Sublimi anatomie, e Dizionario folle del corpo, scienza e arte al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La  mostra “Sublimi anatomie”  presenta al Palazzo Esposizioni, dal 20  ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 una serie di opere artistico-scientifiche sul corpo umano di cui l’anatomia ha rivelato gli aspetti nascosti, collegate al percorso culturale dal XIV sec. illustrato nei pannelli esplicativi.   La mostra è stata curata da  Andrea Carlino e Philippe Comar, Anna Luppi, Vincenzo Napolano e Laura Perrone. Per tutto il  periodo dell’esposizione una serie di conferenze e “performance” nell’aula anatomica” ricostruita nella rotonda centrale.  Collegata la mostra al piano  superiore “Katy Couprie. Dizionario folle del corpo”.  Sono in programma laboratori, corsi e incontri.

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Ecotomografia luminosa del corpo umano

Al Palazzo Esposizioni  è stata esplorata  “la matrice prima della vita” con la mostra “DNA” del 2017, poi si è proiettato “il futuro della nostra specie” con la mostra “Human” del    2018. Ora,  con  “Sublimi anatomie”,   si compie un ”viaggio tra passato e presente, tra scienza e arte nella contemplazione del corpo umano”, così la presentazione. Viene rievocato  lo stupore suscitato dalle scoperte delle parti del corpo, da quelle visibili a quelle più nascoste rivelate dall’anatomia. Il “Dizionario folle del corpo” di Katy Couprie correda e integra la ricognizione artistico-scientifica.

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Due tavole anatomiche a figura intera

Perché sublimi anatomie

“L’anatomia è l’inizio della Teologia, è il punto di accesso all’agnizione di Dio”, scrisse intorno al 1500 il teologo protestante Filippo Zelantone, e questo perché la conoscenza approfondita della macchina umana è  una prova delle meraviglie della creazione. Ma c’è anche la concezione laica, altrettanto significativa,  “conosci te stesso”, l’imperativo socratico, si trova come iscrizione in  molte tavole anatomiche, la mente  e l’anima sono uniti al corpo nella visione filosofica Anche nell’età moderna è restato vivo l’interesse al corpo umano, fonte di sempre nuove scoperte.

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La bellezza statuaria greca come riferimento ideale

La qualifica di “sublime” data all’anatomia, che troviamo nel titolo della mostra, ha origini storiche, anche se meno antiche,  risale al 1840 l’istituzione da parte di Pietro Leopoldo  all’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova  della cattedra di “Anatomia Sublime e delle Regioni” passata nove anni dopo a Filippo Pacini, professore da due anni all’Accademia Belle Arti di Firenze di “Anatomia pittorica”, qualifica espressiva dell’interesse dell’arte per il corpo anatomico. Un interesse questo che risale all’Accademia del disegno fondata da Giorgio Vasari, nel 1583, nella quale si faceva la dissezione dei corpi  per insegnare la relativa raffigurazione; del resto Leonardo  è stato un maestro al riguardo nei suoi manoscritti con i disegni particolareggiati di tante parti anatomiche.

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Louis Thomas Auzoux, “Manichino intero d’uomo” n. 1, 14° sec.

Tornando al “sublime”,   è un concetto di origini antichissime, nasce con il “Trattato  del Sublime”, forse di Pseudo_Longino del I sec. d.. C.,  come superiore al “Bello” per la sua maggiore forza persuasiva; si riferiva al fascino dell’ascolto di un retore che “trascina gli ascoltatori non alla persuasione ma all’estasi “ e dà “un senso di smarrimento” prevalendo su ciò che è logico, mentre “conferendo al discorso un potere  e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore”, addirittura “il sublime è come un fulmine”.

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Louis Thomas Auzoux, “Manichino intero d’uomo” n. 2, 14° sec.

In tempi meno lontani, il  movimento romantico, con Kant e Schopenauer  gli ha dato una posizione di rilievo nella filosofia e gli artisti non ne sono  rimasti insensibili; il “Sublime” viene contrapposto al “Bello”. Frequente l’attribuzione di connotati drammatici, non più estetici, addirittura  è ritenuto “l’orrendo che affascina”,  e in quanto tale  fonte di terrore e “della più forte emozione che l’animo sia capace di sentire”, e certamente  le dissezioni anatomiche suscitavano queste reazioni e questi sentimenti estremi.

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Paolo Mascagni, “Anatomiae Universae Icones”, maschile, 1823

Inoltre il concetto di “Sublime”  viene posto in primo piano anche nella celebrazione della grandezza di Dio e della profondità dell’io, visto come forza persuasiva e come momento irresistibile; e a parte i riferimenti alla retorica oratoria sono sempre alla ribalta il corpo umano e l’anatomia che lo esplora.

Di qui il titolo della mostra e la presentazione in ciò che viene esposto  nelle gallerie a raggiera intorno alla rotonda centrale di quanto la scienza e l’arte hanno elaborato sulla base di ciò che l’anatomia ha fatto scoprire del corpo umano  esaminato nelle diverse condizioni, parti e situazioni.

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Paolo Mascagni, “Anatomiae Universae Icones”, femminile, 1823

Ma non c’è soltanto questo nella mostra. Nella rotonda centrale è stata ricostruita una sorta di “aula anatomica” nella quale si svolgono nel periodo espositivo, a ritmo incalzante, lezioni di disegno, lezioni magistrali e lezioni di danza, performance e conferenze, nel clima creato dal contorno artistico-scientifico. Il tutto con i più qualificati esponenti italiani ed internazionali delle diverse discipline interessate.     

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Vetrine con sttaue ceroplastiche adagiate su materasso

Anatomisti e artisti uniti nel rivelare le “interiora corporis

L’inizio del XIV sec. segna l’avvio della pratica di dissezione del corpo umano superando gli ostacoli di natura religiosa; le “interiora corporis” sono fondamentali per conoscerlo,  ma nel periodo medioevale ciò avveniva senza immagini, per cui l’opera degli anatomisti era destinata ad essere dimenticata.  In seguito agli anatomisti si affiancarono gli artisti e, con il Rinascimento,  questi ultimi si interessarono notevolmente, come vediamo nei maggiori maestri, Leonardo e Michelangelo, perfino Raffaello e i Carracci. 

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Ceroplastica, Statua femminile giacente nella quale si espone ila distribuzione dei Vasi linfatici, delle Pelvi, del Fegato, deli Ventricoli, dei Bronchi e delle Mammelle, fine 18° sec.

Nei volumi di anatomia venivano inserite illustrazioni,  300 nel primo trattato “De umani corporis fabrica” del 1543 opera forse di  Calcar della bottega di Tiziano,  quindi nascevano dalla collaborazione tra anatomisti ed artisti fino alla metà del XIX sec. Mentre all’inizio venivano sottolineati gli aspetti macabri della dissezione, poi diventarono più accettabili  e le riproduzioni di immagini piane su atlanti scientifici toglievano ogni pathos alla raffigurazione.

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Giovan Battista Manfredini, “Statua in terracotta dipinta raffigurante una donna alal seconda gravidanza (secondipara) con addome pendulo”. 2^ metà 17° sec.

Vediamo nella  galleria espositiva il plastico dell’Aula di Anatomia di Bologna, poi delle  pagine di un Atlante di anatomia, “Anatomiae Universae Icones di Paolo Mascagni e Antonio  Serantoni, con la testa e le varie parti del corpo, e due figure intere in trasparenze anatomiche senza alcun effetto straniante.

Inoltre delle rappresentazioni molto diverse dell’intero corpo umano a grandezza naturale, una Ecotomografia   luminosa con l’evidenza dei  muscoli negli arti e degli organi interni  e, questa volta in rilievo, un ”Manichino intero d’uomo” in due diverse posizioni, con disegnato il sistema venoso sul colore rosato della carnagione, autore Louis Thomas  Auzoux del XIX sec.

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Giovan Battista Manfredini, “Statua in terracotta dipinta raffigurante una donna a cui sono state asportate la cute, le tele sottocutanee del torace, le mammelle e il muscolo grand epettorale destro”, 2^ metà 17° sec.

Non fu semplice, nelle prime fasi,  operare le riproduzioni anatomiche per la difficoltà di avere a disposizione un cadavere,  inoltre sorsero subito problemi di natura estetica per gli artisti a seguito del  dettato aristotelico secondo cui l’arte non deve essere una “mimesi” della natura che si limita a copiarla, ma deve idealizzarla e per nobilitarla apportare anche le correzioni, per questo si tendeva addirittura ad ispirarsi alla statuaria greca. Il cadavere, anche se “scarnificato” doveva avere una propria dignità nel XV e XVI sec., poi al  messaggio di ”memento mori” seguì una visione più inquieta della vita, con la coppia  eros-thanatos mentre era vivo il problema di conciliazione tra precisione scientifica e invenzione artistica.

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Giuseppe Perrone, “Avvolgere la terra”, n. 1, 2016

In questo contesto si collocano le riproduzioni in ceroplastica, che risalgono all’istituzione a Firenze nel 1775  del Reale Museo di Fisica e Storia Naturale, poi intitolato “La Specola”,   con un’Officina di ceroplastica, in cui lavoravano specialisti ceroplasti  con medici anatomisti, come Pietro Mascagni e Felice Fontana. L’imperatore d’Austria Giuseppe II ne commissionò 1200 pezzi dando lavoro per cinque anni all’officina, anche Napoleone dopo una visita al Museo nel 1796 fece un cospicuo ordinativo. Il direttore del Museo nel 1808, Girolamo dei Bardi,  parla così negli Annali del Museo della ceroplastica: “E’ la Bell’Arte d’imitare in cera ogni sorta di anatomiche preparazioni dirette  a mostrare nel suo insieme  e nei suoi dettagli il meccanismo mirabile della macchina umana e delle sue funzioni”.

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Giuseppe Perrone, “Avvolgere la terra”, n. 2, 2016

Al riguardo, va considerato che tali opere  furono giudicate, nelle varie fasi storiche,  “imitazioni ingannevoli” della natura, perchè contrarie all’idea di arte idealizzatrice,  nonostante il successo che ebbero  nel  XVII sec. con migliaia di visitatori – erano nate all’inizio di tale secolo – e poi opere che mentre assicuravano la massima veridicità scientifica assurgevano in molti casi a una  qualità artistica anche elevata. 

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Diego Perrone, “Senza Titolo”, 2016

Oggi si ritiene che l’opera in ceroplastica  modellata sul corpo reale ne  recepisca le proprietà ponendosi non come copia ma come “doppio” con la sostituzione del corpo o di parte di esso; quindi non si tratta più di un semplice manichino di cera ma di un qualcosa di molto vicino al reale come negli “ex voto”. Così la presentazione: “Le statue anatomiche in cera in ogni epoca evocano sempre un profondo disagio dell’osservatore, in quanto immagini repliche dei corpi hanno il potere di instaurare un dialogo diretto, senza il filtro, di metafore o allegorie, col nostro vissuto”.

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Una scultura evocativa di torso umano

Una  sala della mostra è dedicata a vetrine contenenti ceroplastiche del Museo fiorentino prima citato, “La Specola”,  con quanto  di misterioso si è impresso in quelle figure umane di cera, “capaci, cioè – è sempre la presentazione – di diventare carne o simulacro di essa e d’imprigionare dentro di sé i propri fantasmi”.

“Interiora corporis”

Tornando all’esplorazione anatomica, viene osservato che il corpo umano “è stato per molti secoli come entità chiusa, dalle mirabili forme esteriori  ma abitato da interiora misteriose e inaccessibili”  E a questi aspetti intimi  quanto reconditi veniva associato “un potente apparato simbolico-mitologico, la cui decifrazione è complessa e talvolta sfuggente”.  Gli Atlanti anatomici di cui si è detto  cercavano di mettere ordine alla parte “informe, tutto ciò che del corpo dovrebbe restare segreto e nascosto, perché una volta svelato rischierebbe di declassare la mirabile fabrica umana a povera matrice corruttibile”.  

Dopo le “interiora corporis”, la parte superficiale, la pelle

Quello che viene definito “intus anatomico” viene studiato soprattutto dall’inizio del XVII sec., attribuisce al cuore  e all’apparato circolatorio la fonte della passione e della sensibilità; notevole interesse negli studi sul corpo femminile in particolare sull’apparato riproduttivo, non più in relazione all’uomo ma considerati in modo  diretto e autonomo.  Vediamo esposta una serie di statue  di terracotta di Giovan Battista Manfredini, con una donna incinta  e una donna cui sono state asportate la cute e altre parti del busto.

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Altra evidenza della parte superficiasle, la pelle

La Chiesa non ostacolava più gli studi   anatomici e le raffigurazioni degli artisti come “rivelazione della presenza divina modellata sulla forma umana”  espressa, quindi, non solo dall’esterno ma anche dalle parti interne. Ignazio di Lodola, nei suoi “Esercizi spirituali” invita a contemplare la ferita al costato di Cristo sulla Croce perché  da quall’apertura, come una bocca, si  vede all’interno il suo cuore fonte di vita eterna.

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L’architettura corporea come un’armatura

Si va anche oltre la dissezione anatomica con la visione del “corpo trasparente”, cioè vivente, i cui disegni diventano espressione scientifica oltre che artistica,  come avviene nei disegni di  Leonardo. Entrando nei dettagli viene sollevato il tema dell’Intelligenza sensibile”: parte dal cervello e  trasforma i suoi impulsi nervosi in azioni  attraverso “corpuscoli” che facendo contrarre i muscoli azionano gli arti, in un rapporto tra mente e  mano alla quale va il compito di tradurre il pensiero nel gesto che incide sulla realtà, come teorizzato da filosofi come Heidegger e Derida.  La concordanza tra linguaggio e gesto si traduce nel disegno con il ruolo di sintetizzare  il pensiero.

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Una statua del corpo umano nella sua interezza

Si passa alla parte più superficiale, la pelle, con la “percezione aptica”,  più penetrante della percezione visiva: non si può definire né di origine esterna né interna, comunque con il contatto corporeo consente di “vedere” la realtà in modo più diretto che con la vista.  Il corpo, si legge nella “Fenomenologia della conoscenza”  del filosofo Merle  du-Ponty, è strumento di conoscenza attraverso l’esperienza pratica con cui entra in contatto e trasferisce la percezione a livelli più profondi. “La mano che tocca è allo stesso tempo toccata, in un gesto che trasforma ciò che percepisce in ciò che è percepito e viceversa”.  Questi concetti restano importanti nell’attuale era digitale, dove i “filtri tecnologici” alterano la nostra percezione allontanandola dalla nostra soggettività  resa invece dalla percezione materiale sensibile del corpo.

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Jacques Fabien Gautier d’Agoty, “Mytologie complète en couleur et grandeur naturelle”, Paris 1746

In questa logica  che valorizza la sapienza manuale si colloca il passaggio dall’evoluzione culturale legata al linguaggio  a un’evoluzione tecnica legata alla scienza, dall’automazione  novecentesca alla digitalizzazione attuale fino all’intelligenza artificiale con la crescente perdita di contatto con la realtà.   Questo ha portato a una “rilettura delle convenzioni artistiche, tecniche e culturali”,  in modo da “elevare il corpo sensibile  a mezzo puro e autentico, matrice del gesto minimo e primitivo”, portando di nuovo alla base della conoscenza più autentica la “relazione tra soggetto e soggetto,  interno ed esterno, uomo e natura”.

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Luca Francesconi, “I live because I digest – I am no longer live because I did not cultivate – I am ground good”, n. 1, 2016

Artisti impegnati in tale ricerca sono Giuseppe Pennone, un contemporaneo del quale vediamo esposte  delle opere scultoree della serie “Avvolgere la terra”, 2014,  in cui il corpo è visto come una forma primaria di scultura, consiste nel “fossilizzare la fluidità di un gesto, lasciare una traccia, solidificare l’immagine prodotta dai punti di contatto tra materia e mano”; e Diego Perrone con opere “Senza titolo”, 2016,  nelle quali, “grazie alle trasparenze che si vengono a formare, le sculture restituiscono la visione di un paesaggio  liminale che si situa tra interno ed esterno, tra pensiero ed epidermide, tra virtuale ed invisibile”.

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Luca Francesconi, “I live because I digest – I am no longer live because I did not cultivate – I am ground good”, n. 2, 2016

Si pongono sul confine tra due visioni anche le sculture in bronzo di Luca Francesconi che vediamo esposte in mostra, riguardano le relazioni tra il mondo umano e quello agricolo. Sono intitolate: “I live because I digest – I no longer live, because I did not  cultivate – I am good ground”, 2016.

Ancora più recenti, del 2017, i dipinti  a olio su cartone “Fire from the Sun”, di Michael Borremans, esposti, con dei bambini che giocano, in un’atmosfera primordiale e inquietante,  tra pezzi di corpi adulti, un limite anche qui tra due mondi:  “nascondono, sotto le rassicuranti figure dell’infanzia, una condizione umana che viene rappresentata qui come determinata  e brutale”.

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Michael Borremans, “Fire from the Sun”, 2017

Sono limiti molto diversi, confini tra mondi che si toccano, nei quali si riflette  l’ansia di esplorare l’ignoto nell’arte come nella scienza e nello stesso tempo l’inquietudine contemporanea. Questo  viaggio che la mostra fa compiere all’interno del corpo umano, con le evidenze artistiche in cui si esprime il cammino compiuto, rende appieno questi motivi e questi sentimenti.   

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Sala con video evocativi del corpo, al centro la scultura di
Berlinde De Bruyckere, “We Are All Flesh”, 2009-10

Il Dizionario folle del corpo di Katy Couprie

Un collegamento ideale possiamo crearlo con l’esposizione al piano superiore  “Katy Couprie. Dizionario folle del corpo”,  una mostra-laboratorio  anch’essa collegata a visite, incontri, corsi, sul “vocabolario visivo che racconta il corpo  umano in tutti i suoi aspetti mescolando l’anatomia con la poesia, le azioni con le emozioni, i modi di dire con le citazioni letterarie”. Sono esposti disegni, incisioni e fotografie con varie tecniche  che, sono ancora parole della presentazione, “raccontano organi, muscoli, ossa, ma anche risate, lacrime e acrobazie per restituire al corpo la sua interezza e complessità, esteriore e interiore”.

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Dizionario folle del corpo, , “Un gran cuore con le sue ragioni”

E’ tutto quello che la mostra “Sublimi anatomie” ha raccontato  a sua volta con la suggestiva carrellata nell’esplorazione del corpo umano come risultato  della stretta collaborazione tra anatomisti e artisti nel dar vita alle espressioni visive  di vario genere prima commentate. Agli “eventi” nell'”aula anatomica” della sede espositiva, cui si è accenanto, si aggiungono le visite e i laboratori, i corsi e incontri per bambini, ragazzi e adulti sul “Dizionario folle del corpo”, in un impegno divulgativo di notevole spessore culturale.

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Dizionario folle del corpo, “Diversi tipi di cellule in costume da parata”

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale, 194. Orario ore 10,00-20,00 tutti i giorni di apertura con prolungamento alle 22,30 venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso euro 12,50, ridotto 10,00 (under 26 e over 6) ed euro 6 (7-16 anni e martedì-venerdì dalle ore 18), gratuito under 6 anni; condizioni particolari per speciali categorie e convenzioni. Brochure: “Sublimi anatomie, La meccanica dei mostri, Katy Couprie”, Palazzo delle Esposizioni, Public program, ottobre 2019, pp. 55, 1^ parte pp. 1-27, e 3^ parte pp. 40-43. Cfr. i nostri articoli, sulle mostre contemporanee “La meccanica dei mostri. Da Carlo Rambaldi a Maknarium” e “Tecniche d’evasione” , uscirà il prossimo 4 gennaio 2020; sulle mostre citate all’inizio, in www.arteculturaoggi.com, “Human” 17 maggio 2018, “DNA” 29 marzo 2017. Sugli artisti citati nel testo, in questo sito Leonardo 4 giugno 2019; in www.arteculturaoggi.com, Tiziano 10-15 maggio 2013, Michelangelo (e Rafffaello) 12, 14, 16 febbraio 2013, Carracci (e Caravaggio) 5, 7, 9 febbraio 2913; in cultura.inabruzzo.it, Leonardo (e, il primo, anche Michelangelo), “Roma. La grafica di Leonardo e Michelangelo a confronto” 6 febbraio 2012, “Il ‘Musico’ di  Leonardo vicino al Marc’Aurelio” 23 febbraio 2011, “L’Uomo Vitruviano, ‘one man show in mostra” 11 gennaio 2011, “Leonardo da Vinci a Palazzo Venezia”  6 luglio 2009, ”’Leonardo e l’infinito’, “trenta macchine funzionanti” 30 settembre 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini – tranne le ultime 3 tratte dal sito del Palaexpo – sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione delle due mostre, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 25 immagini sono su Sublimi anatomie”, le 3 successive su “Katy Couprie. Dizionario folle del corpo”. Sulla prima mostra, in apertura, “Ecotomografia luminosa del corpo umano“; seguono, Due tavole anatomiche a figura intera e La bellezza statuaria greca come riferimento ideale; poi, Louis Thomas Auzoux, “Manichino intero d’uomo” n. 1, e idem n. 2, 14° sec.; quindi, Paolo Mascagni, “Anatomiae Universae Icones”, maschile e idem femminile 1823; inoltre, Vetrine con statue ceroplastiche adagiate e Ceroplastica, Statua femminile giacente nella quale si espone ila distribuzione dei Vasi linfatici, delle Pelvi, del Fegato, deli Ventricoli, dei Bronchi e delle Mammelle, fine 18° sec.; ancora, Giovan Battista Manfredini, “Statua in terracotta dipinta raffigurante una donna alla seconda gravidanza (secondipara) con addome pendulo”., e idem, “…raffigurante una donna a cui sono state asportate la cute, le tele sottocutanee del torace, le mammelle e il muscolo grande pettorale destro”, 2^ metà 17° sec; continua, Giuseppe Perrone, “Avvolgere la terra”, n. 1, e n. 2 entrambi 2016; prosegue, Diego Perrone, “Senza Titolo” 2016, e Una scultura evocativa di torso umano; poi, “Interiora corporis” e Dopo le “interiora corporis” la parte superficiale, la pelle; quindi, Altra evidenza della parte superficiale, la pelle e L’architettura corporea come un’armatura; inoltre, Una statua del corpo umano nella sua interezza; e Jacques Fabien Gautier d’Agoty, “Mytologie complète en couleur et grandeur naturelle” 1746; ancora, Luca Francesconi, “I live because I digest – I am no longer live because I did not cultivate – I am ground good”, n. 1 e n. 2 entrambi 2016; continua, Michael Borremans, “Fire from the Sun” 2017, e Sala con video evocativi del corpo, al centro la scultura di Berlinde De Bruyckere, “We Are All Flesh” 2009-10. Sulla seconda mostra, Dizionario folle del corpo, “Un gran cuore con le sue ragioni” , e “Diversi tipi di cellule in costume da parata” ; in chiusura, La Copertina del “Dizionario folle del corpo”, locandina della mostra.

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La Copertina del “Dizionario folle del corpo”, locandina della mostra

Fumetti nei Musei, l’iniziativa del MiBACT in mostra all’Istituto della Grafica a Roma

i Romano Maria Levante

La 2^ edizione dei “Fumetti nei Musei” espone, nell’Istituto della Grafica a Roma, dal 12 dicembre 2019 al 16 febbraio 2020, 29 album con le storie disegnate da alcuni dei maggiori artisti creativi del genere, ambientate nei Musei italiani. L’iniziativa, ideata e promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, è stata realizzata con  Coconino Press – Fandango e il supporto di Ales S.p.A., la società “in house” del Ministero e del “Centro per i servizi educativi”, sempre del MiBACT.  Sono intervenuti il ministro Dario Franceschini con il Direttore generale Musei del ministero Antonio Lapis, il direttore della Coconino Press Fandango, Ratigher, la direttrice dell’Istituto Centrale per la Grafica Maria Cristina Misiti, introdotti dal Capo Ufficio Stampa del Ministero Mattia Morandi, presenti il presidente A. D. di Ales S. p.A. Mario De Simoni e i Direttori dei Musei. Nelle festività fino a Capodanno si sono avuti 3000 visitatori.

La Locandina della mostra

      L’iniziativa nella presentazione dei promotori.

Con i 29 nuovi album prodotti nell’attuazione del programma mediante la collaborazione attiva del MiBACT attraverso le sue strutture museali, la propria società di servizi qualificati e il Centro per i servizi educativi, il “corpus” fumettistico ambientato nei Musei raggiunge le 52 creazioni, dato che nella 1^ edizione sono stati già prodotti 22 album da altrettanti artisti e case editrici. Tale edizione, i cui risultati sono stati presentati nel febbraio dello scorso anno, è risultata vincitrice del premio Gran Guinigi per la migliore iniziativa editoriale 2018 del Lucca Comics & Games il cui direttore, Emanuele Vietina,  l’ha definita “un progetto unico nel suo genere”  imperniato su “una relazione fra artisti, istituzioni e imprenditori della cultura che ha dimostrato quanto la nona arte, il fumetto, possa contribuire alla conoscenza del patrimonio artistico e monumentale”.

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Gud, Parco Archeologico Appia Antica, Roma

L’importanza dell’iniziativa è testimoniata dall’impegno del ministro Dario Franceschini che, per una felice combinazione, ha presentato sia la prima che la seconda edizione, tra le quali c’è stato l’interregno del ministro Bonisoli.  E ne ha parlato in termini di svolta, collegandola alle altre iniziative di sostegno all’arte contemporanea – come  il premio di Italian Council per il quale è stato annunciato lo stanziamento di 1,3 milioni di euro – nella quale sono inclusi a pieno titolo i Fumetti. “L’Italia ha sempre eccelso nel settore della tutela -ha affermato Franceschini  divenendo un esempio in tutto il mondo. È arrivato il momento di aggiungere a questo investimento una grande attenzione alla contemporaneità, finora trascurata».

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Gud, Particolare

Inoltre ha sottolineato come l’iniziativa consente il coordinamento dei due momenti, entrambi fondamentali, uno di conservazione del patrimonio passato, l’altro di promozione dell’arte contemporanea: «Questo progetto, oltre a raccontare i musei con un nuovo linguaggio e lasciare libera la fantasia di alcuni tra i migliori fumettisti italiani, dimostra anche come investire sulla tutela e sul passato possa essere un’occasione per dare maggiore impulso alle industrie culturali e creative e ai giovani artisti. Un progetto innovativo al quale il Ministero tiene molto». Oltre a queste considerazioni generali il Ministro ha parlato in modo specifico della mostra e ha concluso rendendo omaggio agli artisti impegnati nella creazione dei Fumetti ispirati ai Musei leggendo tutti  i loro nomi al termine della presentazione. 

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Risuleo e Pronostico, Parco Archeologico di Ostia Antica, Ostia

Il Direttore generale dei Musei, Antonio Lampis, si è soffermato sulla collaborazione fornita nel fecondo incontro tra gli artisti del Fumetto e i Musei nei quali ambientare le loro storie, due mondi così diversi che si sono incontrati nel comune intento di raggiungere un elevato risultato culturale. Lampis è impegnato in un’opera di  profondo rinnovamento del sistema museale, ne  parlò il 17 ottobre 2018  al convegno di Civita sulla “Cultura come diritto di cittadinanza”. Sostenne che la cultura va considerata un diritto di tutte le persone che vivono nel territori, e va collegata  alla casa, alla scuola  e agli altri diritti;  pertanto  i Musei,  nei quali si esprime maggiormente l’accesso popolare alla cultura, vanno  ritenuti servizi pubblici essenziali.  A questa prospettiva si collega l’attuale  iniziativa che amplia notevolmente il raggio di diffusione tra i giovani attirandoli maggiormente nei Musei.

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Risuleo e Pronostico, Particolare

Il “Sistema unico dei Musei”, al quale tende il rinnovamento in atto, “flessibile, leggero e veloce”, introduce notevoli innovazioni nell’impostazione e gestione museale, tra le quali  ci sembra attinente al programma “Fumetti nei Musei”. La nuova  “narrazione museale” deve presentare le opere esposte in rapporto con  gli ambienti di provenienza nelle forme più appetibili anche per le giovani generazioni per far  conoscere il nostro  patrimonio culturale alle fasce rimaste escluse: linguaggio, allestimenti e contenuti vengono rinnovati per  questi obiettivi.

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Roberta Scomparsa, Parco Archeologico di Ercolano

Ebbene, il linguaggio dei Fumetti è particolarmente adatto ad avvicinare soprattutto i giovanissimi ai Musei rompendo quel diaframma che neppure gli appositi Laboratori  riescono a superare; e se i Musei entrano nei contenuti delle storie fantastiche che li affascinano la simbiosi è completa. E’ un risultato straordinario perché nell’immaginario collettivo “Fumetti nei Musei” è un ossimoro, due mondi  a distanza siderale: i Musei sono la quintessenza della serietà e della tradizione, il regno degli adulti, rivolto al passato, anche se si cerca di interessare i ragazzi con laboratori;  i Fumetti invece evocano la fantasia senza freni e l’anticonformismo, il regno dei giovani proiettato nel futuro. D’altra parte, la formula è stata già applicata in Francia per il Louvre e il Museo d’Orsay con la pubblicazione di volumi a fumetti, ma da noi ora è estesa alla vasta rete museale del nostro paese. 

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Roberta Scomparsa, Particolare

Il direttore della Coconino Press Fandango, Ratigher, a sua volta ha affermato: “I fumetti di questa collana sono liberi, coraggiosi, esagerati e prendono molto seriamente il loro ruolo di araldi di tutto ciò che di libero, coraggioso ed esagerato custodiscono le collezioni e i luoghi dei musei italiani”. Da qui sono nate le storie raccontate nei fumetti, che esaltano “l’eccellenza dell’ingegno, l’anticonformismo rivoluzionario delle avanguardie, gli uomini e le donne che hanno dedicato la vita alla custodia del patrimonio artistico italiano”; ma non c’è nulla di agiografico, si prende lo spunto anche da “episodi minimi, storie di incontri fortuiti con grandi opere, lo stupore di chi ancora non ha la cultura e che da oggi inizierà a pretenderla”. Questo sui contenuti delle storie narrate, sulla forma espressiva Ratigher cita “un campionario di stili diversissimi, fotografia dell’inebriante momento che il fumetto italiano sta attraversando”. E conclude con un invito intrigante: “Visitiamo i musei, leggiamo i fumetti e da oggi possiamo anche visitare i fumetti e leggere i musei”.

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Silvia Rocchi, Zona archeologica di Canne della Battaglia

Da oggi ma per proseguire,  non è un’iniziativa transitoria, si guarda già avanti: «Fumetti nei musei è un progetto in continua evoluzione che, potenzialmente, può raccogliere tutte le collezioni dei musei italiani e stiamo già pensando di coinvolgere anche altri musei, a partire dai sette diventati ora autonomi con la nuova organizzazione del Ministero», ha dichiarato  il Responsabile stampa e comunicazione del MiBACT, Mattia Morandi. «L’intenzione è non fermarsi qui, c’è un mondo inesplorato che la creatività dei fumettisti italiani può ancora raccontare con vivacità e simpatia».

