’On. Aiardi ha prescelto è proprio quella che avrebbe voluto fargli il Direttore della Rivista Prof. Macera e che esitavo a proporre ritenendola troppo provocatoria. Siamo grati al Relatore della finanziaria per essersela posta spontaneamente cogliendo – con acuta sensibilità politica – la domanda di fondo proveniente dall’opinione pubblica dinanzi alle tormentate vicende della tanto discussa legge. Non sappiano se i lettori della nostra Rivista condivideranno la sua risposta. Ma è certo che gli elementi ampi e documentati da lui forniti nel corso della lunga intervista consentono ora un giudizio più motivato e comunque non superficiale su questo tema di basilare importanza per la vita politico-economica del paese.

Anche di questo ringraziamo l’On. Aiardi a nome dei lettori di Realtà del Mezzogiorno che avranno avuto la costanza di seguirci nei meandri tecnici e procedurali oltre che economici e politici di una legge così complessa.”

Qui termina la lunga intervista dell’aprile 1981. A questo punto un ringraziamento va ai lettori di Abruzzo Cultura che hanno avuto pari costanza. Sono stati premiati dal fatto che il finale, lo vediamo ora, si ricollega alla presentazione iniziale dove abbiamo riportato le parole del Ministro Tremonti “e la finanziaria non c’è più…”. Queste rendono quanto mai attuale il dilemma di allora.

Nella seconda parte dell’intervista si entra anche nei contenuti della legge finanziaria 1981 e, come si vede, molti collimano con quelli attuali, a parte il tasso di inflazione “a due decine” lontano anni luce, e la conseguente politica antinflazionistica assente nella presente fase di deflazione; aspetto certo non secondario, ma che non muta il giudizio di fondo. Nella visione di allora abbiamo una prova ulteriore che i problemi trattati come emergenze si ripresentano come ordinari e permanenti finché le sempre invocate riforme di struttura non fanno il miracolo di risolverli, come avvenne per le abnormi spinte inflazionistiche cessate con l’abolizione dell’indicizzazione della scala mobile, per di più esasperata dall’unificazione al livello massimo del punto di contingenza; a questo si accenna nell’intervista come all’esigenza di una sessione speciale di bilancio con dibattiti serrati senza ostruzionismo, alla riforma del regolamento della Camera e ad altri punti critici, e si può dire oggi a ragion veduta, che sono stati risolti nel senso allora auspicato con preveggenza.

Abbiamo parlato all’inizio di “buchi” e “toppe” nella finanziaria di “ieri”, ma si è visto altresì che il sistema era volto proprio alla trasparenza e al controllo dei conti, obiettivo invece del tutto mancato, anzi rovesciato se fino ad allora i conti pubblici erano in sostanziale equilibrio, pur se precario, mentre poco dopo, con i primi anni ’80, è iniziata la corsa al deficit.

Il rapporto tra debito e Prodotto interno lordo, che nel 1981, l’anno della finanziaria di “ieri”, era del 56%, dieci anni dopo era schizzato al 95%, proprio allorché i parametri di Maastricht nel 1992 lo richiedevano entro il 60% che l’Italia riuscì a far considerare tendenziale; la corsa non si è arrestata, si è superato anche il 120% dopo temporanei contenimenti. Tutto ciò sebbene i vincoli europei al deficit di bilancio abbiano costituito una barriera che negli anni ’80 non c’era; allora bastavano le alchimie interpretative e manipolatorie su un sistema complesso, lacunoso e farraginoso, insieme al rapporto consociativo tra maggioranza e opposizione, sindacati e poteri vari, a creare in un decennio il dissesto dei conti pubblici senza che qualcuno facesse rinsavire.

Un “come eravamo” molto istruttivo, dunque, particolarmente in questa delicata fase di passaggio a un nuovo sistema. Per non risvegliarci un giorno amaramente dal sogno, con una “pancia” ancora debordante, come il patetico omino protagonista dello spot televisivo ricordato all’inizio.

Montorio al Vomano, dalla paura alla speranza nella “vetrina del Parco”

di Romano Maria Levante

Si è presentato da subito come un evento del tutto particolare l’importante Convegno “Dalla paura alla speranza” tenuto nell’ambito della “Vetrina del Parco” a Montorio al Vomano (Teramo) la sera del 5 settembre 2009.

Innanzitutto la sala, adiacente alla chiesa parrocchiale con sulle pareti le immagini in bianco e nero della mostra fotograficaMontorio ieri e oggi”, un “come eravamo” e “come siamo” attraverso gli scatti paralleli; a destra del palco una gigantografia a colori del Calderone, il ghiacciaio più meridionale d’Europa, anche se oggi il ghiaccio è poco visibile in superficie sommerso dalla pietraia, “cova” all’interno, è un ghiacciaio “attivo”, se si può usare il termine coniato per i vulcani.

La sala è affollata, non ci sono i preannunciati Gianni Chiodi e Guido Bertolaso, trattenuti a L’Aquila dall’arrivo del presidente Giorgio Napolitano e dalle incombenze per il concerto di Riccardo Muti, ma interlocutori comunque di prestigio di Arturo Diaconale, nella doppia veste di giornalista moderatore del dibattito e di Commissario al Parco, quindi protagonista: il direttore dei laboratori del Gran Sasso Eugenio Coccia, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Lorenzo Del Boca, e soprattutto il sindaco di L’Aquila Massimo Cialente, ospite quanto mai autorevole, insperato… soccorso alpino al suo collega di Montorio Alessandro Di Giambattista oltre che al Commissario; e poi il caporedattore Domenico Logozzo della locale sede Rai.

Non si tratta di sostituti dei grandi assenti, ma di validi protagonisti in una tavola rotonda che ha esplorato i due versanti a cui Diaconale è sembrato tenere in modo particolare: il versante delle proposte di rilancio, mirate all’eccellenza per andare “più alto e più oltre” di prima, e ci si perdoni il motto dannunziano; il versante della comunicazione, anch’esso di importanza basilare per mantenere desta l’attenzione, far sì che i riflettori restino puntati su L’Aquila e sull’Abruzzo.

Trarre da un così grave evento negativo qualcosa di positivo è l’imperativo categorico declinato da Diaconale, del resto è l’insegnamento delle scuole di “management”, “trasformare le minacce in opportunità”. Qui si deve andare oltre, come non si è trattato di una minaccia ma di un cataclisma biblico così non ci si può fermare alle opportunità ma bisogna puntare all’eccellenza.

E in tutto questo, lo ha detto chiaramente Diaconale, non c’è spazio per un “Abruzzo petrolifero e petrolchimico”. La minaccia che la “regione verde d’Europa” possa diventare “regione nera” è stata evocata dal “Comitato Abruzzese Difesa Beni Comuni” che ha distribuito un volantino e una lettera del 15 giugno con la richiesta di incontro al presidente della Regione per scongiurare un pericolo incombente: con il 1° gennaio 2010 scadrà la moratoria in atto e potranno avere via libera le attività estrattive all’interno e sul mare “nel 50% del territorio abruzzese, coperto da concessioni petrolifere, in particolare della provincia di Teramo, di cui si vociferano già possibili locazioni di raffinerie di petrolio”; la situazione è aggravata dal fatto che “il petrolio abruzzese è un petrolio ‘amaro’, cioè estremamente inquinante e l’estrazione e la sua depurazione, sia in terra che in mare, comporta certezza di inquinamento dell’ambiente circostante e delle falde acquifere”. Non si tratta della rituale denuncia di anime belle fondamentaliste della tutela ambientale. Firmatari della richiesta di incontro che paventa queste conseguenze, espresse nel volantino in termini ben più crudi – “condanna a morte l’agricoltura, l’economia eno-gastronomica e lo sviluppo turistico dell’Abruzzo” – sono i presidenti delle maggiori associazioni produttive, ad eccezione degli industriali, e il motivo della loro assenza è evidente. Troviamo Confcommercio e Federalberghi, Confagricoltura e Coldiretti, Confederazione agricoltori e Federpesca, Assoturismo e Confederazione artigianato, Consorzio colline e Unione comuni Val Vibrata, fino all’associazione Camping e al sindacato. Confidiamo che il presidente Chiodi ascolti le loro ragioni. E se le premesse sono quelle indicate, sono le ragioni di tutti, del Parco e dei settori produttivi più legati al modello di “sviluppo sostenibile” che è una risorsa preziosa per uno sviluppo basato sulla natura e sull’ambiente, sulla storia e sulla cultura, insomma sulle identità forti della terra d’Abruzzo.

Il progetto di eccellenza “Gran Sasso Institute”

Un intervento non rituale è stato quello del direttore dei Laboratori dell’Istituto di fisica nucleare del Gran Sasso – posti nelle grandi caverne adiacenti al traforo con le loro attrezzature d’avanguardia schermate dai raggi cosmici da oltre duemila cinquecento metri di spessore della roccia, meta degli scienziati di tutto il mondo – che hanno fatto entrare la zona tra i territori di eccellenza sul piano scientifico e tecnologico classificati dal Censis. Il prof. Coccia descrive il progetto già ventilato con Diaconale e con Cialente prima del terremoto. Si tratta del “Gran Sasso Institute”, un centro di formazione scientifica di eccellenza di alto livello sul piano internazionale da realizzare in superficie, collegato ovviamente al centro sotterraneo che ha già un elevatissimo “standing” a livello mondiale ma non può espandersi oltre la dimensione attuale. Però, con il richiamo che rappresenta, potrà aiutare a decollare il centro di superficie previsto ad Assergi, per il quale è stata già individuata l’area in passato occupata dal cantiere della Cogefar. Ben collegato con l’autostrada in loco e con il vicino nuovo aeroporto di Preturo utilizzato per il G8, rimasto come preziosa infrastruttura per L’Aquila, potrà dar luogo a un polo scientifico di forte attrattiva internazionale nelle articolazioni sotterranea e di superficie con potenti sinergie e complementarità a livello di infrastrutture, attrezzature e ricercatori.

Il prof. Coccia ha chiarito che è una cosa ben diversa dal laboratorio sotterraneo dove si fa ricerca tematica, il nuovo progetto è rivolto ai giovani ai quale si vuol dare una scuola di alta formazione e specializzazione d’eccellenza per dottorati di ricerca particolarmente avanzati. Si potrà considerare anche la possibilità di far frequentare corsi speciali agli iscritti all’Università a L’Aquila, in modo da creare un motivo in più perché non si abbassi il gradimento per la città nonostante le ferite materiali che il terremoto ha lasciato nel corpo urbano, e le ferite morali al cuore e all’anima di tutti anche per le tante vittime tra i giovani universitari nella Casa dello studente.

I docenti dovranno essere del massimo livello internazionale così da richiamare i migliori studenti da tutto il mondo. E’ questa un’esigenza già sentita prima, con il terremoto diventa primaria e urgente per evitare la disaffezione verso l’università duramente colpita dal terremoto; non basterà tornare come prima, o almeno per farlo occorrerà puntare più in alto, rilanciando al massimo livello.

“L’Aquila città della scienza” dovrà essere non un semplice slogan ma una constatazione una volta realizzato questo progetto. Già l’Ocse, l’organizzazione dei paesi più industrializzati cui è stata sottoposta l’idea centrale da trasformare in progetto è stata favorevole, come lo è il presidente regionale Chiodi e, lo abbiamo detto, il Commissario al Parco Diaconale, tra gli ideatori. E il sindaco di L’Aquila cosa ne pensa? Diaconale lo anticipa, comunica già il suo accordo, ancor prima del sisma, e dà il giusto riconoscimento di come ha saputo esprimere e trasmettere, con il suo impegno incessante e il comportamento dignitoso e determinato, i valori più sentiti dai cittadini aquilani.

L’appassionata testimonianza del sindaco dell’Aquila

Ed eccolo il sindaco Cialente, il suo abito blu sempre in ordine è diventato quasi una divisa, quella di un’autorità istituzionale calata nei panni del cittadino, sa che non può mollare e deve tenere alto il livello della propria presenza e della propria azione in ogni ora, in ogni momento. Così sembra appena uscito da una riunione, da un briefing, da un intervento d’emergenza, e nello stesso tempo uscito da casa, dopo aver dato un bacio ai familiari prima di iniziare una giornata di routine.

Inizia con una rievocazione da brivido: “Il terremoto ha distrutto in modo selettivo, chirurgico, una città, unico precedente assimilabile il tremendo terremoto di Messina”. Poi la difficoltà di governare dal centro con decreti, ordinanze, che devono essere rivisti quando emergono dissonanze rispetto alle esigenze spesso molto particolari delle zone interessate. L’impostazione iniziale deve essere modificata, per realizzare gli insediamenti abitativi nelle singole località e frazioni più colpite in modo da mantenere l’identità territoriale; esigenza che come tante altre non è facile far capire al centro. Però nega contrasti con la Protezione civile con la quale ci si confronta in piena armonia, con Bertolaso addirittura c’è .il comune linguaggio dato dalla medesima professione di entrambi.

Si preannunciano momenti difficili, le tensioni sono destinate crescere. Di qui un appello: “Chi ha un ruolo politico, istituzionale, deve adoperarsi per far allentare le tensioni e creare un clima più sereno e costruttivo, per poter operare positivamente”.

Il terremoto ha sconvolto anche l’azione amministrativa, non soltanto perché le sedi sono divenute inagibili e l’intera macchina si è arrestata; ma anche perché quando si è riavviata è stata completamente assorbita dall’emergenza. E qui il Sindaco ha fornito una notizia molto interessante, L’Aquila stava predisponendo il Piano strategico prima del terremoto, sarebbe stato portato presto in Consiglio comunale in modo da essere approvato entro il mese di aprile, iniziato purtroppo nel modo tragico che tutti conoscono.

Veniva ridisegnato il futuro definendo la sua missione sia di capoluogo di regione, sia di città alle prese con la crisi in uno dei settori portanti, quello dell’elettronica. Un futuro ancorato ad alcune idee forti su cui imperniare la “mission” cittadina.

La prima è di porre la montagna, il Gran Sasso, al centro del progetto di rilancio del sistema città-territorio con uno sviluppo eco-compatibile dando impulso a un turismo di tipo più avanzato. La seconda di farne una città della cultura e della qualità della vita. La terza di valorizzarne il grande patrimonio di centri storici, considerando che il solo capoluogo è una delle città italiane con il maggior numero di edifici vincolati per i pregi storico-artistici. La quarta idea è rilanciare l’Università, i centri di ricerca e l’industria “high tec”, aero-spaziale e farmaceutica.

E qui ha espresso il suo forte sostegno al progetto del “Gran Sasso Institute” enunciato da Coccia dei Laboratori e dal Commissario del Parco Diaconale, aggiungendo che lo stesso ministro Tremonti lo ha sfidato a presentare progetti concreti assicurandone l’approvazione; l’Ocse dopo l’assenso di massima all’idea dell’Istituto di studi superiori attende il progetto. E’ necessario il salto di qualità per impedire che l’Università, la quarta in Italia, possa avere contraccolpi negativi dalla tragedia che l’ha colpita. L’Ateneo è fondamentale anche nella vita economica cittadina, per gli effetti diretti nell’abitativo e nella ristorazione come nelle altre attività interessate dall’indotto. Un segnale positivo c’è stato e il Sindaco lo ha comunicato con malcelata soddisfazione: “Già 4.000 studenti fuorisede hanno chiesto di tornare, ci saranno case mobili, l’Università riparte”.

Nell’immediato due sono i grandi progetti di rilancio di respiro internazionale: l’Università portata a livello di eccellenza; un grande polo pubblico-privato delle telecomunicazioni. E’ stata individuata in un tempo record un’area di centomila metri quadri sulla quale realizzare lo stabilimento di quarantamila metri quadri coperti per un’industria di tecnologia molto avanzata.

Anche la ricostruzione del centro storico avverrà introducendo processi fortemente innovativi, fare realizzazioni d’avanguardia non è una novità per L’Aquila, se nel 1933-36 Campo Imperatore era la località sciistica più moderna d’Europa e si raggiungeva in sole tre ore e mezza dal centro di Roma. Dovrà essere portata questa stazione sciistica a livelli di avanguardia comparabili a quelli del passato in un’azione combinata enti locali-regione-Parco, per farne un vero motore di sviluppo, essendo la montagna una autentica fonte di ricchezza da valorizzare in una visione moderna. In questa prospettiva si colloca la privatizzazione della stazione sciistica, già decisa e avviata, e anche il recupero dei borghi. Con una nuova residenzialità che ne sfrutti tutte le potenzialità.

L’aeroporto di Preturo realizzato per il G8 deve diventare l’indispensabile canale dei flussi turistici nazionali ed internazionali, senza dualismi e competizioni controproducenti con l’aeroporto di Pescara, ma in stretto coordinamento e sinergia per accrescere l’efficacia dei collegamenti abruzzesi. “Ci vorrà qualche anno per fare tutto, ha concluso il sindaco Cialente, ma dovremo da subito disegnare un pezzo di Abruzzo nella prospettiva 2050, diverso e più avanzato da quello che portavamo avanti a fatica prima del terremoto”. Un messaggio volitivo corredato di progetti in fieri, e non solo una lettera di intenti.

