Botero, una straordinaria “Via Crucis” al Palazzo Esposizioni

Ci siamo sentiti di onorare la memoria del grande artista Botero, scomparso nei giorni scorsi, ripubblicando le nostre recensioni alle sue due ultime mostre romane. Dopo i 3 articoli degli ultimi tre giorni sulla mostra antologica del 2017 al Vittoriano, concludiamo la nostra partecipazione ripubblicando anche la recensione alla mostra monografica sulla “Via Crucis”, svoltasi al Palazzo delle Esposizioni nel 2016. E’ straordinario come le sue forme ridondanti, ironiche e dissacranti, applicate al tema sacro più struggente riescano a emozionare rendendo partecipi del grande dolore espresso nelle 14 Stazioni della Via Crucis. Questa è vera, grande arte.

di Romano Maria Levante

La Pasqua al Palazzo Esposizioni con la mostra “Botero. Via Crucis, la passione di Cristo”, aperta dal 13 febbraio al 1°maggio 2016. Sono esposti 27 dipinti, la maggior parte di grandi dimensioni, in numero quasi doppio rispetto alle 14 Stazioni canoniche per la reiterazione di una serie di momenti del dramma cristiano con qualche aggiunta,.e 34 disegni a matita ed acquerello, tutti del 2010-2011 in una eloquente immersione dell’artista nel mistero della Passione e Crocifisisone. La mostra è  promossa dall’Ambasciata della Colombia in Italia, organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con il Museo d’Antioquia di Medellin e Glocal Project Consulting, Catalogo bilingue italiano-inglese della “Silvana Editoriale” con un saggio introduttivo di Conrado Uribe Pereira.

“Gesù e la moltitudine”, 106 x 81 cm;

Una Via Crucis come quella di Botero sarebbe un evento straordinario anche per un pittore dedito alle celebrazioni dei momenti della fede, perché non si tratta dei temi consueti della religione trionfante, con la glorificazione della Madonna e il Bambino, Cristo e i Santi, e neppure del solo Crocifisso, ma viene ripercorsa interamente la Passione con tutte le 14 stazioni della Via Crucis, e alcuni momenti reiterati con grande efficacia, in 27  dipinti, la maggior parte  di grandi dimensioni,  con 34 disegni e acquerelli preparatori, anch’essi di elevato livello artistico. 

Ma oltre a questo aspetto pur illuminante,  ne va considerato un altro: l’artista che si è cimentato in un’opera così eccezionale per sua natura e scelta stilistica non è rivolto al dramma e alla sofferenza, tutt’altro. La sua peculiare caratteristica è rappresentare, con figure ridondanti e tranquille, una condizione umana ben diversa nella quale è del tutto assente il dramma e inoltre vi è uno spiccato senso di ironia, anche questo non si addice di certo al tema della Passione.

La formazione e il percorso artistico di Botero

E allora la prima cosa che viene da chiedersi riguarda il motivo che ha portato l’artista a una prova così lontana dal suo orientamento tradizionale, la seconda se abbia mantenuto la sua cifra stilistica delle forme abbondanti, la terza se abbia conservato la sua tendenza all’ironia e alla dissacrazione.

Per l’interrogativo di fondo seguiamo le riflessioni di  Conrado Uribe Pereira che nascono da un’accurata analisi dell’opera del maestro dal primo periodo ad oggi; le altre due risposte vengono dalla visione dei suoi dipinti e dei disegni preparatori, una galleria  fortemente espressiva.

“Il flagello”, 123 x 94

Sull’ispirazione non vi è dubbio che la sua terra, la Colombia, abbia rappresentato il primo  influsso con la solarità e  il clima sudamericano nel quale sono immerse le sue figure corpose e indolenti; ma su questo motivo si è innestata la cultura occidentale della quale è stato imbevuto avendo diviso le sue residenze tra Colombia, la sua Medellin e Bogotà,  Italia e Francia, Stati Uniti a  New York.

In Italia è stato fondamentale il suo contatto con le opere dei grandi maestri dal 400 e Rinascimento in poi, tra quelli che più lo hanno interessato, osserva Uribe Pereira, “nella sua pittura attraverso omaggi e reinvenzioni. Botero si riappropria così di alcuni artisti che hanno lasciato il segno nella storia dell’arte”. Non solo mediante  citazioni, ma “nel far proprie molte, se non tutte, le tematiche di questi artisti”.  La chiama addirittura “ossessione per i i soggetti tradizionali dell’arte”.

Come citazione diretta  indica il suo dipinto del 1972 “Cena con Ingres y Piero della Francesca”, in cui si rappresenta a tavola con i due artisti, comunque la sua attenzione va anche a Paolo Uccello, Rubens e Velasquez, Cezanne e Picasso. Nelle opere religiose dei grandi maestri ritrova gli stimoli che gli provenivano dalla  religiosità della sua terra, espressa negli ambienti  pubblici e privati.  Si realizza, così, un incrocio virtuoso tra i ricordi del passato del pittoresco  mondo sudamericano, e le sollecitazioni del presente di un’arte di livello alto nei temi e nelle forme espressive.

“Il cammino delle sofferenze”, 188 x 146

Pur con questi forti influssi, però, la sua opera non è mai imitativa, perché li traduce nel suo stile personalissimo e inconfondibile.  Abbiamo così anche sue opere religiose, ma si sbaglierebbe se da queste si facesse discendere la “Via Cruicis”  sia per la sua specificità, anzi unicità nella forma seriale della rappresentazione –  un ciclo completo sullo stesso tema – sia per la sua netta diversità.

Infatti anche i temi drammatici sono resi abitualmente dall’artista in modo sereno e tranquillo, il suo è sempre, osserva Uribe Pereira, “un mondo sensuale, popolato da esseri dilatati di un piacere turgido e felice, generalmente immuni dal degrado del tempo e della miseria morale. Tutto in intima relazione con questo modo così particolare di ricomporre le proporzioni ed esaltare i volumi”. 

Perciò gli viene attribuita “la capacità di evocare quella domenica felice della vita in cui ogni essere vivente, ogni pianta, ogni mobile ed ogni casa trovano tranquillamente  e pigramente il posto più adeguato, lontano dal male e dalla meschinità, in un’uguaglianza felice e antigerarchica”.

“Gesù cade per la prima volta”, 139 x 158

Anche nel “Trittico della Via Crucis” del 1969, realizzato quarant’anni prima dei 27 dipinti  del 2010-11,  prosegue Uribe Pereira, “l’elaborazione di questi temi si effettua attraverso l’abbondanza tranquilla e voluttuosa di tutte quelle forme che raggiungono la maturità alla fine degli anni settanta”;  di anticipatorio ci sono le “distorsioni spazio-temporali”, come l’ambientazione moderna e certe inversioni nella sequenza, ma non si sente il dramma: “Questo è un Cristo morto già sceso dalla  croce, come testimoniano le ferite sul costato e sulla mano destra; anche gli occhi chiusi sembrano suggerire l’idea della morte, ma il Cristo non giace accanto alla croce né all’interno del sepolcro: in posizione eretta sembra benedirci con un gesto che conosciamo dalle immagini del sacro Cuore di Gesù e il cui sangue continua a scorrere, come se fosse ancora vivo”.

Nelle stazioni della nuova “Via Crucis”,  in numero quasi doppio delle 14 canoniche, aleggia invece il dramma, anche se le forme sono sempre opulente, i colori delicati, le linee arrotondate, nell’assoluto rispetto del suo stile personalissimo. Si può dire che queste forme turgide, altrimenti segno di  abbandono felice all’opulenza, nella drammaticità della Passione rendono Cristo ancora più indifeso e vulnerabile, suscitando una pena indicibile nel vederlo vilipeso e oltraggiato, ferito e crocifisso.

Abbiamo così dato una risposta alle altre due domande  poste all’inizio: mantiene il suo stile personalissimo delle forme ridondanti  ma ne fa un elemento drammatico; assente  ogni ironia o attenuazione del pathos della “Passione”.

 “Gesù cade per la seconda volta”, 27 x 31

I precedenti della “Via Crucis”, “Violencia in   Colombia” e “Abu Ghraib”

Dobbiamo, però, trovare ancora risposta  all’interrogativo di fondo su come sia stato spinto ad esprimere in modo così drammatico un tema in passato affrontato con la leggerezza che abbiamo ricordato. Uribe Pereira collega la “Via Crucis” ai due  precedenti cicli pittorici sulla  violenza in Colombia e sulle torture nel carcere di Abu Ghraib: “Trasformazioni. La presenza del dramma nell’opera di Botero”; con l’interrogativo: “Un nuovo capitolo nell’opera dell’artista?”

La sua risposta è nettamente affermativa. In passato, anche quando ha affrontato temi politici e sociali, nonché temi religiosi – compresa la  stessa Via Crucis, come abbiamo ricordato – la sua cifra artistica è stata sempre la sensibilità umana con una tendenza verso l’aspetto esistenziale nella sua espressione più serena e tranquilla con inclinazione all’ironia e alla satira. Ciò vale anche per il tema della morte, come in “La corrida”, 1984, dipinto nel quale mancano toni drammatici: i tori pur nella loro imponenza sono inoffensivi, il sangue sembra un ornamento, l’insieme una festa collettiva.

Nei due cicli più recenti anteriori alla “Via Crucis”, invece, il dramma è insito nella violenza delle scene rappresentate. Il ciclo ispirato dal suo paese, “Violencia in Colombia”, è esplicito:  in “Un consuelo”  nel 2000  il grande scheletro che avvinghia dal di dietro una figura bendata, raffigura la morte con la pietà verso il prigioniero  torturato, le mani legate e insanguinato come Cristo.

“Gesù incontra sua madre”, 145 x 160

Appare evidente la  partecipazione dell’artista al dramma del suo paese, sconvolto da decenni da un conflitto  aspro come una guerra civile,  da lui attribuito alla mancanza di giustizia sociale oltre che all’ignoranza; sembrerebbe che non si è sentito di restare estraneo a una vicenda che sconvolge da troppo tempo il suo paese, la sua sensibilità  umana si ribella in un soprassalto di patriottismo.

Ma  non è solo patriottico, la sua è una reazione appassionata alla violenza e all’ingiustizia in ogni latitudine. Lo dimostra la  drammaticità che troviamo anche nelle opere del ciclo “Abu Ghraib”, il carcere nel quale l’esercito americano ha sottoposto i prigionieri a inenarrabili violenze e torture.

Botero si è impegnato in tali cicli contro la violenza per 14 mesi nel 2000, quasi una missione contro le violazioni dei diritti umani ovunque  si verificano, nel suo paese o in altre parti del mondo. tanto più se perpetrate da una nazione come gli Stati Uniti  che si presentano come modello di democrazia mentre si sono macchiati di “cose che sfuggono a qualsiasi norma di civiltà”.  Commenta Uribe Pereira: “Perfettamente consapevole che l’arte non ha il potere di cambiare lo stato delle cose, Botero sa anche che l’arte ha però la capacità sociale di mettere in evidenza, e la potenza storica di promuovere, il ricordo e la memoria”. 

“Simone aiuta Gesù”, 29 x 33

L’arte come testimonianza per non dimenticare

Nel 2004 veniva definito “Testimonio de la barbarie” da Santiago Londono,  riferendosi alle sue nuove donazioni al Museo Nazionale della Colombia; nel 2005  due interviste dai titoli eloquenti, in aprile a “Revista Diners”  è in prima persona, “Fernando Botero. “Botero pinta el hottor de Abu Ghraib: la injustitia  me hace hervir la sangre”,  in giugno a “El Tiempo” è intitolata “Botero: el arte es en accusaciòn permanente”.

In una nuova  intervista del febbraio 2007  al periodico “Revolution”  intitolata  “Fernando Botero y Abu Ghraib: No me pude quedar callando”  ribadisce:  “Quando i giornali smettono di parlare e la gente smette di parlare, l’arte rimane. Ci sono tanti avvenimenti storici conosciuti attraverso l’arte. I dipinti di Goya e ‘Guernica’ sono fatti che potrebbero essere dimenticati se non fosse per le immagini che li raccontano . Spero che questi dipinti fungano da testimonianza per tanto tempo”.

Sono parole eloquenti che Botero ha accompagnato con i fatti. Le due serie di opere che hanno precorso la “Via Crucis”  le ha donate  con l’intento di diffonderne  la visione perché la sua testimonianza svolgesse un ruolo attivo nel muovere le coscienze. “Violencia in Colombia”  la donò al Museo Nacional de Colombia, addirittura con la condizione che fosse presentata in una mostra itinerante nel paese e all’estero. “Abu Ghraib”  fu donata all’Università californiana di Berkley.

Entrambe suscitarono  polemiche, segno che l’iniziativa dell’artista aveva raggiunto il suo scopo: una testimonianza quanto più viene discussa tanto più si diffonde e si imprime nelle coscienze.

Gesù e Veronica”, 114  x 58

Le reazioni alla denuncia dell’artista

Rispetto a “Violencia in Colombia”   le discussioni vertevano soprattutto sul piano artistico. Secondo alcuni critici il suo stile pittorico non era idoneo ai temi drammatici, le sue caratteristiche figure ridondanti non avrebbero potuto esprimere il ripudio della violenza, in particolare Andrés Hoyos ha espresso questa sua convinzione in “El Malpensante” del giugno-luglio 2004, in un articolo intitolato significativamente “Monotonia”.  Mentre per Santiago Londono nel già citato “Testinonio de la barbarie”  proprio la staticità e imponenza delle figure dava al dolore una rappresentazione toccante,giudizio su cui concordiamo; Elkin Robiano  nella rottura con la sua pittura tradizionale placida e beata ha visto una “irradiazione della verità accompagnata da commozione”.

Le reazioni alla donazione di “Abu Ghraib”  all’Università californiana furono invece soprattutto di tipo politico;  fu vista, soprattutto da una parte del pubblico,  come una provocazione agli Stati Uniti, come lamenta Botero in un’intervista a Milena Fernandez  in “Arcadia” del novembre-dicembre 2009  osservando che nel registro dei visitatori ha trovato espressioni di odio e accuse di ingerenza negli affari interni degli americani. Lo stesso artista ne ha ridimensionato la portata dicendo che venivano da gruppi reazionari pericolosi ma ristretti, perché la maggioranza degli americani è contraria alla tortura. Un critico a lui favorevole, Arthur C. Danto in “Body in Pain”, su “La Nation” del novembre 2006,  attribuisce alla serie una forza drammatica addirittura superiore a “Guernica”  che appare decorativo a chi non ne conosce il significato; mentre in Botero “il suo tanto denigrato manierismo rende più intenso il nostro coinvolgimento rispetto alle immagini”.  E ancora: “Raramente il dolore si è avvertito così da vicino o è stato così umiliante per chi lo ha perpetrato”.

“Altra caduta di Gesu“, 139 x 158

Botero, nel già citato discorso con il quale nel 2007 presentò la serie negli Stati Uniti  disse: “Ovviamente è più gradevole dipingere soggetti gradevoli. Durante tutta la vita ho scelto, con convinzione, di dipingere soggetti piacevoli. Nella storia dell’arte la maggior parte dei soggetti sono gradevoli ma, naturalmente, ci sono pittori che riescono a dare piacere attraverso temi drammatici”. E, con riferimento alle immagini “orribili” della Crocifissione dipinte dal pittore tedesco Grunewald, aggiunse: “Niente potrebbe essere più orribile, Lo spettatore vive prima il piacere estetico della bellezza e poi, con il tempo, avverte il dolore”.

Uribe Pereira , nel rievocare questi precedenti, collega la presentazione in America della “Via Crucis”  a quella del ciclo “Abu Ghraib”. Non per la donazione, avendola  donata al Museo della sua città natale Medellin dopo averla realizzata per il proprio 80° compleamnno; ma per la prima esposizione dato che scelse New York – dov’era peraltro una delle sedi del suo gallerista – e suscitò polemiche il fatto che la “Crocifissione”, una delle stazioni più spettacolari della “Via Crucis”, aveva come sfondo i grattacieli come se Cristo fosse stato crocifisso in quella città; per di più  si vedono  persone che passeggiano con carrozzine o fanno jogging, minuscole ma abbastanza nitide per coglierne l’indifferenza rispetto alla sua gigantesca  figura che sovrasta il parco con i filari di alberi, sembra guardare in alto solo una madre con bambino..

“Gesù consola le donne”, 138 x 195

Secondo il critico “l’artista esprime una nuova dichiarazione d’intenti in una duplice ottica: l’una artistica continuando ad andare contro corrente,come già aveva fatto da giovane, scegliendo con convinzione una proposta figurativa, e l’altra in favore della pittura, minacciate di morte l’una dall’astrazione  e l’altra da un presunto storico conseguimento degli obiettivi”.  E lo fa proprio nella terra dell’espressionismo astratto e del  minimalismo, dell’arte concettuale e della Pop Art per citare solo alcune delle avanguardie trasgressive statunitensi, “collocando una crocifissione, un’opera che si oppone al flusso, che va contro le tendenze dominanti, giusto al centro della Grande Mela”.

Il retroterra culturale e il percorso nei due mondi

C’è un vasto retroterra nelle scelte artistiche di Botero considerando la sua costante presenza nei due mondi. In quello  americano è vissuto al Sud, tra la Colombia – dal paese natale  Medellin alla capitale Bogotà – e il Messico, in cui si stabilisce nel 1956 dopo il matrimonio, mentre nel 1958, a 26 anni, è nominato professore  alla Scuola delle Belle Arti dell’Università nazionale della Colombia di Bogotà  dove nel 1971 apre uno studio; ed è stato anche al Nord,  nel 1967 si è trasferito a  New York al Greenwich Village e nel 1971 ha spostato lo studio alla 30ma strada.

“Gesù spogliato delle vesti”, 168 x 130

Nel  mondo europeo lo troviamo ventunenne a Firenze nel 1953, nell’Accademia San Marco  dove vive  un’importante esperienza formativa, ammira maestri come Giotto e Tiziano,Masaccio, Piero della Francesca e Paolo Uccello, nel 1973 va a vivere a Parigi, conservando le altre sedi, nel 1983 si stabilisce  in Toscana per due anni. Mantiene contemporaneamente diversi studi sparsi per il mondo, attualmente si divide tra Medellin, New York e Pietrasanta in continuo  movimento  da una parte all’altra, anche per seguire le sue mostre,  l’elenco negli anni è fittissimo.

Da questa esperienza così vasta e articolata ha tratto la conclusione che “la storia dell’arte è la storia di coloro i quali hanno assunto posizioni forti” e non solo per le tematiche affrontate. Lo ha scritto nel 1990 aggiungendo che  “il soggetto è, nello stesso tempo, molto e poco importante”, ciò che conta è che l’artista  crei un proprio mondo  riconoscibile.  