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Miguel Angel Valdiva, Museo Archeologico Campi Flegrei, Baia

Dalle mostre romane sui fumetti alla mostra sui Fumetti nei Musei

Ai Fumetti sono state dedicate a Roma negli ultimi anni importanti mostre che hanno consentito di constatarne la penetrazione e la diffusione. Nel 2019  per l’Italia il Festival dei Fumetti al  Macro Mattatoio nel mese di maggio, per il quadro internazionale la rassegna “Romics” alla Fiera di Roma in  ottobre; tra ottobre 2017 e gennaio 2018 “Mangasia” al Palazzo delle Esposizioni aveva  consentito di immergersi nel contesto spettacolare e coinvolgente del fumetto asiatico, soprattutto giapponese, particolarmente fiorente sia sotto l’aspetto editoriale sia per i contenuti.

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Miguel Angel Valdiva, Particolare

In Giappone dal punto di vista editoriale vengono pubblicate serie per le  diverse fasce di età,  la rivista a fumetti più diffusa vende  quasi due  milioni di copie a settimana; oltre alle riviste,  dagli anni ’20 si pubblicano libretti per bambini e adulti diffusi nelle biblioteche circolanti, le vendite di fumetti “Manga”  raggiungono  3,5 miliardi di  dollari. I contenuti sono dei  generi più vari, dai sentimenti agli eroismi, dalle leggende  e tradizioni alle rievocazioni della storia patria; possiamo dire che il nostro “Fumetti nei Musei” rientra in questo loro spirito anche storicistico e celebrativo.

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Alessandro Sanna, Museo Archeologico Nazionale ‘G. Asproni’, Nuoro

Sotto il profilo artistico  i fumetti giapponesi sono stati  legati alle xilografie dell’ “ukiyoe”, per la parte disegnata su cui poi interveniva l’intagliatore e lo stampatore, basta citare i nomi di  Hiroshige, Hokusai ed Eisen  ai quali sono state dedicate due grandi mostre a Roma, ovviamente per la parte pittorica;  ma va ricordato che questi grandi artisti sono stati anche autori di Fumetti, anzi il termine “manga”, di origine cinese,  fu introdotto nel 1814 da Hokusai  per gli schizzi che gli “sfuggivano” cui venivano uniti dei testi, ne realizzò  migliaia, pubblicati in 15 volumi. Ricordiamo in anni meno recenti le mostre, sempre a Roma,  dei fumetti di Crepax con la sua Valentina e di Paz con il suo Pertini, inoltre quelle,  di tipo alquanto diverso, con le vignette  politiche di Mario Sironi e di Forattini. Una galleria artistica molto particolare.

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Emanuele Rosso, Museo Archeologico Nazionale di Aquileia

Ma torniamo alla mostra che passa in rassegna le storie disegnate,  ambientate nei nostri musei, esponendo per le 29 case editrici e  i rispettivi autori  pannelli recanti  la copertina dell’albo con delle pagine-campione  e presentando nel contempo l’albo pubblicato perché possa venire sfogliato e scorso rapidamente dai visitatori della mostra: 18 pagine della storia a fumetti più altre 6 pagine per notizie sul Museo e sulle opere d’arte protagoniste nonché uno spazio per una libera prova fumettistica del ragazzo. Gli album sono dati gratuitamente ai partecipanti ai Laboratori nei singoli musei, infatti parte del ricavato dalla vendita viene destinato a questa iniziativa promozionale di natura didattica.  Una cartello esplicativo  con l’icona della mostra completa l’illustrazione fornita.

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Federico Manzone Museo Archeologico Nazionale Metauros,
Gioia Tauro

Nelle due grandi  sale alla cui pareti sono esposte le 29 realizzazioni ci si sente presi da un abbraccio artistico e fantastico,  per la varietà, la qualità e la spettacolarità delle interpretazioni. Ne faremo una rapida carrellata preceduta dalle dichiarazioni sull’iniziativa,  valide tuttora, con cui  due  protagonisti assoluti,  Ratigher direttore della casa editrice , e  LRNZ supervisore e curatore grafico del progetto oltre che autore, salutarono la 1^  edizione, vincitrice poi del premio citato.

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Federico Rossi Edrighi, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma

Ratigher disse – lo ha citato Adriano Ercolani –  che “nella quasi totalità delle storie c’è una grande componente di mistero e magia. Esprimersi in maniera libera, senza didascalici intenti didattici, ha portato tutti gli autori a mostrare l’aspetto dell’istituzione museale che credo più inneschi le sensazioni di un bambino (coloro a cui è rivolto il progetto). Parlo del mistero fecondo in cui ci si inoltra durante le prime visite museali, l’entrata in un luogo che ci viene detto essere ‘importante””. Ed è la mancanza di conoscenza specifica da parte dei piccoli a trasformare le visite “in passeggiate magiche nell’eccellenza delle umane capacità, passeggiate dove non si impara nulla di specifico se non imparare a imparare”. Risultato: “I  Fumetti nei musei sono dei bellissimi detonatori di domande che portano i ragazzi a chiedersi quale sia il loro potenziale e come lo sviluppo delle loro capacità attraverso il gioco, la paura e la passione, possa migliorare la vita propria e degli altri”. E non è poco porsi tali interrogativi che contribuiscono a formare la coscienza civile.

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Federico Rossi Edrighi, Particolare

Il “mago LRNZ”, a sua volta aggiunse: “L’applicazione alle istituzioni pubbliche è la destinazione più alta per il graphic design, perché diventa la voce di tutti. E ci tengo particolarmente che la nostra voce sia una voce bella. Graphic design e fumetto rispondono per buona parte agli stessi quesiti e poter celebrare i luoghi italiani dell’arte visiva con questi due strumenti assieme, è stato un lusso sfrenato”, Detto in modo entusiasta da un creativo anticonformista è un altro fatto straordinario.

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Pietro Scarnera, Museo Nazionale Etrusco di Chiusi

Qui potrebbe terminare il nostro resoconto. Ma è ugualmente  straordinario che  dalle storie narrate,  anche se prive di intenti didattici, nascano  insegnamenti e  lezioni di vita, si “impara a imparare”. Una caratteristica non dichiarata dei fumetti d’epoca era stare dalla parte del bene contro il male, laddove  l’Uomo mascherato esprimeva la lotta contro la delinquenza nelle città, e così altri personaggi come Mandrake e Cino e Franco per tornare alle origini, ma sorprenderebbe  nel nostro tempo lanciato nella trasgressione. Perciò vogliamo evidenziare gli insegnamenti positivi che nascono delle storie di questa edizione, non ricercati né didattici,  ma insiti nelle vicende narrate.

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Ratigher, Museo Sannitico, Campobasso

Le nuove lezioni dell’edizione attuale dei Fumetti nei Musei

Cominciamo dai Parchi  Archeologici, nel Parco Archeologico dell’Appia Antica l’insegnamento  implicito nella storia disegnata da  Gud nasce da una caccia al tesoro che certamente avranno nascosto da qualche parte imperatori e papi, mercanti  viaggiatori, ne sono convinti tre ragazzi che si impegnano nella ricerca, così possono “Gli esploratori dell’Appia perduta” “, rivivono la storia antica nelle sue fasi avvincenti e misteriose, un vero insegnamento. Anche nel Parco Archeologico di Ostia Antica,  Risuleo e Pronostico con il loro “Passatempo” evocano i segreti e i misteri che è bello esplorare, c’è  la voce inattesa di una dea, più interessante delle ragazze che mancano, l’insegnamento è evidente, è bello riscoprire il passato e può serbare tante sorprese.

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Manfredi Ciminale, Museo della Civiltà, Roma

Dal  Parco di Ercolano  un altro messaggio, Roberta Scomparsa vi ambienta una storia proiettata nel 2079, una nuova catastrofe  provocata non dalla natura ma da una guerra distruttiva per il controllo delle fonti di energia: il primo insegnamento è contro la guerra, il secondo è l’importanza dell’amicizia che il piccolo sopravvissuto, “Salvo delle pietre” scopre incontrando nella città fantasma  altri due sopravvissuti mentre si era rinserrato in se stesso. Nell’Antiquarium e zona  archeologica di Canne della Battaglia, Silvia Rocchi rievoca la battaglia tra Roma e Cartagine non attraverso i condottieri ma i semplici combattenti, spesso ragazzi, entrando nei loro pensieri prima dello scontro, nelle loro speranze e paure, l’insegnamento è che la storia è fatta anche da loro, non solo dai grandi personaggi unici protagonisti. sono “Gli invincibili”.

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Manfredi Ciminale, Particolare

Passando ai Musei Archeologici, nel Museo Archeologico dei  Campi Flegrei di Baia la storiadi Miguel Angel Valdiva fa vedere che  basta chiudere gli occhi e tendere l’orecchio per sentire storie meravigliose di popoli e persone, sono portate dal “Vento” che dà il titolo al fumetto, un bell’insegnamento a raccogliersi in sé stessi  per poter ricevere tanti messaggi inebrianti:  “Il vento non sa leggere” si intitolava un vecchio film, ma  evidentemente sa parlare.

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Marco Corona, Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo, Roma

Dal Museo Archeologico Nazionale “G. Asproni” di Nuoro, Alessandro Sanna ci riporta  a  3800 anni fa con una scena carica di “suspence”, i guerrieri con le armi in pugno si fermano per ascoltare una sacerdotessa, è un imprevisto, sono i misteri imprevedibili della storia intitolata “Sisaia” un altro messaggio.  Guerra imminente  anche nella storia ambientata da Emanuele Rosso nel Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, l’imperatore Massimino assedia la città pronta a combattere, mentre il lottatore Aimo e la danzatrice, “Bassilla”, molto  amati dalle folle, sono impegnati a raggiungere la perfezione  nelle loro discipline. Non si può non sentire l’insegnamento che con  l’impegno nella ricerca dell’arte e della bellezza si può contrastare l’insano ricorso alla violenza e alla guerra.

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Marco Corona, Particolare

Nel Museo Archeologico Nazionale Metauros di Gioia Tauro,  Federico Manzone ambienta la storia fantasiosa delle divinità Ermes e Pan che frugano nel Museo per volere di Giove alla ricerca del vaso di Pandora,  il custode sospettoso saprà aiutarli? Il rapporto divino-umano e passato-presente è nella storia intitolata “Metauros”, chissà se c’è anche un insegnamento, considerando cosa contiene il vaso di Pandora!  Mentre nel  Museo Archeologico Nazionale di Matera, “Domenico Ridola”, la storia di Vitt Moretta intitolata “Puzzle” si svolge come con  la caccia al tesoro del ragazzo Totò tra cunicoli e massi, pipistrelli e ossa ci sembra insegni non solo che si può vivere un’avventura coinvolgente nel Museo ma anche che il passato può aiutare il presente come fa qualcuno  venuto da molto lontano nel tempo soccorrendo Totò.

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Taddei e Angelini, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, Roma

Dai Musei su antiche civiltà vengono altri insegnamenti, sempre  impliciti e non didattici. Nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma,  Federico Rossi Edrighi ambienta la storia di Michele, non interessato a vasi e reperti perché preoccupato per il  proprio futuro, finché non pensa a interrogare i sacerdoti etruschi, “Gli aruspici”. Avrà la risposta che attende, il passato può aiutare il presente, è un insegnamento anche questo. 

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Taddei e Angelini, Particolare

Il Museo Nazionale Etrusco di Chiusi, nella storia di Pietro Scarnera,   rivela un mondo di enigmi e  presenze misteriose,”Nel labirinto” c’è anche il tesoro e Micol dopo le Arpie  incontra la Sfinge, ha come amico un piccolo etrusco e una scimmietta materializzati nel Museo. Quanti insegnamenti evidenti, dall’amicizia al rapporto passato-presente, insieme alle scoperte che si fanno cercando di conoscere e capire! Nel Museo Sannitico di Campobasso, Ratihher rievoca  “L’eterno galoppo” degli antichi cavalieri, i Bulgari che si insediarono in Molise, si facevano seppellire con i loro fedeli destrieri: un insegnamento sulla fedeltà e sul rispetto e l’amore per gli animali, si parla dei cavalli, ma gli animali di compagnia odierni sono uniti  al nostro stesso destino. 

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Andrea Ferraris, Museo Preistorico dei Balzi Rossi, Ventimiglia

Dal Museo delle Civiltà di Roma la storia di Manfredi  Ciminale racconta di un esploratore che riceve una scatola misteriosa con  le storie  delle civiltà, la lezione è che occorre avere una mente curiosa, bisogna saper guardare  i reperti dell’antichità e saper ascoltare le loro voci, come dinanzi a una “Sciarada”. . Narrano storie affascinanti, come “La visita” al Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo a Roma, Bimbo Tito non voleva andarci tutto preso dai fumetti,  poi scoprirà un mondo di avventure e di fantasia tra le statue  greche e romane, lo racconta Marco Corona.    Nel Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, sempre a Roma, “Il tema di Ascanio” potrà venire svolto dall’alunno che nella visita ha perso di vita insegnanti e compagni perchè trova una guida che gli fa incontrare grandi personaggi del passato.

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Andrea Ferraris, Particolare

Andando più indietro nel tempo  con il Museo Preistorico dei Balzi Rossi di Ventimiglia, Andrea Ferraris vi ambienta una storia attuale, “Un fuoco nella nottte”, Mamadou e la sua famiglia si nascondono in una grotta nella traversata clandestina di un confine, i graffiti  testimoniano una vicenda come la loro, la storia che si ripete anche dopo 45 mila anni è la lezione?  Passato remoto e presente anche  nel Museo Nazionale d’Abruzzo la storia di Spugna intitolata “Quattro chiacchiere” mobilita un Mammuth alto 4 metri per lanciare il messaggio che dopo una caduta, come il terremoto, bisogna rialzarsi  e andare avanti. Cambia tutto  nella Certosa e Museo di San Martino di Napoli, Pablo Cammello fa entrare nel presepio Pulcinella, il Monaciello”, per recuperare il pallone di un ragazzino e mettere ordine.

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Spugna, Museo Nazionale d’Abruzzo, L’Aquila

Dalla amatissima maschera napoletana al terribile Dragone Nero  nella storia “Boom samurai boom”, di Marco Galli , nel Museo d’Arte Orientale di Venezia, Adelgonda  in Giappone con il marito resta sola in un palazzo pieno di statue e armature di samurai, ma non la spaventa il dragone taglia-teste, sarà lui a doverla temere, l’insegnamento è che non bisogna avere paura, anche nelle situazioni più difficili. Nel Museo Storico e Parco del Castello di Miramare a Trieste,  Lise e Talami  una storia proiettata nel futuro, “Rosa ananas”, il castello viene occupato di nuovo da un’armata spaziale, ma il parco lussureggiante converte  il generale guerriero a dedicarsi ai fiori. Una versione attuale dell’indimenticato slogan “mettete i fiori nei vostri cannoni”?  Comunque un  insegnamento, forse non ricercato né voluto ma implicito, sulla pace  e insieme sulla bellezza della natura.

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Pablo Cammello, Certosa e Museo di San Martino, Napoli

Dai Musei a Luoghi storici e residenze nobiliari. Nel Mausoleo di Teodorico a Ravenna,  Giuseppe Palumbo parla di un bambino che aveva paura de fulmini e fu mandato ostaggio, poi divenne re e conquistò l’Italia, con molti segreti tra l’umano  e il divino, un insegnamento è che nulla è impossibile, ci sono “16 possibili usi di un Mausoleo”. Tra le residenze nobiliari nel  Palazzo Ducale di Gubbio,  Michele Petrucci  presenta una bambina, la duchessina Costanza,  con gioie e grandi dolori, la consola Martino, che solo lei può vedere  in segreto, la storia di “Costanza e Martino” ripropone l’insegnamento dell’importanza dell’amicizia e in più quello  dell’inevitabilità dei dolori della vita.

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Marco Galli, Museo d’Arte Orientale. Venezia

Nel  Complesso Monumentale della Pilotta di Parma,  Luca Negri ambienta una visita scolastica, la professoressa scompare, i ragazzi giocano a diventare adulti con diverse identità, quasi una “piece” teatrale, si può ricavare la lezione a sapersi organizzare dinanzi all’imprevisto, ne viene fuori una “Naumachia”. A Villa Adriana –  Villa d’Este di Tivoli, la storia di Eliana Albertini si svolge nei giardini tra statue e fontane,  la voce di una dea racconta vicende misteriose a Mattia e ai suoi amici, dai “Cambi di posto” torna l’insegnamento a saper ascoltare la voce che viene da lontano. Invece  a Villa della Regina di Torino,  Lorenzo Mò racconta  “La gita intergalattica di Titta & Plyn”, due alieni che prendono dei reperti dalla villa per portarli nel loro pianeta, ma sono dei pasticcioni e si fanno scoprire.

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Lise e Talami, Museo Storico e-Parco del Castello di Miramare, Trieste

E’ questo l’insegnamento, non fare pasticci? Una storia di 700 anni fa, “Acqua passata” , Altan la ambienta alCastello Scaligero di Sirmione, Elalberto uccide Arice che rifiuta  di cedergli e viene ucciso da Ebengardo, viene evocato e fa da guida con una sorpresa finale, noi non possiamo non pensare ai femminicidi che è giusto segnalare all’esecrazione di ragazzi. Nell’ultima residenza storica, la Rocca di Gradara, Mara Cerri  racconta le storie d’amore di Isotta, Lucrezia, Francesca, lontane ma anch’esse attuali, un insegnamento per le giovani ragazze, “Dietro di te” il titolo.

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Lise e Talami, Particolare

Le ultime due storie  sono ambientate in Palazzi romani sedi di istituzioni.  “Un lungo respiro” nell’Istituto Centrale per il Restauro,  Maria Chiara Di Giorgio fa approdare un satiro che viene dal passato, storici e scienziati  si prendono cura di lui e trova un amico: viene così insegnata l’importanza dell’ “ospedale” che restaura oltre quella dell’amicizia che non ha confini. La chiusura è nella sede della mostra, l’Istituto Centrale per la Grafica, Giacomo Nanni racconta come Clemente XII salvò una storica collezione dalla vendita, è una bella lezione per i ragazzi il tesoro delle stampe, disegni, incisioni con la grandezza di Roma nel tempo, e l’importanza di preservarlo anche usando la fantasia, di qui il titolo “L’immaginifico Signore”.

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Giuseppe Palumbo, Mausoleo di Teodorico, Ravenna

Le motivazioni degli autori delle storie a fumetti della 1^ edizione

Alla veloce carrellata sulle storie narrate per gli insegnamenti impliciti in esse, aggiungiamo qualche elemento sull’approccio degli autori  a storie con ambientazioni così diverse da quelle consuete dei fumetti, addirittura in luoghi austeri come le Aree archeologiche, i Musei e le Residenze storiche. Citiamo le motivazioni di alcuni degli autori dei Fumetti nei Musei della 1^ edizione, particolarmente significative essendo il contatto iniziale con il  mondo dell’antichità  anche  remota. Ci siamo basati sulle impressioni raccolte direttamente  da Adriano Ercolani.

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Giuseppe Palumbo, Particolare

Tuono Pettinato e  Neri & Scheggia, nella Galleria dell’Accademia di Firenze,  hanno voluto  raccontare le vicende umane dei protagonisti degli ambienti museali, personaggi e capolavori, facendoli scendere dal piedistallo e dalla cornice per renderli umani anche nelle loro debolezze;  e si è trattato addirittura di Michelangelo, e del David, idolatrato dai visitatori ma isolato rispetto agli altri personaggi minori del museo. Nello stesso  spirito,  nella Galleria Borghese di Roma, Martoz ha reso protagonista una scimmietta insignificante rispetto ai grandissimi Caravaggio e Raffaello.  Anche Andrea Settimo, nella  Galleria Nazionale dell’Umbria, ha voluto  rappresentare i grandi artisti come il Perugino quali persone reali non mitizzate,  violenti e peccatori, una sorpresa spesso inimmaginabile rispetto alle loro opere, ma  tale da avvicinarli a noi per poterci identificare in loro.

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Michele Petrucci, Palazzo Ducale di Gubbio

LRNZ,  dinanzi alla nuova  formula “Time Is Out of Joint” della  Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, ha voluto immergersi in una dimensione temporale in cui non si distingue più tra permanente e temporaneo,  passato e presente, in una dissoluzione del tempo. In un arco temporale dal 1911 al 2018 i “frammenti di un discorso amoroso”  di  Paolo Bacilieri, dall’Accademia di Brera,  l’autore rivive e fa rivivere momenti drammatici della Pinacoteca, come  i bombardamenti.

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Michele Petrucci, Particolare

Mentre  Marino Neri, dalle  Gallerie Estensi di Modena e Ferrara fa partire un messaggio di pace di una famiglia di topini, colpito dal tono bellicoso di statue e quadri ma controbilanciato dall’immagine dell’Amore che scaglia la sua freccia nel cuore. A Maicol&Mirco la  Reggia di Caserta   fa sentire che dopo  gli esseri umani e gli animali, “ora ci tocca assolutamente imparare a rispettare le cose. Che poi è il vero messaggio di ogni museo”.

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Luca Negri R.S.M., Complesso Monumentale della Pilotta, Parma

Hanchi, nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino non si è fatto vincere dall’ambiente austero e tradizionale, e non ha rinunciato a inserire l’incredibile nell’ordinario, allaga il museo, che  non è neppure  incredibile a stare all’acqua alta di Venezia e alla rovinosa alluvione di Firenze. Invece Lorena Canottiere, nella visita ai  Musei Reali di Torino ha avuto l’impressione “di camminare attraverso un’onda da tsunami senza avere il bisogno di proteggersi e rendendosi conto di poter respirare sott’acqua, anzi di aver bisogno di quel respiro lungo secoli. Trovare una storia da raccontare è stato facilissimo, più difficile è stato tornare alla realtà”.  Anche Lorenzo Ghetti, nel  Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli,  si è  trovato  in un  “mondo altro”, diverso da quello esterno,  altra atmosfera, con delle finestre sul  tempo  che possono collegare diverse realtà.  

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Luca Negri R.S.M., Particolare

La sorpresa di  Dr. Pira  è stata di  trovarsi  nel  Parco Archeologico di Paestum appena fuori dalla stazione, il tempo annullato, poi  l’antico reperto  che ritrae un tuffatore e il trampolino quando  non esisteva lo sport dei tuffi fa il resto: “Non lo so, a me è esploso il cervello, e il risultato è quel fumetto che ho fatto”.   Nessuna sorpresa, al contrario,  per Otto Gabos,  conosceva il Museo del Bargello di Firenze, ci è tornato già preparato,  ma ha scelto angolazioni inusuali  in modo da creare un gioco di specchi, una storia affascinante e misteriosa.

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Eliana Albertini, Villa Adriana – Villa d’Este, Tivoli

Uno specchio  alla nostra quotidianità  lo vede nel cielo Paolo Parisi,  dalle  Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, come  luogo ideale di narrazioni mitiche, le costellazioni dei pianeti “un museo immaginifico ‘a cielo aperto’ con tutte le opere della storia dell’umanità”.  Una inconsueta visione cosmica anche  dai Bronzi di Riace del Museo di Reggio Calabria, che fa dire a Vincenzo Filosa: “E’ stato come trovarsi di fronte a un bivio intergalattico da cui partono autostrade verso pianeti lontanissimi e sconosciuti. Nessuno di noi sa cosa può succedere quando la mente ‘libera’ di un ragazzo di otto anni, nove o dieci anni impatta contro un’opera tanto imponente e suggestiva“.

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Eliana Albertini, Particolare

Alice Socal, nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ammette la difficoltà di interessare un pubblico, per lei  inconsueto, di bambini: “Per me é stato un po’ un salto nel vuoto: sapere che anche solo un bambino trovi la mia storia divertente,  potrebbe essere il successo più grande della mia carriera di disegnatrice”.  Analogo impegno di Alessandro Tota, nella Galleria degli Uffizi di Firenze, che confida:”Quando leggo un libro ai miei figli cerco un libro che sia intelligente e faccia divertire, una cosa non esiste senza l’altra. Spero di essere riuscito nell’impresa”.

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Altan, Castello Scaligero di Sirmione

Squaz,  forse per superare questa difficoltà, del   Museo Archeologico Nazionale di Taranto  sceglie la figura olimpica dell’’Atleta di Taranto vincitore di quattro edizioni delle gare Panatenaiche,  piuttosto che gli ori degli orefici antichi, e vi collega il messaggio che l’’ottimismo della Volontà,  in questo caso del Cuore, prevale sul  pessimismo della Ragione. Stessa motivazione in Fabio Ramiro Rossin, che nel Palazzo Reale di  Genova, con la storia del principe malato ed immobilizzato nel palazzo  ma per la forza di volontà “viaggiò comunque, con la mente, grazie al suo coraggio, alla sua sensibilità, alla sua voglia di conoscere e custodire la bellezza del mondo”.

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Mara Cerri, Rocca di Gradara

Dal Palazzo Ducale di Mantova,  Sara Colaone è presa dalla differenza tra l’occasione,  che consiste nel contatto con un oggetto di mero  consumo, e l’esperienza che fa nascere  pensieri e relazioni, e collega ciò che si vede con  ciò che si sa:  la visita al palazzo viene sentita come esperienza,  non come occasione, vissuta  nel mistero della bellezza inserito nel grande quadro della conoscenza. Bianca Bagnarelli, dal Parco Archeologico di Pompei confida che la storia narrata nasce dalla propria visita a Pompei allorché,  perduto di vista il compagno, lo ha cercato a lungo tra case e cortili, anditi e corridoi, da proprie vicende anche minime possono nascere grandi idee.

Mariachiara Di Giorgio, Istituto Centrale per il Restauro, Roma

A Roberto Grossi, il  Parco Archeologico del Colosseo fa sentire, “Hic”,  la voce del tempo  che scorre inarrestabile tra fasi di grandezza e di decadenza, trasformazioni improvvise e interminabili staticità,   momenti  importanti perché irripetibili, ma anche  insignificanti perché brevissimi rispetto alla dimensione  millenaria del tempo.

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Giacomo Nanni, Istituto Centrale per la Grafica, Roma

Con il Colosseo che esprime in modo plastico questa dimensione chiudiamo il nostro “excursus”  che dalle storie dei Fumetti nel Musei della 2^ edizione ci ha riportato alle motivazioni degli autori della 1^ edizione. Ne emerge il contenuto di un’iniziativa di cui abbiamo sottolineato l’interesse e il valore nell’avvicinare i giovanissimi ai Musei, che custodiscono un immenso patrimonio culturale e storico  vitalizzato e portato alla ribalta dalle storie  fantastiche  e coinvolgenti raccontate.

Gli album della 1^ edizione della mostra in esposizione

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Palazzo della Grafica, Via della Stamperia 6, Roma. Dal lunedì al venerdì ore 9.00-19,00, sabato e domenica ore 9.00-14,00. Ingresso gratuito. Tel. 06.699801, fumettineimusei@beniculturali.it; due “brochure” illustrative. Per gli artisti citati, e le manifestazioni indicate, cfr. i nostri articoli in: www.arteculturaoggi.com, Musei nella cultura come diritto di cittadinanza  25 ottobre 2018, Hirosawa 14, 19 giugno, 5 luglio 2018, Hokusai 2, 8, 12 dicembre 2017,  Mangasia 1, 6 novembre 2017, Forattini 27 febbraio, 2 marzo 2018, Sironi 2 novembre 2015; fotografia.guidaconsumarore.it,  Crepax 1° luglio 2012; cultura.inabruzzo.it,  Paz  23 febbraio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in altro sito).

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo della Grafica alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  Riproducono i cartelli illustrativi delle singole storie ambientate nei rispettivi Musei cui è unito l’album realizzato, per metà circa oltre al Cartello illustrativo viene riportato il Particolare della pagina ingrandita; le immagini sono inserite nell’ordine di citazione nel testo. In apertura, la Locandina della mostra; seguono. Gud, Parco Archeologico Appia Antica Roma, e Particolare; poi, Risuleo e Pronostico, Parco Archeologico di Ostia Antica Ostia, e Particolare; quindi, Roberta Scomparsa, Parco Archeologico di Ercolano; inoltre, Silvia Rocchi, zona archeologica di Canne della Battaglia; ancora, Miguel Angel Valdiva, Museo Archeologico dei Campi Flegrei Baia, e Particolare; ancora, Alessandro Sanna, Museo Archeologico Nazionale ‘G. Asproni’ Nuoro, Emanuele Rosso, Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, e Federico Manzone Museo Archeologico Nazionale Metauros Gioia Tauro; continua, Federico Rossi Edrighi, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Roma, e Particolare; seguono, Pietro Scarnera, Museo Nazionale Etrusco di Chiusi, e Ratigher, Museo Sannitico Campobasso; poi, Manfredi Ciminale, Museo della Civiltà Roma, e Particolare; quindi, Marco Corona, Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo Roma, e Particolare; inoltre, Taddei e Angelini, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo Roma, e Particolare; ancora, Andrea Ferraris, Museo Preistorico dei Balzi Rossi Ventimiglia, e Particolare; continua, Spugna, Museo Nazionale d’Abruzzo L’Aquila, Pablo Cammello, Certosa e Museo di San Martino Napoli, e Marco Galli, Museo d’Arte Orientale Venezia; seguono, Lise e Talami, Museo Storico e Parco del Castello di Miramare Trieste, e Particolare; poi, Giuseppe Palumbo, Mausoleo di Teodorico Ravenna, e Particolare; quindi, Michele Petrucci, Palazzo Ducale di Gubbio, e Particolare; inoltre, Luca Negri R.S. M., Complesso Monumentale della Pilotta Parma, e Particolare; ancora, Eliana Albertini, Villa Adriana – Villa d’Este Tivoli, e Particolare; continua, Altan, Castello Scaligero di Sirmione, e Mara Cerri, Rocca di Gradara; infine, Mariachiara Di Giorgio, Istituto Centrale per il Restauro Roma e Giacomo Nanni, Istituto Centrale per la Grafica Roma; al termine, Gli album della 1^ edizione della mostra in esposizione e, in chiusura, la presentazione della mostra, al microfono il ministro Dario Franceschini, alla sua dx il Direttore generale per i Musei Antonio Lampis e la direttrice dell’Istituto Centrale per la Grafica Maria Cristina Misiti, alla sua sin. il direttore della Coconino Press Fandango, Ratigher e il Capo dell’Ufficio Stampa del Ministero Mattia Morandi.

La presentazione della mostra, al microfono il ministro Dario Franceschini, alla sua dx il Direttore generale per i Musei Antonio Lampis e la direttrice dell’Istituto Centrale per la Grafica Maria Cristina Misiti, alla sua sin. il direttore della Coconino Press Fandango, Ratigher e il Capo dell’Ufficio Stampa del Ministero Mattia Morandi.

Fotografia e arte, 3. Fotodinamismo e modernismo

di Romano Maria Levante

fotografia.guidaconsumatore.it – Fotografia con l’arte in mostra alla Gnam: fotodinamismo e modernismo

Dopo le opere degli esordi della fotografia del 1850 e quelle della fase successiva che culmina nel “pittorialismo” fino al 1920-30, di cui abbiamo dato conto in precedenza, la mostra “Arte in Italia dopo la fotografia” dal 21 dicembre 2011 al 4 marzo 2012 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna  ha esposto le opere del fotodinamismo futurista e del modernismo che arriva al 1950, più le collezioni del cinquantennio fino al 2000: la rassegna di questa fase conclude la nostra visita.