Il ruolo della comunicazione

L’intervento appassionato e denso di contenuti di Cialente ha segnato il passaggio alla seconda parte del Convegno, quella destinata alla comunicazione, alla quale si è capito tenere molto Diaconale, fino a farne una sorta di “missione” dell’Ente Parco, tenere desta l’attenzione su L’Aquila e l’Abruzzo ed evitare che torni il cono d’ombra dopo i fasti del G8 e i riflessi successivi. La forza delle cose ha fatto sì che l’informazione abbia dovuto continuare a occuparsene nonostante la dignità e la correttezza degli abruzzesi abbia spuntato le due armi utilizzate in genere in queste circostanze: il pietismo e lo scandalismo. Ed è venuta fuori la forza dell’informazione autentica.

S è rivelata nella circostanza l’importanza dell’informazione locale, di cui ha parlato Logozzo, il caporedattore della Rai che ha coperto egregiamente il tragico evento sin dai minuti successivi con inviati locali che non si sono risparmiati nella situazione difficile e pericolosa dei primi momenti.

A Del Boca, Presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Diaconale chiede una valutazione sulla situazione dell’informazione e assicurazioni affinché l’attenzione non venga meno. E’ necessario mantenere .il senso dell’eccezionalità e dell’emergenza perché soltanto in queste condizioni l’italiano mobilita le energie e le istituzioni rispondono, cosa che non avviene nelle situazioni di normalità. L’attenzione continua serve anche a trasformare l’emergenza in occasione di sviluppo a un livello più elevato del precedente. Intanto Diaconale lancia l’idea di una premiazione dei giornalisti che si sono distinti nel documentare la tragedia del terremoto in una cerimonia da tenersi solennemente a Roma.

Del Boca ha dato il suo autorevole riconoscimento al prezioso lavoro svolto dall’informazione locale, intervenuta ben prima che avessero accesso alle zone colpite gli inviati venuti da fuori. Ed ha assicurato il proprio contributo a mantenere desta l’attenzione, nonché l’appoggio con la propria partecipazione all’iniziativa del premio proposto da Diaconale.

Con il ricordo commosso dei tre giovani di Montorio tra le trecento vittime del sisma si è concluso il Convegno.

Il seguito del Convegno

Il seguito c’è stato nello spazio stampa nel quale anche il sindaco Cialente ha potuto prendersi un po’ di relax dopo tanta tensione. Lo abbiamo rispettato, gli abbiamo chiesto solo se è della stessa idea che aveva a Roma quando lo interpellammo alla manifestazione “Culture a confronto” organizzata dal teramano consigliere comunale nella capitale Pasquale De Luca: cioè che occorre una “tassa di scopo” per finanziare la ricostruzione. Non si è tirato indietro, l’ha ribadito dato che le risorse non sembrano sufficienti per il grave problema del restauro dei monumenti, un’opera immane e molto costosa: “La ‘lista di nozze’ su cui si faceva affidamento, diffusa in tutto il mondo attraverso i grandi del G8 divenuto G12 e oltre, finora non ha funzionato. Del resto anche nella lista per gli sposalizi quelli che vanno via subito sono… i portacenere, poi la raccolta si ferma”.

Anche questa è stata una notizia, un piccolo “scoop” del sindaco Cialente, che ringraziamo pubblicamente anche a nome dei nostri lettori per l’amichevole disponibilità dimostrataci. E’ una dote rara in circostanze così difficili che non rendono certo agevole il lavoro dell’informazione.

Così si è concluso il Convegno della speranza. Ricco di propositi e anche di progetti concreti. Ne seguiremo l’iter fino alla realizzazione, intanto ne salutiamo l’annuncio con un apprezzamento particolare: perché in prospettiva andranno a inserirsi in un piano strategico che ridisegnerà la “mission” di L’Aquila in termini nuovi e più avanzati come capoluogo di regione e come “Città della scienza”, valorizzando la montagna in termini ambientali e come fattore di sviluppo.

In questo modo dalla minaccia si sarà tratta un’opportunità, dalla tragedia e dal sacrificio potrà nascere una nuova consapevolezza, una rinsaldata coscienza civile, un rinnovato patto di cittadinanza verso un futuro di innovazione e di progresso. La città lo merita e lo realizzerà.

1 Commento

  1. Giosuè

Postato settembre 17, 2009 alle 7:23 PM

Romano Maria Levante GRAZIE!!!

Alice, il “Chaos”, opere cosmiche ispirate al terremoto, a Montorio

di Romano Maria Levante

Un’esplosione di colori, di sentimenti e di valori in dieci composizioni spettacolari. Visita alla mostra “Caos” dell’artista Alice, inaugurata a Montorio al Vomano (Teramo) il 4 settembre 2009.

Abbiamo parlato di immutabile per la chiesa parrocchiale e per fortuna lo è rimasta. Invece c’è qualche cosa, c’è tanto che ha avuto ben altra sorte, pensiamo solo all’abside della basilica di Santa Maria di Collemaggio, la parte superiore scoperchiata, non potremo mai dimenticare il cielo aperto dov’erano le “voltine” barocche sovrapposte alla nudità della struttura quando vi siamo entrati dopo l’apertura della Porta Santa per la Perdonanza. A terra un cumulo di macerie con l’infinità di elementi che le compongono, pezzi di affresco, di fregio, di tutto; questa frammentazione di un ordine immutabile ha preso il cuore.

Una scena analoga si è ripetuta nelle tante ferite inferte dalla scossa sismica, purtroppo spesso mortali, alle persone come ai monumenti, a tutto; una distesa di oggetti privi ormai di significato perché staccati dalla loro funzione originaria, recisi dalla vita anche quando la vita non è stata recisa. Ricordiamo le immagini post terremoto delle case sventrate, dalle quali emergevano gli interni, messi in piazza in modo impudico per così dire; lo abbiamo visto rappresentato dai “Cinque registi tra le macerie”, è stato un aspetto che ha colpito gli artisti. Ebbene, ovunque oggetti compagni della vita, amati come ricordo o come pegno, dispersi e abbandonati privi di ogni valore.

Ci eravamo chiesti cosa significasse tutto ciò, la disumanizzazione degli oggetti, forse pari a quella della realtà, con la natura divenuta non solo matrigna ma assassina. Aveva un nome tutto questo?

La cosmogonia di Alice

Sì, ora ha un nome, lo ha trovato Alice, e non si è limitata al titolo, ci ha costruito sopra una sorta di cosmogonia e di palingenesi, partendo addirittura dalla Teogonia di Esiodo che al verso 116 postula un “inizio senza inizio” dal quale tutto “trae origine e vita”. Se “sono tre gli attori della creazione” , c’è n’è uno dal quale si parte: “Dunque per primo fu Chaos”, poi vengono “Gaia ed Eros”, la Terra e l’Amore. Cioè tutto. Anche nella Creazione ebraico-cristiana “in principio Dio creò il cielo e la terra” ma non dal nulla; la terra era “informe e vuota”, c’era confusione e indeterminatezza, il Chaos primordiale fu vinto dalla Creazione che diede un ordine superiore. Ci torna in mente l’Aleardo Aleardi della nostra infanzia. “Dimmi, cosa è Dio?”, “‘Ordine’, risposero le stelle”.

Di fronte a tutto questo non potevamo non immergerci nel mondo di Alice, nella sua mostra di arte pittorica e non solo, che prende con i suoi colori lancinanti come prima ci aveva preso il bianco e nero delle foto d’epoca, ma non ci prende il colore, bensì quello che c’è dietro, che c’è dentro.

In primo luogo c’è una sensibilità che viene da lontano, se Maurizio Fallace, uno dei Direttori Generali di punta dei Beni culturali, ha scritto di lei: “E’ la forza e la maestria di un talento innato ed indiscutibile rivitalizzato dalla ricerca, dallo studio e da un bagaglio culturale che si nutre costantemente della curiosità intellettuale e degli insegnamenti che l’artista ha tratto dai numerosi viaggi attraverso le biblioteche, le chiese, d’Europa e le meraviglie del mondo”. E ancora: “I lavori di Alice sono il frutto di un animo profondo che spinge gli occhi a guardare sotto il velo dell’esperienza sensibile e a cercare nuova luce e speranza oltre il limite delle brutali apparenze”.

E ha trovato “luce e speranza” nella visione cosmica di Esiodo, facendo appello a qualcosa di sovrumano nella solitudine disperata dinanzi ad apparenze che più “brutali” non potevano essere avendo la terribile evidenza della realtà. Sarà che ci colpiscono le visioni cosmiche – già era successo con le “Genesi” scolpite da Deredia, come i lettori sanno – sarà che ha evocato in noi l’Aleardi così lontano nel tempo, siamo stati subito presi dalla visione di Alice, che diviene filosofica soltanto in seconda battuta, nasce come impatto con la realtà, brutale come non mai.

Uno studio d’artista devastato, gli innumerevoli oggetti che ne sono strumento di lavoro e arredo a terra, in mille pezzi; come erano tutti al loro posto e in ordine la sera prima, e così li avrebbe trovati l’indomani, mentre erano sconvolti come se ci fosse stato un terremoto distruttivo; e c’era stato veramente il terremoto, addirittura catastrofico, aveva messo a soqquadro, come il suo studio, tutte le case della città, facendone crollare molte, annientando tante vite, seminando terrore e caos.

Dal caos del terremoto al Xàos o Chaos primordiale

Ma è un caos che agli occhi dell’artista assume nuove sembianze, diventa Chaos, dato che per esprimere l’esiodeo Xàos occorre aggiungere l’h, altrimenti sarebbe stato Kàos. E il Xàos di Esiodo è l”inizio senza inizio”, anche se qui sembra segnare una fine. Soltanto in apparenza.

I frammenti di vetri e materiali, polveri colorate e oggetti sono disseminati a terra e sulle tele anch’esse cadute spargendosi secondo contorni elaborati, profili inattesi, immagini inedite mai viste e neppure pensate o sognate. Lontano da ogni ordine e logica secondo il sentire e il vedere corrente, ma poteva trattarsi di un ordine diverso, di una logica nuova forse superiore a quella ordinaria perché creata dalle forze della natura. Anzi da una forza irresistibile come il sisma, scatenata da giganteschi movimenti di faglie, da immani pressioni che sommuovono la crosta della terra. Forze distruttive che, per la compresenza degli opposti, se creano qualcosa lo fanno in grande. E se fosse una creazione di simili forze quella che gli occhi di Alice hanno colto nello studio disastrato?

Questa l’origine di opere che non vanno confuse con i soliti “collage” anche di autori rinomati, di oggetti appiccicati su tela o altri supporti, in una composizione volta spesso più a stupire che a trasmettere particolari significati, meno ancora emozioni. Invece qui troviamo ambedue, il significato sta in una cosmogonia distruttiva che diventa creativa al tempo stesso, non solo per l’episodio che l’ha generata, ma per il significato filosofico che incarna.

Parola quest’ultima non messa a caso, perché è anche alla carne delle povere vittime che pensa l’autrice. Le sue composizioni sono create sotto la spinta dello scompiglio e del tumulto che stravolge le cose e tutto il resto ma per far riacquisire una purezza primigenia nei nuovi assetti voluti dal Chaos, nel senso di nuovo inizio tutto da decifrare; così sono, del resto, le palingenesi.

Il messaggio di Alice

Guardiamole da vicino le opere prima di penetrarne ancora il messaggio. Sono composizioni policrome fatte di una miriade di oggetti e frammenti, tra i quali i coloratissimi vetri di cattedrale e i swarovsky, le perle e i merletti, le catenelle e i fogli di giornale, e poi gli orologi, tanti, ossessivi. puntati sulla stessa ora, le 3,32, non serve dire perché.

E’ un cromatismo magico che pur nei suoi violenti contrasti trasmette un’armonia sottile, come l’accozzaglia di oggetti giustapposti anche in diversi piani rilevati compone un insieme organico del quale non è facile cogliere la chiave. Forse è nelle parole che ci dice l’autrice: “Sono oggetti preziosi perché abbiamo perduto un bene prezioso. Sono messaggi luminosi, ma il bello dobbiamo cercarlo dentro di noi, dentro gli altri. Rifaremo quello che abbiamo perduto, rimetteremo a posto tutti i tasselli, come quelli delle composizioni che, pur eterogenei, hanno trovato una loro unitarietà. La scossa ha creato un disordine, ma con esso nuove forme, opportunità diverse, le ho viste sul posto e le ho fissate per sempre al momento”.

Ci ha confidato pure che l’estemporaneità è nell’ispirazione, non nella realizzazione per la quale c’è voluta una cura particolare, l’approfondimento dei collanti e dei materiali, una razionalità tutta l’opposto dell’istintività di base. Come avviene per lo scrittore, le abbiamo detto ed ha convenuto, che “scrive il libro con il cuore e lo riscrive con la mente”.

E’ stato un piacere parlarle perché i suoi occhi esprimono l’autenticità e la sincerità, pur nella modestia di chi inconsciamente teme di aver trovato qualcosa di troppo grande, e tende a minimizzare. Né si tratta di neofita, lo sviluppo della creatività artistica con la ricaduta sociale delle iniziative volte a promuovere arte e cultura è la finalità dell’Associazione culturale “Forum Artis” che ha sede a Mosciano Sant’Angelo, di cui Alice è presidente con il suo nome anagrafico, Adelina Di Sabatino Di Diodoro. Ha anche interpretato la tragedia delle Torri Gemelle in un’opera che portò a New York nel 2002 come messaggio di pace, premiata come la prima ispirata all’11 settembre. E’ divenuta socia onoraria e medaglia d’oro della “Columbia Association” di New York City, Fire Department, il cui presidente Vincent Tummino venne a premiarla in Abruzzo nel 2005; visita che ha ricambiato tornando a New York nel 2008 per le commemorazioni dell’11 settembre.

L’artista delle catastrofi, allora? No, la sua pittura è ben diversa, ma sa lasciare il passo alle emozioni che cambiano la vita e quando sono così forti e sconvolgenti incidono sull’arte.

Le dieci scintillanti composizioni

Descriviamo le dieci composizioni, create nel terremoto e dal terremoto, e destinate dall’artista alla ricostruzione che è il messaggio subliminale più positivo contenuto nelle opere stesse. Perché non sono fosche e tristi, ma solari e scintillanti di luce e di vita, perché così deve essere il nuovo inizio, raccogliere tutto quanto di positivo è andato in frantumi per ricomporlo nella palingenesi creativa dove Gaia ed Eros prendono il testimone della staffetta da Chaos per volare in alto.

Dal Chaos sono uscite le trecento stelline luminose entrate nel cielo creato intorno al grande cerchio sconvolto nell’opera dedicata alle vittime, l’unica dove non appare nessuno degli orologi che si trovano in ogni altra, e costituiscono la maggior parte degli oggetti della composizione nella seconda opera circolare; la quale, oltre a rappresentare un immenso orologio con le grandi lancette ed includere una miriade di piccoli orologi tutti incollati alle 3,32, per le sue antenne giganti di segnatempo della distruzione diviene la madre terra dalle potenti leve su cui poggiare per ripartire.

Le altre composizioni hanno forme allungate, materiali diversi, un piccolo orologio c’è sempre con presenza discreta, il cromatismo di fondo varia dal verde al viola al blu senza una dominanza particolare. Sono variamente composite nella presenza di oggetti come nella coloritura brillante, che non è resa dalle pur pregevoli riproduzioni; la ricchezza espressiva si può cogliere solo vedendole nella loro originale fattura, impossibile da percepire in tutto il suo rutilante fulgore se riprodotta.

Luce e colore, quindi, ricchezza e ridondanza, una cornucopia che attende di ricomporsi ma intanto sciorina tutta la sua potenzialità di vita e vitalità, superato il trauma del Chaos primordiale.

Il viale della memoria

Usciamo dalla bella “cave” con volte in mattoni che ospita i magici cromatismi di Alice, avendo negli occhi il caleidoscopio di immagini cosmiche da lei create. Torniamo sulla terra pensando alla sincerità dell’ispirazione, dimostrata anche dal gesto di donare le opere per ricostruire cominciando così a dare sostanza al nuovo inizio che supera il Chaos ricreando la vita nei suoi colori.

Il canto popolare” dispensa le sue melodie evocatrici anch’esse di un ordine umano, quello della tradizione dai tempi immutabili. Risaliamo Corso Valentini, vi troviamo una galleria, questa volta attiva e pulsante, di antichi mestieri, di usi e costumi, con l’arcolaio e i fusi della filanda, la preparazione di cibi, gli antichi arnesi e i costumi d’epoca. Una via che non diventa un “viale del tramonto”, le figure e i volti non sono spenti, la virtù atavica dell’Abruzzo “forte e fiero” è tutta in questi protagonisti di una tradizione, di una cultura. E’ un “viale della memoria”, della tradizione che va tenuta viva e vitale perché è un bene prezioso.

Sì, è possibile ripartire. Il Chaos è alle spalle, lo è ancora di più il caos del sisma; c’è sempre questo solido retroterra delle nostre radici che marca un’identità precisa. Ed è sicura garanzia per il futuro.

Vetrina del Parco, dalla paura alla speranza, a Montorio al Vomano

di Romano Maria Levante

Si è presentato da subito come un evento del tutto particolare l’importante Convegno “Dalla paura alla speranza” tenuto nell’ambito della “Vetrina del Parco” a Montorio al Vomano (Teramo) la sera del 5 settembre 2009.