Uribe Pereira concorda dicendo che “non si può identificare l’artista nell’adesione ad alcune tematiche o nel perdurare delle stesse, bisogna riferirsi, piuttosto, al linguaggio con cui le  affronta e le interpreta”.  E il linguaggio, nel caso di Botero, è così importante da rappresentare il suo sigillo inconfondibile,  più che nella gran parte degli artisti, quale che sia il tema trattato, sacro o profano.

 “Gesù inchiodato alla croce”, 180 x 129

Pur in questa coerenza e costanza nel tempo, qualcosa è cambiato.  “Il mondo boteriano – conclude il critico – è rimasto relativamente immutabile per quasi quattro decenni. Più che un tradimento, come qualcuno ha osservato, questa svolta, in cui fa incursione il dramma, dovrebbe essere considerata come un nuovo sviluppo, nel quale la continuità si accompagna alle trasformazioni che arricchiscono e potenziano l’opera e, di conseguenza, le interpretazioni che ne derivano”. 

Guardando i dipinti del ciclo della “Via Crucis” ci si sente immersi nel grande mistero della svolta di un artista nel quale, comunque, prevale sempre la misura e la fedeltà al suo personalissimo modo di rappresentare l’umanità, con forme esuberanti che generalmente portano al sorriso anche per l’ironia che le anima, ma nella Passione accentuano fortemente  il senso di pietà e di tenerezza.

Le 27  stazioni della “Via Crucis” di Botero

Sono 27 e non le 14  canoniche,  le “stazioni”  della “Via Crucis” di Botero, e  34 i disegni preparatori su carta – di 40 x 30 cm,  20  in matita e colori e 14 in matita e acquerello – che consentono di ripercorrere l’itinerario figurativo dei 27 dipinti, tutti del 2010-2011: per alcuni,  come l’aiuto a Gesù di Simone  il cireneo ci sono tre disegni, mentre i due disegni con Ponzio Pilato e quello nel Giardino degli ulivi non sono stati tradotti in un dipinto; nel Giardino degli ulivi la distanza siderale tra il Cristo orante in ginocchio e i discepoli addormentati nell’indifferenza è accentuata dalla sproporzione tra la sua gigantesca figura svettante e i loro piccoli corpi distesi. Quattro disegni sono sulle cadute di Cristo sotto la croce, due riferiti espressamente alla prima e seconda caduta, gli altri due genericamente intitolati “Gesù cade” non tradotti in dipinti.

“Crocifissione”, 206 x  150

I disegni a matita fanno risaltare ancora di più le forme ridondanti delle sue figure, mentre quelli ad acquerello creano delicati effetti cromatici. La sequenza grafica è  un complemento  alla visione dei dipinti,  in quanto rende partecipi della tensione creativa del Maestro nel suo  primo manifestarsi.

Dei 27 dipinti  8  superano i 2 metri di altezza e 13  il metro, 6 si svolgono in orizzontale, solo 4 sono della dimensione dei disegni. In  4 dipinti Gesù è a terra con la croce, 2 sono intitolati “Gesù cade per la prima volta” e “Gesù cade per la  seconda volta”,  gli altri due  “Simome aiuta Gesù”  e “Gesù e Veronica”, non c’è il dipinto “Gesù cade per la terza volta”.

La figura di Cristo è al centro della composizione  nel “Bacio di Giuda” e in “Gesù e la moltitudine”, in “Gesù consola le donne” è sulla sinistra rispetto al gruppo di pie donne  con le braccia tese parallele e le teste coperte dal velo che si confondono fino a formare un’unica immagine. In “Gesù incontra sua madre” la moltitudine è in secondo piano, fatta di teste sbiadite che non contano,  Cristo guarda solo la genitrice in tunica bianca con un lungo velo nero.

Tre  persone intorno a lui, sono quelle evangeliche, nella “Deposizione dalla croce”  e nella “Sepoltura di Cristo”, a loro nel secondo dipinto  si aggiunge un angelo che evidentemente prepara la Resurrezione, è l’unico segno perché quella che è considerata la 15^ stazione non viene espressa né nei disegni né nei dipinti.

“Deposizione dalla croce”, 229 x 127

C’è  vicino a lui il soldato romano suo aguzzino in Il flagello”e“Il cammino della sofferenza”, in  “Gesù cade per la prima volta” e “Gesù spogliato delle vesti”:  negli ultimi due è presente un’altra persona in atteggiamento diverso. poi il dipinto  “Simone aiuta Gesù”  mostra il cireneo caritatevole  in primo piano;  in “Gesù e la Veronica” si vede la Sacra sindone, il lenzuolo con il volto di Gesù è in primo piano in “Veronica”.

Dalla carità si passa all’amore materno nei tre dipinti  in cui Cristo è solo con la madre, dopo quello in cui c’era anche la moltitudine ma sbiadita e lontana dai suoi pensieri. In  “Maria e Gesù morto” lei lo sorregge amorevolmente quasi volesse rimetterlo in piedi per farlo tornare in vita, in “Pietà” è  preso in braccio dalla madre in piedi monumentale, lui piccolo con la tenerezza di un bambino; mentre in “Cristo è morto”  la Madonna si copre il volto in lacrime vegliando il figlio disteso in una  camera ardente. Due dipinti più piccoli  la mostrano  in raccoglimento a mani giunte,  “Madre di Cristo” a  occhi chiusi,  “Madre afflitta” con gli occhi aperti e il viso implorante rivolto al cielo. Di dimensioni maggiori “Testa di Cristo”, con la corona di spine e le gocce di sangue che gli scendono sul corpo. C’è sempre misura, l’opposto della “Passion” cinematografica  di Mel Gibson, cruenta fino all’orrore. Botero non suscita repulsione da grand guignol, ma tanta tenerezza.

“Sepoltura di Cristo”, 150 x 303

In 8 dipinti Cristo sembra da solo, non ci sono altre figure come la sua, a differenza delle altre stazioni della Via Crucis che abbiamo citato; ma a ben vedere non è mai  solo. In “Cristo alla colonna” e in “Flagellazione di Cristo”  c’è una piccola figura di donna alla finestra e una al balcone della propria casa con le  braccia aperte quasi volesse abbracciarlo, in “Gesù  cade per la seconda volta”  si protende una mano verso di lui; invece  le minuscole figure di passanti nel parco sono indifferenti rispetto alla “Crocifissione” tra i grattacieli che abbiamo già commentato.  Sono piccole le figure dei soldati romani, rispetto a quelle dei dipinti con la flagellazione e le sofferenze, in “Gesù inchiodato alla croce” e “Crocifissione con il soldato”: la figura di Cristo giganteggia, sono i momenti culminanti della Passione, nel secondo si vede la  lancia levata in alto verso il costato.

Andrebbero descritti i colori, che creano un’atmosfera raccolta, e gli ambienti, tipicamente domestici e sudamericani, a parte i grattacieli nella “Crocifissione”, come i volti della gente nei dipinti in cui è presente. Ma a questo punto  soltanto la visione diretta delle immagini può rendere il clima drammatico e insieme sereno e consapevole della “Passione ” di Botero: la  Passione di epoca antica di Cristo nel ciclo della “Via Crucis” che viene dopo le Passioni  della nostra epoca  nei cicli della violenza in Colombia e delle torture ad Abu Ghraib. Una trilogia di cicli della Passione che mostra come questi drammi si ripetono e l’arte ha il dovere e il merito di far rivivere per non dimenticare.

“Cristo è morto”, 134 x 191

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Da domenica  a giovedì, tranne lunedì chiuso, ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8. Catalogo “Botero. Via Crucis. La passione di Cristo”, introduzione di Conrado Uribe Pereira, Silvana Editoriale, febbraio 2016, pp. 92, bilingue italiano-inglese, formato  24 x 30, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e le correnti richiamati nel testo cfr.i nostri articoli; in questo sito per le mostre su Cezanne 24 e 31 dicembre 2013, Tiziano  10 e 15 maggio 2013, Cubisti e Picasso 16 maggio 2013, le correnti d’avanguardia americane nelle mostre su  Guggenheim 22, 29  novembre e 11 dicembre 2012, ed Empire  31 maggio 2013; in “cultura.inabruzzo.it” per la mostra su Giotto 7 marzo 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito)..

“La Pietà”, 238 x 147

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione  della mostra , si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Museo di Medellin con l’artista, per l’opportunità offerta. Tra i 27 dipinti, tutti del 2010-2011, ne presentiamo 14 con i quali abbiamo riunito le 14 Stazioni di una “Via Crucis” canonica; manca  “Gesù cade per la terza volta” che non figura tra i suoi dipinti, le altre immagini in cui è a terra con la croce, oltre alla prima e seconda caduta, sono con Simone il cireneo e  la Veronica; le 14 Stazioni da noi individuate sono precedute dall’immagine di “Cristo tra la moltitudine” e sono seguite da “Christo ha muerto”, “La Pietà” e “Madre afflitta”. In apertura,  “Gesù e la moltitudine”, 106 x 81 cm; seguono “Il flagello”, 123 x 94, e “Il cammino delle sofferenze”, 188 x 146; poi, “Gesù cade per la prima volta”, 139 x 158, e “Gesù cade per la seconda volta”, 27 x 31; quindi, “Gesù incontra sua madre”, 145 x 160, e “Simone aiuta Gesù”, 29 x 33; inoltre, “Gesù e Veronica”, 114  x 58, e “Altra caduta di Gesu“, 139 x 158; ancora, “Gesù consola le donne”, 138 x 195, e “Gesù spogliato delle vesti”, 168 x 130; continua, “Gesù inchiodato alla croce”, 180 x 129, e “Crocifissione”, 206 x  150; infine, “Deposizione dalla croce”, 229 x 127, e Sepoltura di Cristo”, 150 x 303; in chiusura, “Cristo è morto”, 134 x 191,  “La Pietà, 238 x 147 e “Madre afflitta”, 71 x 58.

“Madre afflitta”, 71 x 58

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Botero, 3. Politica e Circo, Vita latino-americana, Nudi e Sculture, nella mostra al Vittoriano

Ripubblichiamo, come preannunciato, il terzo articolo – uscito a suo tempo come i due precedenti – sulla mostra antologica di Botero del 2017 al Vittoriano per onorarne la memoria a pochi giorni dalla sua scomparsa. Si conclude così la parata del suo mondo artistico e umano: dopo le Versioni da antichi maestri, Nature morte, Religione, sfilano idealmente nella sua inconfondibile interpretazione pittorica, Politica e Vita latino-americana, Nudi e Circo. Domani completeremo l’omaggio – e la sfilata dei suoi temi – ripubblicando l’articolo sulla mostra del 2016 al Palazzo delle Esposizioni interamente dedicata alla “Via Crucis”.

di Romano Maria Levante

Concludiamo il racconto della visita alla mostra  “Botero”, al  Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2017,  con le ultime 5 delle 8 sezioni tematiche, che seguono le prime 3 sezioni già commentate: 48 opere, di cui 43 grandi dipinti  e 5 sculture imponenti, realizzate per lo più dal 2000 in poi, nel personalissimo stile dell’artista in un insolito figurativo dai volumi dilatati. Patrocinata dalla Regione Lazio, promossa da Roma Capitale, la mostra è prodotta e organizzata da “Arthemisia” con MondoMostreSkira, e curata, insieme al Catalogo Skira, da  Rudy Chiappini.

“Il presidente”, 1987

Abbiamo già ripercorso la formazione di Botero per evidenziare le matrici del percorso artistico alimentato dalla cultura latino-americana della sua terra con l’arte tradizionale precolombiana e quella portata dalla dominazione spagnola con il barocco; poi nel contatto con l’Europa, Italia e Spagna, l’influsso dei grandi maestri, in particolare Piero della Francesca, cui i 15 anni vissuti negli Stati Uniti hanno aggiunto il contatto con le avanguardie dell’espressionismo astratto. Poi abbiamo cercato di penetrare nella peculiare cifra stilistica e contenutistica della sua arte e di comprendere da dove nascono quelle forme gonfie e ridondanti e come riescano a non suscitare il riso delle caricature, ma tenerezza e un senso di serena condivisione da parte dell’osservatore.

Dopo questa analisi preparatoria abbiamo dato avvio alla visita alla mostra descrivendo le prime 3 sezioni pittoriche, “Versioni da antichi maestri”, “Nature morte”, “Religione”. Ora passiamo alle ultime sezioni del nostro percorso, con le 4 sezioni pittoriche restanti, da “Politica”  e “Circo”, a “Vita latino-americana” e “Nudi”, e in conclusione alle “Sculture”  – collocate in modo ambivalente sulla rampa da cui si accede alla mostra e se ne esce – perché le abbiamo collegate ai “Nudi”.  Entriamo così ancora di più nel mondo di Botero, nell’umanità popolare fino all’intimità personale.

“Il presidente e i suoi ministri”, 2011

Politica

Iniziamo con la “Politica”,la  4^ sezione pittorica della mostra con 5 dipinti, di cui 4 dedicati al vertice delle istituzioni, il Presidente con la “first lady”, e 1 a un ambasciatore.  Hanno come caratteristica comune, oltre alla ridondanza delle forme e ad una certa fissità di espressione, la presenza di particolari nei soggetti, che sembrerebbero marginali ma riducono la solennità del loro “aplomb”.

Così “L’ambasciatore inglese”, 1987, stringe nella mano sinistra una bandierina minuscola, contrastante con le sue dimensioni e la postura, quasi una sua scelta per ridurre l’imbarazzo; dello stesso anno “Il Presidente”, analoga postura in contrasto con la mano destra che tiene tra le dita una minuscola sigaretta, mentre la sinistra stringe un foglio arrotolato.

E nella “Famiglia presidenziale”, 2003, la composizione in un interno che richiama le foto ufficiali dei regnanti, è resa meno pomposa e solenne dal  gesto del presidente di sistemarsi la cravatta con la mano destra, e anche il cagnolino in primo piano crea una maggiore familiarità; mentre la “first lady” –  la chiama così nel quadro successivo – lo tiene sottobraccio con la destra, ha un ventaglio nella sinistra e sul volto  un’espressione attonita,  quasi che l’immagine ufficiale la spaventasse, temendo di non apparire all’altezza di un ruolo così elevato. Il gesto di sistemarsi la cravatta, qui con la mano sinistra, lo ritroviamo in “Il Presidente”, 1990,  stesso abbigliamento ufficiale ma con cappello,  invece del quadro alle spalle, la vista dei tetti e dei monti dal balcone dietro di lui. 

L’opera successiva è il dittico “Il Presidente e la first lady” , 1989, entrambi con i loro grossi corpi rigonfi su cavalli dalle zampe tozze, davanti a lussureggianti piante di banano, il particolare che si distacca dal resto è il frustino che impugnano, minuscolo rispetto all’animale che cavalcano.

“Pagliaccio”, 2007

Dalle immagini presidenziali personale e familiare a quella corale in “Il Presidente e i suoi ministri”, 2011, anche qui la solennità è rotta dai gesti quasi imbarazzati con le mani al petto del Presidente, di un ministro e del Cardinale, con un cagnolino a terra, soltanto il generale in divisa e decorazioni saluta militarmente sull’attenti, in una composizione rappresentativa del potere. Nel “Ritratto militare della Giunta Militare”, 1971, non in mostra, il potere era raffigurato  in modo ancora più pomposo, il Presidente in rosso, quanto mai debordante, con un prelato e i generali, di cui uno addirittura  a cavallo, ma la scena marziale era ingentilita dal cagnolino, il bimbo in braccio in divisa però con un trenino a terra. Anche nel dittico del 1990, “Visita di Luigi XVI a Maria Antonietta a Medellin”, non in mostra, l‘immagine del  potere era ingentilita dal minuscolo uccellino nella mano sinistra della Regina e dalla testa che si affaccia timidamente dalla porta socchiusa dietro la monumentale figura del sovrano.  

Niente a che vedere con la forte denuncia del potere dittatoriale di Larraz, la cui “pittura della libertà” mette alla berlina i satrapi sudamericani rappresentandoli impettiti in modo ridicolo negli atteggiamenti più diversi; e neppure con il nostro Enrico Baj che ridicolizza i generali tronfi nelle loro medaglie.  Botero è interessato allo sfarzo e ai colori,  nulla di grottesco pur nelle forme ridondanti. “Il tono di Botero, commenta il curatore Rudy Chiappini, è quello di un narratore indipendente, di un affabulatore dall’accento libertario la cui caratteristica  risiede nella saggezza temperata dal sorriso e da un innato  senso di ironia”; che qui, forse, si manifesta maggiormente che sugli altri temi. Ma nei due cicli di cui abbiamo già parlato, “Violencia in Colombia” e “Abu Ghraib”, la denuncia del potere è invece quanto mai aspra, non c’è ironia ma condanna senza appello.

“Numero da circo”, 2007

Circo

Vi colleghiamo, quasi provocatoriamente, la 5° sezione pittorica sul“Circo”,  perché troviamo un’analogia nelle figure singole con una punta di imbarazzo, e nelle composizioni collettive ugualmente colorate e rappresentative del mondo del circo. “Pierrot”, 2007, e “Pagliaccio”, 2008, sembrano altrettanto  imbarazzati del “Presidente”, mentre “Numero da circo”, 2007, e  “Contorsionista”, 2008, rivelano la straordinaria capacità dell’artista di rendere agili anche le sue forme dilatate e ridondanti impegnandole addirittura in acrobazie, il primo un nudo.

Le due composizioni collettive, Musici”, 2008,e “Gente del circo con elefante”, 2007, riassumono il mondo del circo, durante lo spettacolo la prima in un cromatismo tenue, nei momenti di pausa la seconda, in un cromatismo molto intenso, con l’elefante e l’acrobata che si esercita, la donna cannone con una scimmia vestita e il clown. “Un universo variopinto e un caleidoscopio di colori che innalzano la meraviglia a principio essenziale di comprensione”, commenta il curatore, e aggiunge: “Se il circo è il luogo fisico e mentale in cui lo stupore è la regola indispensabile al funzionamento del suo articolato meccanismo, il particolare atteggiamento creativo di Botero con le sue invenzioni ne favorisce il trasferimento sulla tela”.