Anton Giulio e Artura Bragaglia, 1914

Abbiamo ricordato Giacomo Balla nel periodo che arriva al “pittorialismo”, e si ritrova con 10 opere esposte nella sezione della mostra dedicata al “Fotodinamismo”che ne rappresenta un’evoluzione e si collega alla rottura futurista rispetto alle arti e in genere alle forme espressive del primo Novecento da cui non poteva non venire coinvolto anche il mezzo fotografico. Ciò avviene con la sua definitiva emancipazione dal supporto alla pittura che dà dignità artistica alla fotografia.

Balla negli studi sul volo delle rondini mostra attenzione alle fotografie di Marey sul volo di uccelli, e nel dipinto “Dinamismo di un cane a guinzagli” sembra influenzato dalle foto dei fratelli Bragaglia per i manifesti futuristi, esposte a Roma da Marinetti; anche Degas sembra ne fosse influenzato per le ballerine sospese a mezz’aria. Infatti ad Arturo e Anton Giulio Bragaglia si devono le ricerche fotografiche per il manifesto futurista e non solo: nel 1913 viene pubblicato il “Fotodinamismo futurista” di Bragaglia con 16 delle 30 tavole fotodinamiche create: dichiara di voler “realizzare una rivoluzione, per un progresso, nella fotografia, per elevarla veramente ad arte”, superando “la riproduzione fotografica del vero immobile o fermato in atteggiamento di istantanea”, nella sua “oscena e brutale realisticità statica”: per conferirgli “la espressione e la vibrazione della vita viva”.

Ghitta Carell, anni ’30

La spinta verso questa rivoluzione fu l’interesse del pensiero futurista per il movimento: la fotografia era in grado di renderlo mediante traiettorie e vibrazioni, scie luminose e lievitazioni che trascendevano la realtà ricercandone l’essenza mediante la destrutturazione e dematerializzazione conseguente al moto colto nel suo dinamismo esasperato. Questo proclamava il “foto dinamismo” futurista: non si trattava di costruire sequenze continue di tipo cinematografico con scatti a ripetizione, ma di fissare momenti estremi di inizio e fine del moto tra i quali gli intervalli esprimono il carattere inafferrabile della realtà dinamica inseguita dai futuristi; e questo con una lenta esposizione fotografica che crea scie e traiettorie deformando gli oggetti.

Nel movimento da un punto a un altro – sottolinea Rita Camerlingo – “il tempo, quarta dimensione, si traduce in spazio” e, nella filosofia di Henri Bergson, allontana dalla realtà per raggiungere l’essenza delle cose e “lasciare un ricordo”. l tre “Ritratti del pittore Francesco Trombadori” dei Bragaglia, esposti in mostra, rendono il fotodinamismo con le diverse teste in movimento vorticoso che coesistono sul tronco, delle quali solo quelle estreme sono ben visibili, la scia quasi nasconde e deforma le altre.

Italo Bertoglio, 1933

Il modernismo 

Molto diverso da queste avanguardie del tutto particolari, il “Modernismo” nella consapevolezza dell’autonomia estetica dell’opera fotografica vede su fronti opposti – scrive Maria Francesca Bonetti – “i sostenitori di una concezione ‘purista’ della fotografia, prevalentemente orientati verso la sperimentazione, con ricerche spesso spinte anche verso l’astrazione, e i fautori di una fotografia ‘artistica’ estetizzante e interpretativa, intesa piuttosto come ricerca formale libera e spregiudicata”; che usa tutte le tecniche di manipolazione e contaminazione con le altre arti “utili alla trasfigurazione e all’idealizzazione della realtà”. Per questo si muove “tra classicismo e astrazione”.

Sono anni, dal 1920 al 1950, in cui l’Italia si apre alle concezioni più avanzate in campo fotografico, come le astrazioni di Man Ray e il costruttivismo di Aleksander Rodcenko, il surrealismo di Blossfeldt e l’iperrealismo di Renger-Patzsch,per citare dei capofila, mediante le mostre internazionali e le esposizioni in varie città italiane, come fu nel 1931-32 dopo la pubblicazione del “Manifesto della Fotografia Futurista” a firma di Tato e Filippo Tommaso Marinetti. Non ci si limitava alle tematiche futuriste, il modernismo era presente nella concezione astratta e idealizzata.

Stefano Bricarelli, 1939

Ne abbiamo degli esempi nei ritratti esposti in mostra di Ghitta Carell, con Nobildonne e Donne esemplari, Gerarchi e Prelati, Imprenditori e Intellettuali, figure idealizzate al punto di ricercare una bellezza ideale trasformando con espedienti estetizzanti la realtà fisica fino alla mistificazione, interpretando in questo la mistica del fascismo pur se l’adesione al regime è molto dubbia essendo lei ebrea. Intenti realizzati con le luci morbide e chiare intorno al soggetto, come fa anche Arturo Ghergo, mentre Luxardo prediligei toni cupi e le forme plastiche con intensi chiaroscuri. Mario Bellavista, addirittura, teorizzò per il fotografo moderno “la missione di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica” del fascismo e indicò anche i temi attraverso cui realizzarla: temi futuristi nelle macchine e nelle navi, negli aerei e nei motori, temi di regime nei giovani sportivi e nella gente ispirata, come si è visto per il comunismo alla mostra “Realismi socialisti”.

Francesco Agosti, 1929;

Si andò oltre il Futurismo con il “Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica”, costituito a Torino nel 1921 da Bertoglio e Bricarelli con altri, ne fece parte Agosti;si persegue – è ancora la Bonetti – “quella sintesi compositiva che, in contrapposizione alla precedente maniera descrittiva ed aneddotica, era stata individuata all’epoca come l’elemento essenziale di una fotografia ‘modernista’” fatta di “un’astrazione geometrica che risente comunque del rigore classico e del monumentalismo del movimento novecentista”. Di Italo Bertoglio e Stefano Bricarelli sono esposte 5 opere ciascuno: del primo notiamo “Il Decennale”, con la piccola sentinellasovrastata dall’imponente architettura littoria, “Colonne, Paris”, tra il 1933 e il 1937; del secondo, “Benito Mussolini nel suo studio”  e il celebre “Rampa elicoidale della Fiat al Lingotto”, fino al muso della “Nuova Horch aerodinamica”, 1939, fotografia che fissa l’immagine senza alcun effetto fotodinamico futurista. Di Francesco Agostinotiamo 10 opere, tra le quali “Vasi di Murano” e “Studio di fiori”, appena sfumati. A questi si accostano i sottili disegni di “Fiori”  di Giorgio Morandi, come a certe figure di ritrattistica gli  “Autoritratti” in pomposi costumi d’epoca di Giorgio de Chirico.

Giorgio de Chirico, 1934-35

Con Luigi Veronesi, il modernismo italiano entra nell’astrazione, alla fine degli anni ’20, in un’arte non figurativa: la fotografia indaga la realtà senza riprodurla, al contrario superando l’apparenza secondo il “principio di integrazione” che regola le relazioni tra gli oggetti; e utilizzando il fotogramma che viene impressionato direttamente senza macchina riconducendo agli elementi primari come luce e superficie sensibile con la prevalenza della forma elementare sul contenuto. Una forma fotografica che viene smaterializzata come nelle opere dell’astrattismo pittorico. Se ne vedono esempi, tra le sue opere esposte, 15 in evidenza, in “Fotogramma su lastra” e “Controtipo su pellicola”, siamo nel 1937; anche “Quadrifoglio”  è un fotogramma, è il 1950.

Tecnica analoga in due opere astratte di Franco Grignani,Fotogramma a luce inclinata” e “Interferenze dinamiche”. Surrealista, invece, l’opera di Carlo Mollino, “Ritratto con farfalla”, 1935, enigmatica figura femminile in un’atmosfera sospesa, un “doppio” con il confronto sogno- realtà.

Luigi Veronesi, 1937

L’ultimo artista che citiamo in questa rassegna del modernismo in mostra è Giuseppe Cavalli, vediamo in particolare 9 opere, alcune plurime, dal 1940 al 1950 ed oltre: è cultore della dimensione “puramente estetica” della fotografia al di là di “ogni tecnicismo, contenutismo, impellenza documentaria”, mossa solo dalla “intuizione fotografica”; peraltro, conosceva a fondo la tecnologia fotografica e le prassi operative basate sulla ripetizione dei soggetti, la costruzione compositiva con varianti e tagli e il mutare delle trasparenze. Si intitola appunto” Composizione”  una sua opera, molte altre sono “Senza titolo”: immagini serene, spesso evanescenti, di “forma pura”.

Si conclude il modernismo ma non la mostra, ci sono ancora le opere della Collezione, dal 1960 al 2000, ne scorriamo 40 di 25 autori contemporanei. Vediamo sfilare l’Arte povera, Pop, concettuale degli anni ’60, le sperimentazioni artistiche degli anni ’70, l’opera fotografica di Luigi Ghiri e Paolo Gioli, fino agli anni ’80, le opere a matrice fotografica degli anni ’90. Abbiamo detto 40 opere, ma molte sono plurime, ricordiamo per tutti “Le ore”, di Luigi Ontani, 1975, 24 gigantografie con la sua figura a colori forti, sono il rutilante divisorio centrale di una delle grandi sale della mostra.

Franco Grignani, 1954

Terminiamo citando i più vicini a noi,  per i quali basta ricordare i nomi, Mario Schifano  e Tano Festa, Giulio Paolini  e Michelangelo Pistoletto,  Pino Pascali  e  Giosetta Fioroni, Mario Cresci e Luca Maria Patella, Stefano Arientie Vanessa Bancroft, Sarah Ciriaci  e Davide Galliano, Luisa Lambri e Myriam Laplante, Eva Marisaldi e Cristiano Pintaldi.

C’è tutto nell’esposizione, la miniatura fotografica e anche pittorica, il kolossal di questa ed altre opere contemporanee. Ma soprattutto c’è la storia delle fotografia ripercorsa in un viaggio esaltante attraverso 500 opere.

Per dare un sigillo adeguato alla rassegna di 150 anni di fotografia nei rapporti con l’arte, ci sembra appropriato quanto scrisse Francesco Savinio nel 1907: ”Oltre ai servizi diretti che la fotografia rende ai pittori, essa ha impresso il proprio carattere nella ‘mente’ di tutte le arti”; Fino a dire: “Le arti vanno divise in prefotografiche e postfotografiche”.

E’ il miglior complimento che si poteva fare alla fotografia, a cui per una certa fase è stata negata la qualifica di arte, poi invece universalmente riconosciuta. Come era ed è naturale, anzi doveroso.

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Giorgio Morandi, 1943

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna, viale delle Belle Arti 131, da martedì a domenica dalle ore 8,30 alle 19,30, lunedì chiuso. Ingresso alle mostre euro 10,00, ridotto euro 8,00 (over 65, under 18, gruppi e speciali categorie), scuole 5,00. Tel. 06.32298221; www.gnam.beniculturali.it.  Catalogo “Arte in Italia dopo la fotografia” 1850-2000″” a cura di Maria Antonella Fusco e Maria Vittoria Marini Ciarelli, Editore Electa, pp. 328, formato 21,5 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questa rivista “on line”  il 25 febbraio, e il 1° marzo 2012. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, i primi due articoli sono usciti in questo sito il 26 dicembre, con un’introduzione sui motivi dell’iniziativa, e il 27 dicembre 2019. Sugli artisti citati nel testo, cfr. in www.arteculturaoggi.com i nostri articoli su de Chirico, 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre, 22, 24, 26 novembre 2019, 17, 21 dicembre 2016, 1° marzo 2015, 20, 26 giugno, 1° luglio 2013; Balla e i Futuristi 7 marzo 2018, 27 gennaio e 24 novembre 2017, 19 febbraio 2015, 2 marzo 2014, 2 marzo e 1° dicembre 2013; Morandi 17, 28 maggio 2015; Patella 18 aprile 2015; Fioroni gennaio 2014,;istoletto 11 aprile 2013, D’Annunzio 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013; e un fotografo non citato, De Antonis 29 dicembre 2016. In cultura.inabruzzo,it , de Chirico 10, 11 luglio 2010, 27 agosto, 22 dicembre 2009; Paolini 10 luglio 2010. In fotografia.guidaconsumatore, Ghergo 11  aprile 2012,;Rodcenko, 2 articoli 27 dicembre 2011; Schifano 15 maggio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibilei gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’editore Electa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; viene indicato il nome dell’autore e l’anno delle opere, riportate per lo più nell’ordine in cui gli artisti sono citati. In apertura, opera di Anton Giulio e Artura Bragaglia, 1914; seguono, opere di Ghitta Carell, anni ’30, e Italo Bertoglio, 1933; poi, di Stefano Bricarelli, 1939, e Francesco Agosti, 1929; quindi, di Giorgio de Chirico, 1934-35, e Luigi Veronesi, 1937; inoltre, di Franco Grignani, 1954, e Giorgio Morandi, 1943; in chiusura, opera di Luca Maria Patella, 1966-67.

fotografia.guidaconsumatore – Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 11 aprile 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

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Luca Maria Patella, 1966-67

Fotografia e arte, 2. Da Michetti al pittorialismo

di Romano Maria Levante

fotografia.guidaconsumatore.it – Home > Mostre > Roma. Alla Gnam fotografia e arte: da Michetti al pittorialismo

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna la grande mostra “Arte in Italia dopo la fotografia”, aperta dal 21 dicembre 2011 al 4 marzo 2012, approfondisce i rapporti tra fotografia e arte, con l’evoluzione della prima verso forme artistiche mediante un’ampia esposizione di opere fotografiche raffrontate a quelle pittoriche. Dopo gli esordi di cui abbiamo già parlato, dal 1850, si sviluppa nella fine del secolo e nei primi due decenni del ‘900 approdando al “pittorialismo”.

Francesco Paolo Michetti, 1895-900

Arte in Italia dopo la fotografia

Agli esordi di metà dell’800 la fotografia aveva un ruolo di “sostegno” della pittura per la sua capacità di “mimesi” della realtà, sia pure con un processo meccanico e scientifico ma non creativo e artistico. Ne abbiamo citato esempi significativi fino al momento della svolta iniziata nel 1869.

Una vera svolta si ha poi con Francesco Paolo Michetti che dopo il 1880 si dedicò a un’attività fotografica ininterrotta non solo a supporto della sua pittura ma anche in modo autonomo. Si impegnò in vere e proprie campagne fotografiche sulle manifestazioni religiose e popolari abruzzesi, che catalogava in modo scientifico. La sua attenzione era calamitata dalla vita e dai costumi del popolo abruzzese che cercava di cogliere nei volti dei pellegrini esplorati con i suoi “reportage”. Il segno fotografico, nel taglio e nei colori, si trova nei suoi maggiori dipinti, a partire dal “Corpus Domini”  e “I morticelli”: dopo quest’ultimo D’Annunzio – che animava con Michetti e Barbella, Tosti e De Nino, il Cenacolo di Francavilla – notò nell’artista l’“allontanamento da tutto ciò che era pittura”, perché “un lavoro misterioso si compieva in lui”, la passione per la fotografia. Si era nel 1883, lo ricorda Stefania Frezzotti che compie un’analisi dell’influenza della fotografia sulle principali opere del pittore anche grande fotografo, su cui influivano anche i testi dannunziani.

Giuseppe Primoli, 1890

Circa 30 prove fotografiche di Michetti sono esposte in mostra, scene corali di Processioni e Benedizioni, Ritratti singoli in primo piano per “La Figlia di Jorio”, studi plurimi per le Pastorelle e le Modelle con pose ripetute, figure per i quadri ispirati alle loro forme, come Storpi e Serpenti.

Siamo negli ultimi anni del secolo, già dal 1888 Giuseppe Primoli, legato a Michetti da amicizia, aveva fondato a Roma l’Associazione degli Amatori della Fotografia, costituita da professionisti che consideravano la fotografia una “tecnica artistica”, secondo l’espressione di Zannier. Primoli era portato alle istantanee per cogliere l’attimo fuggente, il suo fu chiamato “fotogiornalismo”. Scattò fotografie a corredo delle opere dannunziane, Maria Hardouin di Gallese con il figlio Mario li vediamo a una finestra inghirlandata di casa Primoli. 20 le foto esposte: giornate all’Ippodromo e serate a Teatro, Processioni alla chiesa di san Teodoro e a Castel Gandolfo, Bambini a piazza San Pietro e Branco di capre a Piazzale Flaminio, il Pastore con pecore, l’Equilibrista, Salto a cavallo.

Giulio Aristide Sartorio, 1903

Era legato a D’Annunzio anche Giulio Artistide Sartorio, che dall’inizio del 1900 si dedicò stabilmente alla fotografia sull’esempio di Michetti e Primoli, dopo essersi iscritto dal 1893 all’Associazione sopra citata; nei primi anni ’90 utilizzava soprattutto foto di altri per le sue pitture, anche se continuava nella ripresa dal vero per meglio cogliere nel dipinto l’atmosfera del momento. Applicò alla fotografia ingrandimenti e riduzioni, e giunse ad utilizzare le diapositive fotografiche per gli affreschi proiettandole ingrandite sul muro sostituendole ai tradizionali cartoni; considerava la fotografia strumento di lavoro prezioso che non incideva sulla creazione artistica. Sono esposti 12 straordinari studi fotografici di figure umane in pose statuarie anche ardite come la Donna con bambino, la Moglie e i figli in più pose molto dinamiche, scultoree più che pittoriche.

Wilhelm von Gloeden, 1903

A questa fase appartiene Wilhelm von Gloeden, che fu influenzato da Michetti – il quale lo accolse al cencolo di  Francavilla e veniva considerato da lui un maestro – nell’impostazione fotografica; e sentì l’influsso di D’Annunzio, che ebbe modo di frequentare, nei contenuti più volti al simbolismo che al realismo michettiano. Dopo le foto paesaggistiche nella forte luce siciliana alla ricerca dell’Arcadia perduta, si dedica ai nudi efebici immersi nella natura come fauni. Colpiscono i Ritratti maschili, di Bambina e di Ragazzi con l’Etna sullo sfondo o con flauto: “Sono immagini suggestive di una atemporalità mitica – scrive la Frezzotti che analizza l’evoluzione della fotografia nel periodo – su cui si innestano facce vere di autentici popolani meridionali”. 13 le opere che vediamo esposte.

Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1889-99

Di straordinario interesse, anche per il valore della luce nelle riprese fotografiche, le 12 opere in esposizione di Giuseppe Pellizza da Volpedo: colpisce la luminosità nelle foto “La vasca di Rosano con figure maschili in primo piano e una figura di sfondo“” per i suggestivi riflessi sull’acqua; poi siamo attirati dagli studi preparatori del “Quarto Stato”, con le fotografie “La piazza di Volpedo in un giorno di fiera” e “Studio di folla con contadini in un giorno di mercato”, che confluiranno nel dipinto cult di cui sono esposti diversi bozzetti pittorici di grandi dimensioni.

Una bella sorpresa la presenza con 3 opere del futurista Giacomo Balla, la cui pittura è influenzata dalla luce e dall’inquadratura fotografica, lo vediamo nel “Ritratto all’aperto”. Di Medardo Rosso sono esposte 30 opere che rivelano il rapporto della fotografia con la scultura in un’interpretazione del tutto personale distaccata dalla realtà ma rivolta a sottolineare gli aspetti che interessano, come nella documentazione fotografica delle sue opere scultoree con la luce e il taglio giusti. Siamo al termine del primo decennio del 1900, le molteplici rappresentazioni della “Femme à la voilette” e di “Ecce puer”  esposte mostrano come applicasse i suoi principi secondo cui “la luce è una tonalità che si estende all’infinito”, è la “vera essenza della nostra esistenza”, e noi siamo “scherzi di luce”.

Giacomo Balla, 1902-03

Il pittorialismo

Ed ecco il “pittorialismo”, che si sovrappone alle tendenze fin qui citate, dato che inizia nel 1889 nei paesi anglosassoni con il libro di Peter Henry Emerson, e si diffonde in Italia come “fotografia pittorica”, definita non solo “naturalistica” ma anche “artistica” fino agli anni ’20 del ‘900 ed oltre. Fu un processo parallelo e indipendente della pittura e della fotografia nell’allontanarsi dalla realtà: la prima lo fece, in particolare, con il divisionismo che agiva sulla materia del colore, la seconda con procedimenti che eliminavano i dettagli troppo realistici e facevano leva sul chiaroscuro. Nasce la “post fotografia” favorita dai nuovi ritrovati tra cui la gomma bicromata e il carbone.

Guido Rey ne fu il capofila, e la mostra fotografica del 1902 a Torino con la sua partecipazione lanciò il pittorialismo italiano. Le 10 opere esposte di Rey, dal 1897 al 1904, presentano l’’atmosfera ricostruita “ per dar corpo iconico ai propri sogni – scrive Marina Miraglia – per affermare la propria identità… in un sostanziale allontanamento dal reale e nel rifugio finale in epoche remote”, Così in “Scena romana”,Interno fiammingo” e nella stupenda visione di “Lettera”.

Medardo Rosso, 1906

Per l’atmosfera, ci hanno colpito in modo particolare le 10 opere in mostra di Filippo Rocci, del 1910,soprattutto il “Raggio consolatore”  che piove dalle inferriate sulla figura accasciata, e la luce diffusa nel cielo di “Paesaggio”  mentre la campagna è in ombra. Luce che, prosegue la Miraglia, “spesso inventata in fase di stampa, filtrata e diafana si fa portatrice del suo sogno”. Suggestive le scene agresti “Sulle rive del Tevere”  e “Al pozzo”, fanno sentire la nostalgia di idilli arcadici perduti.

Ritroviamo nel pittorialismo Wilhelm von Gloeden , che abbiamo già incontrato, con i “Nudi maschili variamente atteggiati” e un “Nudo maschile con drappo”, ardita visione frontale, il drappo è dietro al corpo. Ma ora ci interessa soprattutto parlare dei Ritratti di Gustavo Bonaventura: dei 14 esposti alcuni puntano sull’immagine sfuocata con maestria, come quello di “Livio Boni con violino”, la “Fanciulla bruna”  ripresa di spalle, il volto di profilo, fino agli stupendi “Giovane donna dai capelli fulvi e corti” e “Uomo con cappello a falde tese e mantello”; siamo all’inizio degli anni ’10 del ‘900, di questo periodo è anche il suo “Autoritratto”. A metà decennio il “Ritratto di Giacomo Medici del Vascello”, sfuocato anch’esso, con la voluta di fumo che esce dalla sigaretta; agli anni ’20-’30 appartiene il ben diverso “Ritratto di Carla Lodato”, morbido e pastoso, di un’intensità struggente.

Guido Rey, 1897

Il pittorialismo è al culmine, agli anni ’30 appartengono i “Provini per il ritratto della Regina di Grecia” e “Sua Maestà la Regina di Grecia”  di Eva Barrett, che ricorreva molto al ritocco della post-fotografia. Ormai incalza sempre più il “Modernismo”, che ha preso avvio già dal 1920 collocando la fotografia tra il classicismo e l’astrazione. Ne parleremo prossimamente a conclusione della carrellata nei 150 anni della fotografia al confine con l’arte evocati da questa grande mostra.

Gustavo Bonaventura, anni ’10

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna, viale delle Belle Arti 131, da martedì a domenica dalle ore 8,30 alle 19,30, lunedì chiuso. Ingresso alle mostre euro 10,00, ridotto euro 8,00 (over 65, under 18, gruppi e speciali categorie), scuole 5,00. Tel. 06.32298221; www.gnam.beniculturali.it Catalogo: “Arte in Italia dopo la fotografia, 1850-2000”, a cura di Maria Antonella Fusco e Maria Vittoria Marini Ciarelli, Electa, 2011, pp. 328, formato 21,5 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questa rivista “on line”  il 25 febbraio, il terzo e ultimo articolo uscirà l’11 aprile 2012. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, il primo articolo, con un’introduzione sui motivi dell’iniziativa, è uscito in questo sito il 26 dicembre, il terzo e ultimo uscirà il 28 dicembre 2019; sugli artisti citati, cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com su D’Annunzio il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, e su Balla e gli Impressionisti il 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2015 e, in cultura.inabruzzo.it, il 27, 29 giugno 2010 (tale ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’editore Electa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; viene indicato il nome dell’autore e l’anno delle opere, riportate per lo più nell’ordine in cui gli artisti sono citati nel testo. In apertura, opera di Francesco Paolo Michetti, 1895-900; seguono, opere di Giuseppe Primoli, 1890, e Giulio Aristide Sartorio, 1903; poi, opere di Wilhelm von Gloeden, 1903, e Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1889-99; quindi, opere di Giacomo Balla, 1902-3, e Medardo Rosso, 1906; inoltre, opere di Guido Rey, 1897, e Gustavo Bonaventura, anni ’10; in chiusura, opera di Eva Barrett, 1931.

fotografia.guidaconsumatore.it – Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 1° marzo 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

Eva Barrett, 1931

Fotografia e arte, 1. Gli esordi nella mostra alla Gnam, 7 anni dopo

di Romano Maria Levante

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Guglielmo Ciardi, 1888

L’artista  Massimo Omnis ha voluto augurare Buone Feste ai suoi   “followers” di Facebook  con  una sconfinata  galleria di  immagini delle  sue molteplici opere soprattutto pittoriche, ma anche scultoree e non solo,  comprese   fotografie evocative, si  assiste anche al momento creativo fino alla fase espositiva; sono oltre 250 immagini, tutte da vedere e gustare nel loro intenso cromatismo e nella loro intrigante figurazione di forme e  contenuti . E’ una vera innovazione, una grande  mostra nel social network,  eccezionale per la varietà compositiva e la maestria  artistica. Nella mostra del 2014 a Roma abbiamo potuto vedere da vicino le sue opere  di allora, in testa la spettacolare installazione “Il V Stato”, e le abbiamo commentate  nel  sito www.arteculturaoggi.com con un articolo reperibile alla data del 14 aprile 2014; le immagini attuali  aggiornano la galleria di cinque anni fa  con nuove ardite  esplorazioni e sperimentazioni unite a  rassicuranti conferme.  Per avere un’idea della forza creativa dell’artista basta rileggere le parole che ci ha rivolto su Facebook  il 24 dicembre scorso: “Non è facile tracciarsi una strada propria nel mondo dell’arte.  Io in tanti anni di arte a 360° ho cercato di creare bellezza ed emozioni. Non so se ci sia riuscito.  Continuo a credere che questa sia la strada giusta.  Non c’è giorno che io NON senta un qualcosa che mi spinge a creare… creare un qualcosa che non esiste ancora. Ecco, quando mi chiedono cos’è un artista, io rispondo sempre ‘un artista  è colui che crea una cosa che non esiste ancora’”.  Nei giorni precedenti ci aveva scritto, sempre su Facebook, che  sarebbe stato interessante approfondire e rendere noto ai nostri  lettori  il rapporto tra fotografia e pittura; anche perché nella  sua mostra virtuale su Facebook in molte immagini le due arti sono abbinate,  viene fotografato  davanti a un suo quadro o mentre lo completa, o in altri momenti della creazione, in composizioni che spesso  le  vedono compresenti.  Stimolati dalla sua osservazione e dal suo interesse abbiamo pensato di ripubblicare  i nostri  due servizi in 3 articoli ciascuno, usciti nei primi mesi del 2012 in occasione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, “Arte in Italia dopo la fotografia”,  e della presentazione negli stessi mesi del libro di  Marina Miraglia, “Fotografi e pittori alla prova della modernità” nella rivista “on line”  “fotografia.guidaconsumatore.it”,  il cui sito  non è più raggiungibile. Nei due servizi  vengono sviscerati i rapporti tra le due arti fin dalle origini, con gli  artisti-fotografi pionieri.    E’ un nostro omaggio all’inizio del Nuovo Anno per ricambiare il  regalo natalizio che ha fatto a tutti noi l’artista Massimo Omnis con la mostra virtuale su Facebook,  donandoci  ritratti coinvolgenti che restano dentro e paesaggi  che suscitano emozioni, come la profondità del mare e le immagini che evoca tra cui un viso femminile che ci ha riportati alla incantevole figura della “Leggenda del pianista sull’oceano”,  il  film di Tornatore al quale siamo  particolarmente affezionati.  Segue il 1° articolo del servizio sulla mostra del 2012, poi  in successione gli altri  2 articoli sulla mostra e ancora di seguito i 3 articoli sul libro di Marina Miraglia.

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Giacomo Favretto, 1883

Fotografia e arte, 1. Gli esordi nella mostra alla Gnam

fotografia.guidaconsumatore.it – Home > Mostre > Roma. Alla Gnam in mostra la fotografia con l’arte: gli esordi

“Arte in Italia dopo la fotografia”, la grande mostra che ha accompagnato la riapertura della Galleria Nazionale d’Arte Moderna il 21 dicembre 2011 rimane aperta fino al 4 marzo 2012. In collaborazione con l’Istituto Nazionale per la Grafica, è curata, con il Catalogo Electa, da Maria Antonella Fusco e da Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Galleria, a cui si deve la parte museale del nuovo ordinamento espositivo, e a Federico Lardera la parte architettonica e grafica. Aver scelto per la riapertura la mostra su fotografia e arte tra il 1850 e il 2000 ne sottolinea l’importanza: l’esordio si ferma prima del ‘900, con la fotografia utilizzata a sostegno della pittura.

Entriamo nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna, la facciata che si staglia imponente con la scalinata monumentale colpisce il visitatore che risale viale delle Belle Arti, dove si incontrano altri complessi monumentali, tra cui le famosa Valle Giulia. Il vasto atrio dà un altro benefico shock, il pavimento in specchi spezzati è un primo segno di modernità rispetto ai normali calpestii, poi c’è il salone centrale cosparso di testimonianze tra le più celebri dell’arte contemporanea.

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Bernardo Celentano, 1857

Nei tre grandi settori cronologici dal 1800 al 2000 sono comprese sale tematiche, dal mito alla storia, dalla realtà alla modernità, dal tempo allo spazio; c’è molto altro di permanente, nel nuovo allestimento museale, ma siamo qui per la mostra temporanea che copre significativamente un arco di tempo molto vicino a quello dei settori cronologici, dal 1850 al 2000. Si tratta della storia della fotografia nei rapporti con l’arte dagli albori nella metà dell’800 al livello avanzato raggiunto nel terzo millennio, una carrellata di 150 anni – come l’Unità d’Italia – con circa 500 opere esposte.

Gli esordi della fotografia

Siamo agli albori, la prima delle sette sezioni della mostra riguarda il periodo dal 1850 al 1900. E’ il periodo iniziale in cui la fotografia fu a sostegno della pittura e anche strumento di diffusione della conoscenza delle opere, nonché mezzo per documentare la produzione e farne dei repertori.

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Carlo Baldassarre Simelli, 1857

Alla fotografia si negava allora la qualità artistica, considerandola il risultato di meri procedimenti tecnici, a parte alcune figure come Pietro Estense Selvatico: professore di estetica divenne presidente dell’Accademia di Venezia e sin dal 1852 promosse l’impiego della fotografia nella formazione artistica accademica con il discorso “L’arte insegnata nelle Accademie secondo le norme scientifiche”, e lo ribadì nel 1859 nello scritto “Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte”, Suoi seguaci i pittori Guglielmo Ciardi, che raccolse fotografie di Simelli, e Giacomo Favretto, che “interiorizzò lo sguardo fotografico”, come ricorda Maria Francesca Bonetti.

Della fotografia, cui veniva negata la creatività, si apprezzava quello che Miraglia ha chiamato “potere di mimesi”. Per questo motivo se ne raccomandava l’impiego ai pittori in sostituzione delle copie che si facevano nelle Accademie; restando relegata alla funzione di modello quasi meccanico che doveva servire di ausilio alla creazione artistica riservata ai pittori.