Innanzitutto la sala, adiacente alla chiesa parrocchiale con sulle pareti le immagini in bianco e nero della mostra fotografica “Montorio ieri e oggi”, un “come eravamo” e “come siamo” attraverso gli scatti paralleli; a destra del palco una gigantografia a colori del Calderone, il ghiacciaio più meridionale d’Europa, anche se oggi il ghiaccio è poco visibile in superficie sommerso dalla pietraia, “cova” all’interno, è un ghiacciaio “attivo”, se si può usare il termine coniato per i vulcani.

La sala è affollata, non ci sono i preannunciati Gianni Chiodi e Guido Bertolaso, trattenuti a L’Aquila dall’arrivo del presidente Giorgio Napolitano e dalle incombenze per il concerto di Riccardo Muti, ma interlocutori comunque di prestigio di Arturo Diaconale, nella doppia veste di giornalista moderatore del dibattito e di Commissario al Parco, quindi protagonista: il direttore dei laboratori del Gran Sasso Eugenio Coccia, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Lorenzo Del Boca, e soprattutto il sindaco di L’Aquila Massimo Cialente, ospite quanto mai autorevole, insperato… soccorso alpino al suo collega di Montorio Alessandro Di Giambattista oltre che al Commissario; e poi il caporedattore Domenico Logozzo della locale sede Rai.

Non si tratta di sostituti dei grandi assenti, ma di validi protagonisti in una tavola rotonda che ha esplorato i due versanti a cui Diaconale è sembrato tenere in modo particolare: il versante delle proposte di rilancio, mirate all’eccellenza per andare “più alto e più oltre” di prima, e ci si perdoni il motto dannunziano; il versante della comunicazione, anch’esso di importanza basilare per mantenere desta l’attenzione, far sì che i riflettori restino puntati su L’Aquila e sull’Abruzzo.

Trarre da un così grave evento negativo qualcosa di positivo è l’imperativo categorico declinato da Diaconale, del resto è l’insegnamento delle scuole di “management”, “trasformare le minacce in opportunità”. Qui si deve andare oltre, come non si è trattato di una minaccia ma di un cataclisma biblico così non ci si può fermare alle opportunità ma bisogna puntare all’eccellenza.

E in tutto questo, lo ha detto chiaramente Diaconale, non c’è spazio per un “Abruzzo petrolifero e petrolchimico”. La minaccia che la “regione verde d’Europa” possa diventare “regione nera” è stata evocata dal “Comitato Abruzzese Difesa Beni Comuni” che ha distribuito un volantino e una lettera del 15 giugno con la richiesta di incontro al presidente della Regione per scongiurare un pericolo incombente: con il 1° gennaio 2010 scadrà la moratoria in atto e potranno avere via libera le attività estrattive all’interno e sul mare “nel 50% del territorio abruzzese, coperto da concessioni petrolifere, in particolare della provincia di Teramo, di cui si vociferano già possibili locazioni di raffinerie di petrolio”; la situazione è aggravata dal fatto che “il petrolio abruzzese è un petrolio ‘amaro’, cioè estremamente inquinante e l’estrazione e la sua depurazione, sia in terra che in mare, comporta certezza di inquinamento dell’ambiente circostante e delle falde acquifere”. Non si tratta della rituale denuncia di anime belle fondamentaliste della tutela ambientale. Firmatari della richiesta di incontro che paventa queste conseguenze, espresse nel volantino in termini ben più crudi – “condanna a morte l’agricoltura, l’economia eno-gastronomica e lo sviluppo turistico dell’Abruzzo” – sono i presidenti delle maggiori associazioni produttive, ad eccezione degli industriali, e il motivo della loro assenza è evidente. Troviamo Confcommercio e Federalberghi, Confagricoltura e Coldiretti, Confederazione agricoltori e Federpesca, Assoturismo e Confederazione artigianato, Consorzio colline e Unione comuni Val Vibrata, fino all’associazione Camping e al sindacato. Confidiamo che il presidente Chiodi ascolti le loro ragioni. E se le premesse sono quelle indicate, sono le ragioni di tutti, del Parco e dei settori produttivi più legati al modello di “sviluppo sostenibile” che è una risorsa preziosa per uno sviluppo basato sulla natura e sull’ambiente, sulla storia e sulla cultura, insomma sulle identità forti della terra d’Abruzzo.

Il progetto di eccellenza “Gran Sasso Institute”

Un intervento non rituale è stato quello del direttore dei Laboratori dell’Istituto di fisica nucleare del Gran Sasso – posti nelle grandi caverne adiacenti al traforo con le loro attrezzature d’avanguardia schermate dai raggi cosmici da oltre duemila cinquecento metri di spessore della roccia, meta degli scienziati di tutto il mondo – che hanno fatto entrare la zona tra i territori di eccellenza sul piano scientifico e tecnologico classificati dal Censis. Il prof. Coccia descrive il progetto già ventilato con Diaconale e con Cialente prima del terremoto. Si tratta del “Gran Sasso Institute”, un centro di formazione scientifica di eccellenza di alto livello sul piano internazionale da realizzare in superficie, collegato ovviamente al centro sotterraneo che ha già un elevatissimo “standing” a livello mondiale ma non può espandersi oltre la dimensione attuale. Però, con il richiamo che rappresenta, potrà aiutare a decollare il centro di superficie previsto ad Assergi, per il quale è stata già individuata l’area in passato occupata dal cantiere della Cogefar. Ben collegato con l’autostrada in loco e con il vicino nuovo aeroporto di Preturo utilizzato per il G8, rimasto come preziosa infrastruttura per L’Aquila, potrà dar luogo a un polo scientifico di forte attrattiva internazionale nelle articolazioni sotterranea e di superficie con potenti sinergie e complementarità a livello di infrastrutture, attrezzature e ricercatori.

Il prof. Coccia ha chiarito che è una cosa ben diversa dal laboratorio sotterraneo dove si fa ricerca tematica, il nuovo progetto è rivolto ai giovani ai quale si vuol dare una scuola di alta formazione e specializzazione d’eccellenza per dottorati di ricerca particolarmente avanzati. Si potrà considerare anche la possibilità di far frequentare corsi speciali agli iscritti all’Università a L’Aquila, in modo da creare un motivo in più perché non si abbassi il gradimento per la città nonostante le ferite materiali che il terremoto ha lasciato nel corpo urbano, e le ferite morali al cuore e all’anima di tutti anche per le tante vittime tra i giovani universitari nella Casa dello studente.

I docenti dovranno essere del massimo livello internazionale così da richiamare i migliori studenti da tutto il mondo. E’ questa un’esigenza già sentita prima, con il terremoto diventa primaria e urgente per evitare la disaffezione verso l’università duramente colpita dal terremoto; non basterà tornare come prima, o almeno per farlo occorrerà puntare più in alto, rilanciando al massimo livello.

“L’Aquila città della scienza” dovrà essere non un semplice slogan ma una constatazione una volta realizzato questo progetto. Già l’Ocse, l’organizzazione dei paesi più industrializzati cui è stata sottoposta l’idea centrale da trasformare in progetto è stata favorevole, come lo è il presidente regionale Chiodi e, lo abbiamo detto, il Commissario al Parco Diaconale, tra gli ideatori. E il sindaco di L’Aquila cosa ne pensa? Diaconale lo anticipa, comunica già il suo accordo, ancor prima del sisma, e dà il giusto riconoscimento di come ha saputo esprimere e trasmettere, con il suo impegno incessante e il comportamento dignitoso e determinato, i valori più sentiti dai cittadini aquilani.

L’appassionata testimonianza del sindaco dell’Aquila

Ed eccolo il sindaco Cialente, il suo abito blu sempre in ordine è diventato quasi una divisa, quella di un’autorità istituzionale calata nei panni del cittadino, sa che non può mollare e deve tenere alto il livello della propria presenza e della propria azione in ogni ora, in ogni momento. Così sembra appena uscito da una riunione, da un briefing, da un intervento d’emergenza, e nello stesso tempo uscito da casa, dopo aver dato un bacio ai familiari prima di iniziare una giornata di routine.

Inizia con una rievocazione da brivido: “Il terremoto ha distrutto in modo selettivo, chirurgico, una città, unico precedente assimilabile il tremendo terremoto di Messina”. Poi la difficoltà di governare dal centro con decreti, ordinanze, che devono essere rivisti quando emergono dissonanze rispetto alle esigenze spesso molto particolari delle zone interessate. L’impostazione iniziale deve essere modificata, per realizzare gli insediamenti abitativi nelle singole località e frazioni più colpite in modo da mantenere l’identità territoriale; esigenza che come tante altre non è facile far capire al centro. Però nega contrasti con la Protezione civile con la quale ci si confronta in piena armonia, con Bertolaso addirittura c’è .il comune linguaggio dato dalla medesima professione di entrambi.

Si preannunciano momenti difficili, le tensioni sono destinate crescere. Di qui un appello: “Chi ha un ruolo politico, istituzionale, deve adoperarsi per far allentare le tensioni e creare un clima più sereno e costruttivo, per poter operare positivamente”.

Il terremoto ha sconvolto anche l’azione amministrativa, non soltanto perché le sedi sono divenute inagibili e l’intera macchina si è arrestata; ma anche perché quando si è riavviata è stata completamente assorbita dall’emergenza. E qui il Sindaco ha fornito una notizia molto interessante, L’Aquila stava predisponendo il Piano strategico prima del terremoto, sarebbe stato portato presto in Consiglio comunale in modo da essere approvato entro il mese di aprile, iniziato purtroppo nel modo tragico che tutti conoscono.

Veniva ridisegnato il futuro definendo la sua missione sia di capoluogo di regione, sia di città alle prese con la crisi in uno dei settori portanti, quello dell’elettronica. Un futuro ancorato ad alcune idee forti su cui imperniare la “mission” cittadina.

La prima è di porre la montagna, il Gran Sasso, al centro del progetto di rilancio del sistema città-territorio con uno sviluppo eco-compatibile dando impulso a un turismo di tipo più avanzato. La seconda di farne una città della cultura e della qualità della vita. La terza di valorizzarne il grande patrimonio di centri storici, considerando che il solo capoluogo è una delle città italiane con il maggior numero di edifici vincolati per i pregi storico-artistici. La quarta idea è rilanciare l’Università, i centri di ricerca e l’industria “high tec”, aero-spaziale e farmaceutica.

E qui ha espresso il suo forte sostegno al progetto del “Gran Sasso Institute” enunciato da Coccia dei Laboratori e dal Commissario del Parco Diaconale, aggiungendo che lo stesso ministro Tremonti lo ha sfidato a presentare progetti concreti assicurandone l’approvazione; l’Ocse dopo l’assenso di massima all’idea dell’Istituto di studi superiori attende il progetto. E’ necessario il salto di qualità per impedire che l’Università, la quarta in Italia, possa avere contraccolpi negativi dalla tragedia che l’ha colpita. L’Ateneo è fondamentale anche nella vita economica cittadina, per gli effetti diretti nell’abitativo e nella ristorazione come nelle altre attività interessate dall’indotto. Un segnale positivo c’è stato e il Sindaco lo ha comunicato con malcelata soddisfazione: “Già 4.000 studenti fuorisede hanno chiesto di tornare, ci saranno case mobili, l’Università riparte”.

Nell’immediato due sono i grandi progetti di rilancio di respiro internazionale: l’Università portata a livello di eccellenza; un grande polo pubblico-privato delle telecomunicazioni. E’ stata individuata in un tempo record un’area di centomila metri quadri sulla quale realizzare lo stabilimento di quarantamila metri quadri coperti per un’industria di tecnologia molto avanzata.

Anche la ricostruzione del centro storico avverrà introducendo processi fortemente innovativi, fare realizzazioni d’avanguardia non è una novità per L’Aquila, se nel 1933-36 Campo Imperatore era la località sciistica più moderna d’Europa e si raggiungeva in sole tre ore e mezza dal centro di Roma. Dovrà essere portata questa stazione sciistica a livelli di avanguardia comparabili a quelli del passato in un’azione combinata enti locali-regione-Parco, per farne un vero motore di sviluppo, essendo la montagna una autentica fonte di ricchezza da valorizzare in una visione moderna. In questa prospettiva si colloca la privatizzazione della stazione sciistica, già decisa e avviata, e anche il recupero dei borghi. Con una nuova residenzialità che ne sfrutti tutte le potenzialità.

L’aeroporto di Preturo realizzato per il G8 deve diventare l’indispensabile canale dei flussi turistici nazionali ed internazionali, senza dualismi e competizioni controproducenti con l’aeroporto di Pescara, ma in stretto coordinamento e sinergia per accrescere l’efficacia dei collegamenti abruzzesi. “Ci vorrà qualche anno per fare tutto, ha concluso il sindaco Cialente, ma dovremo da subito disegnare un pezzo di Abruzzo nella prospettiva 2050, diverso e più avanzato da quello che portavamo avanti a fatica prima del terremoto”. Un messaggio volitivo corredato di progetti in fieri, e non solo una lettera di intenti.

Il ruolo della comunicazione

L’intervento appassionato e denso di contenuti di Cialente ha segnato il passaggio alla seconda parte del Convegno, quella destinata alla comunicazione, alla quale si è capito tenere molto Diaconale, fino a farne una sorta di “missione” dell’Ente Parco, tenere desta l’attenzione su L’Aquila e l’Abruzzo ed evitare che torni il cono d’ombra dopo i fasti del G8 e i riflessi successivi. La forza delle cose ha fatto sì che l’informazione abbia dovuto continuare a occuparsene nonostante la dignità e la correttezza degli abruzzesi abbia spuntato le due armi utilizzate in genere in queste circostanze: il pietismo e lo scandalismo. Ed è venuta fuori la forza dell’informazione autentica.

S è rivelata nella circostanza l’importanza dell’informazione locale, di cui ha parlato Logozzo, il caporedattore della Rai che ha coperto egregiamente il tragico evento sin dai minuti successivi con inviati locali che non si sono risparmiati nella situazione difficile e pericolosa dei primi momenti.

A Del Boca, Presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Diaconale chiede una valutazione sulla situazione dell’informazione e assicurazioni affinché l’attenzione non venga meno. E’ necessario mantenere .il senso dell’eccezionalità e dell’emergenza perché soltanto in queste condizioni l’italiano mobilita le energie e le istituzioni rispondono, cosa che non avviene nelle situazioni di normalità. L’attenzione continua serve anche a trasformare l’emergenza in occasione di sviluppo a un livello più elevato del precedente. Intanto Diaconale lancia l’idea di una premiazione dei giornalisti che si sono distinti nel documentare la tragedia del terremoto in una cerimonia da tenersi solennemente a Roma.

Del Boca ha dato il suo autorevole riconoscimento al prezioso lavoro svolto dall’informazione locale, intervenuta ben prima che avessero accesso alle zone colpite gli inviati venuti da fuori. Ed ha assicurato il proprio contributo a mantenere desta l’attenzione, nonché l’appoggio con la propria partecipazione all’iniziativa del premio proposto da Diaconale.

Con il ricordo commosso dei tre giovani di Montorio tra le trecento vittime del sisma si è concluso il Convegno.

Il seguito del Convegno

Il seguito c’è stato nello spazio stampa nel quale anche il sindaco Cialente ha potuto prendersi un po’ di relax dopo tanta tensione. Lo abbiamo rispettato, gli abbiamo chiesto solo se è della stessa idea che aveva a Roma quando lo interpellammo alla manifestazione “Culture a confronto” organizzata dal teramano consigliere comunale nella capitale Pasquale De Luca: cioè che occorre una “tassa di scopo” per finanziare la ricostruzione. Non si è tirato indietro, l’ha ribadito dato che le risorse non sembrano sufficienti per il grave problema del restauro dei monumenti, un’opera immane e molto costosa: “La ‘lista di nozze’ su cui si faceva affidamento, diffusa in tutto il mondo attraverso i grandi del G8 divenuto G12 e oltre, finora non ha funzionato. Del resto anche nella lista per gli sposalizi quelli che vanno via subito sono… i portacenere, poi la raccolta si ferma”.

Anche questa è stata una notizia, un piccolo “scoop” del sindaco Cialente, che ringraziamo pubblicamente anche a nome dei nostri lettori per l’amichevole disponibilità dimostrataci. E’ una dote rara in circostanze così difficili che non rendono certo agevole il lavoro dell’informazione.

Così si è concluso il Convegno della speranza. Ricco di propositi e anche di progetti concreti. Ne seguiremo l’iter fino alla realizzazione, intanto ne salutiamo l’annuncio con un apprezzamento particolare: perché in prospettiva andranno a inserirsi in un piano strategico che ridisegnerà la “mission” di L’Aquila in termini nuovi e più avanzati come capoluogo di regione e come “Città della scienza”, valorizzando la montagna in termini ambientali e come fattore di sviluppo.

In questo modo dalla minaccia si sarà tratta un’opportunità, dalla tragedia e dal sacrificio potrà nascere una nuova consapevolezza, una rinsaldata coscienza civile, un rinnovato patto di cittadinanza verso un futuro di innovazione e di progresso. La città lo merita e lo realizzerà.

1 Commento

  1. Giosuè

Postato settembre 17, 2009 alle 7:23 PM

Romano Maria Levante GRAZIE!!!