Così ne parla l’artista nel ricordare che l’idea iniziale gli venne assistendo alla sfilata dei carrozzoni e poi allo spettacolo serale con la moglie Sophia in una piccola città del Messico: “Io ho cercato di rendere armonici i colori che qui sono esagerati. Di questa gente mi ha colpito il nomadismo che si traduce in poesia. In tale clima appare leggera anche l’enorme donna trapezista sospesa sorprendentemente nel vuoto. Dunque io dipingo qualcosa che è improbabile ma non è impossibile”. E lo vediamo nel “Contorsionista”, 2008, altrettanto enorme e sospeso nell’aria acrobaticamente appoggiato a una testa: l’improbabile trasformato in realtà, del resto è questo il messaggio del circo con i domatori di bestie feroci e gli uomini volanti, gli equilibristi e i giocolieri.

“Contorsionista”, 2008

Vita latino-americana

Mentre il ciclo del “Circo” nasce da una circostanza occasionale, la “Vita latino-americana”, cui è dedicata la6^ sezione pittorica, è permeata dal profondo legame dell’artista con la sua terra, mantenutosi intatto, come lui stesso ricorda, pur essendo vissuto molti anni in Europa e 15 anni negli Stati Uniti, a New York. “Le esperienze personali che ho vissuto in Sudamerica  e che hanno caratterizzato la mia giovinezza – sono le sue parole – si ritrovano nella maggior parte dei miei lavori. L’anima latino-americana permea tutta la mia arte”.

Non ne fa una propria peculiarità, bensì un connotato generale: “Quello che un artista vede nel corso della sua giovinezza resta fondamentale per gli sviluppi di tutta la sua opera futura… Credo che un artista che lavora senza tener conto delle proprie radici culturali non possa giungere a un’espressione autentica, universale”.  E lo spiega: “Da una parte emerge costantemente un sentimento di nostalgia per certi momenti della gioventù e dall’altra si ha sempre la tendenza a dipingere la realtà che si conosce meglio: il vissuto dell’adolescenza. Bisogna descrivere qualcosa di molto locale, di molto circoscritto, qualcosa che si conosce benissimo, per poter essere capiti da tutti”.  In termini personali: “Io mi sono convinto che devo essere parrocchiale, nel senso di profondamente, religiosamente legato alla mia realtà, per poter  essere universale”.

“Le sorelle”, 1969-2005

Così descrive questa realtà: “L’essere cresciuto a Medellin mi ha consentito di vivere in una sorta di microcosmo in cui erano rappresentate tutte le componenti sociali, dalla borghesia benestante alle classi più povere, in cui il vescovo era per noi come il Papa e il Sindaco come il Presidente della Repubblica.” E  confida come l’ha metabolizzata: “Medellin era una piccola città, ai tempi contava circa centomila abitanti, oggi ne ha quasi tre milioni. Proprio questa sensazione di vivere in un mondo a parte ha contribuito a sviluppare la mia ispirazione, perché nell’arte spesso ci si affida alla memoria per costruire il proprio immaginario”.

Ed ecco come questo si traduce in immagini nelle parole del curatore: “Il tessuto narrativo di Botero proviene dai racconti e dai climi della terra natale in cui egli continua a specchiarsi e da cui trae alimento. Nelle scene di vita quotidiana ricondotte sulla tela le persone raffigurate sono profondamente comprese nel loro ruolo di dispensatrici di immagini così lontane dal nostro vivere attuale: ci osservano dal loro paesaggio incantato, esibendo una compunta impassibilità. Le azioni godono di una lenta armonia e di una espansione osmotica capace di coinvolgere gesti, atteggiamenti, ambientazione e oggetti”.

Degli 8 grandi dipinti esposti in mostra, 4 sono scene all’aperto e 4 in interni molto raccolti.

Tra i primi il più recente, “Carnevale”, 2016,  presenta un folto gruppo di gente del popolo, in maschera o meno, con le più diverse fattezze, posizioni e colori, dietro al grande suonatore di tromba, in primo piano di profilo, con le due gambe dei
pantaloni dalle tinte differenti, figura che ricorda il ciclo del “Circo”, mentre a terra sono sparse le cicche di sigarette come in molti interni.

“La strada”, 2000

“La strada”, 2000, mostra invece poche persone ben caratterizzate; la donna con bambino per mano e il cane, il grosso uomo che cammina visto di spalle e l’altrettanto ridondante donna di colore con un grande vassoio di frutta sul capo che viene avanti; mentre sulla destra un uomo piccolo sta per uscire dalla porta di  una casa dal muro di un viola intenso, sulla sinistra una grossa donna si affaccia a una piccola finestra di una casa dall’altro lato della strada con un muro giallo, nello sfondo case e un campanile, poi una collina. Come la finestra, così la strada sembra troppo angusta rispetto ai passanti, lo ritroveremo negli interni più intimi, quelli dei “Nudi”.  L’evoluzione verso il più marcato stile boteriano rispetto al dipinto con lo stesso titolo del 1988 è notevole, le proporzioni erano quasi quelle reali con la prospettiva corretta, gli spazi adeguati, i volumi poco dilatati. 

Le altre due scene all’aperto sono molto diverse. “Il club del giardinaggio”, 1997, .presenta cinque donne quasi in posa per una foto ricordo, con vasi di fiori e alberi, due sedute e tre in piedi, due delle quali con un cappellino, tutte con in mano strumenti del loro lavoro, pompa, rampini, palette.

Invece “Picnic”, 2001, mostra una coppia, con lei che si appoggia a lui, entrambi distesi a terra su una coperta viola stesa sul prato verde, a lato un cesto di frutta con una bottiglia e un bicchiere, sullo sfondo un paese a sinistra, alberi e più dietro dei monti sulla destra, scena placida e dolce. Era ancora più delicato il  “Picnic in montagna”, 1966, non in mostra, coppia quasi infantile, con i viveri già apparecchiati per lo spuntino, il tutto su improbabili rocce aguzze, senza sfondo. I viveri riempiono addirittura l’intera scena in “Picnic”, 1989, non in mostra, sulla tovaglia un grande cesto ricolmo di frutta, banane e arance, mele, uva e altro, un bottiglia e 4 bicchieri, due piatti con salami e altro, un’arancia tagliata, peperoni o cetrioli, un filoncino di pane tagliato; a destra  la testa dell’uomo addormentato, a sinistra spuntano solo le mani della donna ben sveglia  che beve e fuma.

“Il bagno“, 1989

Siamo in un ambito sempre più personale, che troviamo nei 4 dipinti in interno, il primo dei quali, “Le sorelle” , 1969-2005, richiama, come struttura compositiva e atteggiamenti, “Il club del giardinaggio”: quattro donne e una bambina schierate  come in posa, anche se di una seminascosta si vede solo la testa, tre di loro hanno in mano qualcosa, i ferri per la maglia di cui si vede il gomitolo a terra, il rosario, un gatto, altri due sono a terra e un altro sul mobiletto dietro di loro, sulla parete di fondo la parte inferiore di un grande quadro e dei quadretti, il tutto con forti contrasti cromatici. Più raccolta “Una famiglia”, 1989, non in mostra, lei seduta in poltrona con la bimba in braccio sotto un albero dal quale cadono frutti,  lui in piedi che tiene per mano un altro bambino, a lato l’immancabile cane.

Mentre altri due dipinti mostrano i soggetti intenti nel loro lavoro quotidiano: “Atelier di sartoria”, 2000, con quattro donne, due sedute e due in piedi con abiti di colori diversi, impegnate a cucire, a macchina e con l’ago, davanti a un’esposizione di tessuti anch’essi di vari colori, a terra un gatto sopra a un tappeto verde sul pavimento di legno. “La vedova”, 1997, è una composizione altrettanto affollata, con la protagonista in piedi in nero e tre bambini, due in piedi, di profilo e di spalle, una seduta a terra con il bambolotto, e a fianco dei giocattoli, dietro un tavolo con sopra due teli, rosso e  verde, e un  ferro da stiro collegato da un filo elettrico che il bimbo in piedi prende in mano, stesi su un filo dei panni di vari colori. Un’instancabile operosità addolcita dal gatto in braccio alla vedova. Al contrario “La casa di Mariduque”, 1972, non in mostra, presentava cinque donne di cui si può immaginare l’attività anche dall’uomo disteso a terra addormentato sotto la sedia,  che gozzovigliano gaudenti con venti cicche di sigarette a terra,  mentre una  piccola fantesca a destra, con la ramazza in mano, sembra attendere il via per ripulire il pavimento.   

“Il bagno“, 2001

Ancora più personale “Fine della festa”, 2006, quattro figure, un uomo disteso sul letto stremato a occhi chiusi con la sigaretta tra le dita, sul pavimento  le  cicche sparse, ancora venti, testimoniano le molte presenze alla festa, è nudo con gli abiti a terra, seduta sul letto davanti a lui una donna che si è tolta il reggiseno e si copre quasi fosse stata sorpresa da un estraneo, l’altra discinta con una gamba appoggiata sul letto, mentre in piedi dietro al letto un uomo con il cappello continua a suonare la chitarra guardando avanti come se la festa proseguisse, in primo piano a terra un bimbo che si protende. Un letto era anche al centro di “La casa di Armanda Ramirez”, 1988, ma invece dell’uomo addormentato è raffigurato un amplesso con una bambina di spalle che guarda e un uomo in primo piano alza sulla spalla una minuscola donna nuda, a lato la piccola fantesca con ramazza. 

Con queste immagini entriamo in una intimità che viene disvelata appieno nei “Nudi”.

I Nudi

Nella  7^ sezione pittorica, quasi da 7° sigillo,  sonoesposti 4 “Nudi” rappresentativi di unaproduzione ampia, di cui della mostra del 1991-92 ricordiamo “Donna sdraiata”, 1974, e “Omaggio a Bonnard”, 1975, “La lettera”, e “Donna seduta”, 1976, “Donna che si sveste”, 1980, e “Colombiana che mangia una mela”, 1992,  “Donna di fronte alla finestra” e il trittico “L’Atelier”, 1990, fino a “Il modello maschile”, 1984, e “Autoritratto con bandiera”, che ritrae l’artista in piedi con tavolozza e pennelli nella mano sinistra e una bandierina rossa nella destra  quale pudica foglia di fico.

C’era anche “Il Bagno”, 1989, esposto pure nella mostra attuale, nel quale la sproporzione tra le forme straboccanti in modo quanto mai vistoso della donna di spalle che si specchia contrastano visibilmente con le dimensioni ridotte della vasca e del WC, per non parlare del minuscolo rotolo di carta igienica rosa, nell’impossibilità palese di utilizzarli. Ripensiamo ad “Alice nel paese delle meraviglie” con il corpo ingigantito dai prodigi della favola rispetto al resto, sedia e tavolo minuscoli rispetto a lei e uscio divenuto una strettissima porticina da cui non può uscire. Mentre in “Omaggio a Bonnard” del 1975 la donna era distesa dentro la vasca, la dilatazione dei volumi era ancora contenuta, l’effetto favola non si dispiegava come nelle opere più recenti in mostra.

L’altro nudo che vediamo esposto con lo stesso titolo “Il Bagno”, 2001, è successivo di 12 anni, la donna è sempre in piedi ma di fronte, con nella mano sinistra un asciugamano cremisi e al polso un orologino miniscolo, a lato si intravede l’orlo di una vasca visibilmente di dimensioni ridotte ma la sproporzione non è così palese come nel precedente.

 “Donna seduta“, 1997

Testimonial della mostra, che figura in grandi cartelli pubblicitari nelle strade del centro, sui bus, nelle stazioni della metropolitana, per citare i più vistosi, è il terzo nudo esposto, “Donna seduta”, 1997, figura frontale su una panca rivestita di verde con un panno bianco e dietro una tenda viola, quasi in posa da concorso di  bellezza con il braccio sinistro dietro la testa in un gesto vezzoso ed esibizionista. Il dipinto dallo stesso titolo del 1976  ha somiglianze nella positura, ma la  capigliatura è molto diversa e nel lato destro spunta una mano maschile con un cerino per accendere la sigaretta che lei ha nella mano destra, c’è il minuscolo orologino al polso di “Il Bagno” del 2001.

Il quarto nudo esposto, “Adamo ed Eva”, 2005, reca in piedi, di profilo, le due imponenti figure che si dividono la minuscola mela, tra loro si insinua come una rossa saetta dal cielo  il serpe tentatore. 

La raffigurazione dei primi esseri umani nell’Eden, fatta già in precedenza, ha fatto dire a Paolo Mauri nel 1991: “Il mondo di Botero è un ormai un universo provvisto  persino dei suoi Adamo ed Eva (sono quadri del 1989). Un mondo sornione, intrigante, divertente anche ma soprattutto filosofico. Il mondo è forma, sembra gridare Botero, perché non ve n’accorgete?  Il mondo è carne, ma la carne cos’è?”.

Nello stesso anno Fabrizio D’Amico, riguardo ai nudi: “I loro amplessi saranno di fatto resi impossibili dall’ingombro del ventre sui minuscoli sessi, dai letti inadatti a contenerne la mole…”. E Dacia Maraini, con l’iperbole della scrittrice: “Sono curiosamente privati di sessualità, maschile o femminile, androgini perfetti nella sospensione attonita di quelle carni talmente simili fra di loro da apparire, più che fratelli, parti smembrate di una stessa grande persona divina in forma di globo”.

“Ballerina”, 2013

Noi vi troviamo tanta tenerezza, in un ritorno all’innocenza primigenia, concordiamo con la visione del curatore Chiappini che parla dei “volumi ammantati della straordinaria grazia muliebre, nonostante l’abbondanza rubensiana dei corpi, le storie sembrano immerse in una sorta di Eden primordiale che non contempla la malizia e il peccato”.

D’altra parte, se la sessualità dei nudi è bandita dalla loro innocenza, la sensualità in quelle forme morbide e offerte non manca, lo afferma l’artista collegandola con la peculiarità della propria arte: “In un’opera la forma, il colore, la composizione del tema e la sensualità devono coesistere, ma ogni artista privilegia sempre uno di questi aspetti”. Ancora più direttamente: “L’obiettivo del mio stile è esaltare i volumi, non solo perché questo amplia l’area dove posso applicare il colore, ma anche perché trasmette la sensualità, l’esuberanza, la profusione della forma che sto cercando”.

Le Sculture

Un discorso a parte va fatto per le  “Sculture” di bronzo, l’apposita sezione ne espone 5,  di cui 4 nella rampa interna di ingresso-uscita, una all’esterno, nel largo antistante.  Non  c’è il colore, che rende spettacolari i dipinti insieme ai caratteristici volumi dilatati dei quali l’artista diceva che “la plasticità tridimensionale e volumetrica delle forme è molto
importante”, quindi  metteva anche sulla tela il rilievo spaziale tipico della scultura. Ma anche senza colore spicca il suo timbro  inconfondibile: “Botero ha risolto il problema – commenta il curatore – rivolgendo una particolare attenzione al volume e alla tipologia delle immagini per ottenere una conquista armonica e suadente dello spazio che talora si impreziosisce di una affascinante solennità, di un intimo mistero”. La chiave risolutiva è nella materia, come dice l’artista: “Non potrei intervenire sulla pietra, il gesso mi dà l’idea della morte, la creta significa la vita, mentre il bronzo è sinonimo di resurrezione”.

“Donna a Cavallo”, 2015

Lo vediamo in “Ballerini”, 2012,  due figure nude erette e distanziate che ricordano più il dipinto “Adamo ed Eva”  prima citato che “Ballerini“, 1967, non in mostra, in cui erano allacciate e dinamicamente lanciate nella danza.  Ha rappresentato due figure affiancate ma distese nella scultura “Insonnia”, 1990, non in mostra.  Mentre “Ballerina”, 2013, con la mossa vezzosa alla Degas, è ben diversa dall’omonima scultura del 1998, nuda, in un passo di danza molto dinamico.

Torna il nudo in “Donna a cavallo”, 2015, fa parte di una serie di sculture su temi analoghi non in mostra, come “Donna in piedi”, 1981 e “Donna che fuma una sigaretta”, 1987, “Uomo e cavallo”, 1984 e “Uomo e donna”, 1988, “Il pensiero”, 1988 e “Il Cavaliere”, 1989.

Con “Leda e il cigno”, 2006, entriamo nel mito e nella classicità, cui ha dedicato una serie di sculture, quali “Venere”, 1988 e  “Ratto di Europa”, 1989, “Venere dormiente”, 1990,  e “Guerriero romano”, 1985; ha scolpito anche il “Torso”, 1983 e il busto “Omaggio a Canova”, 1989,  perfino “Natura morta con anguria”, 1976, tutte opere non in mostra.

Usciamo dal Vittoriano, nell’area antistante domina l’imponente  “Cavallo”, 1999, soggetto che ritroviamo in altre sculture, per lo più cavalcato o anche sellato, nel 1990, ma di dimensioni molto minori, altezza fino a poco più di un metro  rispetto ai 3 metri e 25 cm di quello esposto. Le zampe tozze e possenti non rimandano al cavalluccio per i giochi infantili come quello del dipinto “Pedro a cavallo”, 1971, non in mostra, mentre la dimensione gigantesca e la collocazione all’esterno ce lo fa associare istintivamente al Cavallo di Troia.

Ma Botero non ne ha bisogno per introdursi nel Vittoriano, vi è entrato ricevendo l’omaggio che merita la sua figura di grande artista nell’incontro con la stampa; e soprattutto lo ha conquistato con le sue opere così insolite e sorprendenti, e per questo inconfondibili e affascinanti, coinvolgenti nella tenerezza e nell’umanità che emanano, lasciando nella città eterna un segno incancellabile.

“Leda e il cigno”, 2006

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skira Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 2 e 4 giugno scorsi, con altre 13 immagini ciascuno. Per i riferimenti citati nel testo cfr.: in questo sito i nostri articoli “Botero, una straordinaria ‘Via Crucis’ al Palazzo Esposizioni”, 25 marzo 2016, “Larraz, la pittura della libertà al Vittoriano”, 15 ottobre 2012; in www. culturainabruzzo.it, “A Teramo De Chirico, Rosai, Campigli, De Pisis, Capogrossi, Baj, Fontana”, 23 settembre 2009 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito). 

Foto

Le immagini, relative alle ultime sezioni della mostra  commentate nel testo meno la sezione con la scultura le cui immagini sono riportate nell’articolo precedente, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Politica”: “Il presidente” 1987; segue, “Il presidente e i suoi ministri” 2011; poi, “Circo”: “Pagliaccio” 2007, “Numero da circo” 2007 e “Contorsionista” 2008; quindi, “Vita latino-americana”: “Le sorelle” 1969-2005 e“La strada” 2000; inoltre, “Nudi”, “Il bagno“ 1989, “Il bagno“ 2001, e “Donna seduta“ 1997; ancora, “Sculture”: “Ballerina” 2013, “Donna a Cavallo” 2015, “Leda e il cigno” 2006; in chiusura, “Cavallo” 1989.