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Giacomo Caneva, 1855

I primi impieghi della fotografia come supporto della pittura si ebbero a Napoli, e alla metà dell’800 divenne un sistema aggiuntivo rispetto al disegno dal vero e dall’antico, finendo per influenzarlo. Nel ritratto sostituiva le lunghe pose dal vero e veniva utilizzata anche per l’ambientazione di un personaggio in un luogo caratteristico e per i fondali architettonici dei dipinti.

Di tutto questo la mostra dà una copiosa documentazione con le fotografie prese a modello e le opere pittoriche derivate nell’epoca degli “Esordi” del nuovo mezzo. Tra i pionieri, per così dire, vi fu Bernardo Celentano, che in preparazione al dipinto” Studio per il Benvenuto Cellini a Castel Sant’Angelo”, oltre ad 80 disegni a matita, penna e acquarello, utilizzò i primi fogli fotografici su carta salata per studiare composizione, inquadratura e luce; vediamo esposti, oltre al dipinto finale, una fotografia preparatoria di Carlo Baldassarre Simelli dallo stesso titolo con il gruppo di amici nelle posizioni dei personaggi di Cellini, un modello dal vero fissato dall’obiettivo fotografico.

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Michele Cammarano, 1855

Medesimo procedimento nello “Studio per San Francesco Saverio predica ai giapponesi”, dello stesso Celentano, il modello fotografico è di un autore non identificato. Siamo nel 1857. Mentre per lo “Studio per il Consiglio dei dieci”, del 1860, sono suoi sia la foto preparatoria sia il dipinto finale. Nel 1859 Cammarano, dovendo fare un concorso il cui tema era un paesaggio roccioso con grotte, chiese delle fotografie a Celentano che si trovava a Roma, il quale gli promise una veduta aderente alle sue necessità, però ben diversa dal paesaggio romano ampio e basso e senza asperità.

Tornando al 1857,  vediamo “Bernardo Celentano nel Chiostro della basilica di San Giovanni in Laterano”  fotografato da Simelli, lo stesso “Chiostro” che appare già nel 1850 in una fotografia di Giacomo Caneva. Di quest’ultimo è esposta una vasta serie di fotografie della Campagna Romana e vedutedel Tevere,nonché Studi di donne in costume;ebbene, il dipintoStudio di donna a Montemario”di Vincenzo Cabianca, del 1862,segue il modello fotografico in ogni dettaglio. Sono i temi anche delle fotografie di Federico Faruffini, con “Studio di modella in costume”  e “Portatrice d’acqua”, siamo nel 1868-69, cui sono affiancati in mostra i dipinti di Contadine di Francesco Palizzi evidentemente ispirati ai modelli fotografici di giovani donne in abiti tradizionali.

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Vincenzo Cabianca, 1882

Utilizzò modelli fotografici Domenico Morelli nei suoi dipinti di soggetti orientalisti e religiosi, sia per i luoghi, come la Palestina, dove non era mai stato ma li conosceva dalle fotografie che si faceva inviare – una specie di Salgari “ante litteram” della pittura – sia per i soggetti, come il monaco nelle “Tentazioni di Sant’Antonio”, 1877, e gli arabi genuflessi in “La preghiera di Maometto”, 1885.

Tanto Morelli quanto Celentano e gli altri si servirono della fotografia per diffondere i loro dipinti, oltre che come modello per le riproduzioni dal vero. Abbiamo citato le foto di Faruffini, dobbiamo tornarci perché con lui inizia la svolta: era un pittore che passò alla fotografia nel 1868, sollecitato da Caneva, e pur dando ad essa un ruolo di mero supporto alla pittura di altri artisti, vi trasferì la visione pittorica nel taglio e nel chiaroscuro, andando anche oltre l’elevata qualità del Caneva. Costruiva le composizioni disponendo i soggetti in diverse condizioni di luce cambiando gli abiti per gli effetti coloristici, mettendo a frutto la sua esperienza di pittore in una continuità stilistica.

Federico Faruffini, 1868-69

I pittori paradossalmente non apprezzavano questo sconfinamento dalla fotografia all’arte e lui stesso se ne rendeva conto, tanto che nel 1868 scrisse in una lettera: “Taglio le fotografie troppo da pittore, e all’artista non rimane altro da fare che molto poco, questo vuol dire che fo il fotografo troppo bene. Conclusione, non mi rimane che crepare. Sarà l’unica cosa che non avrò fatto male”, così ricorda Colasanti citato da Rita Camerlengo nel saggio sulla fase degli esordi. Faruffini si toglierà la vita nel dicembre del 1869, ma avrà fatto compiere un notevole passo in avanti alla fotografia, che con lui comincia ad emanciparsi dal mero ruolo di sostegno della pittura e a sviluppare in modo autonomo la propria creatività verso quelle forme di arte prima negate.

Fotografia e pittura tendono a non essere più associate nella mimesi del mondo reale pur se con strumenti e ruoli diversi: la prima in funzione ancillare, la seconda con la nobiltà artistica. Vanno alla ricerca di un nuovo linguaggio che le distacca tra loro e le allontana dalla mera riproduzione della realtà, che prima era il compito fondamentale. Una rivoluzione copernicana che la fotografia ha determinato anche nella pittura oltre che in se stessa, in presenza di una rapida evoluzione tecnica che ha creato nuovi problemi, anche sul fronte commerciale, ma aperto nuove prospettive. Ne parleremo presto continuando il nostro viaggio nella fotografia inquadrata nell’arte in Italia.

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Filippo Palizzi, 1864

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna, viale delle Belle Arti 131, da martedì a domenica dalle ore 8,30 alle 19,30, lunedì chiuso. Ingresso alle mostre euro 10,00, ridotto euro 8,00 (over 65, under 18, gruppi e speciali categorie), scuole 5,00. Tel. 06.32298221; www. gnam.beniculturali.it. Catalogo: “Arte in Italia dopo la fotografia, 1850-2000”, a cura di Maria Antonella Fusco e Maria Vittoria Marini Ciarelli, Electa, 2011, pp. 328, formato 21,5 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno in questa rivista “on line”  il 1° marzo e l’11 aprile 2012. Aggiornamento: nella ripubblicazione attuale, i due prossimi articoli usciranno in questo sito il 15 e 20 febbraio 2020.; questo servizio si ricollega a quello sulla mostra del 2012 alla Gnam, “Arte in Italia dopo la fotografia, 1850-2000” ripubblicato in questo sito il 26, 27, 28 dicembre 2019. In merito agli artisti citati, su Palizzi cfr. i nostri articoli in cultura.inabruzzo.it per la mostra “Gente dì Abruzzo”, 10, 12 gennaio 2011 (sito non raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’editore Electa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; viene indicato il nome dell’autore e l’anno delle opere, riportate per lo più nell’ordine in cui gli artisti sono citati nel testo. In apertura, opera di Guglielmo Ciardi, 1888; seguono, opere di Giacomo Favretto, 1883, e Bernardo Celentano, 1857; poi, di Carlo Baldassarre Simelli, 1857, e Giacomo Caneva, 1855; quindi, di Michele Cammarano, 1855, e Vincenzo Cabianca, 1882; inoltre, di Federico Faruffini, 1868-69, e Filippo Palizzi, 1864; in chiusura, opera di Domenico Morelli, 1877.

fotografia.guidaconsumatore.it -Autore: Romano Maria Levante – pubblicazione in data 25 febbraio 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com

Domenico Morelli, 1877

Cagli, 3. Disegni e grafiche, sculture e ceramiche, arazzi e costumi, al Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Si conclude, dopo l’inquadramento critico e la galleria dei dipinti, la nostra narrazione della mostra “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”,  aperta  dall’8 novembre 2019 al 6  gennaio 2010, un’esposizione  di 200 opere che agli 80 dipinti già commentati unisce 100 disegni e grafiche, sculture e ceramiche, arazzi, scenografie e costumi teatrali, espressioni  della sua arte poliedrica cui è dedicata questa rassegna finale. La Fondazione Terzo Pilastro Internazionale ha promosso la mostra, ideata dal suo presidente,  Emmanuele F. M. Emanuele,  l’organizzazione è di Poema S.p.A. con il supporto di Comediarting, è curata da Bruno Corà, insieme al catalogo della Silvana Editoriale, in collaborazione con l’Archivio Cagli.

Costume per Apollo”, 1969

In precedenza, nel ripercorrere le diverse fasi con le marcate  innovazioni stilistiche della pittura di Cagli  abbiamo  citato la sua continua presenza nel mondo artistico con partecipazione a concorsi e rassegne e un’intensa attività espositiva  in Italia e iniziative anche all’estero. Soprattutto negli anni ’50 e ’60  non solo quasi ogni anno ci sono state sue presenze in mostre personali e collettive, ma questo è avvenuto  spesso in gran parte dei mesi nei singoli anni, a Roma per lunghi periodi mostre annuali e ripetute nel corso dei mesi. Cagli era sempre presente, e questo è proseguito anche negli anni successivi, a Roma fino al 1999, poi un vuoto finalmente colmato con questa mostra. Che ha anche il merito di dare un’idea completa della sua arte perchè sono presenti i diversi generi artistici da lui coltivati, quale manifestazione, con l’arte pittorica, della sua multiforme versatilità espressiva che, come per Picasso e de Chirico, arriva fino al teatro.

Disegni e grafiche, dal mito alla cronaca

L’importanza che dava al disegno non riguarda soltanto il lato artistico, ma anche il contenuto, tanto che nell’ultima fase della vita ebbe a dire “disegnare vuol dire appunto capire e giudicare” e usò la grafica per le opere ispirate a quanto premeva in lui sul piano civile, sociale e umano. Detto questo, un aspetto delle opere grafiche che va rimarcato è la tecnica usata in alcune serie, il “disegno a olio su carta”: dopo aver appoggiato il foglio della composizione su un altro foglio preparato con olio,  impregnava  soltanto il tracciato che segnava con una punta o, negli ultimi disegni, premendo sul foglio per l’ombreggiatura. E’ una tecnica che ricorda il procedimento calcografico a cera e l’incisione, con cui ha in comune la circostanza che non poteva vedere il risultato fino a quando non rovesciava il foglio,  elemento significativo perchè “mette in evidenza l’esigenza di creare un distacco, quasi una ‘mediazione’ alla sua esuberante creatività”.

“Orfeo incanta le belve”, 1938

Sono parole di Antonella Renzitti  la quale approfondisce l’aspetto tecnico, anche in relazione ad opere  che vengono considerate –  come si è fatto in precedenza  – tra i dipinti ma utilizzano la carta tanto da essere definite “Carte”,  con delle  interessanti peculiarità.  Cita “Oregon” e “Scacciapensieri” del 1950, “Bagatto” e “Arlecchino come bagatto” del 1952 e 1956, realizzati “impregnando di colore delle strutture primarie e e imprimendole poi sulla carta intelata secondo una precisa volontà compositiva  fatta anche di sovrapposizioni di materia cromatica”. Esecuzione senza pennello nella pittura veramente anticipatrice.

Questa precisazione per evidenziare come la poliedricità e l’eclettismo di Cagli oltre che nella cifra stilistica sia presente anche nella parte prettamente tecnica e nei contenuti. In particolare, l’arte grafica è  stata da lui praticata largamente come congeniale alle sue esigenze creative di spirito libero, insofferente delle convenzioni, e attento osservatore della realtà. “Il disegno e la grafica infatti – osserva la Renzitti – gli hanno consentito  di  sperimentare liberamente modalità espressive inconsuete, soprattutto perché attraverso il disegno è riuscito a far emergere il lato più intimo della sua sensibilità artistica”; con le opere su carta “ha comunicato la sua partecipazione alle sofferenze e alle aspirazioni dell’umanità”.  Ma  non solo questo, la sua ricerca del mito nel senso classico che abbiamo visto emergere dai dipinti, la troviamo nei disegni della prima fase, soprattutto degli anni ’30, con dei ritorni anche quando seguiva impulsi provenienti dalla realtà.

Elogio della pazzia”, 1964

Lo vediamo in una serie di disegni  del periodo iniziale, 1932-33, per lo più su temi mitologici e dell’antichità,  come “La maga Circe” e  il trittico “Morte di Icaro”- “L’uomo in cielo”- “Il volo degli uccelli”, “Viaggio a Paestum” e “II ex tempore”, “Allegoria” e “L’uomo e il leone”, “Maratoneti” e Dannati”,   il segno è sottile, le figure sono ben delineate, è il primo approccio con il mito che per lui è una fonte primaria di ispirazione.

Ma già nel 1933, con “Penelope”,  il segno diventa più marcato, poi  dal 1934 subentra un tratteggio che crea chiaroscuri e figure abbozzate, in “Falconieri”  e ”Gladiatori”, seguiti negli anni successivi da “Il pittore e la modella” e “La chiromante” nel 1935, “Davide con la testa di Golia” , composizione con molte figure e ombreggiature, e Orfeo incanta le belve” nel 1938, preparatorio dell’affresco, non conservato,  creato per la rotonda della Biennale di Venezia secondo l’immagine che ne dà Ovidio, canto ammaliante ma triste destino, qui presentimento della guerra. Intanto Cagli lascia l’Italia per sfuggire alla persecuzione degli ebrei per la Francia, presto andrà negli Stati Uniti.  Nel 1939 abbiamo  “Pellegrino”, forse autobiografico, senza segno né tratteggio, un’ombreggiatura leggera sul rosa con un nudo seduto a terra e il diversissimo “La morte di maggio”, due figure umane contrapposte con una scritta leonardesca.   

Del 1940 su temi mitici due “Davide  e Golia”, nel primo il segno è sottile con ombreggiature, nel secondo  il tratteggio marcato dà a Davide un vigore michelangiolesco; vigore che, questa volta con il segno sottile, riscontriamo nei corpi chini dei  “Pellegrini” e “Neofiti”. E’ anche l’anno della serie “Allegorie”, né tratteggio né segno sottile, ma linea più marcata e nervosa: così in “Allegoria del trionfo” e “Allegoria della semina”, “Allegoria veneziana” e “Allegoria del pesce che vola”, “Allegoria del  massimo tronco” e “Allegoria della fontana sbagliata”, composizioni movimentate, nelle ultime tre ritroviamo il vigore michelangiolesco.  

“Capobanda” con “Gente a Partinico”, 1975

L’inquietudine pervade tre opere successive, “Manovre e memorie” 1941,   con tante  figure appena delineate per lo più a terra disperse su un paesaggio lunare,”Solo per cello” 1942,  dove il tratteggio crea un’immagine scomposta  da incubo,  anche in “Trinacria”  la figura è scomposta.  Nel 1944 l’incubo si materializza nella guerra  e Cagli, arruolatosi nell’esercito americano nel 1941, come abbiamo ricordato, partecipa da combattente allo sbarco in Normandia e poi alla battaglia delle Ardenne. Ce n’è  un’eco, forse ancora di tono autobiografico, in “L’attesa” , con una mamma ansiosa seduta alla finestra, mentre ritorna il soldato appoggiato a un bastone, e “Allegoria”  in cui è delineata nervosamente con segno sottile una lotta armata, una figura è a terra.

E’ allegorica perché ci sono armi da guerrieri antichi come simbolo della guerra cui ha partecipato.  Ma  nessun simbolo bensì cruda realtà nella serie “Buchenwald”, sul campo di sterminio da lui visitato come militare nel 1945 trovandosi nella vicina Lipsia al termine della campagna d’Europa. Ritrae nello stesso anno l’orrore dei cadaveri distesi a terra, con il primo piano del viso stravolto dalla morte o il campo lungo dei corpi con le membra contorte e scheletriti, anche ammucchiati, mentre incombono i reticolati e le torri di controllo delle sentinelle.

“Portella della Ginestra” con “Sulla pietra di Barbato”, 1975

Il contatto con le “sofferenze e le aspirazioni dell’umanità” di cui parla la Renzitti gli fa manifestare in queste visioni tragiche la straordinaria forza espressiva di un dramma sconvolgente.  La ritroviamo nella serie di 18 disegni a olio “La pietra di Barbato”, del 1967,  il masso di Portella delle Ginestre dal quale i sindacalisti  arringavano i lavoratori accorsi nel pianoro  per celebrare con le famiglie la festa del lavoro  del 1° maggio  1947 quando il fuoco della banda Giuliano uccise 11 persone,  tra cui 2 bambini, fu un eccidio. Nelle 4 grafiche esposte vediamo ritratti i giovani che sventolano bandiere, altri cadono a terra, si è voluta annientare la vitalità per cancellare anche la speranza;  le aspirazioni si erano tramutate in sofferenze soltanto due anni dopo la fine del conflitto quando si cercava di risorgere dalle rovine con il lavoro, e averne reso il clima con tale intensità  mostra come fosse ancora sentito quel tragico evento pur essendo  trascorsi venti anni; nel retro dei fogli trascrisse i versi di Danilo Dolci,  e di Li Causi, il primo fautore della “non violenza”, messaggio pacifista contro la violenza belluina della strage. Completano il quadro ambientale “Capobanda” e “Gente a Partinico”  il primo con le figure proterve dei banditi, il secondo con i siciliani costretti a subire i soprusi nella paura e nell’omertà.  

Del  1976  la sua partecipazione a un altro dramma collettivo, non dimenticato dopo un quarto di secolo, l’alluvione del Polesine del 1951, in una serie di grafiche, ne vediamo 6, fortemente tratteggiate e ombreggiate a differenza delle precedenti. E’ “La rotta del Po” , immagini eloquenti dell’acqua che esonda con violenza, trascina via gli animali, con le persone rifugiate sui tetti e le barche che portano aiuto.

“La rotta del Po”, animali travolti con persone sui tetti, 1976

Nello stesso 1976 vengono tradotte in serigrafia le grafiche ben diverse nella forma visiva e nel contenuto, create nel 1964, “Elogio della pazzia”,  sono esposte le 16   tavole originarie, disegnate su carta riso con inchiostri colorati, a differenza delle grafiche fin qui commentate. Si tratta della sua interpretazione del pensiero di Erasmo da Rotterdam, il filosofo olandese che era contro ogni forma di intolleranza e dogmatismo e faceva appello alla follia  come fonte di sapienza.  Così la Renzitti: “I meandri della ragione sono rappresentati da Cagli con spazi labirintici, alcuni particolari sono resi con segni concentrici o elementi grafici ripetitivi, gli spazi dell’inconscio sono rappresentati da strutture intrecciate o da poligoni irregolari sovrapposti, stratificati. In alcuni casi riconosciamo nell’intreccio segnico i cosiddetti ‘nidi di rose’”. Riconosciamo Mosè con le tavole della legge, dei cardinali con alle spalle il Crocifisso, e anche il Papa; oltre agli intrecci segnici ci sono tratti paralleli incurvati che ricordano le isobare e le linee di livello altimetrico. Del 1976 anche “Il mio segno”,  un giovane dall’espressione vivace cammina con appoggiato alla spalla destra un ramo cui è attaccato un pesce, un altro pesce lo tiene appeso alla sua mano sinistra, il titolo è eloquente, era nato il 23 febbraio sotto la costellazione dei Pesci.

E’ figurativo, come lo sono “Ungaretti”, 1969, omaggio al grande poeta a lui tanto vicino – lo aveva accompagnato al treno nel suo espatrio a fine 1938 – e “Cecilia” 1962: Invece “Capitano di ventura” 1961, è un volto riconoscibile, delineato da tratteggi più o meno fitti, come quelli, nello stesso anno,  di “Composizione” ; e “Diogene” , che risale al 1949,  è una sorta di intelaiatura grafica in cui si riconosce la vaga forma della persona con la lanterna. Infine in “Girasoli”  l’elegante intreccio di linee  dà un senso al titolo, come avviene in “Labirinto”,   linee di livello addensate  in modo inestricabile. Sono entrambi del 1967,  ma questo non indica una rarefazione finale, dato che sia pure nel tratteggio incrociato e non in questa stessa leggerezza l’abbiamo trovata compresente già nel 1961.

“La rotta del Po”, soccorritori con due barche, 1976

Sculture e ceramiche

Il primo riferimento va fatto a “Diogene” 1968 che ha colpito l’immaginazione dell’artista al punto da raffigurarlo in pittura, disegno e scultura sempre con la stessa forma espressiva, un intrico di linee che dai segni molto marcati su fondo giallo del dipinto diventano intelaiatura vuota nel disegno tradotta in un reticolo metallico nella scultura, ed è facile capire il perché di questo interesse, Cagli è andato alla ricerca dell’uomo  con la lanterna della sua arte; non si differenzia molto nell’apparenza  esteriore La gabbia” 1969, in un collegamento temporale che invita a una interpretazione congiunta. Nei due anni si sono avuti la contestazione giovanile e l’autunno caldo, con la rivendicazione di trovare e instaurare nuovi rapporti civili e sociali espressa nelle tumultuose proteste degli studenti e dei lavoratori, pur senza la pazienza della ricerca di Diogene; e questo rompendo la gabbia oppressiva delle convenzioni e dello sfruttamento.

Ma a parte questi contenuti, indubbiamente profondi, ci interessa la peculiarità di un tipo di scultura fatto di fili di ferro  incastellati in una architettura compositiva evidenziata nei disegni, non basata sull’elemento materico, ma su quello dimensionale. Nel senso che viene evocata la “quarta dimensione” nell’ambito della  “geometria proiettiva” di Donchian,  che abbiamo già ricordato in precedenza avendo dato l’avvio a un ciclo pittorico dal quale il passaggio alla scultura è stato naturale: il pittore, infatti, operando su un piano bidimensionale può aspirare solo alla terza dimensione, per la quarta occorre il rilievo della scultura  che occupa lo spazio tridimensionale, una scultura aerea senza il peso della materia di tipo tradizionale.

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Diogene”, 1968

L’artista , osserva Marco Tonelli, con i suoi reticoli di fili di ferro – a differenza di Picasso e Calder che li hanno utilizzati anche loro –  “non vuole realizzare sculture nello  spazio, ma vuole rappresentare lo spazio, il che è ben diverso”Ed ecco come questo viene spiegato: “Per Cagli  la scultura dunque non riguarda la materia, la tecnica, i materiali, ma la sostanza di cui si compone lo spazio  in senso matematico-geometrico, di ‘quarta dimensione’ cioè, e se non possiamo ancora parlare di forze, di certo si tratta di struttura interna allo spazio stesso”. Avrebbe anticipato la recente teoria quantistica dei “campi granulari”  composti di particelle elementari e “quanti di gravità” che, secondo il fisico Carlo Rovelli, “non vivono immersi nello spazio; formano essi stessi lo spazio. Meglio, la spazialità del mondo è la rete delle loro interazioni”.   

Il “Progetto del memoriale ‘la notte dei cristalli’” 1970, si basa su questi concetti, e abbiamo già ricordato in precedenza l’occasione in cui gli fu commissionato, la sua realizzazione e collocazione nel luogo fatidico a Gottinga: “Un elemento triangolare sviluppato  secondo una rigida progressione ascendente di calibratissime  proporzioni matematiche, culmine di un discorso sullo spazio iniziato ventiquattro anni prima  e sperimentato attraverso cicli di sculture filiformi, a nastro e a rilievo, che hanno avuto come contropartita disegnativa   iconografie cellulari e mutazioni modulari e cellulari”.

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“Pescatore”,1930

Ed è logico questo riferimento, avendo in mente che il Vasari diceva: “Scultura e pittura sono sorelle nate d’un padre  che è il disegno”,  mentre Tonelli ne precisa il significato  definendolo “una sorta di sostanza originaria, fondamentale e universale che preesiste all’architettura, alla pittura stessa e alla scultura: non un semplice abbozzo, schizzo o progetto, ma  qualcosa di ancor più originario. Il che  equivale a dire di conseguenza che la ricerca dello spazio  in Cagli non fosse solo questione di scultura, ma di un principio che è a livello di pensabilità e di attuazione della forma, di qualsiasi forma”.

Abbiamo visto le sculture filiformi nei reticoli dei già citati  “Diogene” e “La gabbia”; per le sculture a nastro, “A Ganesh” 1967 precede di tre anni il progetto del “memoriale”  appena descritto anticipandone  la forma piramidale e la forza ascensionale, data da strati di nastri sovrapposti;  laddove nel “memoriale” abbiamo  barre orizzontali che si incontrano in diverse nervature per comporre  un suggestivo poliedro a base triangolare evocativo e celebrativo del sacrificio di tante vittime nella tragica notte del 1938. Molto più indietro nel tempo “Cicute” 1955, una successione di simil bambù  di varia lunghezza uniti anch’essi con tendenza ascensionale.

Questa  coerente ed elaborata impostazione spaziale viene dopo la folgorazione americana delle “geometria proiettiva” di Donchian, mentre in precedenza e soprattutto nei primi anni le sue sculture sono figurative partendo dalla ceramica che è stata la sua iniziale attività formativa: entra nella fabbrica di ceramiche d’arte Rometti di Umbertide nel 1929 seguendo l’artista Dante Baldelli che aveva conosciuto nell’Accademia delle Belle Arti di Roma, e ne viene  nominato direttore artistico nel 1930. 

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Da sin., “Susanna” 1931 e “Il cielo” 1930, “Santone”1928-29 e “Icaro” 1929, nella parete i dipinti,  da sin. “Fiori” 1936, “La romana”  1934, “La tromba e il calice” 1935

Sono esposte le prime opere, “Santone” e “Icaro”  del 1929, veramente totemici nel “nero fratta” lucido che qualificherà la ceramica Rometti. Subito passa a uno stile da “Art Déco”, come in “La dea Venere” , dello stesso anno, un delicato profilo bidimensionale nero con delicati contorni gialli, cui si possono assimilare nella forma compositiva i due piatti del 1930,  “Mietitrice” e “Pescatore”. Molto diversi“I quattro venti” , nella quadripartizione in una retinatura ocra, e “Il cielo”, un triangolo evocativo al culmine di un cono; mentre “Serena” 1931 è una testa dall’espressione severa in cui si sente l’eco della statuaria classica. Deve lasciare la fabbrica e l’attività che vi svolge nel 1933 perchè non tollera certe sostanze della produzione ceramica, comunque è già impegnato nella pittura cui ora può dedicarsi totalmente.

Arazzi e teatro, con scenografie e costumi

Gli Arazzi ci consentono di passare dai  generi artistici finora considerati – disegno e grafica, scultura e ceramica,   oltre alla pittura di cui abbiamo parlato in precedenza – alla attività per il Teatro che è stata particolarmente intensa. Vediamo gli arazzi come tramite perché, pur se riferiti alla pittura e al disegno, con le loro dimensioni assumono una spettacolarità di tipo teatrale; preparò oltre 50 appositi cartoni pittorici per l’arazzeria Scassa, la quale li tradusse in arazzi anche di grandi dimensioni, fino a 6 metri per 3, come “Apollo e Dafne” con un impegno nella tessitura di 500 ore per metro quadro. La felice collaborazione tra l’artista e l’arazzeria ebbe inizio con 16 arazzi per il salone delle feste della turbonave “Leonardo da Vinci”.

In  “Enigma del gallo” 1962, e “La ruota della fortuna” 1969, vediamo fedelmente tradotti nel grande tessuto i due dipinti omonimi del 1958 e 1959, mentre in “Tripudio” 1973 riconosciamo gli intrecci cromatici dei dipinti “Demoni”  e “Minotauro” del 1966-67,  pur nella diversa disposizione compositiva, non più strisce ma forme geometriche quadrate o circolari come in “Chiocciole”.

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“Enigma del gallo”, 1962

Tancredi”  1977  richiama nell’ambientazione naturale e nella composizione il dipinto di vent’anni prima, “Apollo e Dafne”, cui dedicò un arazzo apposito di grandi dimensioni, e come nella leggenda ovidiana tradotta in uno dei pochi figurativi degli anni ’50, l’eroe cavalleresco è immerso nella natura, questa volta tra ombre e sagome misteriose; ma non c’è questo solo rimando, per l’opera lirica “Tancredi”  curò scene e costumi  nel 1952,  unendo elementi figurativi ed elementi  astratti  su uno sfondo pastorale.

Entrati così nel campo delle  scenografie e dei costumi per il Teatro dell’artista, premettiamo che si è definito “pittore per il teatro e non scenografo”,  riaffermando il legame stretto con la sua arte pittorica, e lo abbiamo appena visto negli arazzi; inoltre,  soprattutto per i balletti, il legame con la musica per la quale aveva una vera predilezione.

Così Rita Olivieri interpreta questo legame: “Fra la pittura e il teatro vi è, dunque, un rapporto di reciprocità, di intense stimolanti sollecitazioni e di problematiche, talvolta, comuni; in questa relazione vivissima di dare e avere, la scena non è mai un’opera da cavalletto ingigantita a fondale, né le strutture sceniche possono considerarsi sculture trasferite in palcoscenico; bensì entrambe, pittura e scultura si reinventano nei vari contesti sia mutuando la poetica passata, e già completamente esplicitata, sia anticipando modalità espressive  inedite, che andranno anch’esse a costituire il linguaggio dell’artista”.

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“La ruota della fortuna”, 1969

Si è visto per Picasso e de Chirico, lo vediamo ora per Cagli il quale compie, nelle parole di Crispolti, un percorso, che lo impegna e lo appassiona, “di sperimentazioni visive e di fenomenologia figurale”, nella ricerca dei materiali e delle formule espressive, figurative e anche astratte, in grado di rappresentare la sintesi di scena e azione, parola e musica, luce e costumi.

Inizia negli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra, collaborando alla “Ballet Society” fondata nel 1946 da alcuni promotori tra cui  il coreografo Balanchine,  con cui entra in uno stretto rapporto, rafforzato dalla propria passione per la musica; al riguardo collabora anche con il “Ballet Russe de Montecarlo”, vediamo esposti due bozzetti del 1946-47, “Cover design” e “Grand jeté”.  Seguono, nel 1948, quelli dei costumi  per “Il trionfo di Bacco e Arianna”,  in  “Bacco”  e “Arianna”  gli abiti sono succinti per far risaltare le fronde che incorniciano le teste, mentre è  molto colorato il bozzetto del costume di “Re Mida”,  e per “I Satiri”   e “Sileno”   annotazioni al margine che confermano il suo interesse per l’intero spettacolo teatrale. Negli anni ’50 e ’60 l’impegno nel teatro continua. Ricordiamo, oltre al già citato “Tancredi” del 1952 al Maggio musicale fiorentino,  “Bacco e Arianna” del 1957 al Teatro dell’Opera di Roma, “Il misantropo” del 1959  al Teatro Olimpico di Vicenza,  “Macbeth”  del 1960 al Teatro alla Scala di Milano; per  questo sommo teatro  nel  1962  realizza i  bozzetti per “Semiramide”, non andata in scena, e nel 1965-66 per “Le miniere di zolfo”, regista John Huston dopo la regia di Luigi Squarzina nel “Macbeth”.

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“Tancredi”, 1977

L’anno successivo, il 1967, prepara i bozzetti per fondali, quinte e costumi di “Jeux”  al Teatro dell’Opera di Roma; poi, nel 1968, per “Estri” rappresentato al Teatro Caio Melisso di Spoleto, nella scenografia una struttura metallica con un gigantesco “P greco”, nei lavori  per il teatro a seconda dei periodi applica le proprie tecniche artistiche del momento, qui la “quarta dimensione”  di “Diogene” e “La gabbia”, nelle altre  le “Carte”, con le “impronte dirette e indirette” e le “metamorfosi”. Con il 1969  il balletto drammatico “Marsia”, nel quale con pastelli cerosi a olio interpreta nei bozzetti dei costumi  il mito ovidiano sulla sfida musicale del suonatore di flauto alla divinità e la sua vendetta, vediamo il bozzetto del “Costume per Apollo” e “per Marsia”“per le ninfe” e “per gli Sciiti”, spettacolari nel loro  intenso rilievo cromatico.