Ebrei, Giornata europea della cultura ebraica

di  Romano Maria Levante

– 22 agosto 2009 –

In 28 paesi europei e in 59 città italiane il 6 settembre 2009 giornata di festa e di incontri

Non è soltanto il 6 settembre 2009 la data indicata nel programma della Giornata europea della cultura ebraica, c’è anche il 17 Elul 5769, l’anno ebraico corrispondente al nostro 2009 perché, mentre noi datiamo dalla nascita di Cristo, loro fanno riferimento ad Abramo. Cioè al patriarca, “il primo uomo ad avere l’intuizione che esiste un solo Dio creatore del mondo”; di qui la promessa che il popolo nato dalla sua discendenza vivrà per sempre nella terra di Canaan.

Poi venne Mosè, con i Dieci Comandamenti rivolti a tutta l’umanità e per questo trasmessi a lui nel deserto, “terra di nessuno”. Ne è derivata per gli ebrei una missione particolare e obblighi speciali, puntigliosamente numerati in 613, di cui 248 consistenti in azioni da compiere e 365 in azioni vietate, che regolano “la vita di relazione, i rapporti con il prossimo e con l’ambiente naturale e i rapporti con Dio”.
Questo per avvicinarci a un popolo che è sempre stato in una posizione particolare, forse perché il destino assegnatogli da Abramo è stato contrastato in ogni epoca della sua storia millenaria.

Il popolo ebraico

Si può chiamare popolo l’insieme delle etnie ebraiche sparse per il mondo che non hanno i requisiti classici per essere definite così, cioè un’unica lingua, lo stesso territorio e sistema giuridico? Praticano la stessa religione e, sebbene questo non qualifichi un popolo nell’accezione comune, professano la fede nel monoteismo, insieme al sogno della terra promessa, che da duemila anni è stato un legame così forte da far sentire uniti tra loro i gruppi di correligionari sparsi per il mondo.

Ma non per questo non sono integrati nelle rispettive terre, anzi rivelano le differenze culturali e religiose, sociali e linguistiche legate alle origini nazionali. Con gli idiomi locali anche il loro linguaggio, lo yiddish, andò in disuso, finché non fu riscoperta la lingua delle origini con Ben Yehudaua, caso forse unico nella storia di resurrezione di una lingua morta, che torna ad essere lingua viva e in continua trasformazione, tanto che oggi è la lingua ufficiale dello Stato di Israele.
I
Questo accresce l’interesse della Giornata europea della cultura ebraica nei paesi nei quali si innesta sulle culture locali, per cui può rappresentare uno specchio dell’incrocio di culture e di come interagiscono le diversità culturali.
La comunità ebraica italiana raggruppa 21 comunità locali dalle dimensioni piuttosto ridotte, 30.000 persone in totale, ma è la più antica della Diaspora e la sua storia va più indietro della distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Nelle pratiche di culto segue un ebraismo ortodosso basato sul rispetto dei 613 precetti morali e religiosi interpretati e aggiornati dai Maestri, differenziandosi dalle altre due forme, la conservativa e la riformata. Il Mishnà è il codice che raccoglie tutti gli insegnamenti orali arricchiti dalla tradizione dei rabbini, il Talmud contiene discussioni e insegnamenti dei Maestri, la Torà è il corpo legislativo completo. Principio base la credenza nella venuta del Messia.

Ricordiamo l’immagine dell’“ebreo errante”, antica e spesso rinnovata; travolta poi dalla incommensurabile tragedia della “Shoah” che ha visto un popolo martire del più spietato e inumano genocidio. Su queste sofferenze bibliche, è il caso di dirlo, ha saputo conquistare la terra di Abramo, l’ha difesa con il coraggio e il valore degli immigrati da ogni parte del mondo e dei “sabra”, nati in Terrasanta, fino a divenire una temibile potenza atomica. L’inerme Davide di sei milioni di abitanti, poco più di Roma con il suo hinterland, ha sconfitto il Golia di cento milioni di arabi bellicosi.

I partecipanti alla Giornata europea della cultura ebraica

Israele, la terra promessa divenuta nazione, non partecipa alla Giornata, e questo ci ha sorpreso. Perché in quella terra si esprime una sintesi culturale tra tante etnie diverse che hanno il denominatore comune dell’ebraismo, e quindi può evidenziarne gli aspetti peculiari che superano le nazionalità di provenienza.

Lo abbiamo chiesto a Renzo Gattegna, Presidente delle Comunità Ebraiche Italiane e ad Alain Elkan, che con il sottosegretario Giro hanno presentato la manifestazione al Ministero per i Beni e le Attività culturali che ha dato il suo patrocinio per l’importanza intrinseca della cultura e della storia ebraica, nel quadro della politica che fa leva sulla “circolazione” delle attività culturali e sul valore delle diversità.

Hanno risposto che Israele non fa parte dell’Europa, perciò non partecipa alla giornata organizzata dalle comunità ebraiche più consistenti nei vari Stati e città europee. Del resto lo stato ebraico ha altre occasioni per festeggiare e riaffermare la propria identità, lo ha fatto lo scorso anno in occasione del sessantennale della sua fondazione decretata dalle Nazioni Unite e consacrata poi dall’eroismo con cui respinse il primo tentativo dei vicini di schiacciarli. E Renzo Gattegna, nel ricordare l’emozione di quei festeggiamenti, presentando la Giornata non ha mancato di rivolgersi ai fratelli israeliani: “L’augurio migliore che possiamo formulare a questo paese che concentra in sé tanta storia, tanti significati, tante speranze, è che la pace conquisti i cuori di tutte le genti”.

Quindi Israele non partecipa direttamente, anche se è vicina con il cuore ed è nel cuore degli ebrei di tutto il mondo. Ci sono 28 Paesi europei, praticamente tutti quelli dell’Europa occidentale; in quella orientale la Croazia e la Slovenia, la Bosnia e la Serbia, ,la Repubblica Ceca e la Lituania, la Polonia e l’Ungheria, la Romania e l’Ucraina; c’è anche la Turchia. Per l’Italia, le 58 località sono presenti in tutte le grandi circoscrizioni geografiche, ma la distribuzione non nasce da una scelta, bensì dall’iniziativa delle comunità ebraiche esistenti nelle diverse città.

Nel Nord, sono il Piemonte, la Lombardia e anche l’Emilia le regioni maggiormente interessate con 34 località su 40; nel centro ve ne sono 11 e nel Sud 6 località. A Roma e a Milano vi sono le comunità più grandi, mentre sono di media grandezza quelle di Trieste e Venezia, Torino, Firenze e Livorno; piccole le altre anche di grandi città come Bologna e Napoli, Genova e Verona.

Con la particolarità che la città di Trani sarà capofila della Giornata, e per sottolinearlo ha partecipato alla presentazione con un intenso intervento il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola che ha citato il gemellaggio con una città israeliana, sicché anche la nazione che ha riunito gli ebrei è stata evocata in una manifestazione che evidenzia la Diaspora rendendo palese l’estrema dispersione.

Le iniziative della manifestazione e le feste ebraiche

Sinagoghe, luoghi di culto e di incontro saranno tutti aperti al pubblico. Le comunità ebraiche hanno organizzato una serie di iniziative, spettacoli e concerti, mostre e incontri, conferenze e saghe popolari. Sarà così celebrato il tema della giornata, “Feste ebraiche e tradizioni”.

A Bologna la conferenza del mattino su “Le feste ebraiche: un percorso di storia e tradizioni familiari”, sarà un primo assaggio, poi nel pomeriggio con un documentario sullo stesso tema si entra nel clima, seguirà una conferenza sul matrimonio ebraico. Una rappresentazione artistica della storia della Comunità ebraica sarà il pezzo forte di Asti, mentre a Genova si approfondirà il ruolo della poesia ebraica nelle sue diverse ispirazioni, religiose e profane ma sempre popolari, con un’analisi speciale del rapporto tra natura e spiritualità ebraica.

Un programma molto intenso a Milano, si apre con “Le feste ebraiche: un viaggio nel tempo”, seguito da “I canti delle feste” e “Nuovi modi di vivere le festività”. A Modena non si parlerà espressamente di feste ma di “Riti e tradizioni ebraiche” che è un altro modo di vederle.”Illustrazione delle principali festività” con riferimento alla Pasqua e alle tradizioni è la testimonianza di Pitigliano, e anche a Reggio Emilia si tratterà della cena pasquale. A Roma, oltre a varie mostre, la stessa tematica, con “Riti e feste nella tradizione musicale ebraica”, a Torino un “Concerto di canti delle feste e delle tradizioni ebraiche”.

A questo punto vogliamo dare qualche cenno delle festività ebraiche di cui si parlerà molto nel corso della Giornata europea nelle varie località ora indicate.
Feste religiose per eccellenza segnate dall’astensione da ogni attività sono il “sabato ebraico”, la cui radice etimologica è proprio “cessare”, e il “Kippur”. giorno del digiuno.

Quando il sabato (“Shabbat”) significò per gli ebrei cessazione settimanale dal lavoro, fu un fatto rivoluzionario; in questo giorno la famiglia si riunisce intorno alla “tavola sabbatica” preparata perché lo spirito del sabato si rifletta positivamente sull’intera settimana. Nel Kippur, il giorno dell’espiazione, ci si astiene dal mangiare e dal bere oltre che da qualsiasi lavoro o divertimento e ci si dedica solo al raccoglimento, alla preghiera e alla penitenza, insieme al digiuno; è una festa sentita anche dai non osservanti, ma non impedì agli israeliani di combattere quando furono attaccati dagli arabi che volevano approfittarne, in quella che fu chiamata “guerra del Kippur”.

E’ religiosa anche la festa del Capodanno (“Rosh Ha Shana”) molto diversa dalla nostra festività civile. Un “giorno di riflessione e di introspezione, di autoesame e di rinnovamento spirituale”, perché è il “giorno del giudizio” del Signore, segnato dal suono di un corno per suscitare la rinascita spirituale e portare al pentimento. Pure la Pasqua ebraica, che festeggia la liberazione dalla schiavitù d’Egitto cui seguì la legge divina, impone degli obblighi: precisamente il divieto di cibarsi di alimenti lievitati, nel ricordo del pane che fu lasciato senza che lievitasse per la fretta di fuggire, e di tenerne anche piccoli residui che vengono eliminati con la radicale pulizia della casa. Nella nostra tradizione c’erano le pulizie pasquali, non sappiamo se mutuate dalla Pasqua ebraica oppure richieste dal cambio di stagione.

Ispirata anche alla fuga d’Egitto è la festa delle Capanne (“Sukkoth”), costruzioni provvisorie il cui tetto è fatto di fogliame e adornato con frutta e fiori, la “sukka” ricorda i ripari di fortuna degli ebrei nei quarant’anni trascorsi nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù; è una festa gioiosa, a differenza delle quattro finora evocate. Se non gioiosa è gradevole l’atmosfera della festa delle settimane (“Shavuot”), chiamata anche “Tempo del dono della nostra Torà”, che è “per gli ebrei il dono più grande fatto da Dio all’uomo, il legame con il Libro che ha valore di sacralità”; perciò le leggi della Torà sono “l’elemento di coesione del popolo ebraico” e in questo giorno vanno nelle sinagoghe addobbate portando fiori che diffondono il loro profumo.

Le due principali feste restanti sono laiche, non si riferiscono alla Bibbia. La festa delle luci (“Chanukka”) fu stabilita dai Maestri del Talmud per ricordare il prodigio avvenuto nel santuario dove i lumi invece che un giorno solo restarono accesi per otto giorni, dando tempo ai sacerdoti di preparare nuovo olio per alimentarli; al fine di ricordarlo, nel solstizio d’inverno si accendono lumi per otto giorni. L’ultima tra le principali feste, anch’essa laica, è la festa delle sorti (“Purim”), ricorda il rovesciamento delle posizioni e lo scampato pericolo per il popolo ebraico 2500 anni fa, raccontato nel Libro di Ester, “che fa parte del canone biblico e che in questa occasione si legge pubblicamente”; è la festa dei bambini che si mascherano e si divertono insieme agli adulti.

Trani capofila della Giornata europea, in Puglia il festival della Cultura Ebraica

La partecipazione di Vendola, sopra ricordata, ha dato il tono all’incontro, e non solo per le sue capacità di affabulatore. Ma perché ha sottolineato il significato della scelta, e l’impegno a svolgere il ruolo di capofila con la massima convinzione. E qui l’evento nell’evento, il primo Festival della cultura ebraica definito “Negba – Verso il Mezzogiorno”, l’italiano è la traduzione di “Negba”, un sud che richiama il deserto del Negev, ma ha significati che vanno ben oltre il riferimento geografico. Sarà ospitato a Trani e in altre città della Puglia, e si svolgerà dal 6 settembre, in coincidenza con la Giornata ebraica, fino al 10.

Inizierà domenica 6 a Trani al Castello Svevo con Gioele Dix, per proseguire lunedì 7 ad Andria in un incontro sulla bioetica ebraica incentrato sul tema della vita con il rabbino Di Segni e a Bari in un concerto del maestro Lotoro, a Lecce in uno spettacolo teatrale con Ottavia Piccolo e ad Otranto in una serata al Castello Aragonese su “Storie e geografie”, quindi a Trani di nuovo al Castello Svevo sulla presenza ebraica nella cultura italiana con VittorioSgarbi e l’assessore Ortona dell’Unione comunità ebraiche italiane.

Martedì 8 settembre, giornata fatidica della storia nazionale per altri versi, con tre temi impegnativi: a Lecce “Prossimità e precarietà”, ad Oria “La modernità di un precursore”, con la presenza di due rabbini, Della Rocca nel primo, Caro nel secondo e una esibizione di letture e filmati, quindi a Trani nel Castello Svevo “L’ebraismo alla sfida demografica” con il rabbino Bahbout e il presidente dell’Unione giovani ebrei italiani Nahum. Mercoledì 9 a Lecce “Satira, umorismo e antisemitismo” e “Lettera di Shylock”, ad Otranto al Castello Aragonese “Relazioni e intrecci tra le tre grandi culture del Mediterraneo” con illustri esponenti di culture religiose. A San Nicandro Garganico un dialogo alla Torre Mileto sulla storia degli ebrei locali e il “Concerto al tramonto” del Nigunim Trio Italyà fino all’anteprima assoluta del film documentario “Il viaggio di Eti”.

Il 10 settembre, giorno di chiusura del Festival, inizia ad Otranto alle 5,20 del mattino con il “Concerto all’alba” dal torrione del Castello, prosegue con due incontri nel tardo pomeriggio, a Bari su “Le forme della memoria” e a Trani su “Alfabeto ebraico, numeri e cabala” al Castello Svevo dove si conclude nella tarda serata con lo spettacolo teatrale “I silenzi di Joe”, botto finale di una manifestazione veramente pirotecnica nei temi e nei siti.

Abbiamo voluto riportare puntigliosamente il programma per dare atto di un impegno corale e intenso che va preso a mo’di esempio su come procedere ad una apertura culturale che coinvolge un vasto territorio mobilitando risorse ed energie in un itinerario di condivisione e comunicazione. E’ questo lo spirito del progetto a vasto raggio. Ora possiamo apprezzare compiutamente la scelta di fare Trani città capofila della Giornata europea in Italia, e con essa la Puglia, che ha subito ripagato l’onore ricevuto con un Festival che abbiamo visto essere di notevole interesse e spessore culturale.

La motivazione è stata una sorta di riparazione per l’espulsione della comunità ebraica di Trani dal Regno di Napoli nel 1541, sebbene gli ebrei che la componevano avessero contribuito notevolmente, sin dal Medioevo, allo sviluppo della città divenuta la culla dell’ebraismo europeo dal nono al sedicesimo secolo.

Il loro impulso si protrasse per tutto il ‘500 con fiorenti attività commerciali e finanziarie. Dopo oltre 400 anni la comunità locale ha ripristinato, presso la Sinagoga; culto, usi e costumi degli antenati: “La rinascita ebraica di Trani rappresenta una grande realtà del bacino del Mediterraneo, ed è un solido punto di riferimento per gli Ebrei di tutta la Regione”.

Giudizi conclusivi

Il passaggio degli araldi in costume prerinascimentale nelle vie centrali e l’annuncio dell’avvio della manifestazione da parte di gonfalonieri e strumentisti, con rabbini e figure dell’epoca impersonati da attori, daranno un tocco spettacolare a un’iniziativa che ha tante nobili finalità.

Ecco quelle del progetto “Negva”: “Questa parola così carica di significato – si legge nella Presentazione – è la chiave di un progetto e di un impegno per la riscoperta e la valorizzazione, con le istituzioni e i territori, dell’ebraismo perduto nel Sud”. Un impegno “che la regione sta portando avanti come area di riferimento per gli scambi e le relazioni nel bacino del Mediterraneo”.

Sentiamo ora Nichi Vendola, appassionato sostenitore del progetto: “E’ in atto un impegno fortissimo da parte della Regione Puglia nello sperimentare una politica culturale che nasca dal Mediterraneo, da questo immenso spazio di un mare che torna al centro di relazioni feconde con i nostri dirimpettai, e che proietta la Puglia fin dentro le case di altri popoli, in un processo di crescita reciproca”.