“Cavallo”, 1989

Pubblicato dawp_3640431 Giugno 6, 2017 in Uncategorized

Botero, 2. Versione antichi maestri, Nature morte, Religione, nella mostra antologica al Vittoriano

Proseguiamo nel ripubblicare gli articoli sulla mostra antologica di Botero svoltasi a Roma nel 2017, per onorare l’artista scomparso due giorni fa. Dopo l’articolo di ieri sulla sua figura artistica e umana, oggi le prime sezioni della mostra: Le versioni di antichi maestri, Nature morte, Religione. Domani il terzo articolo sulle restanti sezioni, che completano il mondo artistico, e non solo, di Botero.

di Romano Maria Levante

Al  Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016, la mostra “Botero”  presenta – in 8 sezioni tematiche con 48 opere, di cui 43  grandi dipinti  e  5 imponenti  sculture – le caratteristiche raffigurazioni dell’artista colombiano prevalentemente realizzate dal 2000 in poi, che intrigano per la personalissima  conformazione dei volumi, gonfi e ridondanti in un figurativo deformato. La mostra, promossa da Roma Capitale con il patrocinio della Regione Lazio, è prodotta e organizzata da “Arthemisia” con “MondoMostreSkira”, e curata, insieme al Catalogo Skira, da  Rudy Chiappini.

La Fornarina”, 2008

Il mondo molto particolare di Botero

Abbiamo cercato di interpretare la matrice, i motivi e i risultati dell’opera di un artista così insolito e intrigante come Botero iniziando dalla sua formazione, marcata dalle immagini della civiltà e delle tradizioni  latino-americane su cui si sono innestati i valori della grande arte europea ed italiana, con l’immersione nel mondo statunitense scosso dalle avanguardie dell’espressionismo astratto e non solo. La quadratura del cerchio dell’attaccamento alla sua terra con la continua separazione è stata la “sintesi di regola e passione”, mentre i suoi corpi gonfi dalle forme stravolte sono una trasfigurazione favolistica della realtà che non suscita riso ma tenerezza e “la stessa disarmata fiducia con cui si guarda dentro una scatola magica”, per cui l’osservatore guarda “divertito, perplesso, incuriosito” e comunque sereno.

Verifichiamo ora queste considerazioni generali con la galleria delle opere esposte in un allestimento che ha posto le sculture in successione nella rampa di accesso, a parte il “Cavallo”, all’esterno nello spazio antistante, con le 7 sezioni pittoriche isolate nelle rispettive “enclave” e poste opportunamente in una successione che ne sottolinea la continuità e complessiva omogeneità.

Si vede che il suo è un mondo molto particolare, come  lo è il figurativo controcorrente rispetto alle avanguardie imperanti:. “Il passaggio dal mondo normale al mondo  di Botero non comporta nessuna metamorfosi – ha scritto Paolo Mauri nel 1991 – semplicemente per Botero il mondo è così”. In altre parole: “In Botero la grassitudine… è un approdo mentale: la diversità si rivela dunque soltanto ad un visitatore che venga da un altro mondo, da un diverso pianeta”. Con queste particolarità: “Dunque la grassitudine è una caratteristica che Botero regala ai suoi personaggi e non una loro caratteristica connaturata. Come dire che Botero inventa i soggetti e li vede in questo modo a prescindere dalla loro reale esistenza. La grassitudine è nella mente del pittore e diventa un tratto dell’anima dei soggetti”.  

“D’aprés Velasquez”, 1959

Percorrendo la galleria delle  48 opere esposte, i soggetti sembrano  accogliere il visitatore come ospite gradito:  “Se un quadro di Botero può spingere al sorriso, la visione di molte opere annulla l’effetto comico: c’è un che di malinconico, di perplesso,  di metafisico in questa grassitudine  esibita senza ostentazione, senza rumore, senza dramma”. 

Nel passare in rassegna le sezioni  si trova conferma all’enunciazione dell’artista: “Per me lo stile è un linguaggio che deve essere coerente… La mia opera è un tentativo che ho seguito durante tutta la vita  perché il volume è un pensiero che porto con me per sempre”. Commenta il curatore Rudy Chiappini: “Il linguaggio, dunque, è l’ossequio alla propria continuità sorretto da un ‘pensiero dominante’ , e quel pensiero determina lo stile”. Con questi contenuti: ” Tuttavia per quanto il linguaggio si perfezioni, e la forma si purifichi, i soggetti di vita civile, di vita privata, di corride, di circo, di bordello, di matrimonio, di violenza, di feste campestri, dell’apparato di religiosità cattolica  sono tenacemente persistenti e rappresentano l’universo di visioni cui Botero non può rinunciare”.

Sono le visioni offerte al visitatore  che cercheremo di raccontare, citando le parole stesse dell’artista efficacemente riportate nel Catalogo come originali schede alle singole opere, dopo una concisa introduzione del curatore alle singole tematiche. Nello stesso tempo faremo riferimento anche alle opere viste nella mostra del 1991-92 come logico completamento, in un’integrazione che valorizza l’attuale aggiornamento: una staffetta ideale di Botero a Roma.

“D’aprés Velasquez” 1964

Fabrizio D’Amico nel 1991 ha citato le parole di Soavi: “E’ impensabile che a un personaggio di Botero possa capitare un dramma”,  e di Sciascia:  “In loro è assente la gioia come è assente il dolore”, e ha concluso: “Perché il dramma è l’ultima precipitazione di una vita, l’insanabile contraddizione di due verità inconciliabili, è giusto e necessario che l’umanità di Botero, che allontana da sé la vita a prezzo della propria faticosa immensità, ne sia preservata”.

Abbiamo già visto come questo si riscontri anche nel ciclo “Corrida”, ci limitiamo a riportare un’altra citazione del 1991 di Ana Maria Escallon: “Goya osserva, quasi sempre, i tori dall’interno, mentre Botero li guarda dall’esterno, per una necessità d’esprimersi in un mondo differente, dove il cuore non batte, la vita non si rischia, la fortuna non esiste. E’ un mondo dall’anima lasciva, colmo di poesia,di forme piene che lasciano spazio a colori armonici”. Il trionfo del colore, dunque, mentre “l’atmosfera ieratica nega il furore della ‘fiesta’, l’espressione è contratta in un gesto congelatore  di emozioni, perché ciò che interessa a Botero è l’espressione d’impassibilità”. Anche in “Muerte de Ramon Torres”, 1986, dove il torero a terra inanimato sembra addormentato piuttosto che ucciso dal toro sopra di lui cavalcato dallo scheletro di morte quasi in un gioco.

L’atmosfera muta nei tre cicli in cui il suo atteggiamento distaccato verso il dramma si trasforma in diretta partecipazione, con uno spirito umanitario che va oltre l’angoscia per la tragedia della sua terra lacerata dalla guerra civile. Nel 2000 dipinse il ciclo “Violencia in Colombia”, e  il ciclo “Abu Ghraib” accomunati dalla  ribellione contro le violazioni dei principi di umanità perpetrate nel suo paese con il sanguinoso conflitto intestino come nella grande democrazia degli Stati Uniti con le torture ai prigionieri nel famigerato carcere della guerra irachena.

“Piero della Francesca” (dittico, parte destra), 1998

Ha scritto Conrado Uribe Pereira nel 2016: “Come cittadino del mondo , qui l’artista assume una posizione globale e, per i quattordici mesi di lavoro che costituiscono, come Botero stesso ha dichiarato, una parentesi nella sua carriera, ha prodotto questa sorta di catalogo particolare nel quale raccoglie un frammento delle oscure cronache dell’attualità”.

E’ stata “una parentesi nella carriera”, sono “serie anomale nella carriera di Botero che ne attestano una coscienza politica che va dal locale al globale”, dunque; dieci anni dopo, nel 2010, per i suoi 80 anni, nel ciclo della “Via Crucis” torna la denuncia evocata nel “Crocifisso” avente per sfondo i grattacieli di New York con evidente riferimento ad “Abu Ghraib”. E torna il tema drammatico della violenza e dell’oltraggio all’umanità di Cristo, indifesa come quella dei perseguitati, espresso senza toni forti ma con un senso di pietà reso più struggente dalle forme ridondanti dell’essere indifeso che accentuano la tenerezza per lui in un’atmosfera di rassegnata contemplazione.

Così conclude Pereira sui tre cicli che lo hanno portato “a contravvenire in parte alle sue stesse norme, a rendere più impervio un sentiero faticosamente costruito nel corso della sua carriera artistica”: “Più che come un tradimento come qualcuno ha affermato, questa svolta, in cui fa incursione il dramma, dovrebbe essere considerata come un nuovo sviluppo, nel quale la continuità si accompagna alle trasformazioni che arricchiscono e potenziano l’opera”.  

Non potevamo non farne parola anche se i temi della mostra attuale non comprendono queste  “serie anomale” rispetto  alle sue espressioni consuete. Lo stesso artista le considera, come abbiamo visto, “una parentesi nella sua carriera”, di cui resta il segno incancellabile di natura morale e umana con tutto il suo valore civile e politico.

“L’infanta Margherita Teresa”, 2006

Le versioni di antichi maestri

Abbiamo ricordato come dai suoi primi viaggi in Europa quando aveva 20 anni, in particolare in Italia e Spagna,  l’artista fu profondamente colpito, e quindi influenzato,  dai grandi maestri italiani, da Giotto a Leonardo, da Paolo Uccello a Piero della Francesca soprattutto, e spagnoli, da Velasquez a Goya, poi conoscerà anche Durer e Rubens, Manet e Cèzanne, trovando delle ideali  “affinità elettive”.

Le esprime dedicandosi ai “d’aprés” che, a differenza di quelli di altri grandi artisti come De Chirico, non riproducono con variazioni modeste le opere ispiratrici, ma le re-interpretano radicalmente nel proprio personalissimo linguaggio; che non è soltanto una cifra stilistica diversa, ma comporta una dilatazione dei volumi tradotta in un gonfiamento dei corpi che determina la notevole deformazione, resa ancora più vistosa dall’inevitabile confronto con l’originale.

Ma proprio questa verifica conferma quanto si è premesso, nessun effetto caricaturale, non sembrano irriverenti né suscitano comicità, al massimo ironia, e fanno apprezzare lo sforzo di rendere omaggio ai grandi maestri “cercando, a secoli di distanza – commenta il curatore – di renderne lo spirito, attualizzato e fatto proprio attraverso la sua idea originale del volume e dello spazio, del segno e del colore”.

La 1^ sezione pittorica con 8  “Versioni degli antichi maestri” evidenzia come si sia dedicato ai “d’aprés” non solo nella fase iniziale, ma nell’intero percorso artistico, come  De Chirico che sull’orlo della vita ultimava l’ultimo dipinto, ripetendo un “d’après” realizzato in passato: la prima è del 1959, seguono 3 de 1984 e 1998, e 4  dal 2005 al 2008.

Iniziamo con i “d’aprés” di Velasquez, sono 3, il primo, “Nino de Vallecas”, 1959, ancora non rivela interamente la sua cifra stilistica che si manifesta invece in un “Busto femminile”, 1984, e ovviamente in “L’Infanta Margherita Teresa”, nel quale la deliziosa grazia infantile dell’originale si trasforma in una forma  imbarazzata più che goffa, che non suscita riso ma ispira tenerezza. Nel ricordare di essere stato “copista” al Prado, dove conobbe i dipinti del maestro spagnolo, l’artista rivela: “L’arte che ammiravo nelle grandi stanze del Museo del Prado era per me impenetrabile, una vera scoperta, e la tecnica con cui quei capolavori erano realizzati mi affascinava”.

“Maria Antonietta”, 2005

Dopo il “d’aprés” di Rubens, “Rubens e sua moglie”, 2005, in cui l’apparente  goffaggine delle due figure, con le mani simili a spatole che si uniscono, si traduce anch’essa in tenerezza, vediamo “Maria Antonietta”, 2005, figura dignitosa e accattivante, che serve all’artista per precisare come la scelta di questo come altri soggetti non significhi abbandono delle proprie radici: “Voglio che la mia pittura abbia radici, ma nello stesso tempo non voglio dipingere soltanto campesinos. Voglio essere capace di dipingere tutto, anche Maria Antonietta e Luigi XVI , ma sempre con la speranza che tutto ciò che faccio sia pervaso dall’anima latino-americana”.

Ed eccoci ai grandi maestri italiani, sono esposti i “d’aprés” di Piero della Francesca e Raffaello. Del primo parla così: “Di Piero della Francesca ho scoperto l’espressione più totale dell’arte: la pienezza del volume, delle forme composite, dei colori smaglianti, resi con tonalità difficilissime da creare. Il soggetto aveva una dignità straordinaria. Le figure emanavano un’impressione di monumentalità e di grande dignità”.  Possiamo dire che è proprio questa l’impressione che si ricava dal dittico esposto, “I duchi di Urbino”, la monumentalità non è resa dalla dilatazione dei volumi, appena percepibile, ma dalla severità dell’espressione, c’è rispetto per la dignità della figura.

Invece nel “d’aprés” di Raffaello, “La Fornarina”, 2008, la dilatazione è evidente e l’immagine ne viene coinvolta: dalla grazia pudica e seducente si va all’imbarazzo timido, per questo tenero. Torna il mente il “d’aprés” di Leonardo, “Monna Lisa”, 1977, visto alla mostra del 1991-92, realizzato 30 anni prima di quello della “Fornarina”, analogo coinvolgimento nel tradurre nel proprio linguaggio: all’intrigante mistero di un sorriso indefinibile si sostituisce un atteggiamento di placida attesa.

La reiterazione dei “d’aprés” anche in epoca recente indica che per l’artista questi capolavori non sono pezzi da museo, come le cosiddette “lingue morte”, gloriose ma inattuali.

“Natura morta davanti al balcone”, 2000

Nature morte

Così le “Nature morte”, di cui ne sono esposte 6 nella 2^ sezione pittorica, alle quali l’artista attribuisce un significato che va oltre la mera composizione di oggetti ma, come osserva il curatore, rivelano “un vero e proprio mondo a sé, ricco diversificato, regolato da regole precise”. Le enuncia lo stesso artista: “Quando dipingo una mela o un’arancia, so che si potrà riconoscere che è mia e che sono io che l’ho dipinta, perché quello che io cerco è dare a ogni elemento dipinto, anche al più semplice, una personalità che viene da una convinzione profonda”.

E’ come dare vita alle cosiddette nature morte, la cui definizione, pur in termini diversi, fu contestata da De Chirico che vi si dedicò chiamandole “nature silenti”. L’artista vi  imprime il proprio sigillo stilistico, ma proprio per renderle vive non le stravolge limitando la dilatazione, restano naturali pur se subito riconoscibili dall’osservatore come afferma di volere l’artista.

Lo vediamo nella “Natura morta dinanzi al balcone”, 2000, con una bottiglia e delle arance su un tavolo tondo coperto in parte da una tovaglia rosa shocking,  dinanzi a una ringhiera con sfondo di tetti. Tre arance sono intere, nella loro perfetta rotondità, la quarta è a metà, e questo dà vita alla composizione, rendendola dinamica. In “Arance”, un suo quadro del 1989, non in mostra, i frutti sono i soli protagonisti, poggiati su una cassapanca con una tovaglia di un giallo discreto, senza sfondo né altri oggetti; .anche qui tre arance intere, ma altre tre  a metà una delle quali anche sbucciata. Dieci anni dopo, dunque, torna lo stesso motivo, dare vita alla “natura morta”.

Analoghe considerazioni si possono fare per una “Natura morta” del 1970, in cui oltre a due arance tagliate  a metà e un grande  ananas anch’esso tagliato, ci sono delle bucce e delle posate, con una forchetta addirittura conficcata nell’ananas, quasi che l’artista avesse colto l’attimo fuggente di uno spuntino interrotto, sospensione accentuata dal cassetto del tavolino rimasto socchiuso.

“Natura morta con caffettiera blu”, 2002

Vediamo l’aggiunta di altri elementi compositivi nelle ultime due “Nature morte” di questo tipo, dove la frutta è ulteriormente diversificata, sempre con l’elemento vitale dello spuntino evocato.

In “Natura morta con frutta e bottiglia”, 2000, ci sono anche un cestino pieno di pomi, un piatto e una forchetta, oltre  alla bottiglia piena per metà, con una tovaglia verde chiaro su cui sono poggiate due banane intere e una tagliata a metà che, con lo spicchio d’arancia, dà vita alla natura morta.

Mentre “Natura morta con caffettiera”, 2002, mostra un cromatismo più intenso, di nuovo il mobiletto dal cassetto semiaperto con la tovaglia rosa shocking, una maggiore varietà di frutta, tre mele verdi, due banane e altro in una fruttiera bianca, una pera, una mela verde e due ciliegie sul tavolo dov’è anche un coltello e una fetta di cocomero rosso su un piatto blu, lo stesso colore della grande caffettiera e della parete di sfondo con uno specchio che riflette i frutti poggiati più in alto.

Questa la descrizione dell’artista: “Quando guardate una delle mie nature morte noterete che i coltelli e le forchette, la frutta, il tavolo, il tovagliolo, ogni cosa è resa nella stessa maniera, perciò l’intero lavoro irradia un senso di unità, armonia e coerenza. Questo è ciò che comunica la sua verità essenziale” della quale, aggiungiamo, fa parte anche la vita data alle “nature morte”.

”Natura morta con strumenti musicali”, 2004

Non più frutti nella “Natura morta con lampada e fiori”, 1997, i fiori sono otto, sembrano rose non sbocciate di un colore sbiadito come la tovaglia, di un giallo più intenso il vaso con manico in cui sono raccolte in una composizione compatta. Al lato una lampada a olio grigia, grande come il vaso, con la fiammella accesa, il segno di vita come la forchetta all’angolo del tavolo con un pezzetto di cocomero, più piccolo della fetta nella “Natura morta con caffettiera”, ma evidente.

Ritroviamo la bottiglia piena a metà della “Natura morta con frutta e bottiglia” nella “Natura morta con strumenti musicali”, 2004, su un mobile questa volta dal cassetto chiuso, c’è un trombone con un mandolino sull’immancabile tovaglia, che diventa di colore arancio in sintonia con gli strumenti illuminati da una luce gialla. Danno vita alla composizione l’archetto dello strumento e i fogli dello spartito musicale, appoggiati come per una sospensione momentanea dell’esecuzione. Ci tornano  in mente tre dipinti non in mostra: la “Natura morta con Le Journal”, 1989, con il mandolino e, oltre agli oggetti dei quadri descritti, la caffettiera con uno sbuffo di liquido,  l’arancia intera e quella sbucciata fino a una fetta sottile sopra il giornale, la natura non è morta, è viva; la “Natura morta con violino”, 1965, dove  non c’erano ancora questi segni di vita; e “Interno con figure”, 1990,  dove i segni di vita erano  non solo nelle arance tagliate, ma nelle due persone, un uomo e una donna di spalle, sedute a tavola per lo spuntino che è solo evocato in tutti gli altri dipinti.