Il 1970 segna il ritorno al Maggio musicale fiorentino con “Persephone”, di cui vediamo esposti un bozzetto del “Costume per Persephone”  e uno su “Eumolpo e Persephone” con raffinati motivi floreali;  vi resta nel 1971 con “Fantasia indiana”, che viene replicata alla Staatsoper di Vienna  nel 1972,  sono esposti i “Costumi per lo sposo” e “per la sposa”, “per gli 8 uomini della tribù” e “per il capotribù”,   ben diversi da quelli citati  finora, sono geometrici e richiamano  i motivi di “Demoni” e “Minotauro”.

Lo ritroviamo a Firenze nel 1974 con “Agnese di Hoenstaufen”, regista Franco Enriquez, direttore Riccardo Muti  il quale apprezzava la sua costante presenza alle prove, “discutendone dopo e aprendo talvolta orizzonti  che potevano gettare nuova luce sull’ intero risultato artistico”; il “Costume per Agnese” , “per Enrico VI” e “per il duca di Borgogna”  sono a loro volta l’opposto dei precedenti, ma nella classicità vediamo i cerchietti di “Buglione” e Pale”.

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“Grand jeté”,1947

Nel 1975, scene e costumi per il “Filotette” al Teatro comunale dell’Aquila,  regia di Glauco Mauri, rappresentata l’8 marzo e replicata al Teatro Argentina di Roma il 2 aprile: citiamo per la prima volta i giorni perché tra le due date, il 28 marzo, muore all’improvviso nella sua casa a Roma. In quell’inizio di anno di intensa attività teatrale aveva progettato scene e costumi per  la “Missa brevis” di Igor Stravinski, che verrà portata sulla scena il 29 ottobre. Divenne così una messa virtualmente alla sua memoria.

Vogliamo coronare la carrellata sull’opera di questo grande artista con le parole di Angelo Calabrese, il quale nel ricostruire il suo intenso rapporto con la poesia e i poeti, primo tra tutti Ungaretti, lo definisce così: “Genio  dell’arte del Novecento, proiettato in una storia dell’umanità totalmente altra. Corrado Cagli intuiva e ragionava in termini d’energia metamorfica e viaggiava verso l’ignoto, contemplandosi e interrogandosi su tutti i possibili sentieri da tentare verso gli spazi cosmici, sperimentando temporanee mete in successione, dove la sapienza degli uomini umani distilla  dalla scienza delle poesia”.  Per concludere: “Uomo di libertà, era convinto che il meglio a venire, poteva solo derivare da un atto coscienziale… dalla sapienza cum scientia coniuncta , cioè dall’arte, che è poesia, che ha vita dentro di noi e che crea doni  come testimonianze di conquiste sempre progressive, le quali sono comunque un passo verso l’incommensurabilità cosmica”. 

E’ un insegnamento di cui si ha molto bisogno per risollevarsi dalla crisi di valori dei nostri tempi.

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“Costume per Enrico VI”, 1974;

Info

Palazzo Cipolla, Via del Corso 320,  Roma.  Da martedì a domenica, lunedì chiuso, ore 10,00-20.00 (la biglietteria chiude alle 19). Ingresso:  intero euro 7, ridotto euro 5 under 26, over 65 e particolari categorie, gratuito under 6 e disabili con accompagnatore. fondazione@fondazioneterzopilastrointernazionale.it, tel. 06.97625591. Catalogo “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, a cura di Bruno Corà, Silvana Editoriale,  ottobre 2019, pp. 368, formato 24 x 28;  dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. I due primi  articoli sono usciti in questo sito il 5  e 7 dicembre 2019. Per gli artisti citati,  cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com: su  De Chirico, nel  2019 il  3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre, 22, 24, 26 novembre, nel 2016 il 17, 21 dicembre, nel 2015 il 1° marzo, nel 2013 il 20, 26 giugno, 1° luglio; Calabria 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019; Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019; Guttuso, nel 2018 il 14, 26, 30 luglio, nel 2017 il 16 ottobre, nel 2016 il 27 settembre, 2, 4 ottobre, nel 2013 il 25, 30 gennaio; Picasso 5, 25 dicembre  2017, 6 gennaio 2018, inoltre il 4 febbraio 2009 anche in cultura.inabruzzo.it (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono inserite, a parte l’apertura, nell’ordine in cui sono trattati i diversi generi nel testo, dove sono commentate, disegno e grafica, scultura e ceramica, arazzi e teatro. In apertura, “Costume per Apollo” 1969 ; seguono:  disegni e grafiche, “Orfeo incanta le belve” 1938, ed “Elogio della pazzia” 1964,  poi, “Capobanda” con “Gente a Partinico” e “Portella della Ginestra” con “Sulla pietra di Barbato” , 1975,  quindi, “La rotta del Po” animali travolti con persone sui tetti, e “La rotta del Po” soccorritori su due barche, 1976; inoltre, scultura “Diogene” 1968, e ceramiche: “Pescatore” 1930; ancora, vetrina con, da sin., “Susanna” 1931 e “Il cielo” 1930, “Santone”1928-29 e “Icaro” 1929, nella parete i dipinti,  da sin. “Fiori” 1936, “La romana”  1934, “La tromba e il calice” 1935;  e arazzi, “Enigma del gallo” 1962; continua, “La ruota della fortuna” 1969, e “Tancredi” 1977; infine, scene e costumi per il teatro, “Grand jeté” 1947, e “Costume per Enrico VI” 1974; in chiusura, “Tripudio, 1973, l’ultimo arazzo dal titolo espressivo, con il presidente Emanuele nel commiato dalla mostra.

“Tripudio”, 1973, l’ultimo arazzo dal titolo espressivo, con il presidente Emanuele nel commiato dalla mostra.

Cagli, 2. Dipinti mitici e orfici, motivi cellulari e modulari, al Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Prosegue la narrazione della mostra “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”,  che espone dall’8 novembre 2019 al 6  gennaio 2010, circa 200 opere tra dipinti e altre forme, in una antologica di quarant’anni di intensa produzione artistica. La  mostra è promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, e ideata dal suo presidente Emmanuele F. M. Emanuele,  realizzata  da Poema S.p.A. con il supporto di Comediarting, a cura di  Bruno Corà, che ha curato anche il catalogo della Silvana Editoriale, in collaborazione con l’Archivio Cagli.

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La nascita”, 1947

Dopo aver ricordato i capisaldi  dai quali è partito l’itinerario dell’artista  passiamo in rassegna le opere esposte nelle diverse sezioni evdenziandone i motivi ispiratori e le poliedriche forme espressive  in collegamento con la sua presenza attiva in un  mondo artistico in continua evoluzione.

 L’inizio è negli anni ’30, in cui è stato molto attivo tra i fondatori e i maggiori esponenti della Scuola Romana,  con i “Nuovi miti”, negli anni ’40  la “Quarta dimensione” e i “Motivi cellulari”, negli anni ’50 le “Impronte”, “Metamorfosi” e “Variazioni orfiche”, negli anni ’60 e oltre le “Mutazioni modulari”,  modalità diverse  spesso coesistenti, frutto di una ricerca incessante che si è avvalsa anche degli apporti di altre discipline, fino alla musica, innestati sulla solida base iniziale.

Gli anni ’30,  valori primordiali e tonalismo nei dipinti esposti

Iniziamo la  nostra rassegna dalla prima parte degli anni ’30, l’artista nato nel 1910 ha superato da poco i vent’anni, ha già realizzato dei ”murali”  ed è stato nominato direttore artistico di una fabbrica di ceramica d’arte, sono esposte le sue prime opere in questo materiale del 1929-30. 

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Teatro tragico”, 1947

A 22 anni la personale alla Galleria di Roma con Pier Maria Bardi, la sua tecnica viene definita “da pittura parietale”, seguono altre mostre sempre nel 1932, a Roma nella stessa galleria  con 10 pittori – 5  romani e 5 milanesi – con lui Capogrossi e Cavalli, Paladini e Pirandello, e alla Galleria d’Arte con i primi due citati – e l’aggiunta della Michelucci – a Milano all’inizio del 1933 nella Galleria il Milione. Il 1933 è l’anno della V Triennale di Milano, vi partecipa con una pittura murale di 30 metri quadrati. Nel mese di ottobre esce il “Manifesto del Primordialismo plastico”, ha partecipato alla stesura con Capogrossi e Cavalli sottolineando il tema prediletto della mitologia moderna,  ma non lo firma insieme a loro, forse in dissenso per l’inserimento di Melli. A dicembre mostra a Parigi con i soliti Capogrossi e Cavalli e l’aggiunta di Sclavi, tornerà nella capitale francese in un’altra galleria nel maggio 1934 con 5 artisti francesi e lo scultore Fazzini.

Nel 1935 è tra i protagonisti della II Quadriennale d’arte nazionale di Roma, dove a febbraio espone 4 pannelli murali alti quattro metri nella rotonda centrale,  ad aprile la prima personale sui disegni inaugurando la nuova galleria La Cometa a Roma, a maggio partecipa alla mostra di Parigi  sull’”Arte italiana del XX e XX  secolo”  e a quella di Bari con una sala sugli artisti romani; è l’anno anche dei dipinti murali per la Casa dei Cesari di cui si è già ricordata la condanna alla distruzione e il provvidenziale salvataggio. Ancora personali a Roma nel 1936  e partecipazione con un  grande murale alla VI Triennale di Milano, in uno stile  del quale Margherita Sarfatti scrisse che “ha del prodigioso”. 

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La chanson d’outrée”, 1947

Nel 1937, oltre a una nuova mostra di disegni a La Cometa a gennaio,  partecipa ad aprile a varie  esposizioni artistiche del Sindacato Fascista Belle Arti, come aveva fatto  anche nel 193.4.  e a maggio, novembre e dicembre a mostre a Parigi e a New York, a Parigi anche una personale. Questo periodo si chiude nel 1938 con l’espatrio nell’ultima parte dell’anno dopo le leggi razziali,  nei primi mesi c’era stata una sua personale a Firenze a maggio e la partecipazione alla XXI Biennale di Venezia a giugno.

E’ stato un periodo fecondo e proficuo, vissuto da protagonista con la Scuola Romana fondata con i trentenni  Cavalli e Capogrossi, e il quasi cinquantenne Melli. L’impostazione de gruppo è contro il Novecentismo,  il carattere dominante il ”tonalismo” e, come detto in precedenza, per Cagli il ritorno al “primordio” e “l’apparizione di nuovi miti”  teorizzata da Enrico Bontempelli.

La Quadriennale del 1931, alla quale Cagli ventunenne non partecipa, gli ha offerto un panorama di 1300 opere di 500 artisti, tra i quali il diciottenne Guttuso, assente de Chirico; e le mostre già citate del 1932 con artisti a lui vicini sono state la premessa per la costituzione del gruppo. Il “primitivismo”  con  suggestioni mitiche  lo verifica in qualche modo a Paestum , invitato dalla Commissione archeologica di Salerno.

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La veglia e il sonno”, 1947

Nella Scuola romana Cagli divenne protagonista, e Guttuso – qualche anno dopo la contestazione del 1947 da parte del gruppo di”Forma”  dovuta più che ai pretesi pregressi fascisti al suo ritorno in scena dopo la parentesi americana –  scrisse  che “Cagli svegliò i morti in quegli anni (dal 1932 al 1938 all’incirca”). E  aggiunse, con una ammissione di carattere personale al termine: “Non ci furono giovani di qualche talento in Italia che, in qualche modo, non si unissero a lui: da Capogrossi ad Afro, a Purificato, a Lencillo, a Mirko, a Ziveri, a De Libero, ad Antonello  Trombadori, a Franchina, a Birolli, a Tomea, a me stesso”. Precisa che “ciascuno per la sua strada poi hanno fatto il loro cammino”, il suo in un realismo, per di più connotato politicamente come pittura di denuncia sociale; e riguardo alla Scuola romana  – in cui vedeva due orientamenti, uno “romantico-lirico” l’altro “tonale” – aveva scritto nel 1940 che, “dentro questa ‘architettura’ ogni concetto realistico veniva sacrificato ad un amore quasi astratto dello spazio tonale”.

“Valori primordiali e tonalismo  restano comunque le parole chiave” – osserva Claudio Spadoni nella sua  ricostruzione di questo periodo  – Almeno per i protagonisti dell’’Ecole de Rome’  e i loro più prossimi, per quanto di diversa interpretazione nelle trasposizioni pittoriche. Anche se  i riferimenti siano molteplici, dall’antico al contemporaneo, come del resto era nel clima culturale di quella stagione”.

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“Lanterna” 1949

Ai  dipinti  di questo periodo ben si attaglia il giudizio di Cecchi del 1935, anno della Quadriennale:  “Cagli aspira a una pittura tra narrativa,  decorativa e allegorica, improntata  a uno spirito leggendario; nella quale i significati dei miti e le forme dei corpi e i colori architettonicamente s’atteggino in una luce  a un tempo vera  e intellettiva…  Lo vediamo nelle opere esposte, la maggior parte con figure umane modellate da ombre con una luce diffusa, non certo caravaggesca.

 Nel 1933 con  “Edipo a Tebe” e “Sirena”, ma soprattutto “La nave di Ulisse “ e “Navigatori”  forme scarne e allungate,  con “Il neofita” e “Il pittore Gregorio Prieto” forme più solide,  come i nuovi  “Neofita” e “Romolo” del 1934. Quest’ultimo inserito nella natura, come “La caccia”, “Passaggio del Mar Rosso”, e “Suonatore di flauto”, mentre con “Mirko”  1936, “Bacchino” e “Pescatore” 1938, le figure umane sono dominanti, la natura è nel grappolo d’uva e nella preda della caccia, e  soggetto del dipinto in  “Fiori” 1936, e “Pesci” 1937.  Altri temi, del 1934-35  “I vasi”, “La romana”, “La tromba e il calice”, con qualche eco morandiano, del 1936-37 due “Vedute di Roma”  e un “Senza titolo”, due figure mitiche in volo sulla città con tromba e croce.

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“Diogene”, 1949

Negli anni ’40 e ’50 nuove dimensioni metafisiche e cellulari

Abbiamo seguito l’attività artistica ed espositiva dell’artista fino al termine del 1938, allorché ha lasciato il Paese dopo le leggi razziali  raggiungendo Parigi dove nel 1939 presenta una mostra personale, prima di lasciare la capitale francese imbarcandosi per New York dove nel 1940 tiene una personale, seguita nel 1941 da  personali a  Los Angeles  e San Francisco, dove espone anche nel 1942,  anno del quale partecipa anche  a una collettiva a New York  e perfino a Varsavia; personali nel 1943 a Tacoma e Oakland.

Nel  marzo 1941 si è arruolato nell’esercito americano, è caporale artigliere; nel 1943 si trova in Gran Bretagna, nel 1944  partecipa da militare combattente allo sbarco in Normandia con le campagne di Francia, Belgio, Germania, in particolare alla battaglia delle Ardenne, realizza un ciclo di disegni sul tema della guerra; nonostante tutto, in un anno così turbolento,  una mostra con i suoi disegni a Londra e poi partecipazione a Roma alla collettiva “L’arte contro la barbarie. Artisti romani contro l’oppressione nazi-fascista” organizzata dall’’Unità’”. Nel 1945 la guerra finisce, torna a vivere a New York e, nel gennaio dell’anno successivo, presenta nella metropoli americana i suoi disegni di guerra. Nel 1946 tiene  altre personali a Chicago, San Francisco e Santa Barbara, e partecipa alla fondazione della “Ballet Society” insieme al coreografo Balanchine, per il quale nella stagione 1946-47 realizza  scene e costumi per il “Trionfo di Bacco e Arianna”  e li progetta per un balletto su Mozart.

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Bagatto”, 1952

Dopo una personale di disegni a New York nel marzo 1947, a novembre, tornato in Italia, espone  a Roma suscitando la reazione polemica del gruppo  “Forma”, i cui giovani astrattisti lo attaccarono mentre fu difeso da Guttuso. Le mostre continuano nel 1948 alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia, alla galleria L’Obelisco di Roma e a Bologna, con la polemica di Palmiro Togliatti sotto lo pseudonimo di Rodrigo di Castiglia, nelle gallerie Camino  e Il Milione di Milano, a Firenze e a Genova, entra in polemica con de Chirico; di nuovo espone a New York. Nel 1949  è di nuovo negli Stati Uniti,  al MoMA di New York, partecipa a mostre a Chicago e Washington;  e in Italia  a Milano e Genova, Firenze e Roma,  presenza che prosegue nel 1950, a New York, dove espone con Guttuso,  a Vienna e Milano,  ad Asti e in diverse gallerie a Roma.

Le opere di questo periodo esposte nella mostra, a parte l’“Autoritratto dei tempi difficili”  del 1943, ben diverso anche stilisticamente dall’“Autoritratto” del 1932, segnano una notevole svolta, entra in azione  la seconda “logica” oltre quella figurativa, che non è quella astratta, ma ha richiami ben visibili, come quelli del cubismo in  “Il cranio e la candela”  e “Concertino” , del 1940, poco dopo l’espatrio, e della metafisica ferrarese con “il quadro nel quadro” in un interno in “L’atelier di Francoise”.

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“Babel”, 1955

Nuove tendenze anch’esse ben individuabili, che sembrerebbero richiamare la metafisica dei manichini e delle maschere di de Chirico –  con il quale, tra l’altro, nel 1948 apre una polemica sull’arte contemporanea – derivano invece dalla scoperta della “pluridimensione”  nel soggiorno americano. Dopo l’interesse per la concezione spaziale di Futurismo e Cubismo oltre che della Metafisica,  per le teorie  matematiche e psicanalitiche,  e le suggestioni musicale e dello spettacolo nella commistione e contaminazione a lui propria, lo affascina la conoscenza della geometria non euclidea e della “geometria proiettiva” di Paul Samuel Donchian, che frequenta personalmente, fondata sulla compenetrazione degli spazi in una quarta dimensione; nello stesso tempo l’impegno diretto in campo musicale con i balletti di Balanchine:

“Questo lo porta a rielaborare le speculazioni sul ‘primordio’ riattualizzandolo in una visione dimensionale archetipa”, osserva Aldo Iori, “ e  ad  “elaborare ulteriormente la possibilità di esprimersi con più logiche per raggiungere quella ‘concorde armonia’ a cui aspirano le arti e a pensare lo spazio lo spazio come possibilità di più visioni sincroniche”. Alla svolta concorre la lontananza dall’Italia e l’esperienza militare a contatto con altre culture, per cui torna nel nostro paese con espressioni artistiche molto rinnovate.

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“Approdo Arunta”, 1957

“L’idea del classico, del mito e della forma, come del precedente ‘primordio’- è sempre Iori – si inserisce ora in una visione dell’arte ampia, libera nella scelta del linguaggio, non più necessariamente coerente secondo le impostazioni dell’idealismo anteguerra, e aperta a ventagli di ipotesi e di nuove possibilità espressive”.  Quali?   Dopo “Chimera” 1946, in cui si intersecano piani sovrapposti e compressi, lo vediamo evocare  la cavità e il vuoto  in “La veglia e il sonno” 1947, e la dimensione metafisica in “La nascita” e “Teatro tragico” , del 1947, mentre  “La chanson d’outrée” viene presentata in due versioni, del 1946 e 1947, con l’equilibrio in bianco-nero delle mascherine nella  prima e gli “inganni geometrici” colorati nella seconda.  Nel 1949 con  “Quarta dimensione” , nel corso del dibattito tra il figurativo e l’astratto,  trasferisce in un intrico grafico le costruzioni solide di Donchian, che poi approfondisce nel groviglio di segni molto marcati  in “L’angoscia”  e “Diogene”,  tradotti molti anni dopo anche in sculture reticolari aeree e filiformi. Nello stesso anno i  segni marcati si intrecciano  in una geometria a sfondo cromatico alla Mondrian con “Lanterna”,  mentre “Dal libro di Ester”  emergono linee spezzate  su un fondo decorato, e “Partenze”  è un affresco rosso pompeiano da pitture parietali, un ritorno all’antico.  

I “reticoli modulari” e i “motivi cellulari” instaurano “un serrato colloquio con la tradizione dei maestri dell’astrattismo, elaborando delle volumetrie complesse determinate dal segno e dal colore, in cui la scatola prospettica post-rinascimentale  è disintegrata ed esplosa dimensionalmente  ed è indipendente da ogni gerarchia segnica e cromatica”, questa l’interpretazione di  Iori.

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“Apollo” , 1958

Con “Il pescatore e la luna”, evocata da colpi di luce su un fondo tenebroso, “Oregon” e “Lo scacciapensieri”, composizioni invece variegate  e luminose, del 1950, si entra nel nuovo decennio  in cui “accanto a opere dal marcato aspetto figurativo tra il mimetico  e il testimoniale, nascono e si intersecano tra loro una molteplicità di opere che mantengono accesa l’attenzione alla questione della pluridimensionalità”.

Ne vediamo esposte una quindicina in diverse espressioni stilistiche  compositive. “Due mondi in uno”, e “Bagatto”, del 1951-52 , presentano  in modi diversi, il primo con tagli rettilinei, il secondo curvilinei, quella che Marchiori  ha chiamato “sovrapposizione e sottrazione che genera  una plurima moltiplicazione di volumi e interessanti ‘inganni geometrici’”; con “Belfagor” e “Bebel”, del 1954-55, sono evidenti i “motivi cellulari” nella parcellizzazione delle forme, che diventano  ricomposizioni geometriche di taglio scultoreo in “Arlecchino come Bagatto” 1956, e “Lo scolaro” , quest’ultimo del 1963.  Di “Arlecchino” così scrive la Bucarelli: “Cava da questa sua materia la forma come farebbe uno scultore  della pietra. Da quell’’ordito multicolore e  e luminoso fino alla fosforescenza, già in sé simbolico di Arlecchino, il personaggio si forma e vive prima ancora di essere rivelato”.   Cambia tutto con le “variazioni orfiche” del 1957, che vediamo in “Inferi”,  “Approdo Arunta” ed “Eden”, su fondi di tonalità quasi cangiante strisce dorate per i primi due e argentate per il terzo quasi ad evocare forme totemiche; ma è dello stesso 1957 “Apollo e Dafne”, la leggenda ovidiana evocata in un figurativo con  il ritorno alle figure umane degli anni ’30, in uno scenario naturale nel quale al paesaggio boscoso sulla sinistra si contrappongono forme indistinte sulla destra sotto un cielo tempestoso.

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“Le mura di Gerico”, 1958

Ugualmente figurativo ”Apollo” , del 1958,  cui viene associato “A Rembrandt”, del 1969, che sembra contemporaneo  per l’uguale fattura, a parte lo sfondo rosso invece che ocra –  sono le “Metamorfosi” con le figure contornate da un manto vegetale –  mentre nello stesso anno con “Enigma del gallo”  e “Le mura di Gerico”,  e soprattutto con  “Tornasole” , “Strumenti e utensili” e “Il crociato”  si prende una nuova strada, che  vediamo anche in “Carnevalito”  dell’anno successivo:  una serie di “carte”  che nella superficie monocromatica con modulazioni e pieghettature esprimono il salto in avanti verso una nuova dimensione, così furono descritte da Migliorini: “Carte segnate dall’ emergere di un ‘senso di figura’, ‘oggetto fantasma’ che preme sulla materia pellicolare imprimendo nelle pieghe i segni del suo affiorare. In queste opere la materia perde il suo carattere di assolutezza, caro alla corrente informale, divenendo parte di un insieme, materia che presenta la sua natura organica nelle pieghe, che rispettano e segnano misteriosamente, casualmente, le fibre del tessuto come le leggi di una deteriore cristallizzazione”; non è solo materia “naturale”, c’è il gesto dell’uomo perchè le pieghe le fanno sembrare accartocciate dalla sua mano. Di Piazza: “ le definisce “di incredibile ambiguità visiva di trompe-l’oeil astratto, in cui tra inganno ottico e illusionismo materico si crea un complesso gioco di rimandi visivi  e valori tattili”.

Già negli anni ’50, reinseritosi con i problemi cui si è già accennato nel mondo artistico italiano dopo la parentesi americana, è presente ogni anno con mostre in diverse città, e anche all’estero. Andando a ritroso nel tempo, nel 1961 lo troviamo a Firenze,  nel 1960  a Milano, nel 1959 alla VIII Quadriennale romana, alla V Biennale di San Paolo e nelle personali a Torino e Milano, nel 1958  in Francia e Germania, a Roma e a Milano, nel 1957 a Roma e Firenze, Monaco e Cannes, nel 1956  a Roma, Palermo, Sydney, nel 1955 a Roma,  Firenze e L’Aquila,  a  Barcellona,  Madrid e nel Minnesota, nel 1954 a Roma, Milano, Firenze e  alla Biennale di Venezia, nel 1953 a Roma, Milano, Torino, nel 1952  a Roma, Fermo,  La Spezia, nel 1951 a Roma e Asti, Firenze  e Torino, Parigi e San Paolo del Brasile. A Roma anche in più gallerie nello stesso anno, lo sottolineiamo in questo excursus che può sembrare pedante ma intende valorizzare doverosamente il merito di Emanuele e della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale nel colmare il vuoto ventennale nella capitale. Ha esposto più volte con Guttuso, che parla di lui in termini positivi in vari saggi critici; inoltre riceve riconoscimenti in una serie di concorsi artistici cui partecipa.

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“Tornasole”, 1958

Anni ’60 le “carte” e  “mutazioni modulari”, anni ’70 il “Memorial”  di Gottinga

Intanto, nei  primi anni ’60, con “Demone di zolfo” e “L’angelo”, del 1963-54, continuano le “carte”  con le pieghe, quasi accartocciate, nella presenza subliminale della figura e della mano dell’uomo.

Con  “Memorie a Castelmola” 1963, le “carte” prendono colore,  invece del virtuale accartocciarsi con pieghe e ombre, sono segnate da strisce colorate, ne nasce una sorta di profilo di animale  al quale accostiamo, con una nostra libera e ardita associazione, la “Testa di animale misterioso” di de Chirico del 1975. Un colore che in “Chiocciole” 1966, dà luce a formazioni circolari le quali sembrano galleggiare sul fondo nero come le “Ninfee” di Monet; e in “Demoni” e “Minotauro”, dello stesso 1966, dà luogo, a sua volta, alla sovrapposizione di contrasti cromatici nell’alternanza geometrica di strisce evocative anche se apparentemente decorative. Al colore subentra una tonalità neutra in “La ruota della fortuna” –  che ritroveremo in un arazzo con lo stesso disegno misterioso, quasi in filigrana –  è del 1959 e conclude il decennio.  Una tonalità analoga nel fondo di “Albert du Bouillon”   sul quale si staglia un profilo araldico a cellule bianco-nere; le stesse di “Pale” , in cui il profilo araldico è meno evidente ma percepibile, e di “Buglione” che sembra una pianta in rigogliosa fioritura, siamo nel triennio 1971-74, vicini all’epilogo.

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“Demoni”, 1966

Così li descrive Antonella Renzitti: “Si riallacciano alla  dimensione magico-divinatoria evocando figure fantastiche,  condottieri medievali. Creati dalla combinazione modulata di cerchi bianchi, di diverso diametro, più o meno concentrici, richiamano  le armature medievali, ma anche motivi floreali sui generis”. Lo  abbiamo visto nelle opere esposte e concludiamo  così la carrellata sui dipinti dell’artista dall’inizio degli anni ’30 ai primi anni ’70.

E la sua presenza  nel mondo artistico con mostre e altri interventi?   Continua ad essere  sempre  protagonista, ancora più attivo che negli anni ’50  di cui abbiamo riportato la sequenza serrata  di mostre.  Negli anni ’60 le  mostre a Roma sono state praticamente ininterrotte, personali o collettive, ma  anche Firenze è stata una sede frequentemente praticata, presenta di volta in volta pitture, disegni e sculture, si impegna nelle scenografie teatrali.

Troviamo più volte sue mostre anche a Venezia e Torino, Napoli e Palermo, e  lo vediamo presentare le sue opere in tante città, Trieste e Genova, Siena e Bari, Spoleto e  Terni, L’Aquila e Pescara, Arezzo e Rieti,  Jesi e Taormina, Varese e Ostiglia;  in alcune collettive del 1965 e 1967, 1970 e 1974  ancora  insieme a Guttuso e ad altri artisti.  All’estero  espone ad Atene nel 1961 e ad Amburgo nel 1962, a Parigi e Liverpool nel 1964, a Buenos Aires nel 1965 e a Teheran nel 1966, a Sidney e Losanna nel 1967,   a New York nel 1968 all’Esat Hartford in Usa e a Gottinga nel 1970. Nel 1975 risulta presente in 10 mostre,  a Roma in 4 gallerie,  a Rieti, La Spezia,  Ostiglia, Teramo, Rovigo e Taormina; nel 1976, l’anno in cui muore l’8 marzo, in 5 mostre, a Roma e Palermo, Matera, la Spezia e Pienza.

“Chiocciole”, 1966

Ci piace ricordare, a questo punto, per il suo alto valore simbolico oltre che artistico, il “memorial” per celebrare le vittime della persecuzione razziale nazista della “notte dei cristalli” che la città di Gottinga, su iniziativa della Società per la cooperazione cristiano-giudaica, gli affidò in occasione della mostra del 1970, dando uno schiaffo in faccia ai detrattori che in passato gli avevano rinfacciato la sua attività artistica sotto il fascismo, peraltro mai connivente con il regime; anzi, come abbiamo ricordato, spesso fu aspramente contestato e censurato fino alla distruzione delle sue opere.  Nel 1973 il monumento da lui progettato è stato collocato dov’era la sinagoga distrutta nella tremenda notte tra l’8 e il 9 novembre 1938 nella quale subirono la stessa sorte in Europa 1400 sinagoghe e negozi degli ebrei. Adachiara Zevi   fa un’accurata ricostruzione delle diverse fasi della progettazione e realizzazione collegate anche all’assetto urbanistico della piazza. “L’opera è l’ostinazione amara di una interrogazione errante”, ha scritto Benincasa,  e la Zevi,  dopo aver ricordato le “Sculture spaziali” di due artisti tedeschi, “la cui tridimensionalità è ottenuta attraverso vettori in movimento”, aggiunge che “altro aspetto fondamentale del memoriale  è il movimento ascensionale, l’avvitamento dinamico verso l’alto che ci conduce direttamente e inevitabilmente alla  scultura barocca”;  per Bruno Zevi, nei confronti della scultura barocca l’immagine che dà Cagli  è “più ricca e polisemica,  ruota ed oscilla, esige il moto, e un impulso partecipativo”. Inaugurato il 9 novembre 1973, è alto 6 metri con 86 triangoli compenetrati in una rotazione che evoca la stella di Davide.

Possiamo così, con questa “ouverture”, passare alla scultura di Cagli e alle altre sue forme espressive, dopo la pittura che abbiamo commentato finora: disegno e grafica, ceramica e arazzi, fino alle scenografie e ai costumi teatrali.  Eclettismo nei generi oltre che nello stile,  nel senso di un artista poliedrico, non oscillante. Descriveremo prossimamente le sue opere in questi campi e il loro significato.