Renzo Gattegna a sua volta scrive: “L’edizione del 2009 ci sta facendo provare l’emozione e l’ebbrezza di una coraggiosa avventura… E’ la prima volta che l’ebraismo italiano propone un’iniziativa così importante in una regione dove la presenza dei correligionari è limitata e sparsa nel territorio. Ma la Puglia è ricca di storia e di tracce della presenza ebraica. E proprio in Puglia assistiamo oggi ad un interessante risveglio di vita ebraica e di interesse verso l’ebraismo e la cultura ebraica”.

Vorremmo concludere con il Ministro per i beni e le Attività culturali Sandro Bondi, che ha dato il patrocinio e parla di “senso autentico e profondo di un’iniziativa nata per contrastare i pregiudizi antisemiti, favorire lo scambio culturale e far comprendere l’importanza delle radici ebraiche nella formazione della civiltà europea”.

E’ passato un decennio dalla prima Giornata europea della cultura ebraica: “A dieci anni di distanza si può dire che questa manifestazione non ha esaurito il suo scopo, ma trova anzi slancio vitale sia nelle adesioni sempre più numerose e convinte di istituzioni e cittadini sia nella necessità di rinnovare il senso di una comune appartenenza alla civiltà europea di tutti coloro che vivono nel nostro continente, al di là di ogni matrice etnica o religiosa”.

Biblioteche, il Congresso mondiale dell’Ifla, a Milano

Le biblioteche di tutto il mondo riunite a Milano

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 18 agosto 2009

Il Congresso Ifla dal 23 al 27 agosto 2009

Siamo andati con curiosità e interesse alla presentazione, svoltasi il 3 luglio 2009 al salone del Consiglio nazionale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali al Collegio romano, della 75^ edizione del “Congresso mondiale dell’Ifla sulle Biblioteche e l’Informazione”. Curiosità perché quello delle biblioteche sembrerebbe un mondo chiuso in se stesso, nei propri spazi e problemi, anche se è il luogo aperto per definizione; interesse perché i suoi problemi che coinvolgono direttamente o indirettamente ogni operatore culturale, in certi casi sono difficili da condividere, mentre qui la condivisione avviene ai massimi livelli, in un grande meeting su scala mondiale.

Il congresso dell’ultima settimana di agosto è organizzato come sempre dall’Ifla, la Federazione internazionale costituita da più di 1700 associazioni professionali nazionali, istituzioni bibliotecarie e singoli professionisti per un numero di soggetti rappresentati pari a 500.000 in 150 paesi; negli ultimi cinque anni hanno partecipato in media 3500 bibliotecari da tutte le parti del mondo.

La Federazione internazionale delle biblioteche

La sua missione è di promuovere standard per la creazione e la fornitura di servizi bibliotecari e nel contempo diffondere la consapevolezza della loro importanza. Il valore alla base è il libero accesso all’informazione, alle idee e alle opere d’ingegno come strumenti essenziali per il benessere in tutte le sue accezioni, fisico e mentale dei singoli, democratico ed economico per la comunità. Al fine di garantire questo accesso è necessario creare e fornire mezzi bibliotecari di alta qualità.

In quanto portatrice di un valore primario e impegnata nel raggiungimento degli obiettivi ad esso legati, la Federazione è aperta alla partecipazione più ampia senza esclusioni né discriminazioni di qualsiasi natura. Tutto questo si manifesta in una serie di attività che ne qualificano la funzione. Un apposito Comitato promuove la libertà di espressione e il libero accesso all’informazione nell’attività delle biblioteche, con verifiche costanti nei diversi paesi in contatto con altre agenzie e provvedendo agli interventi correttivi nel caso emergano violazioni.

Ma perché non siano lesi i diritti dei legittimi portatori di interessi c’è un Comitato impegnato nella materia del diritto d’autore, il cuore dei servizi bibliotecari da garantire nell’era dell’elettronica.

L’Ifla ha una struttura molto articolata, fatta di otto Divisioni e di una cinquantina di Sezioni per le molteplici tipologie in campo librario e bibliotecario. Inoltre ha appositi uffici in molti paesi. In Svezia, presso l’Università di Uppsala, per promuovere la professione di bibliotecario nei paesi in fase di sviluppo prestando formazione, promuovendo le associazioni bibliotecarie e favorendo l’introduzione delle nuove tecnologie. A Francoforte un ufficio per il cosiddetto “controllo bibliografico”, volto ad assicurare il coordinamento e la comunicazione delle relative attività, in particolare riguardo ai formati e ai protocolli standard. A Parigi, presso la Biblioteque nazionale de France, il più importante degli uffici presenti anche in altri paesi, per le tematiche della conservazione e della cooperazione mondiale nella cura e nel trattamento del materiale librario. A Lisbona c’è l’ufficio impegnato a facilitare lo scambio a livello mondiale dei “record” bibliografici.

Troviamo anche un Gruppo permanente con l’Associazione internazionale degli editori che si riunisce due volte l’anno; un Comitato che si occupa della protezione dei beni culturali minacciati nel mondo da guerre e disastri naturali, con un’attenzione particolare per biblioteche, archivi e musei, in collaborazione con altre istituzioni; e “summit” mondiali per promuovere l’informazione.

L’”Ifla Journal” e le apposite pubblicazioni su temi specifici diffondono i risultati delle attività svolte e forniscono ampia informazione sulle iniziative intraprese.

Contenuti del Congresso e iniziative collaterali

Descritta la Federazione organizzatrice è come aver evocato i contenuti del Congresso. Attengono alle tematiche seguite e alle attività svolte, è un World Summit al completo e universale. Le singole tematiche non sono indicate specificamente nel programma del Congresso, evidentemente per lasciare le singole sessioni libere di orientarsi in quelli che sono ritenuti i “topics”, temi salienti.

Il programma è molto schematico: dopo la giornata di apertura, con la cerimonia, le “sessioni” e l’importante esposizione di prodotti e servizi, prevede tre giornate che iniziano con la “sessione plenaria” dalle ore 8,30 alle 9,30 e proseguono con le normali “sessioni” fino alle ore 18, l’intervallo è solo di un’ora. Sessioni anche nella quarta giornata, fino alla cerimonia di chiusura.

Durante il Congresso si riunirà la Conferenza dei direttori delle Biblioteche nazionali, nella quale sono rappresentati un centinaio di Paesi. Sono istituzioni con la finalità di “raccogliere quanto si pubblica in una Nazione, di darne notizia attraverso la Bibliografia nazionale e di conservarlo per le generazioni future. Le Biblioteche rappresentano quindi la memoria del Paese e sono il luogo dove vengono raccolte le testimonianze dell’identità nazionale”. E qui il tono si innalza ancora, la finalità diventa universale: “L’insieme delle Biblioteche nazionali, nella sua varietà di lingue e di culture, realizza quello che è stato il sogno degli studiosi di tutti i tempi: il controllo bibliografico universale, la testimonianza cioè della produzione intellettuale di tutto il mondo”.

A questo riguardo c’è un problema tuttora irrisolto di rilevanza crescente, “la raccolta e la conservazione delle memorie digitali: il nostro modo di comunicare, di studiare, di informare ha ottenuto un aiuto potente dalla tecnologia ma, a causa dell’evolversi continuo e rapidissimo della stessa, purtroppo quanto l’intelligenza umana ha prodotto in questi ultimi anni rischia di venire rapidamente disperso”. E’ compito delle Biblioteche nazionali impedire che ciò avvenga, e già si sono poste il problema di “raccogliere i documenti culturali privi di supporto”.

Ma la difficoltà non è tanto nella raccolta, dato che ci sono anche tecniche automatiche, quanto nella selezione, poiché i “bit” che circolano sul Web in Internet sono miliardi e vi si trova di tutto. Con il progetto “Magazzini Digitali” l’Italia partecipa alle iniziative promosse in comune in questa prospettiva, e il Ministero dispone di una dotazione che permetterà di fare “un’estesa sperimentazione di raccolta di periodici, di siti, di tesi di dottorato in forma digitale e di dotarli dei dati necessari a sopravvivere nel tempo”.

Oltre a questo aspetto particolare, le Biblioteche nazionali si confronteranno sulle soluzioni, possibilmente comuni, da dare ai problemi consueti che, con la crisi economica e la conseguente contrazione di risorse, assumono una rilevanza ancora maggiore: dalle regole di classificazione alle tecniche di conservazione, dall’edilizia alla formazione del personale, campo nei quali saranno dibattute “le strategie che consentono, a fronte di una grave riduzione di budget, di mantenere i servizi per un’utenza estesa nello spazio e nel tempo”. Il direttore generale Maurizio Fallace, da noi interpellato direttamente, ha detto che “i mezzi finanziari e la formazione del personale sono i maggiori problemi”; infatti, con disponibilità finanziarie e addetti adeguati ai nuovi compiti gli altri problemi possono essere affrontati e risolti come si è sempre fatto in passato.

Il Castello Sforzesco sarà la sede prestigiosa per questo meeting parallelo al Congresso che si terrà il 26 agosto, con le nostre due Biblioteche nazionali, di Roma e di Firenze; lo sdoppiamento in due istituzioni di tale funzione centrale è una particolarità tutta italiana dovuta alla “specificità dei fondi che testimoniano a Firenze la cultura civile ed a Roma la cultura religiosa”.

L’imponenza dell’evento è dimostrata anche dai “Satellite meetings” che sono previsti nei giorni che precedono e seguono le cinque giornate del Congresso.

Si svolgeranno anche in altri Stati, precisamente in Germania a Monaco e in Belgio e nei paesi Bassi a Mechelen e Maastricht, in Svezia a Stoccolma e in Grecia ad Atene. In Italia saranno impegnate soprattutto Firenze e Roma in quattro diversi meeting ciascuna; Padova e Torino, Bolzano e Bologna, Palermo e anche Milano in un meeting. Si terranno soprattutto nelle biblioteche e nelle sedi di istituzioni culturali nei giorni dal 17 al 21 agosto, tranne il meeting di Roma sulla “conservazione e preservazione del materiale librario in un contesto orientato all’eredità culturale”; questo importante incontro, che sarà introdotto dal direttore generale Maurizio Fallace e dal prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, monsignor Cesare Pasini, è previsto tra il 31 agosto e il 2 settembre presso l’Istituto centrale per il restauro e la preservazione del patrimonio archivistico e librario con la presentazione delle attività di conservazione svolte dall’Istituto e di quelle nella Biblioteca Vaticana e nella Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana; il secondo giorno sarà dedicato alle tematiche inerenti la digitalizzazione di materiale librario e alla presentazione e dimostrazione di apparecchiature che utilizzano tecnologie innovative.

I temi che saranno discussi negli altri “Satellite meetings” spaziano da quelli tecnici, come i trend nella tecnologia e la lettura nell’era digitale, la conservazione del materiale librario e l’archiviazione delle riviste digitali; a quelli di politica culturale, come l’informazione digitale per la democrazia e la libertà di espressione e religione, fino alla creazione di posti e spazi per nuovi servizi e la promozione dell’educazione nei paesi in via di sviluppo.

L’importanza del Congresso

L’importanza del Congresso per il nostro paese è stata sottolineata, su prospettive diverse, dal sottosegretario Giro e dai due Direttori generali del Ministero per i beni e le Attività culturali, che hanno presentato l’evento, Mario Resca per la Valorizzazione dei beni culturali e Maurizio Fallace, per le Biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore.
Perché di evento si tratta portare in Italia l’assise mondiale delle biblioteche e dell’informazione quarantacinque anni dopo l’edizione tenutasi a Roma e dopo ottant’anni dal primo Congresso mondiale di Bibliografia che si svolse a Roma, Firenze e Venezia nel giugno 1929.

Oltre ai lavori veri e propri, che si muoveranno su due piani, la discussione dei temi e l’esibizione di tecniche e strumenti tecnologicamente avanzati, ci saranno le visite alle Biblioteche che avranno un elevato valore culturale e promozionale. La Biblioteca Nazionale Braidese di Milano, che con un milione e mezzo di volumi, quasi 25.000 cinquecentine e 2.500 incunaboli vanta di essere il maggiore istituto bibliotecario dell’Italia settentrionale, sarà presente nello stand del Ministero e presenterà il 27 agosto, durante la “reception” del Congresso, la mostra di Brera “Copy in Italia: autori italiani nel mondo 1945-2009” che sarà aperta dal 21 settembre al 21 ottobre 2009.

Non è stato automatico avere il Congresso in Italia. Soprattutto il direttore generale Fallace ha sottolineato l’impegno finanziario e la fattiva partecipazione alle fasi organizzative. “Tutto ciò per cogliere l’opportunità di promuovere in questo appuntamento internazionale lo straordinario patrimonio bibliografico del nostro paese, reso fruibile a pubblici diversi e sempre più ampi, anche grazie a iniziative editoriali, convegnistiche ed espositive e, soprattutto, grazie a progetti di digitalizzazione dei preziosi fondi delle nostre biblioteche”.

E’ stato curato dalla sua Direzione generale un volume, in italiano e inglese, sulle Biblioteche italiane e un CD sulla nostra storia musicale, soprattutto napoletana; nello stand del Ministero saranno esposti cataloghi e pubblicazioni e si svolgeranno seminari e “workshop”.

Vogliamo concludere con quanto ha detto su un piano più generale: “Il Congresso, oltre ad essere un importante riconoscimento per il nostro Paese, rappresenta una grande opportunità dal punto di vista della promozione culturale, artistica e della ricerca, ma anche del richiamo turistico”.

Aspetto quest’ultimo toccato dal sindaco di Milano Letizia Moratti nel suo messaggio ai congressisti nel quale, ricordando il senso di ospitalità e l’efficienza della città, italiana e internazionale, che unisce il carattere europeo all’aroma mediterraneo, sottolinea con soddisfazione che il Duomo di Milano è divenuto il “logo” del Congresso.

Ma torniamo al direttore generale Fallace che, al di là dei tanti aspetti coinvolti, ne dà il profilo più autentico: “Il titolo del Convegno, ‘Libraries create future: building on cultural heritage’, sottolinea che nessuna prospettiva di crescita può rinunciare a fondarsi sulle radici di un’identità che le biblioteche, diventate ormai centri attivi di formazione e incontro culturale, contribuiscono a valorizzare e trasmettere soprattutto alle giovani generazioni”.

Contemplazioni, la bellezza e il Nuovo nella pittura italiana contemporanea

di Romano Maria Levante  

Vittoriale sul Garda e Castel Sismondo a Rimini per contemplare la bellezza, con Giordano Bruno Guerri e il critico d’arte Alberto Agazzani nelle vesti di messaggeri.

Una redazione che si sdoppia, mentre una parte di essa pubblica  la notizia di una manifestazione, c’è chi va alla conferenza stampa di presentazione per farne un approfondimento. E’ il massimo di impegno che può mettere in campo un periodico culturale, e questo ha fatto la nostra rivista per “Contemplazioni. Bellezza e tradizione del Nuovo nella pittura italiana contemporanea”, la mostra di cui sono stati informati i lettori, che viene inaugurata a Castel Sismondo e al Palazzo del Podestà di Rimini oggi 5 agosto, e resterà aperta fino al 6 settembre 2009.

E poiché la fortuna aiuta gli audaci, siamo stati premiati da una bella sorpresa. Eravamo pochi ma buoni gli intervenuti alla presentazione quanto mai curata ed istruttiva nella calda mattinata del 30 luglio al Ministero per i Beni e le Attività culturali. Una partecipante ha detto di essere incaricata dalle istituzioni cinesi dei contatti in campo culturale e, riferendosi al protocollo di collaborazione firmato al G8 da Berlusconi con i governanti, si è offerta di portare la mostra a Pechino. Una possibilità inattesa, tutta da verificare, e il Ministero lo farà senz’altro, “circolazione” delle attività culturali e promozione dei confronti tra le “diversità” sono tra i punti innovativi della sua strategia.

Il messaggio di Giordano Bruno Guerri che viene dal Vittoriale

La bella sorpresa è stata trovarvi Giordano Bruno Guerri, da poco più di nove mesi Presidente della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani” di Gardone Riviera, non dietro al tavolo dei relatori come per lui consueto, ma dalla parte dei giornalisti; lui che è “anche” grande giornalista, venuto dal Vittoriale per conoscere da vicino questa “contemplazione della bellezza” e trarne spunti preziosi. Anche perché al Vittoriale la bellezza è di casa, come meta ricercata e spesso raggiunta.

Ne abbiamo subito approfittato, facendo leva su una conoscenza personale diretta – ci siamo scambiati i nostri libri su D’Annunzio a dieci anni di distanza – oltre che sulla stima sconfinata di chi scrive per un personaggio inimitabile, colto e disinibito scrittore e affascinante affabulatore.

Lui non si è fatto pregare, ci ha dato notizie sulle attività in corso e anticipazioni su future iniziative. Il primo pensiero all’Abruzzo: “Mi sono premurato di stringere maggiormente i legami con l’Abruzzo, che non erano buoni. I rapporti con il Centro studi dannunziani di Tiboni e con la Casa natale sono rifioriti, ora ci sono scambi continui”. Ed è un bene, commentiamo, non si può concepire uno iato tra i due poli dannunziani, la terra natale che tanto lo ha ispirato e l’approdo al Vittoriale che tanto ha amato; come sarebbe inconcepibile – parlando con l’autore di “Povera santa…” non lasciamo stare i santi – uno iato tra Pietrelcina e San Giovanni Rotondo nella saga di Padre Pio, che D’Annunzio chiamava “quell’umile fraticello di Pietrelcina” e definiva “stigmatizzato” per le stimmate sanguinanti che lo avevano molto impressionato fino a pensare “più volte ad un incontro col mirabile uomo”.