L’artista si lascia andare a una vera confessione, ricordando come un errore nel disegno del mandolino con il foro centrale troppo piccolo gli aveva fatto esclamare “Ma qui c’è una proporzione diversa, è straordinario”. Poi aggiunge: “E ho dipinto subito il quadro esagerando il volume del mandolino, dilatandolo, dando il massimo rilievo alla forma. Questa dilatazione, questa affermazione dell’oggetto nello spazio era ciò che avevo cercato anche nei classici”. E così si chiude armonicamente e coerentemente il cerchio con i suoi “d’aprés” che abbiamo già commentato.

“Seminario”, 2004

Religione 

La 3^ sezione pittorica ci porta nel  campo della “Religione” che ritroviamo nella sua prima formazione, quando le tradizioni colombiane e i riti religiosi, insieme alle immagini sacre, erano dominanti. “Io non sono religioso, afferma l’artista, ma nell’arte la religione è parte della tradizione”.  Poi si sono aggiunte le realizzazioni artistiche dei  maestri europei su temi sacri, una tradizione a livello universale. .

Il curatore osserva che nel suo mondo il “clima favolistico”  fa sì che “la realtà deve fare sempre i conti con lo sconfinamento in una fantasia che determina compiutamente i pensieri e i gesti della gente. In un simile contesto la religione si pone come un esempio di pratica del soprannaturale che permea la quotidianità da tradursi in sorpresa, in contemplazione estatica, in forma adattata a un pensiero pronto a plasmare uniformemente le cose e le persone”.

Ma a parte queste considerazioni, la selezione delle 5 opere sul tema è una escalation rituale: dai seminaristi al monsignore, dal nunzio al cardinale, dalla  Madonna col Bambino fino al Crocifisso.

Il “Seminario”, 2004, raffigura  in un ambiente spoglio quasi metafisico nelle arcate di sfondo, cinque seminaristi in quattro  posizioni: uno sulla sinistra in ginocchio mentre prega con lo sguardo verso l’alto e le mani giunte,  un altro in primo piano sdraiato mentre legge il breviario con la testa appoggiata alla mano destra, un terzo a destra seduto su una poltrona con il rosario nella mano sinistra, come un quarto in piedi al centro, al pari del quinto dallo sguardo attonito, più degli altri raffigurati. Sono come presi da un senso di arcano stupore, accomunati in un quieto raccoglimento dal quale sembra contagiato il gattino sulla destra, nero come le loro tonache, e come loro assorto.

Passeggiata sulla collina”, 1977

Saliamo di livello con il monsignore di “Passeggiata sulla collina”, 1977, ha il rosario che pende dalla mano sinistra e un curioso ombrellino nero nella destra aperto sebbene non vi sia il sole ma un cielo nuvoloso su un prato verde; le forme gonfie, ma non in modo debordante,  in una composizione semplice ed essenziale, danno un senso di leggerezza che non intacca la serena compostezza del prelato. Un ombrellino lo ricordiamo in altri due dipinti non in mostra. Nella“Passeggiata al lago”, 1989,  è di colore rosso porpora perché in mano a un cardinale in veste talare con strascico della stessa tinta, in una composizione molto diversa con la figura umana minuscola dinanzi al gigantismo degli alberi nel bosco, che si riflettono nelle acque.  In “La passeggiata”, 1978, è nero, tenuto in mano da una signora, che ha nell’altra un borsellino, intorno due grandi alberi su un prato verde sconfinato.

Cresce ancora il livello nella gerarchia ecclesiastica con i dipinti che raffigurano due alti prelati,  con le vesti rosse e la mitria sul capo, raffigurati nel 2004 in pose e atteggiamenti ben diversi.

“Il nunzio”  è in piedi con il pastorale nella mano destra e il rosario nella sinistra, mentre incede solenne davanti a dei banani lussureggianti con il piccolo chierico in cotta bianca che regge l’ombrello rosso dell’autorità vescovile. “E’ una variegata macchia di colore – commenta il curatore – che entra a far parte del paesaggio secondo la logica delle apparizioni capaci di trasformare l’evento, per noi inatteso, in marcata consuetudine”. Ricordiamo il “Vescovo in nero”, 1982, non in mostra, mentre benedice davanti a una nicchia, senza sfarzo.

Cardinale addormentato”, 2004

Mentre “Il cardinale addormentato” è  immerso nel sonno con indosso i paramenti, mitria compresa,  in un ambiente spoglio in cui c’è soltanto un piccolo Crocifisso nella parete, su un letto spartano circondato da sei candele accese, come se fosse una veglia mortuaria. Ironia dell’artista?

Le due immagini sacre riportano alla iconografia cristiana, ma con una particolarità per “Nostra Signora di Colombia”, 1992: con in braccio il Bambino, invero quasi un ometto con camicia, calzoni corti e scarpe ha in testa una corona inconsueta per la Madonna, quasi un triregno da papa, mentre due piccoli angeli sostengono un piccolo telo verde dietro di lei. Null’altro di particolare, la figura è nobile, anche se la corona sembra fuori luogo e il telo precario e inadeguato.

Siamo giunti al culmine delle raffigurazioni religiose con “Cristo crocifisso”, 2000, in cui la dilatazione del volume non toglie armonia alla forma che ispira raccoglimento e rispetto senza drammaticità; le gocce di sangue che si intravedono nel corpo e nella croce sono leggerissime, quasi invisibili.  

Ci ricorda “Ecce Homo” , 1967, anch’esso composto e senza segni visibili di torture e sofferenza, e il successivo “Trittico della Via Crucis”, 1969, quarant’anni prima del ciclo dipinto nel 2010-11 per il suo 80° anno, sulle 14 stazioni con tanti disegni preparatori, in cui  il  “Crocifisso”, come abbiamo ricordato, polemicamente ha come sfondo i grattacieli di New York.

Prossimamente descriveremo le altre 4 sezioni pittoriche, dedicate alla “Politica” e al “Circo”, alla “Vita latino-americana”  e ai  “Nudi”, e infine le” Sculture”, anch’esse molto personali e caratteristiche.

Nostra Signora di Colombia”, 1992

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skira Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 2 giugno scorso, il terzo e ultimo uscirà il 6 giugno, con altre 13 immagini ciascuno.  Per  le citazioni di De Chirico, i suoi  “d’après” e la “natura silente” cfr. i nostri articoli in  www. culturainabruzzo.it , 8. 10, 11 luglio 2010 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito),  e il nostro articolo “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, in “Metafisica”,  Quaderni della Fondazione  Giorgio e Isa De Chirico,  n. 11-13 del 2013, pp. 403-418.

Foto 

Le immagini, relative alle prime 3 sezioni della mostra e alla sezione con le sculture, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Versione da antichi maestri”: “La Fornarina” 2008; seguono, “D’aprés Velasquez” 1959 e “D’aprés Velasquez” 1964, poi, “Piero della Francesca” (dittico, parte destra) 1998, “L’infanta Margherita Teresa” 2006 e “Maria Antonietta”, 2005; quindi, “Nature morte”: “Natura morta davanti al balcone” 2000, “Natura morta con caffettiera blu” 2002 e “”Natura morta con strumenti musicali” 2004; inoltre, “Religione”: “Seminario” 2004 e “Passeggiata sulla collina” 1977, ancora, “Cardinale addormentato”2004; e“Nostra Signora di Colombia” 1992; in chiusura, “Il Presidente. La first lady” (dittico, le due parti) 1969, della sezione “Politica” di cui al prossimo articolo.

“Il Presidente. La first lady” (dittico, le due parti), 1969.

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Botero, 1. 48 opere intriganti nello stile inconfondibile al Vittoriano

Ieri 15 settembre 2023 se n’è andato l’artista colombiano Botero, che tutti conoscono per lo stile inconfondibile fatto di forme ridondanti, tale da incuriosire per la sua originalità unita ad una elevata qualità artistica. Verrà sepolto a Pietrasanta – con l’Italia ha avuto fecondi rapporti nella sua vita artistica – e in Colombia sono stati decretati 3 giorni di lutto nazionale. Abbiano ritenuto di onorarne la memoria ripubblicando i 3 articoli del giugno 2017 sulla grande mostra antologica al Vittoriano, seguirà l’articolo sulla mostra antecedente al Palazzo delle Esposzioni deicata alla sua speciale “Via Crucis”. In questo primo articolo è inquadrata la sua figura artistica e umana, in quelli che usciranno nei giorni successivi saranno descritte le opere in mostra nel loro valore e significato.

La Copertina del Catalogo

di Romano Maria Levante

La mostra “Botero” al Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016, espone 48 opere, di cui 43   grandi dipinti  e  5 grandi  sculture, dell’artista colombiano dallo stile inconfondibile aperto  e  misterioso, solare ed enigmatico che stimola il visitatore oltre che il critico nella ricerca della chiave interpretativa della sua affascinante singolarità. Promossa da Roma Capitale con il patrocinio della Regione Lazio, prodotta e organizzata da “Arthemisia” con MondoMostreSkira, a cura di   Rudy Chiappini che ha curato anche il Catalogo Skira. Un progetto didattico è collegato alla mostra.

“Picnic”, 2001

A distanza di un anno, un nuovo evento artistico ha per protagonista Botero a Roma: dopo  la “ Via Crucis, la passione di Cristo” nella Pasqua 2016 al Palazzo Esposizioni, la mostra tematica al Vittoriano alla cui presentazione ha partecipato l’artista, con Iole Siena, presidente di “Arthemisia” –  il gruppo che ha affiancato ripetutamente le grandi sedi espositive romane nell’organizzare le mostre e dal 2016  ha la titolarità esclusiva dell’Ala Brasini del Vittoriano – e con  Rudy Chiappini, curatore della mostra, presente l’ambasciatore di Colombia. L’artista ha parlato delle radici stilistiche e di contenuto  delle sue figure dilatate dalle forme prorompenti, in una visione dell’arte e della vita aperta e popolare che lo porta alla condivisione di emozioni e sentimenti.

E’ questo un tema appassionante data la singolarità nel panorama artistico mondiale di un approccio così originale e per tanti versi azzardato perché rischia di cadere nella caricatura e nel grottesco. Ma non è così, anzi dinanzi alla sua galleria di dipinti si resta come soggiogati e colti da tenerezza,  per nulla portati al riso, bensì presi nell’intimo dalla percezione di un messaggio di profonda umanità.

La  prosecuzione ideale delle altre mostre di  Botero a Roma

Avevamo provato questa sensazione dinanzi alle stazioni della Via Crucis che dipinse per celebrare i suoi 80 anni,  il Cristo gonfio al posto di quello ischeletrito della tradizione suscitava un sentimento di pietà non minore, quasi fosse ancora più indifeso nella tenerezza che esprimeva, mentre nei suoi carnefici le forme prorompenti moltiplicavano la violenza cieca, insana e perversa.

 Ora  si prova sempre tenerezza dinanzi alle figure prorompenti delle 48 grandi opere esposte, ma premono anche altre sensazioni e  sentimenti ben diversi da quelli suscitati dal dramma della Passione. La suddivisione delle opere in 7 sezioni tematiche sembra fatta  per misurare queste sensazioni dinanzi a situazioni diverse anche se rappresentate con lo stesso stile inconfondibile: si va dalle Natura morte alla Religione, dalla Politica al Circo, dalla Vita latino-americana ai Nudi, fino alle Sculture, con la premessa delle Versioni da antichi maestri in cui Botero si è cimentato,  come De Chirico e altri artisti,  immagini per lo più serene. Non sono esposte opere di quattro cicli su vicende drammatiche, Corrida” e  “Violencia in Colombia”, “Abu Grahib” e “Via Crucis”..

“Piero della Francesca”, dittico, lato sinistro, 1998

Si può  essere tentati di cogliere l’evoluzione stilistica, tra il  d’aprés  “Velàsquez” del 1959 e la “Passeggiata sulla collina” del 1977,  tra le 4 opere della fine degli anni ’80 e le 7 della fine degli anni ’90 fino alle 32 dal 2000 in poi, di cui ben 20 dal 2005, l’ultima  “Carnevale” del 2016.  Ma si resterebbe delusi data la costanza della sua cifra stilistica che esprime una visione ferma e radicata.

Neppure nella precedente grande mostra di Botero a Roma, tra il dicembre 1991 e il febbraio 1992 al Palazzo Esposizioni, con 60 dipinti, 39 disegni, 16 sculture e in più la travolgente sezione di 37 opere sulla corrida, dalla vasta galleria antologica presentata in modo cronologico si avvertivano segni apprezzabili di mutamenti. La mostra attuale si pone come sua prosecuzione ideale, solo  “Il bagno”, del 1989,  fu presentato anche allora, le altre sono tutte inedite per Roma e c’è il meritorio aggiornamento dell’ultima serie degli anni ‘2000 dopo  la “Via Crucis” dipinta nel 2010-11 presentata, come abbiamo ricordato, un quarto di secolo dopo, nello stesso Palazzo Esposizioni.

Pertanto tutto l’interesse si concentra nell’interpretare questa cifra stilistica costante, applicata a diversi contenuti accomunati da una visione che cercheremo di decifrare, partendo dalla formazione riflessa nella sua biografia di artista sudamericano legato al proprio paese, che ha però frequentato a lungo l’Europa e gli Stati Uniti, e ne è stato  influenzato. In questa interpretazione ci aiuteranno le sue stesse parole riportate efficacemente nel Catalogo come originali schede delle opere esposte.

“Natura morta con frutta e bottiglia”, 2000

La formazione cosmopolita, fino all’escalation

Nato a Medellin, nella provincia colombiana di Antioqua, dove studiò dai Gesuiti, fu affascinato dalla corrida, la sua prima opera è un acquerello con un torero, anzi per due anni frequentò una scuola per toreri, aveva 12 anni, è di quarant’anni dopo il suo celebre ciclo pittorico sulla Corrida. E’  precoce, a 16 anni la prima esposizione a Medellin.  La sua formazione risente fortemente delle tradizioni locali, lo affascinano le figure dei santi e gli altari barocchi, con l’arte precolombiana e i muralisti messicani tra cui Diego Rivera;  di Picasso lo attira “il non conformismo nell’arte”, cui dedica un apposito articolo  a seguito del quale viene espulso dal collegio, ha ancora 16 anni. 

A 20 anni, lascia Medellin per  la capitale Bogotà dove fa subito la prima esposizione e conosce personaggi dell’avanguardia colombiana, impiega i primi guadagni per raggiungere l’Europa.Un anno in Spagna, pochi giorni a  Barcellona, poi Madrid; quindi  Parigi dove più che l’avanguardia lo attirano gli antichi maestri al Louvre. Ma è in Italia dal 1953 al 1955, che viene affascinato dagli artisti del Rinascimento, è conquistato dalle critiche d’arte di Berenson e Longhi;  si appassiona a Giotto e Piero della Francesca, Masaccio e Leonardo, e alla metafisica di De Chirico. Firenze è la sua base, percorre la Toscana in motocicletta e visita Arezzo e Siena, Venezia e Ravenna.

Torna a Bogotà ma i suoi quadri dipinti a Firenze non hanno successo, ben diversi dallo stile di moda delle avanguardie, finché nel 1956 l’illuminazione del volume, nascono le forme dilatate. Si sposa e si trasferisce  a Città del Messico dove vive con la vendita dei propri quadri. Ma non si ferma, l’anno dopo il salto negli Stati Uniti, una mostra a Washington e contatti diretti a New York con l’espressionismo astratto, la galleria Gres si offre di appoggiarlo.

“Il nunzio”, 2004

Nel 1958, ha soltanto 26 anni, si divide tra la Colombia, dove insegna pittura a Bogotà, diviene illustratore del quotidiano più importante, e partecipa al Salone d’arte tra accesi contrasti; e gli Stati Uniti dove  nel mese di ottobre nella mostra alla galleria Gres le opere esposte sono vendute il giorno dell’inaugurazione,  espone a una collettiva a New York e vince il “premio Guggenheim internazionale 1958”.

Di nuovo in Colombia nel 1959-60, e ancora a New York dove si stabilisce al Greenwich Village, ma arrivano i momenti difficili. Si separa dalla moglie, da cui ha avuto due figli, Fernando e Lina, la galleria Gres chiude, la sua prima mostra nella galleria newyorkese, “The Contemporaries”, riceverà molte critiche, l’opposto dell’esordio alla galleria Gres quattro anni prima.  Ma reagisce alle contrarietà della vita e dell’arte,  si sposa di nuovo nel 1964, dopo sei anni avrà il terzo figlio Pedro; intanto ha trasferito lo studio prima nell’East Side poi nella 14^ Strada sempre a New York, ma non trascura la sua terra,  vince il 2° premio al Salone di arte moderna di Bogotà.

E l’Europa? Non l’ha dimenticata, espone nel 1966 in tre città tedesche, ma nello stesso anno sfonda negli Stati Uniti con la mostra, in un celebre museo, intitolata “Opere di “Fernando Botero”, un successo meno effimero del precedente di pubblico e di critica, ne parla bene anche “Time”.

Nel 1967  di nuovo in Europa, Germania e Italia, oltre che a New York e in Colombia, un pendolarismo senza sosta, è il periodo in cui si rafforza la sua formazione cosmopolita. Dice che un artista latino-americano deve trovare un propria “autenticità”, che “l’arte deve essere indipendente”,  la pittura deve trovare radici, “perché esattamente queste radici danno significato e verità al creato”, ma aggiunge: “Nello stesso tempo, però, non voglio dipingere soltanto campesinos sudamericani. Voglio essere capace di dipingere di tutto, anche Maria Antonietta e Luigi XVI, ma sempre con la speranza che tutto ciò che faccio sia pervaso dall’anima latino-americana”.

,“L’ambasciatore inglese”, 1987

Parole che ci sembrano il sigillo della sua formazione, punto di arrivo e anche di partenza. Ha interiorizzato i potenti stimoli della sua terra, poi ha conosciuto la grande arte rinascimentale e non solo, che lo ha colpito e affascinato, è anche entrato in contatto con la modernità statunitense, le avanguardie dell’espressionismo astratto. Può superare l’angoscia che attanaglia l’artista fino a quando “non padroneggia il proprio mestiere e non sa esattamente quello che desidera esprimere”. Perché o ha delle idee ma non sa come esprimerle artisticamente, oppure sono confuse in quanto non le sente sue.  “Arriva poi il momento, sono sue parole, in cui il pittore riesce a dominare la tecnica e al tempo stesso tutte le sue idee diventano chiare: allora il suo desiderio di trasportarle fedelmente sulla tela diventa così preciso e impellente che il dipingere si trasforma in gioia”.