“Minotauro” 1967

Info

Palazzo Cipolla, Via del Corso 320,  Roma.  Da martedì a domenica, lunedì chiuso, ore 10,00-20.00 (la biglietteria chiude alle 19). Ingresso:  intero euro 7, ridotto euro 5 under 26, over 65 e particolari categorie, gratuito under 6 e disabili con accompagnatore.  fondazione@fondazioneterzopilastrointernazionale.it., tel. 06.97625591. Catalogo “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, a cura di Bruno Corà, Silvana Editoriale,  ottobre 2019, pp. 368, formato 24 x 28;  dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 5 dicembre, il terzo e ultimo uscirà il 9 dicembre 2019. Per gli artisti citati,  cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com: su  De Chirico, nel  2019 il  3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre, 22,24, 26 novembre, nel 2016 il 17,  21 dicembre, nel 2015 il 1° marzo, nel 2013 il 20, 26 giugno, 1° luglio; Guttuso, nel 2018 il 14, 26, 30 luglio, nel 2017 il 16 ottobre, nel 2016 il 27 settembre, 2, 4 ottobre, nel 2013 il 25, 30 gennaio; Futuristi 7 marzo 2018; Picasso 5, 25 dicembre  2017, 6 gennaio 2018; Impressionisti 12, 18, 27 gennaio, 5 febbraio 2016; Cubisti 16 maggio 2013; Mondrian 13, 18 novembre 2012. In cultura.inabruzzo.it,  Inpressionisti 27, 29 giugno 2010,  Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2  dicembre 2009, Picasso 4 febbraio 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono in ordine cronologico e commentate in questo articolo, come quelle degli anni precedenti riportate nel primo articolo del 5 dicembre. In apertura, “La nascita” 1947; seguono, “Teatro tragico” e “La chanson d’outrée” , 1947; poi, “La veglia e il sonno” 1947, e “Lanterna” 1949; quindi, “Diogene” 1949 e “Bagatto” 1952; inoltre, “Babel” 1955, e “Approdo Arunta” 1957; ancora, “Apollo” e “Le mura di Gerico” , 1958; continua, “Tornasole” 1958, e “Demoni” 1966; infine, “Chiocciole” 1966, e “Minotauro” 1967; in chiusura, “Pale” 1973.

Pale” 1973

Cagli, 1. Folgorazioni e mutazioni di un artista poliedrico, al Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

E’ un evento la mostra “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, aperta  al Palazzo Cipolla  dall’8 novembre 2019 al 6  gennaio 2020, che presenta circa 200 opere tra dipinti e altri generi come disegni e grafiche, sculture e ceramiche, scene e costumi teatrali, raggruppate in una serie di sezioni che segnano un percorso artistico in continua evoluzione con fecondi contatti interdisciplinari. La mostra, ideata da Emmanuele F.M. Emanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale che l’ha promossa, è stata organizzata  da Poema S.p.A. in collaborazione con Comediarting, ed è a cura, come il Catalogo della Silvana Editoriale, di Bruno Corà, in collaborazione con l’Archivio Cagli.

Il presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, Emmanuele F. M. Emanuele, alla presentazione della mostra, dietro di lui la parte dx dell’arazzo “Tancredi”,1977

Dopo il tempo dell’essere di Ennio Calabria, lo spazio pluridimensionale di Corrado Cagli: continua il  meritorio impegno di Emmanuele F. M. Emanuele nel riproporre grandi artisti del ‘900 troppo trascurati: per Calabria  l’ultima antologica a Roma trent’anni prima, per Cagli venti anni fa all’Archivio Farnese.   

Cagli, inoltre, si era tentato di oscurarlo durante la sua ascesa artistica, nel secondo dopoguerra, per la sua attività pittorica nelle iniziative di regime.   Una “damnatio memoriae”, velleitaria e alimentata da altri motivi, oltre tutto paradossale, dato che per sfuggire alla persecuzione fascista degli ebrei  era stato costretto a espatriare  nel 1938 subito dopo le leggi razziali a Ginevra, Parigi e nell’ottobre 1939 negli Stati Uniti; si schierò contro la guerra fascista arruolandosi nel marzo 1941 nelle forze armate americane, come artigliere partecipò allo barco in Normandia, alle battaglie in Belgio e alle Ardenne, alla conquista di Parigi, arrivando a Lipsia  Fino a che punto si può spingere il pregiudizio fanatico contro l’evidenza della realtà! 

Autoritratto”, 1932

Ripensiamo alla lunga “damnatio memoriae” di Gabriele d’Annunzio, sebbene dopo l’iniziale sintonia nazionalistica – con il fascismo che si appropriò dei suoi slogan e dei suoi simboli – fosse stato relegato  nella “gabbia d’oro” del Vittoriale da Mussolini che lo temeva e al quale D’Annunzio diede il suo appoggio solo per la guerra coloniale rientrante nelle proprie concezioni; e ricordiamo la mostra dedicata nel 2001 al “Comandante” da Emanuele al Museo del Corso, “D’Annunzio, l’uomo l’eroe il poeta”.  “Damnatio memoriae” alla fine rientrata anche per Mario Sironi, di cui pur in ritardo è stata riscoperta la grandezza.  

A Cagli nel dopoguerra veniva rinfacciata la partecipazione alle manifestazioni indette dal regime, in particolare la Quadriennale nella quale  gli si commissionavano opere considerate elogiative, mentre rispondevano alla sua concezione di pittura della realtà aperta al popolo, come teorizzato nei suoi scritti sulla “pittura murale” che precedettero le posizioni di Sironi su questa forma d’arte anticipatrice dei “murales”. La sua non era acquiescenza alla mistica del regime, neppure su opere commissionategli, ma esprimeva la sua visione  umana con profonde basi filosofiche. Tanto è vero che  addirittura Gsleazzo Ciano, esprimendo la volontà di Mussolini, ordinò la distruzione dei “Cesari” da lui realizzati per l’Esposizione Universale del 1935,  dando l’avvio al duro attacco della stampa fascista che non gli diede tregua; e il ministro dell’Educazione nazionale Renato Ricci ordinò a sua volta la distruzione della grande tempera “Corsa dei berberi”  che Cagli aveva eseguito su commissione per il Castello dei Cesari a Roma. Fortunosamente tali opere si salvarono, la prima si pensò ad  “imbiancarla”, la seconda per la geniale idea dell’artista di sovrapporvi una  falsa parete, poi rimossa nel 1945 dopo la Liberazione.

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“Sirena”, 1933

Altre opere, invece, furono distrutte senza possibilità di recuperarle perché  contrastavano con la retorica del regime, come gli affreschi realizzati  a Castel di Guido per l’Opera Nazionale Balilla nella primavera del  1935, lo stesso anno della condanna alla distruzione dei dipinti per l’Esposizione Universale, come si è ricordato, sebbene fosse un artista molto affermato, aveva partecipato alla Quadriennale di Roma del 1934 con una presenza importante.  Del resto, le opere che conosciamo  sono tutt’altro che propagandistiche, e se tra loro c’è la celebrazione della bonifica pontina, ne aveva ben donde, nel breve giro di tre anni fu realizzato un intervento epocale con la creazione di tre “new towns” in una vera mobilitazione nazionale: ciononostante la vede come espressione di “un’antichità fuori dal tempo”.

Ma furono accuse  strumentali, quello che non veniva accettato, in particolare nella contestazione del gruppo “Forma” alla mostra alla galleria romana “La Palma” del 1947, era il suo ritorno nel mondo artistico romano dopo l’espatrio del 1938 con una pittura, rinnovata negli anni americani dalla metafisica “proiettiva”, che da loro veniva considerata espressione di “decadenza borghese” e falso astrattismo, mentre il loro astrattismo voleva conciliare marxismo e formalismo, in opposizione al realismo. Invece di questo vero motivo fu messa in atto una vistosa protesta contro quanto scritto da Trombadori nel catalogo, che “la pittura di Cagli è stata immune dalla retorica fascista”, con un manifesto peraltro strappato dagli artisti vicini a Cagli, tra cui Guttuso, in uno scontro anche fisico con gli artisti di “Forma”.

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“La nave di Ulisse” , 1933

La lontananza della sua visione dalla mistica del regime lo differenzia da Aleksandr Deineka, non rispetto alle conquiste del lavoro, ma all’ esaltazione dell’ “uomo nuovo” , non considerato da Cagli, mentre la visione dell’artista russo era la stessa del regime comunista che lo proclamava nato dalla rivoluzione di ottobre per eccellere in ogni campo, dall’esuberanza fisica allo sport, fino al sogno del volo.  Anche Deineka e i “Realismi socialisti” li ha portati alla ribalta romana Emanuele con il suggestivo affresco storico-artistico delle grandi mostre del 2011 al Palazzo Esposizioni, dopo aver presentato nel 2010 un campione dell’altro versante, Edward Hopper, il pittore della vita nella provincia americana, come con “Gli irresistibili anni ‘60”  sempre nel 2011 ha celebrato un periodo magico  della nostra vita.

Abbiamo ricordato questi fatti eloquenti come doverosa introduzione a una figura  complessa e multiforme, che Emanuele definisce così: “Con Cagli  si ha effettivamente l’impressione di essere di fronte a un universo in costante evoluzione, a un susseguirsi incessante di idee e di stili, ma condotto sempre con padronanza e cognizione di causa, mai in maniera superficiale e approssimativa”.  Il tutto facendo ricorso con risultati di eccellenza alle varie forme espressive, quali pittura, disegno e grafica, scultura e ceramica, arazzi e costumi, in una multidisciplinarietà e contaminazione non solo con il teatro, di cui fu scenografo e costumista, ma con la musica, la scienza e la filosofia. Un en plein!

Cerchiamo, quindi,  di entrare in questo mondo, multiforme e poliedrico, evidenziandone  alcuni elementi  essenziali, poi  ripercorrendone l’ itinerario artistico inquadrandolo nel percorso di vita.

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“Il neofita”, 1933

L’”apparente eclettismo”  incompreso e gli interventi critici riparatori

Il primo aspetto che viene sottolineato, la molteplicità delle sue espressioni artistiche sia nei generi, sia soprattutto nelle manifestazioni stilistiche, riporta al chiaro  concetto da lui teorizzato sulle diverse “logiche” che distinguono gli artisti, per cui non vi sono regole codificate sull’arte: “Ci sono pittori e scultori apparentemente illogici nel loro manifestarsi. La realtà è che in arte una sola logica è dannosa; perciò pittori e scultori, che siano grandi, hanno una seconda logica della quale non fanno mai a meno senza per questo fare a meno della prima”. E descrive come “l’eclettismo apparente del pittore moderno dipende dall’aver scoperto la natura dei ‘generi pittorici’”. Che sembrerebbe la scoperta dell’acqua calda, mentre è stato meritorio affermarlo con tanta chiarezza.

“Ogni arte ha i suoi generi, quella poetica la lirica, l’epica, l’idillica, quella pittorica ha i suoi che non sono paesaggio, figura e natura morta, ma sono l’astratto e il formale. Superato il dissidio tra i due generi (si può fare epica e lirica senza mutare anima) si riscatta l’astrattismo dalla polemica per trasportarlo nell’arte”: lo scrisse su “Il Quadrante” nel  1933, aveva 23 anni. Del resto, in Picasso c’è stata la compresenza negli stessi periodi di cubismo e neoclassicismo, in de Chirico di metafisica e classicismo, ma passarono più di  trent’anni prima che la critica lo riconoscesse a Cagli.  Bruno Corà, nella sua accurata e, diremmo,  appassionata ricostruzione del mondo di Cagli di cui fu amico e sodale, riporta  interventi critici riparatori delle incomprensioni  del suo “apparente eclettismo”. Crispolti nel 1969  cita due motivi: “Primo, il carattere di asensibilismo, di rigorosa volontà di  controllo concettuale che presiede e interamente conchiude il processo formativo di Cagli per il quale l’intervento figurale  è leonardescamente cosa mentale …  secondo, l’inesauribilità e varietà della sua facoltà immaginativa, cioè il ricambio continuo (eppure straordinariamente coerente secondo filoni tematici  formativi, negli anni, nei decenni) dei modi del suo processo formativo”.  

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“I vasi”, 1934

Più di dieci anni prima Palma Bucarelli,  il 4 giugno 1958, riferendosi alle due mostre romane contemporanee –  “figurativa” alla Galleria Schneider e “astratta” alla Galleria San Marco – aveva definito Cagli “il multiforme”, con questa motivazione: “Quei quadri ‘figurativi’  non sono meno astratti di quelli che usiamo chiamare astratti… Ragione per cui, allora, io preferisco, tra le diverse maniere dell’artista,  quelle in cui la sua immaginazione spazia nei mondi  della pura magia delle forme alle quali le sue straordinarie, e qualche volta misteriose,  danno un valore che è solo suo, inconfondibile, di preziosa perfezione”.  

Alla morte di Cagli, nel 1976, Lorenza Trucchi aveva motivato così il titolo del suo ricordo,  “Adesso l’arte è molto più povera” : “Cagli resta  dunque un caso a parte, unico ed inclassificabile nel panorama della nostra pittura (non dimentichiamo che fu, oltre che pittore e scultore anche un dotatissimo  scenografo). Certo, la sua versatilità creativa lo ha fatto, talora, scambiare per un seguace di formule e di forme; ma, ora ce ne accorgiamo sempre più, era una interpretazione molto crociana, estetica, assai consona, del resto, a una cultura e a un gusto, quali i nostri, ancora legati alle categorie del bello e del brutto”. Viene giustamente rilevata in lui la “tensione verso quel processo storico unificante le differenti culture appartenenti a più epoche e continenti, nel solco tracciato da artisti come Cézanne e Picasso, Mondrian, Klee ed altri”.  

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“Romolo”, 1934-35

Ma questo non è stato compreso, e  Corà, sulla “difficoltà e disagio” della critica verso Cagli  conclude  con l’esigenza di riconsiderare l’opera di questo “outsider dell’arte italiana e internazionale” , e la mostra ha anche questa finalità, dopo tante “incomprensioni, pregiudizi e distrazioni”: “Ci si deve, insomma, una volta di più interrogare su numerosi aspetti riguardanti le precoci logiche ideative linguistiche di Cagli, la situazione della realtà e degli ambienti culturali italiani, gli eventi politici e sociali degli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale in Italia e in Europa, e negli Usa, le contraddizioni  ideologiche e i loro mutamenti, infine le evoluzioni e trasformazioni del mercato attuale dell’arte, del collezionismo e delle strutture preposte alla conservazione e alla promozione di essa  nelle società occidentali  e orientali”.

Rispetto a questo vasto programma, ci limiteremo a considerare quelli che sembrano  caposaldi della sua visione artistica e a ripercorrerne  l’itinerario attraverso le sue opere e le maggiori vicende della sua vita.

Il “primordio”, le diverse modalità linguistiche  e i “nuovi miti”

Un motivo ispiratore della sua opera è il “primordio”, dall’inizio del variegato percorso artistico, e si basa su un concetto esplicitato da Enrico Bontempelli, zio di Cagli, e ripreso dallo Scuola Romana: possiamo considerarlo quindi un caposaldo. Al recupero dell’arte antica e della tradizione degli artisti del “Novecento”, si contrappone lo scavo in profondità a livello interiore per interpretare il presente. Nasce “L’ecole de Rome” nella mostra parigina del 1933, con Capogrossi e Cavalli oltre a Cagli, e il sostegno del critico Waldemar George, che aveva appoggiato anche de Chirico con gli “Italiens de Paris”.

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“La caccia”, 1935

Lo ricorda Corà citando Crispolti il quale, nel commento “I percorsi di Cagli” alla mostra di Castel dell’Ovo, ha scritto nel 1982: “Il tema del primordio, verso il quale fissa sin dall’inizio la sua attenzione non ha pretese di restaurazione storicistica, neppure nei mitizzati termini appunto dell’arcaismo novecentesco… Mira invece a  una condizione orfica. Mira a realizzare un primordio di natura interiore, una nuova nascita, un nuovo e quasi impregiudicato modo di porsi di fronte alla realtà del proprio tempo”. Ed ecco come: “Nel primordio al quale Cagli aspira c’è invece una volontà oggettiva, c’è come l’illuminazione  intuitiva di nuove strutture dell’uomo contemporaneo. C’è una ben precisa volontà di aprirsi all’esperienza della contemporaneità, percependone tuttavia appunto un carattere di rinnovazione, di originarietà, un carattere appunto orfico”. Con questo risultato: “Se il primordio è scandaglio dell’interiorità attuale, è dimensione più vera per un’immagine del presente”.  Parole che riecheggiano  Bontempelli  il quale aggiungeva che “la storia varrà nella sua lezione soltanto se utile, concretamente – che è come dire allora, anche strumentalmente – per il presente”,  e concludeva: “Ecco dunque la necessità di una logica almeno ‘duplice’, come suggeriva Cagli nel ’33 stesso; rifiuto degli esiti monologici, certezze che sfociano in routine’”.

Sono le due “logiche” prima citate per le quali l’anima astratta può coesistere con quella figurativa, e lo sottolinea Benzi nel presentare la mostra curata ad Ancona nel  2006: “Intorno al primordio si articola tutta la produzione  di Cagli nel dopoguerra: nelle esperienze astratte, con ogni evidenza, ma annidandosi perfino nelle divagazioni apparentemente barocche del figurativo, attraverso temi squisitamente mitologici o attraverso contaminazioni con le strutture ‘primordiali’ del mondo botanico”.

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“Passaggio del Mar Rosso”, 1935

Questa impostazione, tra l’altro, ha dato vita anche se precaria al gruppo “Origine”, con Burri e Capogrossi,  che nasce nel gennaio 1951 dopo lo scritto di Cagli del novembre ’50 con quel titolo e questa affermazione: “Origine  perciò come punto di partenza del principio interiore, come bisogno di attingere alla più ingenua, primordiale natura”.

Il sigillo del “primordio”, però, è associato all’ “apertura di modalità linguistiche”  che – come spiega sempre Corà – gli hanno attirato “anziché considerazione e apprezzamento, la discutibile imputazione di eclettismo“ da parte di denigratori che non hanno saputo “cogliere le relazioni con esperienze non solo nei confronti della pittura antica, ma anche di quella di un passato prossimo alla modernità  e tanto meno dell’avvenire”. E cita gli studi dell’artista “sulla forma, sul cromatismo, sull’impiego tecnologico e sull’investimento della scienza e delle matematiche nell’arte, sul pensiero analitico, sull’estetica surrealista, sulla semiologia, sulla biologia vegetale e sulla fisica” .

E’ un’elenco di temi oltremodo eloquente, alla quale segue l’indicazione altrettanto ampia degli sviluppi artistici che sono seguiti e vanno riferiti in qualche modo a tali contenuti: dal “muralismo”  alla “modularità o interazione di segni e forme”, dalle “mascherine per ricavarne forme  e figure”  al “gettare coriandoli sulla tela appena dipinta”, dalla “pittura ad aerofago”  all’uso dei “pixel per formare un’immagine”; fino alla citazione degli artisti che ne sono stati protagonisti, Clemente e Nunzio, Festa e Schifano, Boetti, Pintaldi e Gormley, i quali “hanno saputo raccogliere ed elaborare la frontiera avanzata della sperimentazione che è già stata di Cagli e da loro portata a nuove soluzioni linguistiche”.

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“Mirko”, 1935

Un altro caposaldo, anch’esso manifestato sin dall’inizio, nel mondo artistico di Cagli, è l’apparizione di “nuovi miti”, accuratamente analizzata da Federica Pirani che osserva: “Se l’arte è la religione del mistero, come affiorava di recente negli scritti di Bontempelli, per Cagli compito dell’artista è la costruzione di nuovi miti, favole moderne  che racchiudono tutte le storie antiche”.

 Cagli stesso lo spiega così nel 1935: “Al di là delle comuni ricerche di un linguaggio  tonale, di una dignità delle tecniche e delle materie,  di una osservazione delle leggi metafisiche che pervadono la pittura, vi è una foce di fronte alla quale tutte queste fatiche non sono che fiumi: la creazione di nuovi miti. A questo è tesa, io credo, ogni vocazione del tempo”. Ed ecco come va considerato: “Ravvisando, secondo la mia vocazione, il mito nei sensi eroico e religioso delle più gravi imprese, rivendico ai creatori il compito di giudicare il tempo e  celebrarlo. Tempo non già a noi concavo, ma convesso”.

La Pirani lo collega al primo caposaldo: “Il richiamo alla poetica del primordio, alle origini come nuova nascita, gli dà la libertà di spaziare nella tradizione artistica sia occidentale che orientale, dal Medioevo a Piero della Francesca, da Paolo Uccello alla pittura pompeiana, assorbendo e facendo proprie mitologie classiche ed ebraiche  storia romana e risorgimentale trasfigurati in miti senza tempo trasposti nell’attualità”. 

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“Suonatore di flauto” , 1935

Una visione che  non poteva non interessarlo alla metafisica di de Chirico, pur senza aderirvi, mentre lo allontanava dalle suggestioni futuriste e del novecentismo. Al punto da ritenere l’arte murale come unica valida espressione di modernità, “al  neoformalismo classicheggiante, e arcaico, contrapponendo il primordiale. Nella necessità del ciclo, nella movenza di primordio, sono  visibili i segni di un superamento delle tendenze di ripiego, tra le quali è da considerare tipica la scuola del novecento milanese”.

Giudizi d’epoca, su un artista “fortemente e incredibilmente contemporaneo”

Scriveva la sua contrapposizione al neoformalismo nel “Quadrante” sin dal maggio 1933, e nel mese di luglio entrava nella polemica suscitata dalla “Triennale di Milano” –  nella quale Sironi aveva commissionato a 30 artisti tra cui Cagli le pitture murali  per lo scalone e gli spazi adiacenti – sostenendo il diverso spirito con cui l’artista affronta opere destinate a restare ed opere effimere per il solo periodo della esposizione: nelle seconde “l’artista è portato a dare spettacolo della propria arte anziché il monumento”.  E quando dopo la Quadriennale di Roma del 1935 sorsero nuove polemiche, suscitate da Pier Mara Bardi che attaccò l’organizzatore Oppo per l’assenza della pittura murale nella pur dichiarata rassegna di tutte le forze artistiche nazionali in un confronto tra tendenze e generazioni, fu facile contrapporgli i  tre  grandi pannelli di Cagli sulla bonifica delle Paludi Pontine esposti  nella manifestazione come esemplari di decorazione murale di vasta apertura sociale.   Sono considerati una sorta di pietra miliare per interpretare un cammino che presenterà continui sviluppi e notevoli mutamenti, però sempre su una base culturale-filosofica legata ai miti.

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“Veduta di Roma”, 1936-37

Lo aveva capito sin dall’inizio del suo percorso,  Spaini, “Il Quirite”,  un cronista avveduto che il 25  dicembre 1932  scrisse, sulla mostra nella Galleria d’Arte di Roma con Cavalli e Capogrossi: “E’ un temperamento fantastico, che grazie alla sua straordinaria abilità può abbandonarsi  a tutti i capricci ed a tutte le aspirazioni. Dal più ornato disegno classicheggiante, fatto di linee che sembrano sospiri, passa alla caotica  composizione satirica, che nella  esiguità del segno ricorda i negri, gli arcaici, gli artisti delle caverne; e dalle solide composizioni illustrative, dai ritratti pieni di impegno pittorico e psicologico, passa ad astrazioni misteriose e suggestive, vere trappole dell’invenzione”. Ed erano di là da venire la “quarta dimensione” e i “motivi cellulari”, le “impronte dirette e indirette” e le “metamorfosi”, le “variazioni orfiche” e le “modulazioni modulari” dei decenni successivi, presenti nelle opere esposte in mostra! 

Ma nella fase iniziale non erano mancate le critiche, soprattutto in occasione della Quadriennale citata. Così Ojetti  il 5 febbraio 1935: “Il groviglio di allegoria e realtà è indecifrabile. Lo scopo dell’artista è stato – lo scrive egli stesso – la creazione di nuovi miti; ma i miti non si creano così, a giorno fisso, per volontà dei pittori. Li creano il popolo, la religione, i poeti; e i poeti li illustrano, li ordinano, li chiarificano”.  E Marchiori il 15 maggio:  “Il pittore si vale di troppi schemi noti  ma non sa neppure ordinarli secondo una disposizione accettabile… Cagli deve abbandonare  l’arido intellettualismo e trovare il coraggio di essere se stesso, libero finalmente da ogni proposito di stupire con lo strano e il diverso”. Giudizio di confusione contrastato da Cecchi nella stessa circostanza:  “ Tutta la pittura di Cagli è ragionata, misurata. E’ un’artistica matematica superiore… dà l’idea esatta  di un cervello organizzato, di un’arte cosciente che appassiona il pittore”.

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” Senza titolo” , 1936-37

Marchiori pone dei dubbi: “La volontà di far grande’, di creare ‘nuovi miti’ è sorretta da un pari potere inventivo? La fantasia compositiva si adegua alle noblilissime intenzioni? E i valori ‘strettamente pittorici’  tengono in piedi le raffinate composizioni compositive?”. Ma se lo chiede dopo aver premesso che “Cagli appartiene alla categoria dei pittori colti: quelli che hanno letto e meditato sui problemi estetici e che  scrivono senza errori di grammatica o d’ortografia…  Nei pannelli  si passano in rivista illustri ricordi, si sfogliano intere pagine di storia dell’arte”. E conclude così: ”Ad  ogni modo tanto il Cagli, quanto il Cavalli, il Capogrossi, lo Ziveri restano  le uniche segnalazioni, se non rivelazioni, della grande mostra di Roma”.  

E’  incondizionatamente positivo il giudizio di Callari che vede “la fantasia sposata con la realtà… la contingenza dei fatti è trascesa, l’uomo è a contatto con la natura per una rigenerazione primordia purificato e spiritualizzato”; e il giudizio di De Libero che ne loda la visione “per aver percorso a ritroso le grandi epoche dell’arte, sollecitato da urgenze spirituali, da una congiuntura che è insieme della ragione e del sentimento”.  Melli, infine, il 23  febbraio 1936,  gli attribuisce “un’avidità frenetica di impossessarsi,  vivisezionare, anatomizzare il contenuto, nutrirsi dei processi e dell’anima delle espressioni artistiche, dagli antichi tempi fino ai più recenti”.  

Tali considerazioni  suscitate dalla Quadriennale del 1935 le abbiamo riportate per sottolineare come a  23 anni fossero già chiari i capisaldi della sua arte  che si alimenterà poi delle feconde contaminazioni interdisciplinari cui abbiamo accennato in un processo di incessante crescita e cambiamento di stili ed espressioni a artistiche,  appunto le “folgorazioni e mutazioni” evocate dalla mostra  Ma dopo i giudizi dei critici vogliamo citare anche quelli di due grandi artisti, in due  fasi molto lontane del suo itinerario.  

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“Concertino”, 1940

Gerardo Dottori nel 1932, al suo esordio alla Galleria di Roma,  gli riconosce “una autorità che in un giovanissimo è prodigiosa ma anche pericolosa”, e parla di “sincerità, freschezza, audacia di primitivo”. E Renato Guttuso un quarto di secolo dopo, nel 1958, sulla mostra  “Le Metamorfosi” alla galleria Schneider di Roma, nel citare “ i personaggi dei miti cari ad Ovidio”, scrive: “E’ entrato in un mondo a cui la pittura non guarda più, a miti che l’età romantica e l’avanguardia sembrava  avesse confinato per sempre nel regno del passato”. E  si segnala “sulla possibilità di esprimere  accenti di oggi, di ‘esser moderni’  anche affrontando miti antichi, senza mascherarli con un linguaggio modernista , ma estraendo un sentimento moderno pur accettando  canoni che apparentemente appartengono all’arte classica o rinascimentale”.

Perciò Emanuele lo considera “un artista fortemente e incredibilmente contemporaneo”,  e ha promosso la mostra, con la sua Fondazione, per riportarlo sulla scena artistica romana “condividendo in tal modo, con le nuove generazioni, l’eccezionale modernità della lezione di questo  indiscusso e prolifico artista del XX secolo che per oltre quarant’anni è stato protagonista di primo piano  della vita culturale di Roma”. 

Seguiremo l’itinerario della sua arte  che si snoda tra dipinti, disegni e grafiche, sculture e ceramiche, scene e costumi teatrali, percorrendo le sezioni della mostra in cui le sue opere ne danno chiara testimonianza.

“L’atelier de Francois”, 1946

Info

Palazzo Cipolla, Via del Corso 320,  Roma.  Da martedì a domenica, lunedì chiuso, ore 10,00-20.00 (la biglietteria chiude alle 19). Ingresso:  intero euro 7, ridotto euro 5 under 26, over 65 e particolari categorie, gratuito under 6 e disabili con accompagnatore.   fondazione@fondazioneterzopilastrointernazionale.it, Tel. 06.97625591.  Catalogo “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, a cura di Bruno Corà, Silvana Editoriale,  ottobre 2019, pp. 368, formato 24 x 28;  dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. I prossimi due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 7 e 9 dicembre 2019. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com: su Calabria, 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019, De Chirico: 2019: il  3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre, 22, 24, 26 novembre, 2016:  il 17,  21 dicembre, 2015: il 1° marzo, 2013: il 20, 26 giugno, 1° luglio,  Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019, Futuristi 7 marzo 2018,  Picasso 5, 25 dicembre  2017, 6 gennaio 2018, Sironi 1, 14, 29  dicembre 2014, Dottori 2 marzo 2014, Cézanne 24, 31 dicembre 2013, D’Annunzio 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, Klee 1, 5 gennaio 2013,  Deineka 26 novembre, 1, 16 dicembre 2012, Mondrian 13, 18 novembre 2012, Astrattisti 5, 6 novembre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Realismi socialisti 3 articoli il 31 dicembre 2011, Irripetibili anni ‘60” 3 articoli il 28 luglio 2011, Sironi 26 gennaio 2009, Picasso 4 febbraio 2009; in fotografia.guidaconsumatore.it, nel 2011  Irripetibili anni ‘60” 30 luglio e Schifano 15 maggio  (i due ultimi siti appena citati, cultura.inabruzzo.it, e fotografia.guidaconsumatore.it  non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; sono in ordine cronologico e saranno commentate in modo specifico nel prossimo articolo del 7 dicembre In apertura,  il presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, Emmanuele F. M. Emanuele, alla presentazione della mostra, dietro di lui la parte dx dell’arazzo “Tancredi” 1977; seguono, “Autoritratto” 1932 e “Sirena” 1933; poi, “La nave di Ulisse” e “Il neofita” ,1933; quindi, “I vasi” 1934, e “Romolo” 1934-35; inoltre, “La caccia” e “Passaggio del Mar Rosso” 1935; ancora, “Mirko” e “Suonatore di flauto” , 1935; continua, “Veduta di Roma” e ” Senza titolo” , 1936-37; infine, “Concertino” 1940, e “L’atelier de Francois” 1946; in chiusura, “Chimera” 1946.