Poi una buona notizia per chi ama la “gabbia d’oro” del Poeta, lo splendido “buen retiro” sul Garda: “Il trend dei visitatori si è invertito, il calo si è arrestato e nel primo semestre c’è stato un aumento. Stanno andando in porto delle importanti iniziative intraprese dalla nuova Presidenza.”. Chiediamo di parlarcene: “Ne cito solo due, l’illuminazione notturna del Vittoriale, necessaria per la vista dal lago dell’insieme e per le visite serali; inoltre l’apertura di un nuovo museo, “D’Annunzio segreto”, dove saranno esposti oggetti e cimeli oggi non visibili ma di notevole interesse, di varia natura, si va dagli abiti all’argenteria, dagli articoli per il pranzo a quelli per la scrittura”.

E gli altri progetti? “Il 14 settembre ci sarà il primo dei tre convegni per i novant’anni dall’impresa fiumana”. Un incontro di approfondimento storico e non solo: “In quell’occasione faremo una cerimonia per l’acquisizione di due importanti ‘Fondi’ di documenti che vengono dall’archivio Baccara, e saranno da allora interamente al Vittoriale”. Non è stato automatico acquisire questi documenti preziosi: “Abbiamo bloccato altrettante aste esercitando il diritto di prelazione”. Come aveva iniziato, Giordano Bruno Guerri termina con un pensiero per l’Abruzzo: “Agli abruzzesi dico di venire a Gardone Riviera, al Vittoriale, vi troveranno anche un pezzo della loro terra”.

La bellezza perenne che vive al Vittoriale

Oltre a “un pezzo della loro terra”, che li emozionerà, vi troveranno ad estasiarli la bellezza evocata da Francesco Meriano, dopo un incontro con D’Annunzio al Vittoriale che – ricorda il figlio Carlo Ernesto – “lo emoziona profondamente, colorandosi nel suo racconto di suggestioni mitologiche e profetiche”. Ma ecco il Console generale d’Italia a Odessa: “Se il Vittoriale fosse una casa, si potrebbe osservare che le stanze sono gremite da una congerie di cose troppo belle, che v’è ridondanza di forme decorative; e si potrebbe ripetere uno di quei melensi luoghi comuni che vegetano, fungaia maligna, attorno alle vive creature dannunziane: esservi, nella casa come nell’arte, esagerazione d’ornamenti, di preziosità, di superfluo.

Entrati nell’atmosfera dell’ineffabile, cioè appena varcata la soglia del Vittoriale, guidati dall’una all’altra stanza dalla voce calda e colorita del Comandante, dalla melodia delle sue immagini che senza sforzo passavano attraverso tutti gli strati psicologici, dall’ironia al sacrificio, dimenticammo la pioggia e il sereno, il lago e la selva; vivemmo in un sogno tanto più vero della trita realtà d’ogni giorno. Lampade nascoste modulavano le varie luci sulla dovizia dei marmi e dei metalli; soffici tappeti attutivano il passo; vetri istoriati ci isolavano dal bagliore spettrale del crepuscolo. Troppe cose per una casa, non per il luogo dove un artista adora e crea la bellezza, dove un guerriero medita e svolge il suo mito meraviglioso”.

E per finire: “L’ambiente ch’egli crea risponde a una esigenza e a una tecnica che rivelano , se è possibile, un’agilità più giovanile, un’ispirazione lirica più pura. Ogni oggetto vi ha il ‘suo’ luogo; idoli, colonnine d’onice e d’alabastro, calchi di opere classiche, dall’Atena lemnia al Prigione del Buonarroto, arazzi, cuscini, libri, armi, cimeli, tutto obbedisce ad una invenzione nuovissima, la materia si anima in un complicato istantaneo gioco di simboli e, come di solida, può divenir fluida, assume impreviste significazioni, e i confini del tempo e dello spazio sono aboliti, e sacro e profano sono aggettivi, oh finalmente! vuoti di senso. La sola verità che resiste a questa metamorfosi incessante è la verità dell’anima umana, la bellezza della vita eroica”.

E Giuseppe Bigaglia, riferendosi agli affreschi della Stanza del Lebbroso, la più intima e carica di simboli del Vittoriale, scriveva: “In quelle visioni in cui è alta espressione di poesia resa con dolcezza di linee, in cui è maggiore la festosità dei colori in un’armonia indovinata di figure distribuite in un ambiente pieno d’aria tranquilla, serena, allietata da un canto mistico che solleva l’animo; in queste visioni il Cadorin è proprio il pittore di rappresentazioni sacre, di cui l’età nostra abbisogna: maestro efficace di fede, di amore, di bontà, di bellezza”.

La lezione sulla bellezza e sul nuovo di Alberto Agazzani, curatore della mostra di Rimini

Avrebbe potuto dire soltanto “maestro di bellezza”, sarebbero stati compresi ugualmente gli altri valori, da fede e amore alla bontà.. Questa in sintesi la vera propria lezione sulla bellezza che abbiamo avuto la ventura di ascoltare da Alberto Agazzani, il critico d’arte che ha costruito la mostra pezzo per pezzo su una forte spinta ideale. Possiamo rendere la sua lezione compiutamente, dato che l’ampia notizia sulla mostra data dalla Redazione il 31 luglio contiene già delle informazioni, quindi ci esime dal rendere conto dei particolari sull’iniziativa già trattati.

Ci soffermiamo su questo che è una sorta di “back stage” della mostra, il suo retroscena e insieme la sua motivazione profonda, con il pizzico di soddisfazione di aver dato la stura alla lezione con una nostra domanda che Agazzani ha gradito in modo particolare perché ha potuto tirare fuori tutto.

La “bellezza”, parola chiave della mostra – l’altra è “tradizione del nuovo” – “non è un concetto astratto o metafisico, bensì un sistema di valori nel quale c’è il bello ma anche il buono, c’è la scelta etica che esclude protagonismo, ricerca del successo come del denaro e del potere”. Di qui uno sfogo appassionato, senza freni: “Mi sono arrogato il diritto di fare scelte etiche nella selezione delle opere per la mostra, da tremendo moralista”.

E non è la prima volta: “da quindici anni organizzo mostre adottando per me i valori etici che ricerco negli altri, il disinteresse e la coerenza, il rigore morale e il rifiuto di compromessi”. E’ un atteggiamento etico non sanzionatorio ma valutativo, per vedere se “in questo tempo senza eroi si trovano ancora valori e speranze”. Il critico d’arte “è un accessorio, è al servizio dell’artista per collegarlo con la società”. Una volta che ciò è avvenuto il suo ruolo è esaurito, può tornare dietro le quinte, ma è giusto che ora sia sul proscenio..

La “bellezza” non è stato il tema assegnato, e abbiamo capito come, a parte la ricerca di artisti attivi in Italia, non ci sono altre analogie con la mostra “Mitografie” al museo Bilotti di Roma di cui abbiamo dato conto di recente, per la quale un critico e un artista hanno selezionato gli autori assegnando come tema “Il mito”, declinato in modi molto diversi dal riferimento alla mitologia classica, in una visione moderna spesso onirica e lontana da canoni di qualsivoglia natura.

“Cosa c’è di più scandaloso della bellezza?”, si è chiesto Agazzani, e ha citato quadri di nudi maschili che per alcuni possono dare scandalo. “La bellezza è scandalosa perché ci fa ritrovare i fili di una trama emotiva, appunto come insieme di valori, eticità ed onestà in testa; i pittori sono i talebani del bene che combattono anche per cambiare il mondo, un esercito cresciuto a dismisura”. E a riprova ha esclamato: “Il padiglione Italia alla Mostra di Venezia, curato da Beatrice Buscaroli e Davide Rondoni che coordinano la rassegna di Rimini, è il più visitato perché la bellezza attira”.

La pittura era un filo che si era perduto, “era un sapere che all’inizio degli anni ’80 andava svanendo, come sistema di tecniche e materiali”, si stava assistendo alla sua fine soppiantata da forme espressive dichiaratamente all’avanguardia. Il filo è stato riannodato dalla riscoperta delle vocazioni pittoriche contemporanee nascoste, che venivano oscurate dalla moda del momento e avevano scelto “la via della clandestinità” pur di sopravvivere. E qui Agazzani ha dato atto a Vittorio Sgarbi di essere stato antesignano della ricerca dell’artista ignoto e di avervi dedicato ormai da molti anni la propria grande notorietà e visibilità. Di qui inizia “”una lenta ma irreversibile riscoperta, accompagnata anche da fenomeni vistosi e da prese di posizioni radicali, come può essere stata la Transavanguardia”.

La ricerca della bellezza, nell’accezione prima indicata, e di una coerente tradizione del nuovo, è una reazione al “nichilismo imperante” nella società e al concetto che l’artista sia in grado di “dare all’esistenza una forma diversa da tutte le altre, quella della ‘vera vita’, una vita che costituisce a sua volta la garanzia più certa che tutte le opere che essa produce appartengano a pieno titolo alla dinastia e al dominio dell’arte”. E’ stato questo un piano inclinato per il quale “l’arte si è trasformata in un veicolo del cinismo” in base all’idea che “l’arte stessa debba stabilire con la realtà un rapporto che superi la sua semplice imitazione o la sua rappresentazione ideale, per diventare uno strumento in grado di metterla a nudo, di smascherarla, di raschiarne le incrostazioni, scavarne l’essenza per ridurla violentemente ai suoi elementi primari”.

Potrebbe sembrare positiva questa pittura che “nasce dal basso”, intesa “come luogo primario d’irruzione dell’elementare, come messa a nudo dell’esistenza”, anche perché “si genera da elementi che ‘stanno sotto’ a tutto ciò che fino al 1789 non aveva né diritto né possibilità d’espressione”, in un’arte allora pienamente “platonica ed aristocratica”. Tuttavia, secondo Agazzani, si è superato ogni limite da quando l’arte si è posta in una “posizione di incessante e costante rifiuto, negazione di ogni regola, sia essa stabilita, dedotta o indotta purché riconducibile ad una tradizione, ad un passato”; all’“incessante e spasmodica ossessione del passato” si è associato logicamente “un nuovo da ricercarsi e perseguirsi ad ogni costo, finendo così per rappresentare il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa”.

Ed ecco la conclusione senza mezzi termini:“Priva di qualunque valore e confine, l’arte moderna (e contemporanea) si è presto trasformata in un circo nel quale tutto è possibile, anzi nel quale ogni oscenità, provocazione, dissacrazione e profanazione è dovuta, obbligatoria in nome di una presunta verità trasformatasi in vorace verità”.

Constatare che non si tratta di una mera denuncia è stato consolante, il fuoco savonaroliano nel bruciare i disvalori cerca di accendere i nuovi valori e di animarli con azioni concrete da almeno quindici anni. Perché “l’arte può dare consolazione e speranza, comunicare valori e la bellezza nella sua accezione più ampia è il valore fondamentale”; un antidoto contro la “sovversione dei valori”.

In queste azioni, divenute una missione alla quale ha sacrificato tante altre opportunità, Agazzani si sente sostenuto dalla visione di Jean Clair, uno dei maggiori critici d’arte contemporanei che attribuisce, nella sua opera così intitolata, “la crisi dei musei e la globalizzazione della cultura” a un processo di decadimento più generale; e denuncia con durezza “i mali che hanno portato la nostra società, e l’arte che la rappresenta, al livello di ‘punto morto’ attuale, identificandone il male con l’imperante senso di nichilismo che ammorba anime e annienta valori”.

La bellezza e la tradizione del nuovo nella mostra della “Contemplazione”

Seguendo Jean Clair, “contemplare” significa etimologicamente, da “templum”, “spazio divino tagliato nell’aria”, come facevano gli àuguri che traevano messaggi divini dal volo degli uccelli, osservandone il passaggio nelle reti immaginarie formate dai quadrati disegnati con dei bastoni. Ugualmente si può “entrare in contatto col trascendente mediante l’atto del contemplare”, e a questo tende la mostra con l’impostazione prescelta sulla base dei valori che si sono illustrati riportando il pensiero del curatore e selezionatore delle opere: “L’artista ritagliando degli spicchi di cielo può veicolare dei valori”, bisogna restituirgli questo ruolo che la modernità ha cancellato.

L’intento, “ben lungi dall’avere la certezza della soluzione”, è ambizioso: “Evidenziare l’esistenza di un’arte italiana scevra da cinismo e nichilismo, strettamente legata ai valori tradizionali incarnati dalla bellezza ma, contemporaneamente, in grado di rinnovarne la forma e rinvigorire, ravvivandola, la forza espressiva”.

E’ un intento realistico perché esistono, e Agazzani li ha scovati, “artisti profondamente legati alla realtà e ai suoi accadimenti quotidiani, uomini e donne, anziani quanto giovanissimi, che contro ogni moda, contro ogni tendenza e costrizione hanno saputo tener fede alla loro espressività, al loro Io, imponendo stili e modalità espressive quanto mai originali ed autonome”.

Qui è stata fatta la constatazione, anch’essa consolante, che “l’Italia presenta una ricchezza di contemporaneità all’interno della pittura figurativa”, possiamo essere fieri che in questi venticinque anni si è formata “una generazione di pittori padroni della tecnica”, per cui nella selezione si è potuto esercitare il necessario rigore. Dei 480 artisti considerati ne sono stati selezionati 120 in base a due criteri, veri e propri “paletti”: l “espressività autentica”, o se si preferisce l’“autenticità dell’espressione”; la “dimensione etica”, cioè il rapporto dell’artista con la pittura, inteso come “manifestazione della propria anima, del proprio spirito”. Escludendo coloro che, al di là della resa esteriore, non hanno contenuti propri e ripetono altri artisti oppure hanno motivazioni non etiche.

Agazzani ha parlato con tono appassionato della sua ricerca certosina delle opere da selezionare recandosi di galleria in galleria, di pittore in pittore, “senza dimenticanze”- ha tenuto a precisare – ma anche senza cedimenti. Nessuno è stato “dimenticato”, ma molti sono stati “ignorati”, e volutamente, perché non rispondevano ai requisiti di eticità intesi nel senso anzidetto; altri si sono autoesclusi non essendo più disposti a partecipare a una mostra collettiva dopo l’abbuffata di mostre individuali a cui abbiamo assistito.

La mostra nel “Premio Rimini” e nelle politiche dei Beni culturali

Il critico curatore appare molto soddisfatto del risultato, sono presenti le diverse forme figurative che caratterizzano la pittura italiana; “tutti artisti intrinsecamente legati alla grande tradizione della storia dell’arte italiana ma al contempo capaci di una continua rilettura della stessa in chiave contemporanea”, appunto la “tradizione del nuovo” che diventa mostra, esposizione al pubblico.

Anche sotto il profilo generazionale c’è un campionario completo, da Lanfranco che è stato collaboratore di Salvator Dalì al giovanissimo Riccardo Negri e, per fare nomi di caposcuola, da Cremonini a Sughi, da Guarienti a Guccione fino al celebre Ventrone, “grandi maestri della pittura figurativa contemporanea”. Ci sono anche artisti di origine straniera ma legati per formazione e forma espressiva al filone dell’arte italiana, da Kapor a Pajevic, da Ponzalo a Beel.

La vera e propria orazione di Alberto Agazzani ci ha preso la mano, ma non possiamo non sottolineare l’impegno del Ministero dove si è svolta la presentazione, alla quale ha partecipato lo staff del Ministro ad alto livello, con il capo della Segreteria Hullweck e il consigliere Crespi,. Presenti attivamente i vertici dell’Associazione Culturale Città d’Arte, che ha realizzato la mostra, e della Fondazione Carim di Rimini che ha sostenuto questa e altre esposizioni al Castel Sismondo, dalle quali sono venuti consensi dalla critica e successo di pubblico, con mezzo milione di visitatori.

E’ importante tener conto di quanto già indicato nella nota redazionale pubblicata su questa rivista il 30 luglio, che abbiamo citato all’inizio, sul più vasto “Progetto Sismondi. Moti d’arte e poesia contemporanea”. E’ una rassegna biennale, coordinata da Beatrice Buscaroli e Davide Rondoni, in merito alla quale va precisato che il “dialogo tra Arte e Poesia interrogate sul tema della Bellezza” avrà in questa mostra una premessa fondamentale: l’incontro di nove poeti, tra i quali Sergio Zavoli e Giancarlo Pontiggia, con i centoventi artisti per designare ciascuno il proprio artista di riferimento nella “Selezione del premio Rimini”; dopo di che “artista e poeta condurranno insieme un originale percorso tra arte e poesia sino alla Mostra del premio Rimini”, previsto per il 2010. In carattere con i valori etici che ne sono alla base “il premio non incoronerà un vincitore e non sarà un premio in denaro. Consisterà nella partecipazione ad una esposizione collettiva d’arte e poesia, accompagnata da una prestigiosa edizione d’arte”.