Ormai l’artista è lanciato, si divide tra New York, con un nuovo studio sulla 5^ strada, e Bogotà, ma affitta anche un appartamento a Parigi dove si trasferirà nel 1973 dopo 13 anni trascorsi a New York.  Tornano i momenti difficili nella vita familiare, nel 1974 la tragedia, il figlio Pedro muore a 4 anni in un incidente stradale, l’anno dopo si separa dalla moglie. Si immerge ancora di più nell’arte, è come se volesse far tornare in vita il figlio ritraendolo in dipinti, disegni e sculture, nel 1976-77 si dedica essenzialmente alla scultura, crea 25 opere su vari temi, anche animali e oggetti.  In memoria del figlio dona 16 opere per la sala a lui dedicata nel Museo di Medellin.

Le mostre in Sudamerica, negli Stati Uniti e in Europa si moltiplicano negli anni in un’escalation inarrestabile, ma ci fermiamo qui perché ci interessava la sua formazione per interpretarne l’opera.

“Il Presidente. La first lady”, dittico,  lato sinistro

La quadratura del cerchio della sua arte

Possiamo dire che la sua formazione è nella biografia, non tanto o non solo per gli artisti di cui ha conosciuto l’opera e lo hanno influenzato, ma soprattutto per il suo dividersi tra il Sudamerica, in Colombia e Messico, gli Stati Uniti a New York e l’Europa in Spagna e Italia. Tutto questo gli ha dato un formazione cosmopolita, ma anche una lacerazione tanto che così precisa l’apparente contraddizione tra il suo sentire di artista con una peculiare forma espressiva e la sua formazione, che gli ha attirato critiche come se avesse tradito le proprie origini allontanandosi dalla sua patria: “Si trova in tutta la mia pittura un mondo che ho conosciuto durante la giovinezza. E’ una specie di nostalgia e ne ho fatto il soggetto centrale del mio lavoro. Ho vissuto quindici anni a New York, ma questo non ha cambiato nulla della mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito di latino-americano. Il rapporto con il mio paese è totale”.  

Lo ha dimostrato innanzi tutto con il ciclo “Corrida”, di cui non vediamo opere nella mostra attuale, ma presente in quella del 1991-92 con 36 opere di cui 18 grandi dipinti, e 18 tra disegni, sanguigne e acquerelli, che ci hanno fatto conoscere il modo distaccato con cui ha raffigurato in tutti i suoi aspetti questo importante momento tradizionale e  ancora attuale della vita sudamericana. Ma,  come commentava Ana Maria Escallon, “Botero non condivide il denso e lacerante mondo di Goya; Botero omette il dramma”. E spiega che “tutto lo scenario della corrida implica tumulto, frastuono, tensione e morte; tutto ciò è assente nei quadri perché essi non vogliono essere la realizzazione di una cronaca taurina, né la rappresentazione psicologica di un duello tra la vita e la morte; il quadro esiste solo come bisogno d’espressione, colmo di una realtà lontana che non può ammettere le regole della logica quotidiana”. Quello di Botero “è un mondo dall’anima lasciva, colmo di poesia, di forme piene che lasciano spazio a colori armonici”. La morte, però, non è assente, ricordiamo lo scheletro che cavalca il toro in “Toro muriendo”, 1985 e in“Muerte de Ramon Torres”, 1986,  questa volta mentre l’animale calpesta il corpo inanimato del  toreador, opere non in mostra che citiamo, come faremo con molte altre, per opportuno riferimento.

Musici“, 2008

Vicinanza alla sua terra  rafforzata  nel 2000 con il ciclo pittorico “Violencia in Colombia”, un impegno che lo ha fatto partecipare direttamente e intensamente alla tragedia del suo paese sconvolto dalla guerra civile, che lui fa risalire alla mancanza di giustizia sociale  e all’ignoranza. Impegno appassionato il suo, mosso non solo dal patriottismo ma anche dalla sensibilità umana, come archetipo di tutte le ingiustizie:  alle violenze sanguinose in Colombia si sono aggiunte le torture del carcere di  “Abu Ghraib”, due suoi cicli pittorici correlati.  Ai quali si sono aggiunte interviste coraggiose nel 2005, la sua arte come “accusa permanente”, mentre già nel 2004 quando fece donazioni al Museo colombiano era stato definito “Testimonio de la barbarie”.

Ma torneremo più avanti su questo aspetto altamente drammatico del suo impegno di artista e di persona dall’alta sensibilità umana, anche se è estraneo alla mostra  che, ripetiamo,  non espone opere di tali cicli né della “Via Crucis” del 2010-11, a  parte un “Cristo crocifisso” del  2000. 

“Pierrot“, 2007

Ora  vogliamo sottolineare che la nostalgia non si traduce in malinconia ma, come scrive il curatore Rudy Chiappini, è “corretta dal sorriso, da una diffusa, non sarcastica ironia in cui non trovano spazio gli stati d’animo estremi”.  E si esprime indirettamente nella presenza delle suggestioni della sua terra impresse in lui prima degli influssi cosmopoliti: l’arte precolombiana e l’artigianato popolare, le derivazioni creole e l’iconografia cristiana, con tutti gli altri stimoli delle realizzazioni  delle civiltà latino-americane, Colombia e Messico, che ha ricevuto dall’infanzia. Ma ha sentito anche come la dominazione spagnola, con l’arte barocca, abbia prodotto una deformazione negli artisti locali cui non si è assoggettato, avendo una visione più vasta.

Quindi, sempre nelle parole del curatore, “l’insopprimibile rapporto con la sua terra, testimoniato dalla fecondità e dalla purezza formale, non fa tuttavia di Botero un artista etnico, folcloristico, ma costituisce il presupposto obbligato di un transito, di una meditazione  del raggiungimento della consapevolezza di poter creare e dar vita a un’arte originale e autentica connaturata al temperamento latino-americano”. 

Come ha potuto realizzare  una simile quadratura del cerchio?  Mediante l’alchimia degli influssi cosmopoliti che ha saputo metabolizzare avendo recepito dalla cultura europea la curiosità e l’inquietudine intellettuale per raggiungere l’arte autentica come “interpretazione della realtà attraverso l’intelligenza e la sensibilità che portano alla consapevolezza stilistica”. Il tutto  in una “sintesi perfetta di regola  e di passione”.  Perché, prosegue Chiappini, “la sua è un’arte fedele alle proprie radici ma al tempo stesso alimentata dalla conoscenza, dal confronto con altre sensibilità e altri linguaggi, affascinata dall’incontro con le opere del Trecento e Quattrocento italiani”.

Lo abbiamo visto nella biografia, i grandi maestri spagnoli come Velasquez e Goya, e soprattutto italiani, da Giotto a Leonardo, con particolare riguardo a  Piero della Francesca, gli hanno rivelato, sono parole dell’artista, “l’essenza del classicismo per l’organizzazione dello spazio, la serenità della forma e l’armonia dei colori, trasmettendo un grande senso di quiete”.  Perché “la storia dell’arte è la storia della bellezza e della sua creazione” e in questo senso fa sua la definizione di Poussin: “La pittura è un’interpretazione della Natura, con forme e colori, su una superficie piana per dare piacere”. 

Non si poteva sintetizzare meglio la sua arte, l’inconfondibile effetto visivo che ne deriva, del quale comunque è intrigante esaminare le matrici e le componenti così insolite e singolari.

“Carnevale”, 2016

I corpi gonfi  dalle forme stravolte come trasfigurazione favolistica della realtàCon questa matrice insieme vasta e profonda, cerchiamo di decifrare il suo inconfondibile sigillo, le deformazioni dei corpi gonfiati che derivano dalla peculiare concezione del volume per lui fondamentale. Non sono caricaturali, non suscitano il riso, al massimo ironia  ma soprattutto  tenerezza, abbiamo detto:  “Tutto assomiglia ad un gioco da adulti su di un palcoscenico.  Forse ad un rito” – ha scritto Fabrizio D’Amico nel  presentare la mostra del 1991-92 –  Nulla nasce, cresce,  si consuma e si estingue secondo il ritmo delle ore e delle stagioni; nulla avviene per conseguente, prevedibile, normale concatenazione logica”.

Ed è qui una chiave interpretativa accessibile al visitatore, senza  visioni intellettualistiche estranee alla poetica di Botero, che porta alla favola dove troviamo le deformazioni e i gigantismi – si pensi ad “Alice nel paese delle meraviglie” – e, anche se non è una favola, ai “Viaggi di Gulliver” che rivelano un mondo illogico ma metaforico e fiabesco.

“Al riparo dei loro corpi inadatti all’azione – prosegue D’Amico –  i personaggi di Botero rifiutano di sottoporsi ad ogni legge conosciuta della fisica e della ragione. Della morale, perfino”. Nessuna proporzione della realtà viene rispettata, i corpi sono trasbordanti rispetto ai letti e alle sedie che dovrebbero contenerli, gli arti non potrebbero svolgere le azioni richieste, come nel paradosso dell’acrobata sospeso in un impossibile equilibrio della sua figura tozza ma insieme aggraziata. Perché questo è il risultato incredibile, un’armonia superiore, pur nell’inverosimile e impensabile.

“La vedova”, 1997

Così l’artista: “Nei miei dipinti mi muovo con una libertà che ho in un certo senso ereditato dall’arte antica italiana: quella di pensare che nessuna cosa corrisponda alla dimensione prospettica della composizione”. E  ancora: “Questo vuol dire che qualche volta lo spazio viene usato in modo soggettivo, al di là del rispetto delle proporzioni. La grandezza delle figure e degli elementi che compongono i miei quadri non segue le regole della prospettiva, ma mi serve semplicemente per creare un’armonia generale”.

Prevale  per lo più  la dimensione umana, venendo dilatate essenzialmente le persone, come per sottolineare la loro prevalenza rispetto alle cose molto più piccole, dagli oggetti  banali ai letti e ai bagni; sembrerebbe a prima vista  fare eccezione “Il ladro”, 1980, non in mostra, con la figura piccola al centro del dipinto che porta un grosso sacco pieno di roba rubata, ma i tanti tetti che occupano la scena sono ancora più piccoli, come le molte finestre che si intravvedono.

Nelle persone la dilatazione dei volumi riguarda la parte carnale dei corpi, mentre  le bocche,  i nasi e altri organi sono per lo più minuscoli, con gli occhi alquanto piccoli e fissi, spesso rivolti all’osservatore come per interrogarlo o trasmettergli la loro umanità.

Atelier di sartoria”, 2000

L’effetto non è solo visivo, è ben più profondo. Botero ci presenta un mondo che non ritroviamo nella realtà e non è neppure stravolto dall’espressionismo astratto o dall’astrattismo che ne fa perdere del tutto i contorni. E’ una realtà riconoscibile ma deformata senza divenire irriverente perché “monta, all’opposto, l’innocenza della favola”, e con essa “il sorriso, l’indulgenza, l’ironia accostante e quasi consolatoria di un mondo troppo smisurato per riguardare davvero la nostra esistenza, i nostri progetti o i nostri spaventi, un mondo che si può guardare con le stesse attese e lo stesso abbandono, la stessa disarmata fiducia con cui si guarda dentro una scatola magica o, al massimo, con la curiosità intensa e passeggera con cui da bambini spiavamo, dal pertugio di una serratura, le stanze e i gesti dei grandi”, così  ancora D’Amico.

Da parte sua, l’artista afferma: “Voglio che alla fine del quadro ci sia calma e che tutto trovi il suo posto. Non voglio dipinti inquietanti, nel senso che per me il dipinto è pronto quando niente si può muovere, quando regna la calma. Rembrandt ha detto una cosa bellissima: ‘Il quadro per me è finito quando smetto di pensare’”. La ritengo una definizione meravigliosa”.

Adamo ed Eva”, 2005

Dacia Maraini osservava, sempre nel 1991: “L’arcano che intrappola il nostro sguardo incuriosito sembra nascere dall’enigmaticità che accompagna la distillazione della bellezza. Una bellezza che non consiste soltanto nella poetica scoperta della equiparazione dei corpi, animati e inanimati, ridotti al grado zero della pittura nella dilatazione sistematica delle forme. L’elefantiasi biscottata dei fantocci che ingombrano le scene di questo teatro boteriano non racconta tutta la verità”.  E non si trova neppure nei contenuti evocati.  “Curiosamente, mentre osserviamo questi pesi massimi, rigorosamente fedeli alla loro estrema ‘lourdeur’, essi finiscono per diventare di una lieve e aurea leggerezza. Alla fine ci troviamo di fronte a un mondo di corpi goffi, soffici, in procinto di volare via. Come a dire che i segni si contraddicono e rivelano in ogni momento il rovescio di sé”.

Ci voleva la fantasia della scrittrice, lontana dalle elucubrazioni cerebrali della critica, per entrare in sintonia e fare sintonizzare anche noi con il mondo favolistico dell’artista. Ripensiamo alla scena finale del film “Miracolo a Milano”, con le figure che si alzano in volo sconfitta la forza di gravità, l’immagine della Maraini ci fa pensare anche a questi corpi in volo, liberati dal peso opprimente.

Usciamo dalla favola, torniamo alla realtà. Paolo Mauri commentava:“In queste storie l’antagonista vero non è mai dentro al quadro, ma è fuori: è colui che guarda divertito, perplesso, incuriosito. Dal personaggio, dalla sua grassitudine, dalla sua malinconia… E’ difficile non andare d’accordo con i personaggi dipinti da Botero e non desiderare alla fine di averne uno da guardare sempre”

Nella mostra ce ne sono  quasi 50 da guardare, quante sono le opere esposte, compreso  il grande “Cavallo”  in bronzo nel largo antistante l’ingresso, anch’esso un richiamo quasi favolistico, ripensiamo al cavallo di Troia  che ha popolato le fantasie di tutti negli anni scolastici. .

Racconteremo la visita prossimamente facendo conoscenza dei  personaggi del teatro di Botero, un mondo  che abbiamo cercato di interpretare nelle sue motivazioni profonde e nelle sue espressioni più vistose.  Un mondo affascinante con i contorni della favola nella trasfigurazione della realtà.    

“Ballerini”, 2012, scultura;

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skyra Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  Gli altri due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 4 e 6 giugno p. v. con altre 13 immagini ciascuno. Per i riferimenti del testo cfr. i nostri articoli in questo sito: “Accessible Art, 17 articoli sulle favole di Oscar Wilde” 3 gennaio 2017 e  “Alice, le meraviglie della favola nella galleria RVB Arts” 25 dicembre 2015.

Foto 

Le immagin, che rappresentano tutte le sezioni della mostra, i sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, La Copertina del Catalogo; seguono, “Picnic” 2001 e “Piero della Francesca”, dittico, lato sinistro, 1998; poi “Natura morta con frutta e bottiglia” 2000 e “Il nunzio” 2004; quindi, “L’ambasciatore inglese” 1987 e “Il Presidente. La first lady”, dittico,  lato sinistro; inoltre, “Musici“ 2008 e “Pierrot“ 2007; ancora, “Carnevale”, 2016 e “La vedova” 1997; continua, “Atelier di sartoria” 2000 e “Adamo ed Eva” 2005; infine, “Ballerini” 2012, scultura; e, in chiusura, la presentazione della mostra al Vittoriano il 5 maggio 2017, al centro Fernando Botero con a fianco l’interprete e alla sua sinistra la presidente di Arthemisia Jole Siena e il curatore della mostra Rudy Chiappini.

La presentazione della mostra al Vittoriano il 5 maggio 2017,
al centro Fernando Botero con a fianco l’interprete,
alla sua sin. la presidente di Arthemisia Jole Siena
e il curatore della mostra Rudy Chiappini.

Pubblicato dawp_3640431 Giugno 2, 2017 Pubblicato in Uncategorized Modifica Botero, lo stile inconfondibile nella mostra al Vittoriano

Il Tricolore, ne parlano i “quattro amici al bar” su FB

di Romano Maria Levante

I “quattro amici al bar”, tra cui noi, di cui abbiamo riportato ieri la discussione svoltasi su Facebook intorno al 25 luglio 1943, hanno discusso anche, nello stesso periodo, precisamente dal 30 luglio al 4 agosto 2023, del Tricolore, con 31 Post. Trasferiamo sul nostro sito questa discussione anche per riumirci tutti nel simbolo amato della nostra Bandiera dopo aver ricordato ieri le divisioni evocate dal 25 luglio.. L’occasione è stata fornita dalla risposta della Presidente del consiglio Giorgia Meloni nella sua visita ufficiale negli Stati Uniti gli ultimi giorni di luglio a una domanda del Presidente del Congresso americano, il democratico sen. Schumer, sul significato dei tre colori. Si confrontano valutazioni divergenti su tale risposta – soprattutto tra due amici – con argomentazioni di segno diverso, sempre con il Tricolore al centro della discussione. Abbiamo pubblicato alcuni anni fa due articoli sulla mostra al Sacrario della Bandiere al Vittoriano, in cui furono presentate le interpretazioni della Bandiera italiana di 90 artisti; e un articolo più in generale sul carattere evocativo delle Bandiere, sono in questo sito, perciò ci è sembrato dovervi ospitarvi anche la discussione tra i “quattro amici al bar” svoltasi su Facebook. Aggiungiamo, a mero scopo illustrativo, immagini evocative della nostra Bandiera tricolore delle diverse Forze armate: marina militare ed esercito, alpini e aeronautica militare, bersaglieri, carabinieri e polizia, anche con il Capo dello Stato; e, in chiusura, il saluto alla bandiera e le “Frecce tricolori” che la disegnano nel cielo con le loro acrobazie. .

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& Friends·

·  Romano Maria Levante

Il caro conterraneo ed ex collega Tonino Bonavita ha “postato” la seguente domanda ad una mia risposta sulla squalifica della schermitrice ucraina: ” Qualcuno speghi alla Meloni cosa rappresentano i colori della nostra bandiera e le dica che non si tratta della bandiera nera con teschio al centro”. Tale domanda – collocata in modo inappropriato per una evidente svista – si riferisce al video in cui la Meloni sembra eludere la domanda del presidente del Congresso americano sul significato dei colori della bandiera italiana. Perchè non resti inosservata, ho ripetuto sopra la domanda, e di seguito ecco la risposta che mi sono sentito di dare.