“Chimera”, 1946

De Chirico, IV. 3. I giocattoli, l’enigma e gli artifici della pittura, al Palazzo Reale di Milano

di Romano Maria Levante

Si conclude la narrazione della  mostra “De Chirico” al Palazzo Reale di Milano  – organizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza, e curata da Luca Massimo Barbero, insieme al ponderoso Catalogo Electa.-   nel  quarantennale della scomparsa  e nel centenario della svolta classicista e  dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970. Esposte  oltre 100 opere raggruppate in 8 sezioni tematiche, di cui abbiamo illustrato in precedenza le prime 5. E’ la volta delle ultime 3 sezioni, con le “stanze impossibili”, l’enigma dei gladiatori  e gli artifici della pittura, un finale tutto da scoprire di una mostra che ripercorre l’itinerario artistico del Maestro, mentre nel Catalogo Electa la ricostruzione di Barbero ha segnato un’altra pietra miliare insieme a quella di poco precedente di Benzi.

“Autoritratto nel parco”, 1959

Terminavamo la seconda parte della nostra narrazione preannunciando “le sorprese finali” di un percorso iniziato con la “mitologia familiare”,  proseguito con l’enigma metafisico nei misteri di Parigi, tradotto poi nell’innovativa metafisica “ferrarese” fino alla svolta classicista degli anni ’20 nei quali c’è stato anche un ritorno metafisico, con manichini e archeologi dalle linee arrotondate.

Ma gli anni ’20 ci danno ulteriori sorprese, quelle che ci piace chiamare “stanze impossibili” perché gli interni domestici sono popolati di alberi, templi e rocce; mentre nella serie dei “Mobili nella valle”, non rappresentata in mostra, avviene l’inverso, l’esterno  è popolato degli arredi domestici, in un intrigante rovesciamento di situazioni in ambedue le serie, di cui viene fornita un’interpretazione suggestiva.

Alberi, templi e cavalli  come giocattoli negli  interni domestici

La metafisica “ritornante” nella seconda metà degli anni ’20 si presenta dunque  senza il carico di sospensione e di ansia di quella delle origini, mentre le memorie autobiografiche tornano a permeare la visione dell’artista. Per questo  i “Mobili nella valle” sono ispirati da esperienze personali, il ricordo d’infanzia del terremoto allorché la sua famiglia fu costretta a traslocare portando i mobili in strada e, più in generale, i traslochi cui aveva assistito dei quali gli era rimasta impressa l’attesa dei protagonisti fissata nella sua memoria dai mobili posti nel luogo meno appropriato, l’esterno.

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“Tempio in una stanza”, 1926

Anche per la situazione speculare degli alberi, templi e rocce nel luogo ancora meno appropriato, la stanza, c’è una spiegazione, ma prima vogliamo descrivere le 3 opere realizzate in stretta successione  temporale, dal 1926 al 1928. In “Tempio in una stanza” , l’oggetto del titolo è posto su un promontorio roccioso confinante con un tappeto a strisce bianche  e blu che ricorda il mare, il “suo” mare, su un pavimento a piastrelle, della stanza si vede solo un parete di legno; “Ma chambre dans le midi”   invece mostra la stanza nella sua ampiezza, non più claustrofobica come la precedente, non solo il tappeto viola con linee bianche  su un vasto pavimento, anche lo scorcio del suo  letto disfatto e una porta alla destra, e al centro un gruppo di alberi dai tronchi altissimi, nonché due edifici, uno dalle pareti rosa con persiane verdi, l’altro dalla facciata gialla. Nel “Tempio greco”  un’altra variante, della stanza solo i contorni oltre al tempio, di dimensioni ridotte  rispetto alla prima opera citata, quasi una  cappellina, una colonna appoggiata alla parete, un corso d’acqua, un promontorio che  prosegue con costruzioni sulla cima.

La chiave interpretativa di  questo nuovo enigma l’ha data lo stesso de Chirico anni prima, profeticamente quando, nel 1920, sul “Classicismo pittorico” della svolta incipiente scrive: “Il tempio greco è a portata di mano, sembra che lo si possa pigliare  e portare via come un giocattolo posato sopra un tavolo”.

Così la 6^ Sezione della mostra è intitolata “La stanza dei giocattoli”, che non si limitano a quelli indicati. Vi sono anche i cavalli sin dall’inizio, è del 1926 “Cheveaux dans une chambre” due nobili destrieri rampanti scalpitano in un interno ristretto con un’ampia finestra su un cielo celeste dalle vaghe striature bianche; è un tema nietschiano, la pazzia del filosofo iniziò con l’abbraccio a un cavallo, e  rimandano al leggendario  Pegaso, sono simboli del lato dionisiaco da domare e richiamano quelli del fregio del Partenone, a lui molto familiari.  

Genealogie d’un réve”, 1927-28

Nello stesso anno  quei cavalli in una posizione statuaria simile, quasi teatrale e non certo realistica,  li rappresenta in “Chevaux  au bord de la mer”  sulla spiaggia con dei templi lontani su un promontorio; mentre, sempre nel 1926,  in “Le rive della Tessaglia” raffigura  plasticamente come il cavallo sia legato alle sue origini, la Tessaglia dov’è il paese natale Davos, con i volti senza occhi del cavallo bianco, in posa di riposo,  e del guerriero nudo al suo fianco;  per  Fagiolo dell’Arco ”Achille pascola il suo cavallo … tra schegge metafisiche, come il piedistallo il portico, il faro”.

In   Cavalli e rovine in riva al mare”, 1927, tornano i cavalli scalpitanti,  non più rampanti ma  quasi congelati in un biancore raggelante fra tronconi di colonne con un tempio in cima a un promontorio in lontananza.  Barbero osserva che “i due puledri stanno subendo un vero processo di gessificazione”, Sergio Solmi nel 1931 li ha definiti “bianchi cavalli pietrificati  in riva al mare sbiadito e riccioluto di spume d’una Grecia di fantasia”, e per Gadda nel 1938  “i bianchi cavalli… assistono con occhi stupefatti alla marina, dove non è che memoria, ancora memoria”.

 Jean Cocteau l’anno successivo aggiungerà elementi rivelatori alla chiave  interpretativa: “C’è niente di più realistico che dipingere la cosa immaginata nella stanza in cui la immaginiamo?” Non si può che concordare, si tratta evidentemente di una visione onirica e, se “i sogni son desideri”, come nella nota canzone, lo sono quelli  dell’artista che rivive le sensazioni dell’infanzia nella sua terra, con il suo mare, i suoi alberi e i suoi templi, i suoi cavalli. Il poeta aggiunge: “Quel che stupisce è che la fattura del dipinto  non mostra alcuna differenza fra   la stanza e l’immaginazione”, e cita espressamente “gli alberi che spuntano dal pavimento”.

“Chevaux dans une chambre” , 1926

Li abbiamo visti in “Ma chambre dans le midi”, li rivediamo in Généalogie  d’un réve”, 1927-28,  incorporati, con un edificio dietro di loro, nel torace di un tipico  manichino seduto, con le  lunghe braccia e le  gambe corte, ristretto nell’angolo di una stanza , la “sua” stanza,  il letto  a destra, tappeti,  piastrelle e parquet del pavimento, una porta. In “Naissanse d’un mannequin” de Chirico scriverà nel 1938-39: “E’ molto consolante che al posto di una clamide il pino sul suo tronco si erga a piramide . Egli porta sul suo tronco il suo destino subcosciente”. Si tratta, in questi interni, del pino marittimo della sua terra, ben diverso dagli alberi dalle chiome folte delle “Ville romane” di cinque anni prima, nel sogno ora opera il “subcosciente”.

Ma non basta, nei pirotecnici anni ’20 di nuovo de Chirico cambia tutto, lo vediamo in “Due figure mitologiche (Nus antiques, composizione mitologica)”  del 1927, l’anno dei diversissimi  alberi con i templi , e il  manichino in una stanza, e dei cavalli in riva al mare, più assonanti nelle loro rotondità con le massicce figure quasi compresse nell’interno molto ristretto. Ne dipinse 5, nel suo ritorno all’antico nella forma pittorica oltre che nella costante ispirazione,  sono stati avvicinati al neoclassicismo di Picasso, ma non è una derivazione, bensì hanno una matrice comune. “Sembrano due dee in un tempio claustrofobico – commenta Barbero – con un’unica via di fuga: la piccola finestra, piuttosto una fessura, dalla quale si scopre uno scampolo di cielo turchino”. E conclude: “De Chirico si sta avviando a quelle forzature che caratterizzeranno il ciclo dei Gladiatori, quegli eroi immensi ma dai corpi dinoccolati, quasi snodabili”.

Sono l’oggetto della 7^ Sezione, in cui si passa dai manichini alle figure  umane, del tutto nuove, i “ Gladiatori” e gli ineffabili soggetti che popolano i “Bagni misteriosi”.

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“Due figure mitologiche (Nus antiques, Composizione mitologica)”, 1927

L’enigma nell’umano, dai “Gladiatori” ai “Bagni misteriosi”

Ci introduce ai “Gladiatori”, con cui si apre la 7^ Sezione, “Un viaggio nell’enigma” ,  la citazione che Barbero fa di Ebdòmero, il protagonista del romanzo di de Chirico del 1929, il quale,  proprio mentre l’artista li dipingeva nella casa del suo mercante  Rosenberg, li presenta così: “…In una sala vasta e alta di soffitto, ornata secondo la moda del 1880. Completamente vuota di mobili,  in un angolo due gladiatori dalle maschere di scafandro si esercitavano senza convinzione … Gladiatori! ‘Questa parola contiene un enigma’”. Nel 1939 Gadda li definirà “eroi [che] vorrebbero inveire contro gli antagonisti eroi, e schinieri, usberghi, scudi lance  e criniti cimieri passano pronti alla rissa”. De Chirico  nel 1920, sul “Ratto delle Sabine” di Poussin visto al Louvre aveva scritto che  “simili a statue,  s’incastrano e… malgrado il movimento della lotta, i corpi hanno quel divino senso di stabilità e immobilità senza il quale un’opera non giunge mai alla grande arte”. Per cui, quando li dipingerà anche lui, otto anni dopo, si atterrà a questo suo giudizio preventivo.

Vediamo intanto il dipinto più anomalo, sia perché non sono gladiatori ma aurighi – ma li anticipa fedelmente con i corpi nudi  non più manichini – sia per la sua forma molto allungata,   “Corsa di cavalli nella stanza (Corsa di quadrighe)”, 1928. Si dipana  la corsa con gli aurighi nudi  in posa statuaria, alla guida dei carri che si scontrano, anche in lotta tra loro, come in un fregio antico, in una serie di  scene successive, come fotogrammi; un  termine che non abbiamo usato a caso perché Fagiolo dell’Arco ne riconduce l’atmosfera, piuttosto che  all’epica del Ben Hur del 1880, alla spettacolarizzazione cinematografica e alla relativa promozione, affermando che “agiscono senza convinzione, sono degli attori pietrificati che smettono di credere davvero ai ruoli che interpretano”.

“”La scuola dei gladiatori: il combattimento“, 1928

Gli altri dipinti, tutti del 1928-29 –  a parte  “Throphée”, con le armi ridotte ad orpelli ornamentali, fu posseduto per qualche tempo da Picabia –  raffigurano  i guerrieri  veri  e propri, armati  come li ha descritti Gadda.  In  “Gladiateurs (Gladiatori)” del 1928,  sono soltanto due che si fronteggiano, uno con maschera, l’altro senza, dinanzi a una figura che sembra una statua con la testa a uovo, l’unico residuo metafisico; la stessa figura che si intravede anche in “Les gladiateurs” del 1929, con davanti il numero di gladiatori raddoppiato, altri si vedono dietro due finestre; vi sono anche i “Gladiatori in  riposo”, 1928-29, con le teste ricciolute e i corpi nudi scolpiti da forti ombreggiature. Dalle singole tenzoni, e dal  riposo dei guerrieri, alla battaglia, o se si vuole alla “rissa” evocata da Gadda: la vediamo in “La scuola dei gladiatori (Il combattimento)”, 1938, e in  “Combattimento (Gladiatori)”, 1928-29, in entrambi un groviglio inestricabile di corpi nudi, soprattutto in piedi ma anche a terra, che cercano di colpirsi, nel primo ci sono  dei cavalli stretti tra i combattenti.

Viene rievocato da Giovanni Casini, a proposito di  “De Chirico e il corpo maschile”, il suo interesse per “I lottatori” di Courbet – inserì la riproduzione dell’opera nella nota sull’artista pubblicata nei “Valori Plastici” nel 1925, prima che vi si cimentasse lui stesso – le cui opere definisce  “delle narrazioni, dei passaggi di un romanzo dove i personaggi non appaiono  nel loro aspetto corrente  (verismo) ma nel loro aspetto poetico e fantomatico (realismo)”.  Più che guerrieri antichi sono muscolosi lottatori contemporanei  di lotta greco-romana, mentre quelli di de Chirico hanno la carne  flaccida  e, pur riportando l’incarnato umano dopo i manichini ortopedici, non hanno nulla di eroico, il suo “gladiatore”  si avvicina piuttosto al “lottatore” di Honoré Daumier, per nulla statuario.   Casini li ricollega allo stretto rapporto di dc Chirico con il mercante  a lui vicino  Rosenberg, considerato “un esemplare dell’uomo moderno del dopoguerra: sportività, attività e fede nel macchinismo”, schermidore e pugile, per cui i “gladiatori” evocherebbero gli sportivi in allenamento e in gara,  a cui il protagonista autobiografico del suo romanzo, Ebdòmero, attribuisce “pose  piene di stile e di nobiltà”. Ed ecco come li descrive: ”A parte qualche scena di lotta più simile a un’ammucchiata  o a un blocco policromo e immobile che a un  effettivo combattimento, i gladiatori sembrano privi di volontà di agire”; e su de Chirico aggiunge che “opera nei suoi gladiatori un rovesciamento parodistico di un ideale di virilità e di corpo maschile che verso la fine degli anni venti e  soprattutto  negli anni trenta sarebbe stato strumentalizzato tragicamente dai regimi totalitari”.

“Gladiateurs au repos”, 1928-29

Per Barbero, “l’incarnato dei corpi ha un tono artificiale, le forme  allungate stirano  i  muscoli fino a fargli perdere ogni  connotato di virilità… l’ironia è talmente palpabile  in quella pittura molle…  che quegli uomini di gomma allontanano  ogni possibile visione neoclassica o, peggio ancora, retorica o reazionaria…” Poi, richiamando il dipinto di Renoir con i soldatini, conclude così: “Anche se i gladiatori  dechirichiani non sono infatti veri combattenti  e, dunque,  reali figure umane, l’artista  sta cominciando a volgere l’attenzione verso una nuova evoluzione che caratterizzerà proprio gli  anni trenta con un’attenta riflessione sulla pittura del maestro impressionista, già cominciata fin dal 1920”.

Vi sono stati i  nudi e le figure arrotondate alla Renoir, nella produzione del periodo, ma questa citazione introduce gli altri protagonisti della sezione, i “Bagni misteriosi”, l’ulteriore “invenzione” di de Chirico nella prima metà degli anni ’30, che racchiude in sé l’ennesimo enigma. Anche in questo caso, come per i  “Gladiatori”, troviamo una sua anticipazione quasi 15 anni prima, in uno scritto su Klinger del 1920,  dove parla dei ricordi di infanzia che gli davano “un gran senso di sgomento”, e cita al riguardo  “una scaletta di legno simile a quelle delle cabine  negli stabilimenti balneari, e di cui si vedono i primi gradini che scendono nell’acqua… mi sembrava dovessero scendere… fino nel cuore delle tenebre oceaniche”. L’occasione di esprimerlo nell’arte la ebbe quasi dieci anni dopo  nell’illustrare, con 66 litografie,  i “Calligrammi” dell’amico poeta Apollinaire, fu un primo assaggio;  troviamo i “Bagni misteriosi” nell’espressione più compiuta nelle 10 litografie create per illustrare l’opera di Jean Cocteau, “Mythologie”.

Les gladiateurs” , 1929

A parte il ricordo d’infanzia, l’idea, come lui stesso scrive, gli venne alla vista di una persona che camminava su un pavimento lucidissimo, tirato a cera, e sembrava  che potesse “affondare in quel pavimento, come in una piscina”.  Di qui l’illuminazione:  “Così immaginai delle strane piscine con uomini  immersi in quella specie di acqua-parquet, che stavano fermi, e si muovevano, ed a volte si fermavano per conversare con altri uomini che stavano fuori della piscina-pavimento”.  Ha detto tutto, basta aggiungere la differenza tra gli uomini fuori piscina, vestiti, che sembrano dominanti, e quelli nell’acqua, inermi, anche a questo riguardo era così che li vedeva quando si recava nelle piscine; e va considerato il significato  metafisico delle cabine, “ogni cabina contiene un fantasma” ebbe a scrivere. Mentre Calvesi fa risalire alla pittura egizia l’andamento a zig zag dell’acqua-parquet.

Il mistero è anche nei titoli. Questi per le litografie, tutte del 1934: “L’ospite misterioso” e “L’apparizione del cigno”, “La figura inspiegabile” e “Il bagnante solitario”, “Il centauro misterioso” e “L’idolo nei bagni misteriosi”,  “Sotto la cabina misteriosa” e “Nella piscina inquietante”, “Conversazione misteriosa” e  “Raduno inspiegabile”. E per i dipinti del 1935:  “La visita ai bagni misteriosi” – con le cabine “occhiute” e il confronto visivo uomini nudi-uomini vestiti – e “La barca dei bagni misteriosi”, surreale come quella di Ulisse-Ebdòmero. Del 936 “Bagni misteriosi a Manhattan”, con la cortina di grattacieli, a testimonianza del fortunato viaggio negli Stati Uniti, che accolsero i “Bagni misteriosi” con straordinario favore, mentre nella “Quadriennale di Roma” del 1935 erano stati accolti male dalla critica, del resto prevenuta.

“I Bagni misteriosi” , 1934-35

Ma non solo i “Bagni”, a New York  espone 26 opere in una mostra con Surrealisti e Dada al MoMA, inoltre  decora, con Picasso e Matisse, una sala alla Decorators Picture Gallery, e da solo una parete dell’istituto di bellezza di Helena Rubinstein, realizza un grande murale su soggetto mitologico per la sartoria Scheiners. E’ entusiasta della metropoli americana, vi trova un senso metafisico negli edifici, per l’architettura, con “l’omogeneità e la monumentalità armonica, formata da elementi disparati ed eterogenei”, e  con  l’assenza di persiane “così spesso di notte gli appartamenti, le camere rischiarate sembrano, viste dalla strada, grandi vetrine di negozi e di bazars”. Vorrebbe fermarsi a lungo, ma  nel 1937 alla morte della madre  torna subito in Italia sul transatlantico Rex.

Nel 1973 realizza per la Triennale di Milano la fontana dei “Bagni misteriosi” per il giardino di Parco Sempione, in mostra è esposta la “maquette” , ci sono  un cigno e un pallone variopinti nella piscina-parquet con due cabine. E, innovazione nell’innovazione, un sole ardente  e un sole spento, che ci introducono nell’ultima sezione della mostra, in cui ritroveremo questo tema.

Gli “artifici della pittura”, le repliche e gli autoritratti, con  la gioiosa Neometafisica

E’ un tema, quello del sole acceso e spento con i fili elettrici, che  appartiene alla nuova stagione metafisica degli anni ’60 e ’70,  in chiusura della mostra, ci torneremo tra poco. Intanto, entrando nell’8^ e ultima Sezione,   “Gli artifici della pittura”, siamo ancora nell’anno dei “Bagni misteriosi” ma  con tutt’altra espressione pittorica, nella ben nota compresenza multiforme.

“Bagni misteriosi II (La visita ai bagni misteriosi)” , 1935

Si tratta di composizioni classiciste del 1934, come “I dioscuri con rovine e architetture”, con le figure maschili in piedi nude che ricordano quelle in “Il saluto degli argonauti partenti” del 1920, alla svolta dopo la prima metafisica; e  “Bagnanti sopra una spiaggia”, con il nudo femminile alla Renoir mollemente disteso in primo piano e altri nudi in secondo piano. La peculiarità di queste opere è che ne richiamano molto da vicino altre, sia pure con numerose varianti:   la prima richiama “Castore e Polluce” del 1930,  simili ma non uguali le figure maschili, di cui una regge lo stesso drappo anche se cambia il braccio  e i cavalli di cui muta il colore; la seconda la ritroviamo replicata nel 1945 con il titolo “Bagnanti (con drappo rosso nel paesaggi)” , invece il drappo nell’opera precedente era celeste, e il paesaggio è una campagna con alberi dove prima c’era la spiaggia e il mare, i nudi di sfondo da 4 sono diventati 2, non è invecchiata la protagonista, la moglie Isa,  che ha fatto  dire a Vittorio Sgarbi: “Il nudo di Isabella entra di diritto tra i classici italiani, tra la Venere di Urbino e la Paolina Borghese di Antonio Canova. Gli dei, e le dee, sono tornati”. Invece non ci sono varianti  visibili tra “Vita silente” e “Natura morta con calco antico e cacciagione” , la prima del 1928 e la seconda del 1930 con un diverso titolo che sorprende dato che rifiutava di chiamare “natura morta”  fiori e frutti che per lui erano “vita silente”.  

Naturalmente,  non sono questi i dipinti che hanno posto il problema delle repliche e delle datazioni, ma le opere della cosiddetta “Neometafisica”, con le quali l’artista è tornato massicciamente sui temi del passato metafisico, però con tinte più calde e con una visione disincantata e serena che ha sostituito la sospensione ansiosa e spesso angosciosa, tanto che è stata chiamata, nella mostra di Campobasso del 2015,  “gioiosa Neometafisica”. Così la definisce  Barbero: ’De Chirico si libera totalmente del peso della stretta datazione e si reimpossessa lucidamente e in modo straordinario non del suo passato, ma della sua visionarietà. La neometafisica è un mondo nuovo che presenta  una delle facce del cristallo sfaccettato delle invenzioni dechirichiane ma in una chiave completamente libera, con una pittura, altrettanto scarna, forte di un disegno  nero, quasi de Chirico ritornasse  sognante alle grandi invenzioni metafisiche e ai suoi giochi più illuminati”.

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“La barca dei bagni misteriosi”, 1935

Si impegna in una “produzione serrata” tornando sui temi  che hanno avuto maggiore presa nel passato, “che reinterpreta liberamente in una sorta di d’aprés, e che ne escono ancora più lucidi, più brillanti e cristallini, appunto come un sogno fatto ad occhi aperti”, sogno e non più incubo. Sono esposte addirittura tre repliche di  “Le Muse inquietanti”, datate 1925,  1950 e fine anni ’50, praticamente identiche alla prima del giugno 1918, quella da lui duplicata allora per accontentare Breton che poi ne approfittò per attacchi forsennati  che tanto pesarono sulla critica, largamente fuorviata se non strumentalizzata, e sulla vita stessa del Maestro ingiustamente calunniato e perseguitato.

Molte polemiche su questo aspetto della multiforme genialità di de Chirico, che lo portava anche a provocazioni, fino a retrodatare talune opere o, di converso, a negare l’autenticità di altre per rivalsa su Breton e i suoi accoliti. Le  reiterazioni, del resto, rientrano  nel concetto di arte da lui espresso con queste parol:. “La mia idea è una mia idea, e l’anno in cui la rieseguo non importa”, oltre che nel suo concetto di tempo con l’“eterno ritorno”. Colpì talmente Andy Warhol, il capofila della Pop Art, che alle “Muse inquietanti” dedicò uno dei suoi celebri multipli, “Disquieting Muses (After de Chirico, Muse inquietanti)”, del 1982, anno in cui in una doppia pagina del catalogo della mostra “De Chirico, New York”  c’erano riprodotte diciotto versioni di tale opera, sembra una moltiplicazione da”apprendista stregone” . Warhol disse ad Achille Bonitoliva in occasione di  tale mostra: “Ho sempre ammirato de Chirico. Ha ispirato molti pittori… Mi piace la sua arte  e poi quell’idea di ripetere sempre e sempre gli stessi dipinti. Mi piace molto quest’idea e ho pensato che sarebbe stato magnifico farlo”.  Furono fotografati da Gianfranco Gorgoni insieme a New York, immagine  eloquente con Warhol allucinato e scomposto, de Chirico statuario e tranquillo, quasi il Maestro a fianco all’allievo che appare sconvolto da tale vicinanza.

“Vita silente”, 1928

Gli anni ’40  e ’50 sono anche quelli degli “Autoritratti”, nella proiezione teatrale – tale è anche lo spettacolare “Canal Grande a Venezia”, 1952 – che  lo ha accompagnato nel suo lungo itinerario artistico con le tende che spesso marcano la scena. In  questa forma espressiva molto personale esplode in modo anche provocatorio, tanto da suscitare molte critiche. Lo vediamo nell’”Autoritratto in costume da torero” nel 1941-42, “in costume nero” nel  1948, “nel parco” nel  1959,  pose  statuarie e vesti sgargianti in ambientazione di tipo teatrale, risponde alla stessa logica “Corazze con cavaliere” del 1940. Mentre l’”Autoritratto nudo”, 1943, è definito da Barbero “di una sfrontatezza senza precedenti… un’opera spregiudicata perché è, sì, Narciso, ma è anche istigazione ironica…” e dallo stesso de Chirico, “forse la pittura più completa che io abbia eseguito finora”, in origine tutto nudo, poi per l’esposizione aggiunse un asciugamano annodato, anche se seduto  non era inverecondo.  Luigi Ontani lo ha ripetuto con sé stesso due volte a distanza di 33 anni, la prima volta con un asciugamano analogo, la seconda in slip, e Giulio Paolini ne ha fatto l’approdo di un intrigante avvicinamento nella mostra del 2010, “L’enigma dell’ora”. Savinio ne parla così. “Il ritratto è una rivelazione. E’ la rivelazione del personaggio. E’ ‘lui’ in condizioni di iperlucidità. E’ ‘lui’ come egli stesso non riuscirà mai a vedersi nello specchio, come non riusciranno mai a vederlo familiari, i conoscenti, gli amici, coloro che lo incontrano per strada”.  Nel 1940-43 “Autoritratto”, un primissimo piano del volto con uno sfondo lontano, alcuni anni prima il celebre “Autoritratto nello studio di Parigi” del 1934, in piedi a figura intera con tavolozza e pennello davanti al cavalletto, con una testa di statua a terra che  lo guarda  in modo interrogativo, creando un enigma nel luogo meno misterioso, il suo atelier; lo presentò alla “Quadriennale” di Roma del 1935, con altri dipinti in tono dimesso che suscitarono molte critiche, erano gli anni della monumentalità di Sironi, nella mistica di regime. 

Il cavalletto lo ritroviamo tra squadre da disegno “ferraresi” in “Interno metafisico con sole spento”, 1971,  quarant’anni dopo averlo evocato nei “Calliogrames” per Apollinaire del 1930,  ispirandosi a un ventilatore Marelli; i due soli, dardeggiante e spento li vediamo anche in “Spettacolo misterioso” dello stesso anno.

E’ un “inno al sole”  in ambienti non claustrofobici, con ampie finestre sull’esterno, che segue di due anni il “Ritorno al castello” dove il cavaliere sul ponte levatoio – come quelli che combattono ammucchiati in “Battaglia sul ponte” –  è fatto di ombra, con una dentellatura che richiama quella del “sole spento”. Un altro  enigma dei tanti diffusi dell’artista?

“Interno metafisico con sole spento”, 1971,

Nell’anno intermedio, 1970, abbiamo “Orfeo, trovatore stanco” che chiude la mostra. “Il trovatore” è uno dei maggiori capolavori, con il manichino sempre in piedi nelle creazioni del 1917 e 1924, 1935 e 1948;  ora invece è seduto ai margini di una “Piazza d’Italia”, si appoggia alle squadre “ferraresi”, una sintesi della “sua” metafisica, e getta ai propri piedi la lira, lo strumento del mestiere che corrisponde a pennello e tavolozza del pittore.  Secondo Barbero, l’opera “conferma la  consueta ironia dechirichiana”, e noi notiamo una tenda sulla destra, quasi  abbia voluto lasciare il segnale che si tratta di una mera rappresentazione teatrale, non di un proprio stato d’animo di stanchezza; tanto meno di una resa.

Di dieci anni prima, del 1960,  il “Trovatore stanco”, disteso e non seduto come Orfeo, ma de Chirico  ha proseguito l’itinerario artistico, e anche nel 1970  non si ferma di certo:  nel 1971 oltre al citato’Interno metafisico con sole spento” ricordiamo “Spettacolo misterioso” e Termopili”, “Il meditatore” e “Il tempio del sole”,  fino a “Il grande gioco (Piazza d’Italia)”, nel 1973 “Muse della lirica”, “Il mistero di Manhattan” e “Gli arredatori veneziani”, nel 1974 “Mistero di una stanza di albergo a Venezia”, nel 1975 “Testa di animale misterioso”.   

E’ inesauribile, e  Barbero lo conferma concludendo con le seguenti parole: “I dipinti di questo ultimo periodo mostrano un’infaticabile volontà di de Chirico di giocare con le proprie invenzioni, di aggiornarle con le nuove fonti di cui si nutre: essi riuniscono, in un canto altissimo, tutta l’invenzione e il mistero di uno dei più grandi pittori del XX secolo”. 

Ci sembra possa essere la migliore conclusione del quarto petalo del nostro “quadrifoglio” dechirichiano,  a celebrazione del quarantennale della scomparsa del Maestro, nel quale la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico ha calato il “poker d’assi” in suo onore. Oltre al “Film” della sua vita e della sua opera di Fabio Benzi, le tre mostre di Genova, Torino e Milano con il nuovo “Film” di Luca Massimo Barbero: quello che era il “triangolo industriale” è diventato  così il “triangolo artistico” del grande Giorgio de Chirico. 

“Autoritratto nello studio di Parigi”, 1934

Info

Milano, Palazzo Reale,  Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì  ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Biglietti, intero euro  14, ridotto 12, ridotto speciale  6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero, Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019,  formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Si tratta della quarta  parte, sulla mostra di Milano, dopo le tre della “trilogia” su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità: i 2 articoli precedenti sono usciti in questo sito il 22 e 24  novembre scorso, con questo articolo si conclude il  nostro “quadrifoglio” dechirichiano in 16 articoli.  Per la “trilogia” cfr. i nostri articoli, tutti del settembre 2019, usciti rispettivamente, per la  terza parte sulla mostra di Torino il 25, 27, 29, per  la seconda parte sulla mostra di Genova, ,il 18, 20, 22, per la prima parte sul  libro di Fabio Benzi  il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 25, 27 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 22 novembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com,  Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018,  Sironi 2 novembre 2015, 1, 14, 29 dicembre 2014, Matisse 23, 26 maggio 2015, Renoir e impressionisti 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2015, Warhol  15, 22 settembre 2014;  in cultura.inabruzzo.it, nel 2010, Teatro del sogno 7 novembre, 1° dicembre, Renoir e impressionisti 27, 29 giugno, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio; nel 2009,  Picasso 4 febbraio (questo sito  non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico, che riguardano le ultime 3  sezioni della mostra commentate nel testo,  sono state riprese dal Catalogo tutte meno 6 (perché in doppia pagina), si ringrazia  l’Editore, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. Le 6 immagini non riprese dal Catalogo  sono tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta con la loro disponibilità “on line”, pronti a rimuoverle su semplice loro richiesta: la n. 2 è tratta da pinterest.cl e la n. 5 da artribune.com, la n. 6 da phillips.com e la n. 7 da lavocedinewyork.com, la n. 11 da artnet.it e la n. 15 da artesky.it. Tutte le immagini sono diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de  Chirico”, 15 ogni articolo,  alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro.  In apertura, “Autoritratto nel parco” 1959; seguono, “Tempio in una stanza” 1926, e “Genealogie d’un réve” 1927-28; poi, “Chevaux dans une chambre” 1926, e “Due figure mitologiche (Nus antiques, Composizione mitologica)” 1927; quindi, “”La scuola dei gladiatori: il combattimento” 1928,“Gladiateurs au repos” 1928-29 e “Les gladiateurs” 1929; inoltre, “I Bagni misteriosi” 1934-35, “Bagni misteriosi II (La visita ai bagni misteriosi)” e “La barca dei bagni misteriosi”, 1935; ancora, “Vita silente” 1928, e “Interno metafisico con sole spento” 1971; infine, “Autoritratto nello studio di Parigi” 1934 e, in chiusura, “Autoritratto” 1940-45.