Inutile dire che siamo già in fibrillazione per questo evento del 2010 che ci proponiamo di seguire da vicino, ci richiama gli stretti collegamenti con le altre arti nel “Libro della pittura” di Leonardo da Vinci, di cui abbiamo dato conto nel commentarne la mostra a Roma. Confidiamo che tale programma venga apprezzato da Giordano Bruno Guerri, nel segno del Cenacolo dannunziano di Francavilla con il connubio che si realizzava tra le diverse arti, la poesia e la narrativa di D’Annunzio e la pittura di Michetti, con la musica di Tosti e la scultura di Barbella, per non parlare delle acqueforti e del mandolino di De Cecco e degli scritti di Scarfoglio, che si unì al gruppo; un sodalizio di opere d’arte e di vita ispirate e intrecciate l’una all’altra, non solo idealmente ma spesso visivamente come nel quadro “La figlia di Iorio” di Michetti dov’è raffigurato De Cecco.

Nel,Cenacolo gli artisti erano uniti nella ricerca di un ideale di pura bellezza, che richiama la mostra e la rassegna riminese. Perché non trovare un posto d’onore, tra le nove coppie di poeti-pittori, alla coppia D’Annunzio-Michetti, che trova un’eco nelle strofe del Canto Novo ispirate al quadro “I morticelli”, per non parlare di “Il voto” e di altre assonanze? La proposta nasce dall’associazione di idee con il già citato “Mitografie”, una ricerca con intenti paralleli, dove ai selezionati sono stati affiancati idealmente, quasi da padrini, due grandi artisti, de Chirico e Novelli nella mostra recente.

Dal Ministero per i Beni culturali è venuto un forte sostegno che si inserisce in una linea di pensiero e d’azione ben precisa, incardinata sul concetto che l’arte deve essere libera, non è né di destra né di sinistra e va promossa al massimo grado, nell’ambito di una strategia di valorizzazione dei beni culturali il cui programma è stato presentato dal Direttore generale Resca nel quadro delle politiche illustrate dal Presidente del Consiglio il 29 luglio 2009, di cui abbiamo già dato conto.
Hullweck ha detto che “l’arte contemporanea può divenire uno strumento culturale di massa, deve uscire dalle nicchie e dai circuiti privilegiati ed essere portata al grande pubblico che così potrà crescere culturalmente al passo dei tempi”. Crespi ha aggiunto: “Non possiamo limitarci a custodire e trasmettere l’arte del passato, ma dobbiamo anche lasciare traccia del nostro passaggio, la caratteristica della nostra civiltà ai vertici della società occidentale è di vantare tradizioni millenarie che proseguono nell’arte contemporanea, a differenza di altre civiltà ormai estinte”.

E’ la prima volta che il Ministero sostiene l’arte contemporanea, una delle tante meritorie “prime volte” che abbiamo apprezzato e segnalato, nell’ambito della nuova attenzione data anche alle “attività culturali” la cui ”circolazione” diventa un importante veicolo di comunicazione e anche di progresso e sviluppo. Con la mostra viene sostenuto l’impegno dell’Associazione culturale Città d’Arte nel dimostrare che “l’arte pittorica non è morta e l’arte contemporanea è anche pittura”.

E allora torniamo alla mostra per una doverosa conclusione, Non si deve pensare, dopo quanto si è detto, che si tratta di un’operazione di mera politica culturale. Anche se si vuole riaffermare che la pittura è viva, anzi rappresenta “una delle forme espressive maggiormente capaci di interpretare la modernità rinnovando valori quali bellezza e verità”; e ci piace sottolineare che bellezza e verità sono pure nella descrizione che fa del Vittoriale Francesco Meriano, riportata all’inizio nel gemellaggio virtuale che abbiamo delineato tra due fari, uno permanente e l’altro temporaneo, di bellezza (e anche di verità). Pittura che, oltre ad essere viva, rappresenta “un patrimonio da scoprire e valorizzare, prima che di artisti e di opere d’arte, di valori artistici, morali, spirituali”.

La conclusione è che la mostra ha anche finalità spettacolari, legate alla fruizione dei visitatori che si attendono numerosi come nelle tradizioni della sede prescelta. Nell’allestimento espositivo si è pensato al grande pubblico e alla resa visiva. Non è né museale né didascalico, ma “teatrale”, ha assicurato Agazzani, le opere in mostra, veri “capolavori assoluti”, sono presentate in modo da valorizzarle al massimo sul piano dell’immagine per chi le guarda.

Le opere che abbiamo visto in anteprima sono suggestive, i nudi tranquilli o tormentati avvolti nella castità dell’arte, il blu intenso dove spunta il miraggio di una cupola bianca, o il verde abbagliante di un declivio infinito, il cromatismo traslucido del mattino e quello violento dell’asfalto, le teste pensanti, la notte e il giorno in due modulazioni cromatiche, il firmamento in tanti cromatismi, il bambino e la gallina, la libreria e il banchetto nuziale, infine i giocatori della partita a carte.

Attraverso queste e le tante altre opere esposte, il visitatore potrà rivivere, nel luminoso scenario dell’estate riminese, la magia della creazione artistica, “un viaggio nel buio per inventare mondi”.

Tag: Alberto Agazzani

Crognaleto, il cuore dei Monti della Laga

di Romano Maria Levante

– 29 luglio 2009 – Postato in: Culturalia

Un arcipelago di antichi borghi, il fascino di natura, arte e memoria, un’anima da preservare e rilanciare.

Chi viene dal Gran Sasso guarda i monti della Laga con una certa superiorità, è o non è Monte Corno la vetta più alta degli Appennini? Però sbaglia se ne sottovaluta i pregi ambientali e paesaggistici, come quelli storici e artistici. Intanto l’orografia, i profili e le rocce arrotondate della Laga mentre il Gran Sasso è dolomitico hanno un loro fascino; la cima più alta, il Monte Gorzano, misura 2.458 metri, quasi come Corno Piccolo anche se è distante dai 2.912 metri di Corno Grande. Poi le altre bellezze naturali, le cascate e i corsi d’acqua, i boschi rigogliosi, i prati e i luoghi ameni dove si esercita ancora la pastorizia, come Piano Roseto, a 1.200 metri, dove si svolge l’annuale Fiera da 150 anni. L’ippovia è un altro itinerario ideale per gli amanti della escursioni in montagna.

Ma non è per ammirare la natura che siamo andati sulla Laga a due mesi dal terremoto e ci siamo tornati di recente. Volevamo vederne i segni e conoscere fuori dalla stagione turistica gli insediamenti umani, i borghi disseminati sul costone della montagna che fanno capo al Comune teramano di Crognaleto, ispirato al nome dialettale del corniolo dei pini, anche se più che per il corniolo è rinomato per la “ventricina”, l’insaccato di carne triturata con spezie e peperoncino.

Il Comune di Crognaleto

La sua storia ci ha sempre interessato, e ad essa dobbiamo risalire per spiegare un comprensorio di ben 17 frazioni, situate tra gli 800 e i 1.500 metri, che fanno capo a un capoluogo minuscolo tanto che la sede municipale è nella più grande Nerito. Che è un abitato del Comune di Crognaleto ma posto al di qua della Strada Maestra, con la chiesa dei SS. Pietro e Paolo del 1800 e i caratteristici usi tradizionali: il “Fuoco di Natale”, che resta acceso ininterrottamente dalla vigilia fino alla Befana, e l’“Erede”, rito del giovedì grasso, quando la comunità accoglie il primo figlio maschio.

Originariamente Crognaleto faceva parte del Comune di Roseto, tanto che la zona era compresa nella cosiddetta montagna di Roseto, e quando divenne autonomo incorporò come sue frazioni molti centri abitati che prima erano comuni autonomi; un miracolo di semplificazione che forse fu possibile per l’anomalia della sua minuscola dimensione, per cui più che di frazioni accorpate a un comune si è trattato di una vera e propria rete amministrativa senza graduatorie né dipendenze.
Ci sono due piccole chiese, S. Caterina del XVI secolo e la Madonna della Tibia, costruita come ex voto di un viandante di Amatrice caduto in un burrone riportando solo la frattura della tibia.

La Strada Maestra

Abbiamo percorso l’antica Strada Statale 80 del Gran Sasso d’Italia che dopo Montorio al Vomano – la “vetrina” e la porta del Parco nazionale – si inoltra nel distretto “Strada Maestra”. Ed è stato bello ritrovare il nome con il quale nei nostri ricordi del dopoguerra venivano definite le strade vere e proprie, anche se non ancora asfaltate, con il fondo stradale bianco molto compatto laddove le altre strade minori erano sassose e sconnesse. La nostra meta, lo abbiamo detto, non erano i prati tra i monti, i boschi e gli splendidi angoli naturali del territorio della Laga, il nostro tour riguardava le località abitate, i piccoli borghi che punteggiano la montagna e la rendono accogliente e amica.

La Strada Maestra questa volta è una via minore rispetto all’autostrada dal punto di vista logistico, ma ha una potenzialità ben maggiore dal punto di vista naturalistico. Perché consente di penetrare nell’ambiente, di immergersi in quella natura che ha dato all’Abruzzo la qualifica di “Regione verde d’Europa”; di diventare, per così dire, maestra di vita ponendo a contatto con qualcosa che vale. Perché l’ambiente non è solo quello naturale, ma anche quello delle preesistenze che sono la memoria e le radici, la storia e la cultura. In una simbiosi così stretta e armoniosa che fa dei paesi arroccati nel costoni montuosi un tutt’uno con il verde nel quale sono immersi. E’ come se il tempo avesse creato una singolare alchimia nella quale forme e colori, materiali e presenze si fossero amalgamati componendo un insieme organico e indissolubile nel quale c’è il soffio della vita.

Lo spirito dei luoghi non risiede soltanto nei loro pregi ambientali che li rendono diversi e unici, ma anche nell’anima profonda che è insita nella loro storia, nelle memorie che vi sono sedimentate e fanno sentire la presenza dell’essere umano, la sua umanità. Altrimenti sarebbero belli senz’anima.

Pensavamo a questo quando siamo giunti ad Aprati, la prima frazione del Comune attraversata dalla Strada Maestra che costeggia il fiume Vomano, una sorta di campo base fornito delle attrezzature ricettive e di ristoro nonché di rivendite di prodotti tipici, funzionanti anche fuori stagione quando intorno c’è il deserto. Ma non potevamo fermarci, c’era il bivio verso i borghi immersi nel verde e arroccati sulla montagna, le altre frazioni del Comune di Crognaleto meta del nostro viaggio.

Abbiamo lasciato la Strada Maestra, la via si inerpica ma è asfaltata e comoda, ci siamo goduti l’ascesa nel verde entrando in questa sorta di “comune diffuso”, di struttura amministrativa a rete che fa capo a un’entità virtuale senza consistenza reale se non nella storia e nella memoria.

L’associazione di idee con l’“albergo diffuso” che è la nuova formula per trasformare vecchie case in strutture ricettive dura poco, la vista dall’alto muta di curva in curva, di tornante in tornante. Riviviamo la nostra escursione come se la stessimo facendo ora, tanto è rimasta impressa in noi.

Passiamo ad Aiello senza soffermarci, anche se c’è la Chiesa dei Santi Silvestro e Rocco della metà del XVI secolo, ampliata un secolo dopo, con alcune abitazioni della stessa epoca. Come non ci soffermeremo nei piccoli borghi di Figliola e Santa Croce.

In alto, verso Poggio Umbricchio

Ci interessa raggiungere Poggio Umbricchio, un nome dal suono capriccioso che viene dal 1239, precisamente da Podio Ymbreccle. Anche la sua storia viene da lontano, sono vicende di feudi e feudatari, dagli Acquaviva ai Valignano, dai Cantelo agli Orsini, dai signori di Poggio Ramonte ai Castigliano di Penne, marchesi di Poggio Umbricchio dal 1700; e si vede dalla rocca fortificata che lo sovrasta. Ammiriamo la Chiesa di Santa Maria Laurentana, con un portale del XVI secolo, ma ci prende subito la catena del Gran Sasso all’orizzonte, in uno scenario da “cinemascope”: tre gruppi montagnosi che si ergono come altari in un immenso mare di verde.

E’ una bellezza incomparabile che stordisce, come il verde che esplodeva dai finestrini nei primi viaggi in treno e fece nascere l’abitudine di leggere libri per non esserne stravolti, fu oggetto di una fascinosa affabulazione di Alessandro Baricco. Noi non possiamo metterci a leggere ma dobbiamo girare gli occhi tutt’intorno e farci forza per non essere presi dalle vertigini che dà tanta bellezza.

Proseguiamo, alcuni operai stanno lavorando ad una costruzione che si affaccia proprio nel punto più bello, ci sentiamo di invidiarne i proprietari. Anche questo dura poco, si tratta del piccolo cimitero del paese, non riconoscibile perché senza i cipressi d’ordinanza. Tiriamo un sospiro, l’invidia cessa, l’ammirazione per quella posizione incomparabile rimane. Il pensiero del terremoto si allontana; del resto, a parte questi operai, non vediamo altre presenze.

Non c’è nessuno, sembra un paese fantasma come i villaggi del West abbandonati per qualche razzia. Qui non ci sono state razzie, ma il temibile terremoto, anche se i soli segni esteriori sono alcune tende blu della Protezione civile nel piccolo campo sportivo. Non è solo per questo, però, che il paese è deserto, tutti i piccoli paesi di montagna sono spopolati, la loro funzione non è più abitativa in modo permanente, ma solo in forma stagionale. Possono essere visti come parti dell’“albergo diffuso” di seconde case che si popola nel periodo turistico, quando la vita torna a fluire tra le viuzze e le scalinate, le porte e le finestre delle abitazioni; portata dai turisti ma anche dai “naturali”, i nativi dei luoghi che ritornano.

Una funzione importante per una nazione e una regione dalla forte vocazione turistica, che dovrebbe essere riconosciuta se vi fosse la sapienza strategica di concepire questi borghi come impianti di un grande complesso produttivo del quale le singole residenze sono parti essenziali da tenere in perfetto stato di manutenzione; e non solo per questo, sono il retaggio della storia e della memoria, sono l’anima dei luoghi da custodire con cura.

Da Alvi a Tottea

Lasciamo Poggio Umbricchio a malincuore, il panorama mozzafiato ci è rimasto negli occhi e nell’anima. Il malessere dura poco, siamo ad Alvi, piccolo anch’esso, disabitato anch’esso. La quota è cresciuta, l’altitudine è di metri 1005, la stessa di Pietracamela nel cuore del Gran Sasso. Le abitazioni non sono antichissime, furono ricostruite dopo il terremoto del 1909, come fu ricostruita la Chiesa di Santa Maria, del XIV secolo; vi è un’altra chiesa dello stesso periodo, dedicata a Santa Maria Apparens, dall’apparizione miracolosa a un soldato francese in fin di vita, che fece erigere la chiesa in quel luogo per sciogliere il voto fatto nel momento del pericolo. Ci rapisce anche qui un panorama mozzafiato.

Il ricordo personale di una nostra zia che insegnò in questo paese in tempi lontani ci fa misurare la profonda trasformazione e immedesimare nello spirito del luogo. Visto così sembra impossibile immaginarlo abitato stabilmente fino a richiedere la presenza fissa della maestra. L’emigrazione prima, l’urbanesimo poi hanno fatto andare la storia alla rovescia, cancellando le presenze in montagna mentre le infoltiva e moltiplicava in pianura, salvo ripopolare per una breve stagione; l’opposto del passato allorché per motivi di sicurezza ci si arroccava sui picchi e sulle colline, tendenza poi tornata a fini turistici che ha reso necessario difendere l’ambiente dal cemento.

Proviamo il bisogno di ritrovare la gente, lo spirito dei luoghi ha bisogno della presenza umana, lo sentiamo fortemente. Questa nostra ansia viene soddisfatta, ecco Tottea, un paese vivo e vitale anche fuori stagione turistica. Non è un borgo come i due visitati finora, preziosi insediamenti privi però di una vitalità attuale, vi è animazione, ha dimensioni molto maggiori. C’è tutto ciò che serve a una comunità che vi risiede stabilmente. L’ambiente non offre solo l’immersione nel verde e le altre meraviglie dei Monti della Laga, corsi d’acqua e cascate, prati e boschi; c’è una pietra arenaria utilizzata per sculture e camini, stipiti ed ornamenti da specialisti locali dediti alla sua lavorazione che continuano nell’arte tradizionale. Si tiene un concorso annuale con la pregevole caratteristica che le opere realizzate restano al paese per essere utilizzate come arredo urbano. E’ evidente che c’è un bella chiesa, la Cappella di Sant’Antonio, con una statua del XVI secolo. Anche qui un ricordo personale, nostra madre ha insegnato nelle scuole elementari del paese in un’altra epoca, un’altra vita; il tempo non si è fermato ma noi lo stiamo ripercorrendo all’indietro.

La vita che pulsa è segnata anche da alcune tende nel piccolo campo sportivo, gli effetti del terremoto. Altri segni esteriori visibili non se ne vedono, ma la gente che si incontra racconta del grande spavento e della paura rimasta. E’ una costante nel versante teramano dove non ci sono stati crolli eclatanti ma danni all’interno degli edifici e paura, tanta paura.
Eravamo stati a Tottea due anni fa per il “clou” della stagione estiva che consiste nello spettacolo di un cantante famoso, allora fu Al Bano, in precedenza Riccardo Fogli, venne poi Max Pezzali.