Caro Tonino, una modesta spiegazione personale posso darla con i miei ricordi delle scuole elementari, che risalgono agli ultimi anni del regime fascista. Mi insegnarono che il verde rappresenta le nostre valli, il bianco le nevi delle nostre montagne, il rosso il colore del sangue dei nostri martiri. Mistica fascista? Forse, e il fatto che la Meloni ha mostrato di non conoscerla la rende forse un po meno … nostalgica, per usare un eufemismo, almeno agli occhi degli americani. Aver risposto che quei colori “rappresentano tante cose” forse è stato un modo elegante per non dire che, come molti sostengono, fu frettolosamente imitata la bandiera francese cambiando il blu nel verde per distinguerla. A meno che non si pensi al verde della speranza, al bianco della fede, al rosso della carità, ma queste sono le virtù teologali, e si trattava della bandiera dell’Italia e non dello Stato Pontificio.

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Commenti

·  Gianni Di Marzio

Ti leggo piuttosto indulgente con Giorgia, caro Romano. Non saranno i colori della bandiera che la rendono meno nostalgica, ma forse la ridotta consapevolezza del significato storico del passato fascista di questo Paese, e degli aspetti morali che ancora emergono nella nostra cultura. Chi scelse il tricolore italiano, mi pare, volle affermare le comuni origini e le comuni aspirazioni dei popoli francese e italiano, una fratellanza cioè, rispetto ai valori affermati davanti all’umanità dalla Grande Rivoluzione.

·  Tonino Bonavita

Dai miei ricordi di storia scolastici

A Reggio Emilia nel 1797 nasce la bandiera tricolore per rappresentare la nazionalità degli italiani di uno Stato sovrano: la Repubblica cisalpina

Al momento della creazione non c’erano altri particolari significati rimasti nel tempo a venire:

– Il verde della speranza ( per un futuro migliore

– il bianco della Fede ( in Dio creatore che unisce tutti i popoli)

– il rosso ( dell’amore per il prossimo)

Sono per queste interpretazioni

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Marina militare

·  Romano Maria Levante

Ho solo citato i miei ricordi d’infanzia del significato dei colori della bandiera che mi veniva insegnato alle elementari, aggiungendo che la Meloni per la sua età mostra di ignorarlo, pur trattandosi di mistica fascista legata ai valori nazionali che potrebbe conoscere. Tutto qui, una constatazione la mia da semplice testimone, nessuna indulgenza ma anche nessun accanimento, caro Gianni… Concordo sull’adesione ai comuni valori civili e rivoluzionari della Rivoluzione francese espressi dai colori della loro bandiera, “liberté, fraternité, egalité”, ma a quale dei tre valori si è rinunciato cambiando un colore? La mia è poco più di una battuta, invece è fondato il problema che pone Tonino evocando l’interpretazione riferita a “speranza, fede e amore”, quest’ultimo per il prossimo che corrisponde alla carità da me citata, le tre virtù teologali, quindi, in una visione religiosa e non certo rivoluzionaria. E allora, non c’è molta chiarezza, se due cari amici riferiscono interpretazioni così diverse. Mi sembra venga così validata indirettamente la risposta della Meloni, “rappresentano tante cose…”. E lo dico da cronista anche questa volta senza indulgenza….cito

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Esercito

Gelasio Giardetti

Debbo dire che sia Romano sia Tonino Bonavita hanno dato ambedue una spiegazione giusta di carattere strettamente personale sul significato dei colori della Bandiera italiana. Infatti la versione di Romano è quella adottata da intellettuali e politici dell’epoca risorgimentale e non solo: Il verde richiama i prati verdi e la macchia mediterranea, il bianco rappresenta le nevi delle Alpi e degli Appennini, il rosso simboleggia il sangue versato dai soldati italiani. l’interpretazione di Tonino Bonavita si riferisce ad una versione cattolica dei colori della bandiera: il verde la speranza per un’Italia libera e unita, il bianco si richiama alla fede in un unico Dio, il rosso i colore della carità e dell’amore per il prossimo. In realtà, con la nascita della Repubblica italiana nel 1946, venne inserito nella nostra Costituzione l’articolo 12 che così recita. “La bandiera della repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso a bande verticali di uguali dimensioni” senza soffermarsi sul significato dei colori che la compongono. Il Presidente Meloni, giustamente, non ha risposto alla domanda del Presidente del Congresso americano poiché non esiste una versione ufficiale repubblicana del significato dei colori della nostra bandiera. Una risposta evasiva, ma intelligente che, al di la dei suoi negativi comportamenti politici in patria, non ha accreditato nessuna delle due versioni sopraelencate sallevandola da un mare di critiche delle opposizioni. Aggiungo che la nostra bandiera è una versione derivante dal vessillo francese in cui la banda blu venne semplicemente cambiata in verde in omaggio al colore verde delle uniformi delle guardie civiche milanesi.

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Alpini

·  Tonino Bonavita

Vorrei precisare di non aver detto [.. il rosso il colore della carità e dell’amore per il prossimo] trattandosi di sentimenti diversi , un verbo e un sostantivo che convergono entrambi su un unico punto : l’amore per il prossimo

Sulla Meloni non condivido perchè la domanda specifica fatta a un capo di governo era ed è obbligatorio dare un minimo di interpretazione della più comune per gli italiani

Risposta vaga da chi non ha la minima idea di cosa dire e in mente ha solo bandiera nera con il teschio.

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Aeronautica militare

·  Romano Maria Levante

Condivido ogni parola della spiegazione data da Gelasio, ì’amico Gero, più completa e seria della mia inframezzata da battute, e chi lo conosce sa che non è di certo ….. indulgente con la Meloni, ma semplicemente non è fazioso.

· Tonino Bonavita

Gelasio con la sua saggezza ha interpretato la mia e di Romano lettura della bandiera di carattere personale . Mi sono permesso alcune mie precisazioni storiche non solo scolastiche

Resto con quanto precisato con la interpretazione non solo cattolica sulla nascita della bandiera a Reggio Emilia nel 1797

Condivido che con la nascita della Repubblica italiana del 1946 dove nessuno cercò di modificare la interpretazione iniziale.

Dare dell’intelligente alla Meloni non sono d’accordo ma furba e ben pilotata da esperti della comunicazione che la pilotano nei comportamenti e nelle dichiarazioni ( salvo qualche reazione – labiale) SI

L’intelligente ha cultura ed esperienze: ascolta, medita e poi agisce con autocontrollo

Sono interpretazioni personali naturalmente di chi, come me, non è mai stato fazioso ma che si documenta e interpreta con pareri personali

Un caro saluto al conterraneo Gelasio.

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Bersaglieri

Gelasio Giardetti

La discussione si sta facendo molto interessante poiché arriva a coinvolgere anche la lingua italiana. Concordo con Bonavita che l’aggettivo “intelligente”, che ho usato per qualificare l’attuale Presidente del consiglio, è un tantino troppo sbilanciato verso una “saggezza” che la Meloni non possiede dal momento che fa tutto il contrario di provvedimenti che dovrebbero tendere verso una maggiore uguaglianza sociale e la dignità nel poter vivere di tutti. Infatti toglie il necessario per vivere ai poveri (reddito di cittadinanza) per dare ai ricchi (Impunità verso gli evasori fiscali) etc. etc. etc.. Convengo quindi che è più appropriato l’aggettivo “furba” in quanto alla domanda del presidente del Congresso americano è stata molto evasiva e furba nel trarsi d’impaccio con scaltrezza da un’insidia che avrebbe avuto notevoli ripercussioni in patria da parte delle opposizioni. Sicuramente Romano, che è un maestro nell’interpretazione della lingua italiana, ci fornirà una sua versione sulle capacità gestionali, più o meno furbe o intelligenti, dell’attuale Presidente del consiglio.

·  Tonino Bonavita

Gelasio sono molto contento di essere riuscito a farti comprendere la mia lettura tra intelligenza e furbizia nella Meloni che, ripeto, e mentalmente guidata da esperti della comunicazione ( lo sono anch’io scuola avuta dai migliori prof. universitari fine anni ‘80 per lavoro in ENI come Romano)

La Meloni viene dalla scuola politica nella sezione fascista della garbatella e da 30 anni di politica con ministro governo Berlusconi, ha sempre fatto parlare di se dai media ( fai parlare male di te ma fai parlare , sei donna e ci sarà sempre qualche credulone che ti difendera-“pubblicità gratuita”-

Questa nel linguaggio della comunicazione si chiama “furbizia” non intelligenza

Con Romano ne abbiamo gia parlato più volte

Gelasio grazie e anche al nostro amico Romano che ci ha dato la possibilità di questo contatto.

Carabinieri

·  Romano Maria Levante

Non sarei intervenuto di nuovo dopo l’adesione alle parole di Gero se l’amico non mi avesse tirato di nuovo in ballo attribuendomi capacità interpretative che non ho, ma cercherò di rispondere. La definizione di “intelligente” non nobilita di per sé, a stare al gustosissimo “la gallina è un animale intelligente” di Cochi e Renato, e giustamente Gero con quell’aggettivo non aveva definito la persona quanto la risposta, “evasiva ma intelligente”, quindi già attenuando il giudizio , che poi derubrica in “furba” seguendo quanto dice Tonino che la vede “pilotata da esperti della comunicazione che la pilotano nei comportamenti e nelle dichiarazioni”. Io rispetto alla risposta agli americani la definirei “brava” se è stata consapevole, fortunata se inconsapevole, perché era una domanda insidiosa. La bandiera americana è nata fortemente simbolica nei colori, il rosso la durezza e il valore, il bianco l’innocenza e la purezza, il blu la giustizia e la perseveranza, con l’aggiunta delle stelle che corrispondono agli Stati, attualmente 50, e delle 13 strisce, il numero degli Stati iniziali. Mentre la nostra bandiera è nata molto più modestamente… con i colori della coccarda comunale milanese o cisalpina bianco e rosso, e l’aggiunta del colore della divisa delle guardie civiche, nulla di simbolico; ma anche la bandiera francese aveva il rosso e il blu della coccarda parigina e il bianco addirittura della Casa reale dei Borboni ancora non detronizzati, altro che colori a simboleggiare “liberté, egalité, fraternità” come da me evocato per fare una battuta… Comunque la bandiera francese divenne simbolo rivoluzionario e per questo la prendemmo a modello adattandola come molti altri Stati europei. Poteva dire che i colori del tricolore sono della coccarda e della divisa milanese…. ? Mi sarebbe piaciuto avesse citato la definizione “nazionalista” insegnatami alle elementari, ma chissà cosa avrebbero risposto gli americani se ben documentati! Il “brava” alla Meloni lo manterrei per come “non l’abbiamo vista arrivare” – per citare l’espressione autobiografica di Elly Schlein, che però è venuta dai quartieri alti e non dalla borgata e si è fermata prima, almeno per ora – da novella Cenerentola, ma senza principi azzurri e magie, passando dalla Garbatella a Palazzo Chigi, accolta non nei salotti ma nelle cancellerie fino alla Casa Bianca. E mi sembra che sappia esprimersi con convinzione, semplicità e buon senso, se + pilotata da esperti la definizione di brava calza almeno come attrice. Questo sul piano umano, il giudizio politico invece è diverso, a partire dal mio europeismo convinto contro anacronistici sovranismi per fortuna attenuati; da liberale sono stato sempre dalla parte opposta della “destra sociale”, per ciò stesso incline all’assistenzialismo, e la “carta sociale” ne è un pessimo esempio con la dispersione di ingenti risorse in un intervento a pioggia del tutto inefficace al posto di interventi mirati. Per questo mi ha stupito positivamente la decisione con cui è stato smontato il “reddito di cittadinanza” che per il nome stesso attribuisce una pretesa assistenziale generalizzata cui sono contrario, ripeto, da liberale convinto. Non vuol dire “togliere ai poveri”, come dice Gero, a meno di istituire questa categoria dai 18 anni in poi, cui ci si iscrive per un vitalizio perenne, quando l’età pensionabile è stata portata da 60 a 67 anni perché non sarebbe sostenibile pur con i contributi pagati da una vita. Quelli che manifestano, anche giovani, hanno questa convinzione, che ha tolto loro ogni voglia di lavorare – tanto che sfuggono le occasioni di lavoro pur presenti – ed è questo il danno più grave che l’assistenzialismo diffuso può produrre. La dignità di cui parla giustamente Gero la dà il lavoro e non l’assistenza a chi può lavorare e deve essere aiutato a inserirsi nel mondo del lavoro con un indirizzo efficace e un sostegno solo temporaneo, senza rifiutare lavori non graditi, Rockfeller iniziò da garzone. Mi fermo qui, ho scritto anche troppo e me ne scuso.

Polizia di Stato

· Tonino Bonavita

La risposta “ evasiva ma intelligente “ è stata data dalla persona (Meloni) a un capo di stato e non dalla gallina di Cochi e Renato

Vaga da chi non ha la minima idea di cosa dire….. è stata da Gero condivida perché esprime furbizia e non intelligenza

La vedo pilotata da esperto della comunicazione, tecnica acquisita da prof.universitari per motivi di lavoro come ben evidenziato con esempi.

Non vedo l’insidia né vantaggi da parte del senatore Schumer ma semplice curiosità con la domanda sul significato dei colori della nostra bandiera alla quale come presidente di un governo ha dato coscientemente una risposta NON risposta per scarsa cultura storica nella nostra Italia, parere condiviso da milioni di italiani

Quindi non BRAVA ma furba come ho già espresso e distinto tra furbizia e intelligenza

Ricordo che la Meloni nata in una borgata centrale romana e non in una baraccopoli dove si e formata culturalmente e politicamente in una sezione politica fascista e che Fini la portò al governo Berlusconi come ministro, che da oltre 30 anni fa politica stipendiata con le nostre tasse mentre la Schlein, anche se viene dai quartieri alti ( non siamo noi a decidere di nascere, da chi nascere, quando e dove), ha scelto di fare politica e le idee, non è mai stato al governo, non ha scuola politica ormai sparite e soprattutto non si è occupa e fa politica dall’etá giovanile come invece Giorgina

La loro storia è pubblica con qualche ritocchino

Anche farsi ricevere dai capi di molte nazioni fa parte della pubblicità gratuita. Secondo me cerca di copiare Berlusconi con qualche distinguo: è donna anche se cerca di apparire ad ogni costo!

Il problema non è giorgina ma i creduloni che la votano per consentirle di governare con condannati e con un pugno di preferenze, uniti dimostrano solo che sono assetati di potere con leggi ad persona coma già successe con i governi di destra.

Con il capo dello Stato

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, sulla risposta della Meloni ho riportato l’espressione di Gero “evasiva ma intelligente” e poiché l’amico mi aveva chiesto di interpretare se lei opera in politica come “intelligente” o “furba” , ho citato la battuta di Cochi e Renato, non mi sono permesso di giudicare com’è ma come mi appare, “brava”, tra l’altro non ha risposto a un capo di Stato ma al presidente del Congresso. L”insidia della domanda sui colori della bandiera sta “in re ipsa”, nel diverso contenuto di valori su cui è sorta la bandiera americana rispetto alla nostra e a quella francese, e dire che erano i colori della coccarda milanese sarebbe stato imbarazzante, come anche citare le virtù teologali che le sono state attribuite in chiave cattolica. Mentre il nostro inno nazionale, come quello francese, è quanto mai combattivo e si addice al significato dei colori insegnatomi alle elementari ma non originario. “Tanti significati”, quindi, a very correct answer, I think! La Shlein l’ho citata per equiparazione femminile aggiungendo solo la provenienza, non la milizia politica, per lei da principiante rispetto alla lunga traversata della Meloni, alla quale va riconosciuto che qualche merito sembra lo abbia acquisito in questo percorso, anche se si hanno idee opposte alle sue. E credo che possiamo fermarci qui, ognuno resta ovviamente della propria rispettabile opinione.

·  Tonino Bonavita

Non ho scritto capo di stato ma senatore Schumer dove non interpreto circostanze necessarie per porre una domanda sulla bandiera italiana, francese o americana ad un capo di stato beccata ignorante e non BRAVA

Non intravedo bravure ma colpo di culo a causa di una legge elettorale da schifo e di accordo con la destra con ladroni condannati e nostalgini fascisti anticostituzionali e complici[ chi prende più voto governa: un pugno di voti di creduloni]

Comunque

Obbedisco !

Marina militare

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, nel primo rigo del tuo “post” cui mi sono riferito si legge “la risposta evasiva ma intelligente è stata data dalla persona (Meloni) a un capo di stato e non dalla gallina di Cochi e Renato”, di qui la mia precisazione solo incidentale, “tra l’altro non ha risposto a un capo di Stato ma al presidente del Congresso”, il senatore Schumer lo nomini al 7° rigo senza qualificarlo. Se sia stata “ignorante e non BRAVA” , come tu dici, è una tua rispettabile opinione come il resto. Compreso il tuo giudizio sulla “legge elettorale da schifo” per una quota maggioritaria al 25%, quando il “Mattarellum” con il maggioritario al 75% avrebbe consentito di cambiare la Costituzione con i due terzi senza referendum confermativo, allora come lo definiresti? Bello il tuo finale garibaldino dopo lo sfogo poco elegante precedente…

·  Tonino Bonavita

Renato caro, la frase “ evasiva ma intelligente” riportata da me nel post l’ha dichiarato l’amico Gerasio e precisamente: Una risposta evasiva, ma intelligente che……! e non mia che assolutamente rifiuto di definite Giorgina intelligente né ho definito il senatore Schumer capo di stato e non ho ritenuto di qualificarlo ma soffermarmi alla domanda.

Non credo di commettere un reato esprimendo e condiviso da milioni di cittadini che il Presidente di un governo del suo paese NON È BRAVA: me ne assumo tutte le responsabilità senza remore se questo ti tranquillizza .

Il mattarellum definito dal politologo Giovanno Sartori primo bisogna contestualizzarlo nel tempo 1993 e dopo chi ci dice che con il mattarelum gli italiani che non sono andati a votare avrebbero cambiato idea con risultati completamente diversi a livello locale?

Non ho la sfera di cristallo e non ho mai creduto ai sondaggi fatti nei cimiteri ma la storia la conosciamo

Chiedo scusa se non sono stato raffinato esprimendo delle considerazioni sui soggetti che governano il nostro paese sentimento condiviso da milioni di italiani

Il Pronipote di Garibaldi Giuseppe nostro collega e mio amico da suo nonno aveva saputo che la parola “ obbedisco” era sconosciuta al padre e che gli storici l’avevano attribuità forse per motivi politici

Comunque con te la uso volentieri

Obbedisco con serena notte.