“Autoritratto”, 1940-45

De Chirico, IV. 2. Ferrara, la svolta classicista e il “ritorno” metafisico, al Palazzo Reale di Milano

di Romano Maria Levante

Prosegue la narrazione della mostra “De Chirico” al Palazzo Reale di Milano  –  nel  quarantennale della scomparsa  e nel centenario della svolta classicista e  dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970 – con oltre 100 opere del  Maestro, organizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza, a cura di Luca Massimo Barbero che ha curato anche l’imponente Catalogo Electa.  Dopo aver illustrato le prime 2  sezioni, passiamo alle 3 successive, che riguardano l’evoluzione “ferrarese” della metafisica, seguita dalla svolta classicista del 1919 e dal ritorno metafisico negli anni ’20, tappe intermedie di un percorso ricco di sorprese.

Il pomeriggio soave”, 1916

Il passaggio da Parigi a Ferrara non è di poco conto, fu la guerra a determinarlo, con la risposta dei fratelli de Chirico al richiamo alle armi. Sembra che non fosse doverosa, come per Apollinaire che si arruolò, sebbene fosse francese, essendo nato a Roma, così per i de Chirico nati in Grecia, ma da italiani, quindi si sentivano tali e lo ritenevano, come l’artista ha scritto, “il  nostro dovere”. Rientra nella riaffermazione di identità di chi nelle molte peregrinazioni vuol sentirsi radicato in una terra.

 La metafisica “ferrarese”, tra biscotti e manichini

“Ferrara, l’officina delle meraviglie” – nell’invitante richiamo della 3^ Sezione della mostra – fu  creata  dagli Estensi in un territorio paludoso lungo assi ortogonali, de Chirico la definisce  “città quanto mai metafisica”, perché la trova “solitaria e di geometrica bellezza”, come le sue “Piazze d’Italia”  immerse nella solitudine con la geometria degli edifici, le arcate e le ombre.  Ma non sono gli aspetti urbanistici  peculiari e assonanti con la prima Metafisica,  a  caratterizzare la nuova metafisica, bensì caratteristiche altrettanto peculiari, ma più “interne”, si direbbe connaturate alla comunità locale. Nei negozietti soprattutto del quartiere ebraico – all’ebraismo de Chirico aveva rivolto molta attenzione  a livello teorico – le povere vetrine con la loro   “disposizione delle cose”  evocavano quelle “associazioni spaesanti e inattese degli oggetti” che abbiamo già visto nella fase immediatamente precedente.

Lo riscontriamo  in “”Il pomeriggio soave”, 1916, con i biscotti cosiddetti “crumiri” – che evocano alla rovescia le lotte dei lavoratori – ce ne sono  5 fissati su un riquadro blu dietro cui si apre una piazza ben diversa dalle  “Piazze d’Italia” perché senza reale prospettiva,  profondità  e dimensioni,  dai contorni scuri senza vere ombre che fanno sentire maggiormente  il senso di isolamento. Il biscotto come simbolo della “terribile solitudine delle cose” che rende misteriosa la vita, lo farà capire  scrivendo, nel  1919, “un biscotto, l’angolo formato da due pareti un disegno evocante un che della natura del mondo scimunito e insensato che ci accompagna in questa vita tenebrosa”. 

“Il saluto dell’amico lontano”, 1916

Nello stesso 1916 un solo biscotto “crumiro”, anche qui su fondo blu, con un pezzo della tipica “coppia” del pane ferrarese su fondo rosso, circondano, per così dire, il gigantesco “occhio” su fondo bianco nel “Saluto all’amico lontano” che viene identificato nell’amico mercante Paul Guillaume, al quale darà il mandato di vendita dei propri quadri dopo la rottura con Breton, che anche per questo fatto che lo danneggiava sul piano professionale ed economico diventerà un nemico ancora più irriducibile, ma su questo torneremo in seguito. Dopo aver spiegato l’enigma dei biscotti si cerca  una spiegazione all’enigma dell’occhio e la si trova nella concezione del Maestro  che, seguendo le credenze degli “antichissimi cretesi”,  gli attribuiva il potere di tenere lontane  le energie negative, in quanto “allo stadio primo”  ogni feto è “tutto un occhio. Bisogna scoprire il dèmone in ogni cosa”. E questo in una visione claustrofobica, senza neppure la falsa prospettiva di una piazza appena accennata, in cui  viene avvertita l’inquietudine della guerra. Anche se, a differenza di tanti volontari,  de Chirico non andò al fronte ma fu destinato a un  ufficio nelle retrovie, e per questo riuscì a non interrompere del tutto la pittura nemmeno in quel periodo.

Abbiamo anche dei disegni in cui  si nota come sia mutevole il senso claustrofobico dell’addensamento in una stanza ristretta. Mentre in  “La sposa fedele” al mezzo manichino di spalle si apre la prospettiva di un corridoio con in fondo una finestra da cui si vede un alto palazzo con molte finestre e due ciminiere  svettanti, in “L’apparizione”  tanto il manichino seduto con la testa a uovo canonica che la figura eretta  a lui apparsa sono compressi in uno spazio di cui si avverte la ristrettezza  pur nei contorni sfumati; sono entrambi del 1917. Nel  1918 “La casa del poeta” e Consolazioni metafisiche”  presentano un assemblaggio di elementi, come gli immancabili biscotti “crumiri”,   in spazi limitati  e senza l’umanità, sia pure metafisica, dei manichini; ma in entrambi il vano di una finestra apre la vista sugli edifici all’esterno.

“Interno metafisico con faro” , 1918

In questi disegni vi è sempre “un incastro di squadre”  da disegno – altra peculiarità della metafisica “ferrarese” –  delle quali il Maestro pochi anni dopo, nel 1919, all’atto di operare una prima svolta radicale, scrive che le vedeva “sempre spuntare come astri misteriosi dietro ogni mia raffigurazione pittorica”. Sono parte integrante della struttura portante del celebre “Trovatore” , opera del 1917 in cui il manichino acquisisce solidità e  forza espressiva, con una  nobiltà che ritroveremo in molte varianti, da ”Ettore ed Andromaca” al “Figliol prodigo” e così via.  Inoltre si libera delle ristrettezze claustrofobiche,  è in uno spazio aperto, anche se quasi addossato alle arcate nell’ombra,  come in  “Les Printeps de l’ingégneur”, ma alle spalle ha uno scorcio di “Piazza d’Italia”  con la costruzione   conica  sulla destra.   

Spazio aperto anche in “Interno metafisico con faro”, ancora del 1918,  dato dal “quadro nel quadro” con l’immagine di un mare tempestoso e di un cielo con grossi nembi ispirata ad una cartolina, è il faro di Genova, omaggio alla città natale della madre; l’oppressione claustrofobica si avverte nella chiusura definita “asfissiante” in una stanza, ciò che piacque molto ai dadaisti, il tutto tra incastellature lignee e squadre da disegno. Saranno queste le architetture compositive di tanti altri “Interni metafisici”, il “quadro nel quadro” ospiterà ville e officine di varia natura e dimensione, ed anche carte geografiche in particolare delle zone irredente, c’è sempre la guerra in atto e de Chirico ne segue le vicende da molto vicino. Anche i suoi interessi artistici sono quanto mai vivi, al punto che Carrà, anch’egli sotto le armi, si fece trasferire appositamente a Ferrara per avvicinarsi a lui, affascinato dalla pittura metafisica di cui diventerà per breve tempo esponente, al punto che i detrattori di de Chirico strumentalmente tentarono di dargli un’inesistente primogenitura. Con loro De Pisis, oltre al fratello di Giorgio, che si farà chiamare Alberto Savinio.

“Malinconia ermetica”, 1918-19

In  “Malinconia ermetica”,  1918-19, una scena classica, la testa riccioluta di Mercurio abbacinante nel  bianco del  marmo sembra affacciarsi  dall’esterno, con dietro un ”cielo appiattito nel tono intenso di lavagna” – sono le parole usate da  Carrà in “Valori Plastici” –  in un interno con una scatola, un biscotto e un giocattolo, per una “natura morta”  di cui il dio potrebbe essere visto sia come componente sia come osservatore, perché guarda gli oggetti dall’esterno.

Chiude la sezione “”Ritratto dell’artista con la madre”, 1919, con il significato di emancipazione dalla “centauressa”, lui raffigurato alla Nietsche come nell’”Autoritratto” del 1911. Sono trascorsi otto anni, lei ha l’espressione decisa come l’altra era mansueta. Barbero commenta: “Riprendendo un proprio dipinto, de Chirico mette già in atto un atteggiamento che caratterizzerà la sua produzione futura, quando replica negli anni venti le nature morte, negli anni quaranta la moglie stesa su una spiaggia e, dagli anni sessanta, reitera questi stessi anni ferraresi, epurati però, dal peso dell’enigma”. Ecco come questo avviene: “Ancora una volta de Chirico ritorna a sé, alla sua famiglia, per elaborare un cambiamento di rotta, già nell’aria sul limitare degli anni ferraresi  e che trova la sua ufficialità nella personale romana del 1919 con la mostra alla casa d’Arte Bragaglia, aprendo una nuova stagione di vita e di pittura tra l’Italia e Parigi”.

“Ritratto dell’artista con la madre”, 1919

Gli anni ’20, la svolta classicista

Questo “cambiamento di rotta” , che riflette il  “ritorno all’ordine” del dopoguerra,  è evidenziato nelle opere della  4^ Sezione della mostra, “Gli anni venti”, e ha inizio con un dipinto di  stampo classicista,  nel contenuto e nella forma pittorica, che rivoluziona radicalmente la forma metafisica in direzione inattesa. Riportandoci a quel 1919 potremmo dire che nell’arte di de Chirico “c’è qualcosa di nuovo”, anzi molto di nuovo rispetto al recente passato, aggiungendo però “anzi d’antico”. Sia perché l’“illuminazione” l’ha avuta a Roma davanti a un dipinto di Tiziano – come quella metafisica la ebbe a Firenze in piazza Santa Croce davanti alla statua di Dante –  entrambe le volte in preda a un malessere fisico; sia, e soprattutto,  perché il “ritorno all’antico” fu totale, al punto di effettuare copie  e “d’aprés” dagli antichi Maestri direttamente   nelle Gallerie espositive, come “La vergine del tempo” e “Diana”, La donna gravida”  da Raffaello-,  e “Ritratto d’uomo” dal “Ritratto di gentiluomo” di Lorenzo Lotto. 

In questo contesto si inserisce “Il ritorno del figliol prodigo” del 1919, che apre la svolta  classicista  con le due figure che si abbracciano ispirate  a Carpaccio, della Metafisica restano soltanto piccoli scorci di edifici sullo sfondo;  ma il “ritorno”  su questo soggetto non è definitivo, nel 1922 un manichino metafisico abbraccerà una figura pietrificata nel bianco statuario. A parte quest’evoluzione, la svolta è anche nella tecnica pittorica, con il ritorno ai materiali antichi, per questo utilizza la tempera, il tutto teorizzato anche nei suoi scritti, oltre che messo in pratica  nella sua nuova linea artistica di stampo neoclassico.

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“La sala d’Apollo (Violon)”, 1920

Le prime due opere dell’inizio degli anni ’20  esposte in mostra  “La sala d’Apollo (Violon)”, 1920, e ”L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco”, 1922,  presentate  insieme a Parigi nel 1925, hanno molte analogie: in entrambe c’è una testa classica scolpita, Apollo nel primo,  Niobe nel secondo,  sono poste su un’ampia superficie, nel primo un interno non certo claustrofobico per la sua ampiezza e per le due finestre rettangolari che fanno vedere il cielo, nel secondo una distesa aperta fino all’orizzonte con una barca in secondo piano e un bel cielo azzurro. Inoltre, nel primo davanti alle due teste scolpite un grande violino con lo spartito, a destra e a sinistra delle statue, mentre nel secondo  dei grandi pesci e una aragosta rossa, in una serenità veramente “olimpica”.

Nell’accostamento di oggetti non abbiamo più – osserva Barbero –  il non sense dell’abbinamento  torso-banane dell’ “Incertezza del poeta”, né il senso attribuito è incerto come l’allusione erotica che  abbiamo ipotizzato. Per il primo basta ricordare che Apollo era il dio della musica, in più il richiamo familiare oltre che classico della vocazione del fratello,  la sala potrebbe essere un tempio, le statue tra cui quella di Athena fanno sentire la Grecia di origine; riguardo al secondo l’abbinamento mare e barca con i pesci in primo piano è del tutto conseguente, la vela greca è anch’essa un ritorno alle origini, si sente aleggiare il mito dell’Odissea.

“L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco)”,1922

Del resto, è del 1912-22 Ulisse”, ripetuto con la variante di una tenda sulla sinistra nel 1924, ci sono delle assonanze con  “Odisseo sulla riva del mare” di Blocklin, 1869, nella figura barbuta e nella posizione seduta,  a parte le braccia collocate molto diversamente. E’ una figura primitiva, quasi primordiale,  che Sergio Solmi ha definito “corpo contorto e faunesco, addossato a un cupo lauro, da fiori ardenti”.  Un autoritratto ideale, che precede l’identificazione nel viaggio sulla barchetta di Ulisse-Ebdòmero nella propria camera,  molti anni più tardi? Di certo il Maestro scriverà, vent’anni dopo,  a proposito del nudo in pittura – e “Ulisse” è un nudo – “che l’uomo conosce meglio d’ ogni altra cosa  il proprio corpo; egli lo conosce così bene perché  è il suo corpo è quello che gli è più vicino e più caro”, si vedrà anche nel suo celebre “Autoritratto nudo” del 1943, oltre che in quelli così numerosi e spettacolari in costume teatrale.

A proposito di “Autoritratto”, quello del 1924-25  che si trova in questa sezione si differenzia radicalmente da quelli precedenti e da quelli successivi, per il busto raggelato quasi in una statua di sale, le mani innaturali, addirittura Barbero vede nella destra “vagamente la forma di un Prigione  in contorsione, mentre la sinistra sembra un guanto appoggiato su una tavola”; e sappiamo come i guanti abbiano un ruolo peculiare tra i tanti oggetti che popolano le sue visioni pittoriche, come nell”enigmatico “Chant d’amour”. E’ un ”Autoritratto”  importante perché con esso “si toglie il busto ortopedico” della metafisica, secondo Cocteau, tanto che Barbero lo definisce “un punto di approdo  rispetto  a un percorso di radicale stacco dalla metafisica iniziato in quel decisivo 1919”, spiegato così: “Esaurisce insomma il tema dello spazio metafisico ed entra nella grande pittura, folgorato dai maestri antichi, da quel  Ritorno al mestiere auspicato nella pagine di Valori Plastici fin dal 1919 con una profonda attenzione alla tecnica pittorica…”. Un svolta impegnativa, descritta così: “Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile. Ci vorrà tempo e fatica”, e in questo lavoro “i nostri pittori dovranno stare oltremodo attenti al perfezionamento dei mezzi: tele, colori, pennelli, oli, vernici, dovranno essere scelti tra quelli di migliore qualità”, cosa che fece lui stesso. 

Le altre opere della svolta classicista esposte sono due  composizioni su figure mitiche dell’antichità e  tre rappresentazioni di ville romane in cui l’elemento mitico e leggendario è sempre presente.

“Ulisse”, 1921-22

“Lucrezia”, 1922, e ”Oreste ed Elettra”, 1923, sono espressive del ritorno all’antico e al classico, nel contenuto e nella forma pittorica, con la  mitologia romana che si aggiunge  a quella greca, e non in modo reiterativo, bensì creativo, come “inventore dei temi eterni della pittura”. “La Lucrezia dechirichiana –  è ancora Barbero – è una scultura vivente, tutta  tornita intorno alla smorfia che ha impressa sul volto, al piccolo stiletto anodino, ai piedi quasi animali e ridicoli, e a quello sguardo vivo,  teatrale e annoiato che la rende interprete  di un dramma contemporaneo”, evoca “la crudezza eburnea macchiata di carne delle più secche eroine di Lucas Cranach”, viene paragonata anche a Niobe. Oreste ed Elettra  segue “modalità teatrali” nelle due figure in forte contrasto cromatico, con lei consolatrice solida come una statua, lui disperato nella sua nuda fragilità,  viene definito “quadro sintomatico ed esplosivo quanto carico di rimandi alle radici della pittura italiana”.

Ancora più espressive, in termini di  adesione al classicismo, le  Ville romane con le chiome folte degli alberi, l’opposto rispetto alla geometrica essenzialità delle”Piazze d’Italia”  con le linee precise  e le ombre nette, lo spazio spoglio e le minuscole figure umane nella sospensione metafisica; ora ammira, e lo scrive,  come avveniva per i pittori antichi, “la bellezza eccezionale degli alberi, specie dei lecci, delle querce e dei pini marittimi, l’aspetto suggestivo ed evocatore dei ruderi, dei resti d’una vita che fu, sparsi tra la natura”. Uno  scenario naturale  reso favoloso dai  cavalieri, con i loro destrieri, ancora nel segno del viaggio, questa volta via terra in chiave cavalleresca-medioevale e non via mare come in “Ulisse” e negli Argonauti.  

“Oreste ed Elettra”, 1923

Barbero cita il suo giudizio sulle interpretazioni della natura di Courbet, che “rivelano l’aspetto fantastico e lirico del mondo”, e  gli attribuisce “un lirismo elegiaco che ricorda  molto da vicino i brani paesistici di Poussin e Lorrain, e prima ancora dei Carracci”, in particolare Annibale Carracci nella  natura rigogliosa  c’è la presenza delle opere dell’uomo.  Ciò che domina è la maestosità degli alberi e  degli edifici: in “Villa romana” e in “La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)” , del 1913, le fronde rigogliose nascondono quasi totalmente l’architettura, che invece domina in “Ottobrata”, del 1914, dove –  sono parole del Maestro – “l’aspetto architettonico ha un senso romantico e avventuroso”-  Raffaele Carrieri la definirà molti anni dopo “pittura felice e tranquilla, ma che serba in sé un’inquietudine come nave giunta  al porto sereno d’un paese  solatio e ridente dopo aver vagato per mari tenebrosi o aver attraversato zone battute da venti contrari”; e, nello specifico, rileva che  “figure e  cose appaiono come lavate  e purificate e risplendenti d’una luce interna”, concludendo con questa definizione: “Fenomeno di bellezza metafisica che ha qualcosa di primaverile e di autunnale nel tempo stesso”.  Quasi un ossimoro parlare di “bellezza metafisica” per  un’opera classicista nel contenuto e nella forma pittorica, ma non lo è se si pone a mente alla “metafisica continua” di de Chirico, celebrata nella mostra di Genova, cui ci siamo sentiti di aggiungere  “classicità continua” per la compresenza delle due visioni ideali e artistiche.

Negli stessi anni ’20, il ritorno della Metafisica

Non solo elementi classici nelle opere metafisiche  ed elementi metafisici nelle opere classiciste, anche  compresenza, negli stessi anni ’20, delle due espressioni pittoriche così divergenti; come del resto in Picasso, tra cubismo e neoclassicismo. Nonostante la svolta del 1919,  la produzione metafisica non si è arrestata, nella concezione di Nietsche secondo cui  “il passato  e il presente sono sempre la stessa identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono … una struttura immobile  e di significato diversamente uguale”.

“La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)”, 1923

Anzi, dopo l’esplosione classicista troviamo sin dai primi anni ’20 ma soprattutto dalla metà in poi, una nuova ondata  metafisica, anche se limitata ai  manichini e in forme spesso  più morbide e arrotondate. Carrieri,  nel 1942, scrive: “Il manichino di de Chirico più che un vero  e proprio personaggio è un veicolo plastico. La sua struttura complessa ed elementare. E’ una macchina, ma è anche un essere soprannaturale, uno scheletro ragionato, una specie di androgino matematico composto di squadre, con una testa ovale senza lineamenti e con un profilo proiettato”. Dopo questa descrizione commenta: “Ha qualche cosa di solenne e di conturbante. Un’idea fissa. L’involucro di un eroe antico  o futuro non ancora identificato”.

Lo vediamo in “Il figliol prodigo”, 1922, in cui ricompaiono alcune arcate delle “piazze” ma con uno sfondo collinare quattrocentesco, il figlio è un classico manichino dalla struttura fragile rispetto al padre solido come una statua di marmo nel suo biancore. E in due versioni di  “Ettore ed Andromaca”, in quella del 1923 c’è minore metafisica, la figura di lei, con la veste che avvolge il corpo rotondo e statuario,  nasconde  in parte lui, manichino appena accennato armato di lancia; mentre la versione del 1924 ha tono teatrale, nell’abbraccio plateale tra lei, questa volta in un’ampia veste svolazzante, più classica che metafisica,  e lui, perfetto manichino geometrico, con dei cavalli di sfondo sulla sinistra,  le mura di Troia con una torre metafisica sulla destra.

Dall’evocazione dei personaggi più amati dell’Iliade  al loro creatore con “Homére”, che segna la boa del 1925, una sorta di statua votiva  spicca in un interno tenebroso,  seduto  con i libri nel torace – forse l’unico segno metafisico —  e  il corpo raggelato nella pietrificazione che abbiamo già notata  nell’”Autoritratto” del 1924-25.

“Ettore e Andromaca”, 1923

In questo periodo, tra il 1921 e il 1924, si logora il rapporto con Breton, il “guru” dei surrealisti che aveva inneggiato alla Metafisica di de Chirico come surrealista per eccellenza e aveva rilevato nel 1921 a un prezzo irrisorio – svolgeva anche attività di mercante – il gruppo di opere incompiute che Ungaretti, per conto dell’amico rientrato in Italia per il servizio militare, aveva depositato presso Paulhan. In seguito, le insistenti richieste di Breton di avere un quadro metafisico a un prezzo inferiore a quello richiestogli dai collezionisti che ne disponevano, indussero de Chirico a preparare per lui a un prezzo modico una copia di “Le Muse inquietanti” e dei “Pesci sacri”; non solo si fece autorizzare dal proprietario Castelfranco, ma dichiarò  che le copie “non avranno altro difetto che quello di essere eseguite con una materia più bella e tecnica più sapiente”, cioè una nuova versione. Paradossalmente ciò segnò dopo poco tempo la fine del loro rapporto, forse perché Breton  temette di essere soppiantato, come esclusivista di de Chirico, dal  mercante Léonce Rosenberg che appena  presentatogli proprio da lui, gli aveva organizzato  una mostra  a Parigi nel maggio 1925, oltre che da Guillaume, come del resto avvenne.  L’accusa infamante di aver  falsificato “Le Muse inquietanti” – forse da Breton venduto come originale e sconfessato dall’esposizione in mostra proprio dell’originale – fu l’inizio della fine, lo scontro fu molto aspro, de Chirico certamente non porse l’altra guancia, Fabio Benzi ne ha documentato con cura tutte le fasi.

Torniamo all’arte, nella seconda parte del decennio – sempre più inserito a Parigi dove è tornato al termine del servizio militare – protagonisti sono ancora i manichini, ma in posizione seduta, sembrandogli quelli in piedi assimilabili alle marionette, in un assetto desunto dalle sculture dei santi nelle cattedrali medioevali per accrescerne l’autorevolezza. Così i “Manichini in riva al mare” , 1926, nel torace un addensarsi di scatole come ex voto, due figure separate su una passerella. In questi dipinti, ma ancor di più nei successivi, spiccano i caratteri da lui descritti nel 1938 in “La nascita del manichino”: “Le gambe molto corte coperte dalle pieghe dell’abito…   le braccia naturalmente s’allungano in proporzione al tronco”. 

“Homére”, 1925

Lo vediamo nel trittico “The philosopher”, 1927,soprattutto nella sezione centrale dove gli arti sono ben visibili, nel torace incorporati libri, maschere, pergamene e non solo; nelle due sezioni laterali, con analoghi accumuli di libri e altro nel torace, notiamo linee arrotondate a anche vaporose di  richiamo classico, il ritorno  metafisico deve fare i conti con la forte spinta classicista.  “L’archeologo”, dello stesso anno,  rafforza questa constatazione, addirittura Barbero lo definisce “un capolavoro di classicismo evocato sia dalla posa del manichino sia dalla presenza  delle rovine incastonate nel suo ventre”; e aggiunge che “de Chirico ne stravolge la posizione, lo adagia, facendogli prendere dunque le distanze  dalla legnosità della marionetta  per assumere l’aria pacata e imperturbabile dello sposo nel sarcofago etrusco”.

Invece nell’anno precedente, 1926, due opere con tutt’altro segno- In “Manichini guerrieri (due archeologi)” , non solo  non ricorrono le rotondità del “Philosopher” e dell’”Archeologo” dell’anno successivo, ma non c’è neppure la secchezza geometrica del manichino metafisico, sono due figure spettrali come percorse da una scarica elettrica in uno spazio claustrofobico, definito dal Maestro poco più di dieci anni dopo  “un fenomeno del più alto interesse metafisico”; nei loro corpi scomposti  è stato visto un collegamento con il cubismo di Braque,  non amato da de Chirico, a differenza di Picasso. 

Nello stesso 1926 ci sono anche gli  “Archeologi misteriosi”,  due forme speculari, una nera e l’altra bianca, che si contrappongono come fantasmi dall’effetto  inquietante, in un interno dai contorni evanescenti come l’orizzonte che si apre: “Le figure danno l’idea di sculture di pietra – ha scritto Ternovetz nel 1928 – esse sono come inchiodate alla terra, crescono dentro la terra…”.

E’ l’anno dei “trofei”, in primis il “Trofeo”  per antonomasia, di cui de Chiricosottolinea, per bocca di Ebdòomero,  “l’omogeneità e la monumentalità armonica formata da elementi disparati ed eterogenei” culminanti in “una cittadella, con i suoi cortili interni e i suoi giardini oblunghi e geometrici, che assumevano la forma severa di baluardi”; Barbero rileva che “scimmiottano le panoplie di trofei romani gli elementi impilati nel ‘Trofeo’” e osserva che “la prospettiva, quasi aerea, confonde la vista su una vallata popolata di colonne  e templi”.

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“The philosopher”, 1925

Anche “La notte di Pericle”. dello stesso 1916,  è assimilata a un trofeo, formato da una catasta di scatole con in cima un piccolo tempio, su uno sfondo nero,  mentre dell’eroe ateniese si vedono appena i contorni del corpo in una figurina evanescente  incorniciata sopra il cumulo. Forse perché nell’anno precedente, con “Pericle”, 1925, abbiamo la sua figura  con un elmo corinzio, l’aspetto statuario è attenuato dalla testa reclinata, quasi si sentisse abbattuto,  e  soprattutto da quella che Barbero definisce “una sorta di vestaglietta a fantasia variopinta che risalta ulteriormente nel contrasto con l’incarnato di pietra”.  In tal modo “de Chirico tiene viva quella nota dissacrante  e ironica che adotterà a breve anche per i propri autoritratti in costume”. In Facitori di trofei”, 1925-28, invece, le tre figure in piedi  che hanno costruito l’assemblaggio trionfale di scatole e oggetti non hanno “l’incarnato di pietra”, e dei  manichini c’è solo la testa a uovo, per il resto colori,  calore della carne e  forma umana  anticipano i successivi “gladiatori”, sono quasi degli infiltrati in una composizione ancora metafisica.

Come avviene per  l’ “Interno metafisico con testa di filosofo”, 1926, dove non vediamo né la verticalità dei trofei, e neppure il non sense della distribuzione “ferrarese”, anche perché non sono oggetti da vetrina ma colonne, vassoi,  quadri e scatole, fino a un tempietto,  per Barbero “l’impianto è fuori controllo e l’equilibrio compositivo tocca un picco d’instabilità”.  La testa di filosofo in primo piano, nonché i quadri addirittura riferibili a Max Erst e la sagoma nera ad Apollinaire, insieme con i reperti archeologici e il tempio che evocano la Grecia rimandano alla memoria  che, secondo Fossati, “è condizione dell’agire,  permea la volontà, le fornisce forza e direzione” e viene precisata così da Barbero: “Memoria di quei lontani templi greci che ne hanno popolato l’infanzia, un ricordo rinverdito dalla Magna Grecia, che con i suoi resti ha rappresentato una fonte costante e un rassicurante legame alle sue duplici radici”. 

Torna così la “mitologia familiare” da cui siamo partiti, ma il nostro viaggio nel mondo di de Chirico continua, prossimamente le scoperte finali.

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“Manichini in riva al mare”, 1925

Info

Milano, Palazzo Reale,  Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì  ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Biglietti, intero euro  14, ridotto 12, ridotto speciale  6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero. Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019,  formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Si tratta della quarta  parte, sulla mostra di Milano, dopo le tre della “ trilogia” su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità: l’articolo precedente è uscito in questo sito il 22  novembre scorso, il 3°  e  ultimo uscirà il 26 novembre, a conclusione del  nostro “quadrifoglio” dechirichiano in 16 articoli.  Per la “trilogia” cfr. i nostri articoli, tutti del settembre 2019, usciti rispettivamente, per la  terza parte sulla mostra di Torino il 25, 27, 29, per  la seconda parte sulla mostra di Genova, il 18, 20, 22, per la prima parte sul  libro di Fabio Benzi  il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 25, 27 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 22 novembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com,  Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Cubisti 16 maggio 2013, Carracci 5, 7, 9 febbraio 2013;  in cultura.inabruzzo.it, Cranach 10, 11 gennaio 2011, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010,  Picasso 4 febbraio 2009  (questo sito  non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico, che riguardano le 3  sezioni intermedie della mostra commentate nel testo,  sono state riprese dal Catalogo, tutte tranne una  (perché in doppia pagina), si ringraziano  l’Editore, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta, e il titolare del sito dal quale è stata presa l’immagine n. 7, ilnotiziariodicortina.com, per la sua disponibilità “on line”, pronti a rimuoverla su semplice richiesta. Tutte  le immagini sono diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de  Chirico”, 15 ogni articolo,  alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro.  In apertura, “Il pomeriggio soave” 1916; seguono, “Il saluto dell’amico lontano” 1916, e “Interno metafisico con faro” 1918; poi, “Malinconia ermetica” 1918-19, e “Ritratto dell’artista con la madre” 1919; quindi, “La sala d’Apollo (Violon)” 1920, e “L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco)” 1922; inoltre, “Ulisse” 1921-22, e “Oreste ed Elettra” 1923; ancora, “La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)” ed “Ettore e Andromaca”, 1923; continua, “Homére” e “The philosopher” , 1925; infine, “Manichini in riva al mare” e, in chiusura, “Archeologi misteriosi” , 1926.

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“Archeologi misteriosi”, 1926