E’ rimasto il ricordo del blocco delle auto al bivio, la gente saliva i sei chilometri a piedi dato l’intasamento che ostacolava anche la navetta. E questa salita fu uno spettacolo nello spettacolo, noi ripensavamo a quando nostra madre la faceva a piedi per raggiungere la sede di insegnamento; e immaginavamo che la vista naturale era la stessa, che si sarebbe scoperto il paese nello stesso modo di allora, si sarebbe potuta rivivere l’emozione della sua prima volta. Ma l’esplosione di luci e di musica dopo il buio della salita fu tale da riportare piuttosto alle immagini dei film “western” allorché dopo la traversata della prateria deserta si giungeva al “saloon”. E fu un paese trasformato in “saloon” quella sera, il big della canzone non fu al centro della festa, fu la festa stessa la protagonista assoluta.

Da San Giorgio a Frattoli e oltre

Scendendo da Tottea ci aspetta quello che per noi è il cuore di Crognaleto: San Giorgio, Frattoli, Macchia Vomano. In queste frazioni non ritroviamo il panorama mozzafiato e neppure l’animazione e la vita, ma tanto verde, un’immersione totale nella vegetazione.

A San Giorgio, una delle frazioni più alte con i suoi 1150 metri, ci sono i resti dell’antico abitato di Rocca Roseto, con la chiesa di San Giorgio, sovrastato dal castello in rovina. Anche qui c’è deserto ma per poco, all’inizio dell’estate c’è l’annuale Fiera della pastorizia con il raduno a Piano Roseto, l’esposizione negli stazzi e la valutazione, la premiazione e la cerimonia con le autorità. Ma questa è storia di oggi, ci siamo tornati di recente per un reportage sulla Fiera che i lettori conoscono. Torniamo ora ad immedesimarci nel nostro viaggio post terremoto, tra i radicati nel territorio.

A quattro chilometri da Piano Roseto c’è Cortino, che organizza con Crognaleto la Fiera, è un paese animato, con la bella Chiesa della neve, dai tre finestroni alti e stretti nella parte centrale dell’imponente facciata, sotto il rosone, e due ancora più alti e stretti nelle parti laterali, del tutto inconsueti e di sicuro pregio. Un’altra testimonianza di arte e di storia oltre che di fede.

Proseguiamo per Frattoli, ci sono delle presenze stabili, vediamo un capannello di persone e le tende blu della Protezione civile. Trenta abitazioni sono state dichiarate inagibili. Non è, come credevamo, il paese che una leggenda metropolitana accomunava a “Non ci resta che piangere”, il noto film di Benigni e Troisi. Uno del capannello ci spiega che il paese citato nel film è Frittoli, in Toscana, se lo sa con tanta sicurezza vuol dire che non siamo i soli ad avere equivocato; accerteremo poi che proprio da Frittoli la coppia irresistibile parte per il suo viaggio nel tempo. Potremmo trovarci come in quel film nel 1492, il paese si presterebbe con le sue case di pietra, il suo campanile; soltanto non terminerebbe con il treno di Leonardo, neppure il suo genio sconfinato avrebbe potuto farlo arrampicare fin quassù. Supera i 1100 metri di altitudine, nel XIV secolo era sotto Amatrice, nel XVII nel feudo degli Acquaviva duchi di Atri. Anche qui la scultura in pietra, c’è l’ultimo scalpellino impegnato in camini e sculture, vi è una tradizione di intagli in legno.

Le chiese da visitare sono due, quella gotica di San Giovanni Battista con il campanile a tre ordini di campane e “le logge” seicentesche, un bel portico in posizione isolata, e quella di Sant’Antonio, restaurata nell’800; poi le rovine della chiesa della Madonna del Soccorso.

Macchia Vomano è una specie di fine corsa, si trova affondato nel verde e si deve tornare indietro per proseguire nel tour. Ma prima merita di essere vista la chiesa di San Silvestro, del XVI secolo.

Proseguendo arriviamo più a valle a Piano Vomano, 850 m di altitudine, molto antico con costruzioni del XIII secolo e l’abitato nato dall’abbandono nel XVI secolo del precedente insediamento in località Colle del Vento di origini preromane, attestato dai resti di mura megalitiche. Alla Chiesa di San Nicola, forse del XIV secolo, ampliata nell’ultima parte del 1700, fino a due anni fa si aggiungeva l’attrattiva della “Quercia Mazzucche”, una pianta secolare amata dai pochi abitanti del paese come una nonna centenaria, crollata d’improvviso, fa ripensare ai ben noti versi di Pascoli per “La quercia caduta”:“Or vedo: era pur grande!”,“Or vedo: era pur buona!”.

Cesacastina e Cervaro

Torniamo indietro, le maggiori sorprese devono arrivare. Sono tre, l’una diversa dall’altra, l’una più bella dell’altra. I loro nomi sono Cesacastina, Cervaro, Valle Vaccaro; e infine c’è Senarica.

Cesacastina innanzitutto. Un altro paese vero, nel senso di vivo oggi, perché tutti sono veri nel senso che sono stati vivi ieri. E anche oggi servono a mantenere la memoria e l’anima di questi luoghi, oltre a rappresentare un approdo turistico. L’abitato non è particolarmente antico e per trovare edifici del XVI secolo occorre andare nelle località Colle e Combrello; lì ci sono case in pietra con architravi incisi da motti e versi, e il simbolo dei gesuiti. La chiesa con pianta a croce è dei SS: Pietro e Paolo, con il bel campanile a tre ordini di campane, gli altari barocchi sono in legno dipinto. Anche qui le tende blu della Protezione civile, segno che il terremoto si è fatto sentire.

Lo scenario naturale è bellissimo, posta com’è tra la catena del Gran Sasso dal panorama mozzafiato, e il Monte Gorzano con le altre vette della Laga.

Subito dopo viene Cervaro, pure qui scatta il ricordo personale dell’insegnamento elementare di un’altra zia maestra. E’ un piccolo borgo, si estende per centocinquanta metri, è su uno sperone tra le vallate di due fiumi. Si vedono i segni di un’antica nobiltà nei portali e negli edifici di pregio, e non si tratta solo delle case di pietra che abbiamo visto ma di costruzioni importanti: in particolare il Palazzo Forcina-Nardi.

Sapevamo che è la patria di un illustre clinico, Bernardino Masci, eravamo stati alla celebrazione a Roma e avevamo avuto il suo bel libro autobiografico “Al servizio della vita umana”. E’ un grosso volume nel quale racconta le sue esperienze nella cura dei malati, un trattato di vita di allora; un libro prezioso che viene dato solennemente come esempio ai Laureati in medicina dell’Università cattolica di Roma. E’ autore anche del monumentale “Schemi di terapia”. La lapide e il busto del prof. Masci (“Roma dona al paese natio”) sono sulla parete dell’edificio principale del paese.

Di indubbio pregio la chiesa di Sant’Andrea, del XIV secolo, ampliata nella prima metà del 1600 e restaurata un secolo dopo fino alla risistemazione del 1800; notevole il soffitto dipinto del 1700. Ci parlano di resti di antichi mulini, dicono che si possono trovare nella valle del torrente Zincano.

Valle Vaccaro e Senarica

Riprendiamo il viaggio e approdiamo a Valle Vaccaro, un nome che richiama campi boari o luoghi simili. Ebbene, ci ha colpito questo piccolo abitato dalla forma raccolta e compiuta, restaurato mantenendo la sua rusticità e le altre caratteristiche che ne fanno un borgo medioevale adatto alle ricostruzioni storiche, intorno alla Chiesa di Sant’Antonio, restaurata già a fine ‘800.

Conoscevamo Castiglion della Valle vicino Colledara, sempre in provincia di Teramo, dove nel mese di agosto c’è ogni anno una “tre giorni” di rievocazione storica, la presenza della giovinetta Lucrezia Borgia con il suo innamorato braccata e difesa dagli abitanti del luogo, serate con cena d’epoca, sfilata in costume e spettacoli medioevali. Ebbene, Valle Vaccaro a suo modo si presta ad ambientazioni di questo tipo, ha una conformazione urbana che vogliamo rimarcare.

Siamo discesi lungo la via che si inerpicava e abbiamo proseguito lungo la Strada Maestra verso la zona di Campotosto e il passo delle Capannelle. Ma non intendiamo arrivare fin lì, ci fermeremo a Senarica, ultima tappa del nostro viaggio tra le frazioni di Crognaleto nel cuore dei Monti della Laga. La quota non né alta, solo 650 metri, ma l’abitato è sospeso sulla roccia in posizione inaccessibile, sopra al corso del Vomano. La posizione spiega la sua storia di piccola repubblica indipendente, alleata della Repubblica di Venezia alla quale forniva due soldati, con esenzione dai tributi come “zona franca”; lo testimoniano gli stipiti di alcuni portali nell’arenaria grigia della Laga. Pregevole la chiesa dei patroni S. Proto e Giacinto con statue lignee del XVI secolo.

I danni economici e morali e il rilancio

Termina con questo richiamo storico il nostro tour tra i borghi montani che fanno parte del Comune di Crognaleto, alla ricerca degli effetti del terremoto. Ne abbiamo trovati pochi negli esterni che abbiamo potuto vedere, ma abbiamo immaginato dalle tende negli spiazzi vicino alle abitazioni i danni all’interno; un interno che non è solo delle case ma soprattutto è psicologico, la paura di nuove scosse che fa restare fuori anche quando i muri hanno tenuto e le case sarebbero agibili.

Abbiamo parlato con il dinamico sindaco Giovanni D’Alonzo, esperto di protezione civile, appassionato di montagna e conoscitore dei suoi problemi: “Bisogna considerare in maniera appropriata il vero danno subito dal territorio e non solo di Crognaleto ma dell’intera montagna”, ci ha detto con forza. “Al danno economico si aggiunge il danno morale, che forgerà in maniera negativa per il prossimo decennio il già gracile tessuto socio-economico di cui vive la montagna”.

Lo ha spiegato con chiarezza: “Abbiamo impiegato dieci anni insieme al Parco Gran Sasso Laga per veicolare il messaggio positivo sulla vivibilità della casa in pietra e legno, sull’albergo diffuso: il terremoto in soli 20 secondi ha detto il contrario”. E non vi sono conseguenze di poco conto: “Ora occorre un grande lavoro per riaccendere questo entusiasmo, una pesante onere economico per il sostegno e il rilancio di quelle attività che già erano in un certo qual modo terremotate”. Per questo motivo, ha proseguito, “necessitava e necessita tutt’oggi l’inserimento di queste piccole e povere realtà all’interno del cratere del sisma per far sì che la vita continui all’interno di questo sistema che si chiama montagna”.

Non sembra sia avvenuto, aggiungiamo ora, ma si spera che non manchino le provvidenze regionali e comunitarie, è doveroso ripristinare la fiducia e procedere al rilancio. Fa ben sperare il nuovo orientamento annunciato con fermezza dal Commissario del Parco Arturo Diaconale alla Fiera della Pastorizia – davanti anche al sindaco di Crognaleto, organizzatore della manifestazione con il presidente Giustino Di Carlantonio della Camera di commercio di Teramo e con il sindaco di Cortino – di considerare prioritaria l’azione contro lo spopolamento, che necessita di interventi per rendere economicamente vivibile il territorio e preservarlo dall’abbandono e dal degrado.

Il sindaco D’Alonzo conosce le difficoltà: “La montagna, le zone interne soffrono una emorragia di spopolamento sempre maggiore; il sisma del 6 aprile ha quintuplicato questo fenomeno e si può cercare di contenerlo solo con un’attenta e controllata gestione e soprattutto con l’inserimento di sistemi economici che ridiano dignità a coloro che con grande forza di coraggio vivono condizioni o situazioni di disagio sociale nel restare sul proprio territorio senza abbandonarlo”.

Sulla realtà specifica di Crognaleto insiste amareggiato: “Non è sopportabile l’enucleazione di Crognaleto dal cratere del sisma quando territori più a valle del nostro usufruiscono invece dei benefici del famoso decreto Bertolaso numero 3. Necessita l’inserimento di queste piccole e povere realtà per mantenere la nostra entità ed esistenza nel sistema-montagna”. E non manca la denuncia: “Stiamo vivendo un silenzio da incubo, le Istituzioni Regionali e Governative hanno dimenticato queste zone, questa gente… un silenzio che fa male a chi crede nel proprio territorio e non vuole abbandonarlo per nessuna ragione”.

Parole dettate dall’emergenza che fanno meditare, questi segnali forti che sono venuti dal territorio vanno colti finché si è in tempo, per evitare costi ben più onerosi se la situazione viene compromessa. Sono messaggi chiari per il commissario del Parco Diaconale, per la autorità locali e per quelle regionali e nazionali, del resto la partecipazione alla Fiera del sottosegretario all’Interno Davico ha aperto uno spiraglio a livello nazionale, ha detto che porterà il Ministro dell’agricoltura e che la difesa identitaria delle presenze nel territorio va finanziata anche come fatto culturale.

Tornando all’immediato, se una valutazione si può fare è che la stagione estiva non deve ritenersi compromessa. La ricettività è minore, ma i servizi turistici sono tornati a funzionare, lo abbiamo constatato di persona. Non sempre l’accoglienza è la stessa, però si deve considerare che nulla è stato toccato delle attrattive che richiamano folle di visitatori stabili o di passaggio. Soccorrono formule diverse e più flessibili con un obiettivo: favorire comunque la fruizione delle bellezze naturali, mantenerne il richiamo con la soluzione pragmatica dei nuovi problemi, di ordine ricettivo e logistico. Facendo appello alla creatività e all’inventiva tutto diventa possibile, e lo si vede.

Detto questo, dobbiamo riconoscere che la nostra ricognizione sugli effetti del terremoto ha assunto presto un significato diverso, si è risolta nella riscoperta di un mondo affascinante: i panorami mozzafiato in alcuni paesi, la vitalità permanente in altri, i pregi architettonici e urbani in altri ancora. E anche i borghi con minori attrattive non sono apparsi soltanto parti dell’“albergo diffuso” di cui si è detto, ma come sedi della memoria e dell’anima collettiva che dà allo spirito dei luoghi il necessario calore. Non si potrà dire di questi luoghi che sono belli senz’anima.

C’è l’anima di chi li ha costruiti e ci ha vissuto, nella difficile lotta per la sopravvivenza, con gli inverni che non finivano mai tra stenti di ogni tipo; ai quali seguiva però il risveglio della primavera e l’esplosione dell’estate. L’anima di chi ha dovuto lasciarli nel cammino della speranza dell’emigrazione che lo ha portato lontano dalla sua terra, alla quale però ha sempre rivolto un pensiero accorato di nostalgia e di affetto, tornandovi quando ha potuto. L’anima che pervade questa terra d’Abruzzo e ha reso i suoi figli forti e gentili, forti e fieri, capaci di “volontà ferma e di persistenza e di resistenza”, come disse Benedetto Croce nell’agosto del 1910 rivolto “agli amici di Pescasseroli” dal balcone della casa natale, il Palazzo Sipari. Dopo i tanti anni di Napoli, colmi di riconoscimenti alla sua grandezza, rivelò che nei momenti critici, quando stava per lasciarsi andare preso da una filosofia della vita accomodante e rassegnata trovava nelle sue origini la forza di reagire dicendo a se stesso con un sussulto d’orgoglio: “Tu sei abruzzese”!

Bene ha fatto la Regione Abruzzo a utilizzare le parole del grande filosofo come sferzata di energia e degno sigillo alla ricostruzione dopo il terremoto. Per questo vogliamo riportarle integralmente: “Quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e di resistenza io mi sono detto a voce alta: Tu sei abruzzese!”.

Dopo questo itinerario nella natura e nella memoria ci appaiono ancora più attuali. I nati nella terra che abbiamo attraversato potranno ripeterle orgogliosamente a se stessi. E noi con loro.

Tag: Alvi, Cervaro, Cesacastina, Frattoli, Piano Roseto, Poggio Umbricchio, San Giorgio

1 Commento

  1. Bruno Toscani

Postato settembre 27, 2009 alle 6:00 PM

Ho provato una grande commozione leggendo questo articolo. Sono nato a Cesacastina vi ho vissuto l’infanzia, mio padre e mia madre che ha lavorato come tutti coloro nati e vissuti in questi luoghi dall’alba al tramonto,ha fatto di tutto per darci una degna istruzione e soprattutto l’educazione tra mille difficoltà.
Con grandi sacrifici ha fatto studiare me e i miei fratelli. Adesso con le nostre famiglie non viviamo più a Cesacastina. siamo altrove ma il nostro paese è sempre nel nostro cuore, ogni tanto vi torniamo c’è la casa paterna che ci aspetta e rappresenta la nostra identità che non rinnegheremo mai.
Un intera generazione purtroppo è dovuta fuggire non c’era posto per tutti , un plauso a coloro che ancora resistono saranno loro che salveranno l’identità di questi aspri e meravigliosi luoghi.
Speriamo che i nostri figli apprezzino i sacrifici dei padri e dei nonni e non faranno scomparire i tesori che nascondono questi luoghi negli anni futuri.