Esercito

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, il cenno al tuo lapsus della prima riga sul capo di Stato l’ho fatto soltanto per inciso, non vale la pena insistervi, capita… .come non devi giustificarti per i tuoi giudizi non solo rispettabili ma espressione della tua autentica passione civile. Le leggi elettorali devono essere neutrali rispetto al quadro politico tanto che non dovrebbero venire mutate entro i due anni dalle elezioni per non adattarle alle temporanee convenienze della maggioranza. Il Mattarellum rispondeva all’esigenza di garantire la governabilità della forza politica prevalente, esigenza che non sembra sia venuta meno, l’attuale legge elettorale ne ha di molto attenuato l’effetto maggioritario; invece di un quarto i collegi uninominali sarebbero stati i 3 quarti, non credo che questo avrebbe mutato l’orientamento degli elettori, ma sei libero di pensarla diversamente. Il tuo “obbedisco” ovviamente si riferisce alla tua coscienza, che è tranquilla come la notte serena da te evocata.

·  Tonino Bonavita

Renato caro leggendo in fretta il mio post ti è sfuggito che ho scritto: …. NÉ HO DEFINITO il SENATORE Schume CAPO di STATO…. quindi nessuna matita (lapsus) né mi sono giustificato delle mie considerazioni ( i giudizi lasciamoli ai giudici unici preposti ad assolvere o condannare) ma ho confermato la mia piena responsabilità come cittadino in democrazia ancora libero nell’esprimere le proprie considerazioni

Le leggi elettorali vengono fatte dai governanti in carica ( mattarellum, porcellum, rosatellum) e sono serviti ad allontanare gli elettori dalle urne dando la possibilità con un pugno di voti a gestire quanto ottenuto dai precedenti ( PNRR)

Buon pranzo.

Alpini

·  Gelasio Giardetti

Nei campionati del mondo di scherma, svoltisi a Milano dal 22 al 30 luglio del 2023 ho seguito, con molta attenzione, le performances di Tommaso Marini che ha poi conquistato la medaglia d’oro diventando campione del mondo di fioretto. Ebbene, in questo post sto assistendo ad un interessante incontro di fioretto tra Tonino Bonavita e Romano Maria Levante combattuto a base di stoccate sulla lingua italiana, di precisazioni capillari e di politica, Stoccate portate comunque sempre in termini rigorosi di lealtà e rispetto reciproco. A mio parere il risultato conseguito è stato di una parità sostanziale non solo rispetto alle considerazioni sulla bandiera italiana ma anche sui giudizi espressi sulla Presidente Meloni che rientrano nei canoni sia della legittimità che della libertà di pensiero. Sul piano politico l’incontro tra i due protagonisti rivela una maggiore radicalità in senso negativo di Tonino Bonavita, che mi onoro di aver conosciuto in questa discussione, nei confronti della Presidente Meloni e del suo governo. Romano!!! Che dire di Romano? la sua posizione sembra indulgere sulle politiche meloniane ritenendo positivo l’eliminazione parziale del Reddito di cittadinanza, poiché a suo avviso la dignità nella vita si ottiene non con l’assistenzialismo, ma con il lavoro… già ma si trova questo benedetto lavoro? E quello che si trova è un lavoro dignitoso o è sottopagato a livello di quasi schiavitù e quindi giustamente rifiutato? L’indulgenza di Romano si sofferma anche sull’attenuazione, da donna giunta al potere, del sovranismo radicale adottato dalla Meloni prima che vincesse le elezioni politiche. Nessuno dei due protagonisti entra però nel merito del sistema politico adottato dall’attuale governo che a mio avviso è il governo più di destra che abbiamo avuto dall’inizio dell’era repubblicana che si va a porre sul gradino più alto di un pieno e incondizionato appoggio al sistema capitalistico mondiale che tanti dolori sta creando a genere umano, non ultimo la guerra in Ucraina o il colpo di stato in Niger dove vige ancora un colonialismo latente non più accettabile. P.S. Non posso omettere però di aver notato, pero, segni di nervosismo da parte di Tonino Bonavita, manifestatosi durante la discussione, nel momento in cui appella Romano come “Renato”..

Aeronautica militre

·  Romano Maria Levante

Dopo gli ultimi due post di Tonino potrei cavarmela come Totò quando schiaffeggiato da un tizio che lo chiamava Pasquale, rideva e agli amici che gli chiedevano il motivo delle risate rispondeva “Ma io non sono Pasquale! ”. Così io non sono Renato – non è sfuggito a Gelasio – e potrei evitare di replicare a Tonino, ma non mi ha certo schiaffeggiato, tutt’altro, i lapsus sono evidenti quanto innocui e capitano a tutti. Come a Tonino è capitato anche l’altro lapsus e non capisco l’insistenza nel negare nei suoi ultimi tre post di aver definito il senatore Schumer capo di stato, cosa che non mi sono mai sognato di attribuirgli, ho soltanto incidentalmente (“tra l’altro”) precisato che non era esatta la sua affermazione al primo rigo di quello divenuto il suo quart’ultimo post “la risposta ‘ evasiva ma intelligente’ è stata data dalla persona (Meloni) a un capo di stato e non dalla gallina di Cochi e Renato”, tutto qui, un accenno scherzoso nella mia battuta da lui ripresa. Come, sempre per la precisione, ho preso per una giustificazione non dovuta le sue parole “non credo di commettere un reato esprimendo e condiviso da milioni di cittadini che il Presidente di un governo del suo paese NON È BRAVA: me ne assumo tutte le responsabilità senza remore se questo ti tranquillizza”. Dinanzi a questa mia risposta ” i tuoi giudizi non solo sono rispettabili ma espressione della tua autentica passione civile” mi ha sorpreso la sua reazione “non mi sono giustificato delle mie considerazioni ( i giudizi lasciamoli ai giudici unici preposti ad assolvere o condannare) ma ho confermato la mia piena responsabilità come cittadino in democrazia ancora libero nell’esprimere le proprie considerazioni”. E ci mancherebbe non fosse così! Ho dato atto a Tonino che i suoi giudizi non solo sono rispettabili ma espressione della autentica passione civile, ma se può sembrare che in questo modo mi sono eretto indebitamente a giudice ritiro l’affermazione che voleva essere un riconoscimento positivo. Tutto questo solo per togliere ogni ombra alle mie parole, che non credevo dovessero moltiplicarsi in tanti post, come è avvenuto, e me ne scuso, avevo soltanto risposto alla domanda iniziale di Tonino ” Qualcuno speghi alla Meloni cosa rappresentano i colori della nostra bandiera e le dica che non si tratta della bandiera nera con teschio al centro”. Ho cercato di farlo con dei ricordi d’infanzia e con altre notizie, peraltro senza parlare della bandiera nera con teschio al centro che mi ricorda solo Sandokan e il Corsaro nero. Tutto qui. Nessun duello con Tonino, e così rispondo pure all’amico Gelasio, anzi Gero, dico solo che un corso di fioretto l’ho frequentato per un anno in Confindustria nei primi anni della mia attività professionale, dove il Segretario generale amante della scherma aveva fatto predisporre una palestra con tanto di maestro e, per giustificarla, l’aveva aperta ai dipendenti. Ma nessun duello neppure con Gero sul Reddito di cittadinanza, anche se confermo di ritenere il lavoro sempre più dignitoso dell’assistenza per chi è giovane e forte dai 18 anni in su e non può pretendere un vitalizio di 800 euro al mese, come un padre di famiglia con moglie e uno-due figli a carico non può pretendere un vitalizio di 1200 euro al mese come illudeva il Reddito di cittadinanza – nel quale il sussidio provvisorio e temporaneo è divenuto nella percezione dei beneficiari definitivo e permanente come si vede dalle proteste – per il semplice motivo che non ci sono le possibilità economiche per una simile assistenza in un paese dal debito pubblico alle stelle. Ma ho semplificato molto, non si può entrare nei meandri di un sistema complicato che tutti ritengono doveroso riformare per togliere tale illusione diseducativa e aiutare concretamente con la formazione e con l’incontro domanda-offerta di lavoro il corretto inserimento o reinserimento nella vita attiva. Ma temo che la “destra sociale” possa cedere alla propria vocazione assistenzialista anche se per ora sembra resistere. La mia è una visione liberale, rispettabile come le visioni diverse e opposte, questa è la democrazia, bellezza. The End! Almeno lo spero.

Bersaglieri

·  Tonino Bonavita

Chiamare Renato l’amico Romano è un solo errore di sbaglio causato dalla necessità di evidenziare l’errore di lettura del mio posto in lettere maiuscole

Con Romano da tempo ci scambiamo anche su WhatsApp pareri e considerazioni non solo sulla politica e sui politici sempre con molto rispetto delle proprie idee e tu Gelasio sei riuscito a centrare anche i nostri caratteri: bravo e grazie!

Caratteri che si sono formati con esperienze, conoscenze e frequentazioni sia nel mondo politici che sociale tra noi molto diverse

Ho portato per alcuni anni una mia nipote alla scuola di scherma nella palestra dei Parioli frequentata dalla Vezzani e ne conosco trucchi e regole

Io e Romano ( e non Renato) usiamo gli “ stuzzicadenti” al posto del fioretto

·  Romano Maria Levante

Ben detto, caro Peppino…. pardon Tonino – anche a me scappava il lapsus – con gli stuzzicadenti al posto del fioretto hai perfettamente ridimensionato le apparenti spigolosità dei nostri scambi, sinceri e più che rispettosi, da abruzzesi forti e gentili, come ha ricordato Gero in un suo recente post…

Tonino Bonavita

Virgilio Rienzo con la sua simpatica mimica: gli abruzzesi sono forti e GINTILIiii

Carabinieri

 · Gelasio Giardetti

Grazie ad ambedue i protagonisti, Romano e Tonino, di questa bella e garbata discussione. Il mio ruolo è stato quello di stuzzicare il dibattito non con appuntiti stuzzicadenti, ma con visioni alternative sulla politica, sulla storia, sul sociale. Un abbraccio.

·  Tonino Bonavita

Grandeeeeee colto, prezioso e simpaticissimo

Un abbraccio grande anche al Romano di nome e non di nascita ma di adozione come il sottoscritto

·  Romano Maria Levante

E Gero sarà d’accordo se Tonino, montoriese, lo considerassimo pretarolo d’adozione, d’altra parte Montorio è “la vetrina del Parco” e Pietracamela è nella parte più pregiata della zona integrale…

Polizia di Stato

· Tonino Bonavita

Un’altra pretarola nostra amica romanizzata Dott.ssa Gilda Giancola

·  Gelasio Giardetti

Caro Tonino, conosco molto bene Gilda essendo la cugina di mia moglie, ma anche colei che ha fatto nascere il mio primo figlio Marco all’ospedale Fatebenefratelli di Roma quarant’anni or sono.

·  Tonino Bonavita

Gilda la migliore anestesista di Roma e moglie di un mio fraterno amico chirurgo superbravissimo e richiestissimo che daFatebenefratelli fu portato all 0spedale San Carlo di Nency – bellissimi e bravi entrambi. Si separarono e Franco non c’è più da qualche anno

·  Romano Maria Levante

La  ricordo per la sua bellezza, il nome e non solo mi faceva pensare alla Rita Hayworth del film “Gilda”…

·  Tonino Bonavita

Anche suo marito Franco era bellissimo e molto, molto gettonato,

Con il Capo dello Stato, e il Ministro della Difesa

Info

Testi tratti da Facebook, pagina “Romano Maria Levante”, nei post pubblicati dal 30 luglio al 4 agosto 2023 su questo tema in risposta al primo post del 30 luglio: integrali anche nelle spaziature dei capoversi. Sono state aggiunte invece le immagini. Gli articoli citati sulla Bandiera italiana e in generale sulle interpretazioni delle Bandiere, in questo sito, sono i seguenti, di Romano Maria Levante: “Bandiera, 1. 90 artiisti italiani interpretano la nostra bandiera” 14 gennaio 2014, “Bandiera, 2. Le opere di 90 artisti, nel Sacrario delle Bandiere, al Vittoriano” 15 gennaio 2014; “Identità e bandiere, alla galleria Mucciaccia”, 1°aprile 2018, tutti e 3 sono stati ripubblicati il 4 luglio 2020 in occasione dell'”Independence day” americano con dedica al prof. Steven Ostrow del MIT di Boston innamorato dell’arte e della cultura italiane.

Il saluto alla Bandiera

Photo

Dopo le due immagini iniziali – la Bandiera tricolore che garrisce al vento seguita da quella storica con lo stemma sabaudo – due blocchi di immagini, ciascuno con la Bandiera delle singole Forze armate in successione: Marina militare, Esercito, Alpini, Aeronautica militare, Bersaglieri, Carabinieri, Polizia di Stato, alla fine di ogni blocco la Bandiera con il Capo dello Stato Sergio Mattarella, l’ultima anche con il ministro della Difesa Guido Crosetto; in conclusione, il saluto alla Bandiera e le Frecce tricolori che disegnano la Bandiera in cielo con le loro spettacolari acrobazie. Le immagini sono state tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per averci fornito l’occazione di illustrare la conversazione dei “quattro amici al bar” apparsa su Facebook senza immagini, in modo da ravvivarla con il Tricolore in varie manifestazioni delle diverse Forze armate. Nessun intento economico nè commerciale o pubblicitario, ma solo illustrativo, e qualora qualche titolare dei siti citati non gradisca la pubblicazione dell’immagine che ne è stata tratta, si provvederà subito a rimuoverla su semplice richiesta. I siti sono, nell’ordine di inserimento delle immagini nel testo: apertura: bandiere.it, facebook3; 1° blocco: lavocedelpaterazzo.jpg, esercitoitaliano.jpg, emiliaromagna.news24.jpg, format.rieti.jpg, difesa.online.jpg, siti-libero.jpg, twitter2.jpg, difesa.servizijpg; 2° blocco: nautica.report.jpg, stretto.web.jpg, gruppoalpinsangiorgiodi nogaro.jpg, centenario.jpg, spaziotorino.tubo4.jpg, facebook.4.jpg, larepubblica.it, tag24.jpg, depositphoto.jpg, aviation.report.jpg. . Grazie a tutti di nuovo.

Le Frecce tricolori

25 luglio 1943, ne parlano “quattro amici al bar” su FB

di Romano Maria Levante

E’ l’8 settembre, 80 anni fa l’armistizio con la fine della “guerra fascista”, ma non degli inenarrabili tormenti, con l’inizio di una nuiova fase confusa e segnata da eccidi, con l’occupazione tedesca, la continuazione della guerra al Sud dei tedeschi contro gli eserciti sbarcati divenuti nostri “alleati”, al Nord dei “repubblichini” con i tedeschi contro i partigiani. Un anniversario da ricordare e non celebrare come invece si dovrebbe celebrare il 25 luglio che ha segnato la fine del regime fascista. Invece l”80° anniversario del 25 luglio 1943 è passato assolutamente inosservato, non solo dalle istituzioni e dalle organizzazioni politiche di ogni oriuentamento, ma anche dai media, televisione in particolare, con l’ececzione giornalistica in particolare di “Repubblica” – e non so se anche altri – che ha pubblicato un ampio servizio. Ma niente celebrazioni, comunque, eppure c’è stata la svolta epocale della fine del regisme fascista con l’arresto e la “deportazione” di Mussolini, la devastazione delle sedi fasciste con l’abbattimento di statue e busti di Mussolini dalla folla esultante. E’ vero che le speranze della fine di tante sofferenze furono frustrate, come già accennato, dopo l’amistizio dell’8 settembre ci fu l’occupazione nazista del Paese, l’insediamento a Salò della Repubblica Sociale Italiana con a capo Mussolini – fatto liberare da Hitler a Campo Imperatore sul Gran Sasso dove era recluso – un regime fantoccio sotto stretto controllo dei nazisti; il trasferimento a Brindisi del nuovo governo italiano con la “fuga di Pescara” del Re e dei governanti si aggiunge a un quadro così tormentato. Di questo parlano i “quattro amici al bar” in Facebook – tra cui noi stessi che abbiamo lanciato una “provocazione” il 26 luglio subito raccolta – in una animata discussione con 21 post dal 26 luglio al 12 agosto . Riteniamo utile pubblicare l’intero scambio di opinioni dinanzi al vuoto informatico e al silenzio assordante, inserendo illustrazioni per far rivivere le fasi convulse da cui sono derivati gli sviluppi successivi.

Il Gran Consiglio del Fascismo

& Friends

·  Romano Maria Levante

Ieri, 25 luglio 2023, è stato l’80° anniversario della caduta e fine del regime fascista avvenuta il 25 luglio 1943 con l’arresto di Mussolini, che il Re destituì da capo del governo nominando al suo posto Pietro Badoglio. Mussolini gli aveva portato a Villa Savoia i risultati della votazione nella notte precedente dell’O.d. G. Grandi al Gran Consiglio del Fascismo che lo aveva sfiduciato per l’andamento disastroso della guerra, c’era stato poco prima lo sbarco degli alleati in Sicilia . Nei Tg di ieri, come nei talk show, nemmeno una citazione della ricorrenza, come nessuna celebrazione, manifestazione pubblica o altro, nulla di nulla. Eppure si trattava di celebrare gli 80 anni dalla “liberazione” dal fascismo, come il 25 aprile si celebra la ricorrenza della “liberazione” dall’occupazione tedesca e dalla guerra – avvenuta poco meno di due anni dopo, nel 1945, mentre il regime era finito nel 1943 – e lo si fa nel modo solenne che sappiamo, con la giornata di festività nazionale. Il 25 luglio 1943 esplose l’esultanza popolare per la fine del regime, le piazze festanti, le sedi fasciste devastate con i documenti gettati al vento, le statue e i busti del Duce divelti, mentre Mussolini imprigionato veniva portato prigioniero lontano da Roma. Non meritava di essere ricordato questo dopo 80 anni? Che venga ignorato dai nostalgici del fascismo lo si può capire… dei monarchici si è persa ogni traccia, ma le Istituzioni? E soprattutto, perchè il silenzio assordante degli antifascisti sempre pronti e agguerriti, mentre 80 anni fa esplosero in modo così vistoso? Ho posto delle domande, non mi posso dare anche delle risposte, non siamo a “Mezzanotte e dintorni” con Marzullo…..

L’arresto di Mussolini all’uscita dall’udienza con il Re in un disegno

 ·  Gelasio Giardetti

Caro Romano, hai proprio ragione, l’anniversario della defenestrazione di Benito Mussolini, che tanti dolori e lutti aveva causato all’Italia, meritava di essere ricordato e celebrato dalle nostre Istituzioni come una data fondamentale che aveva messo fine al potere assoluto di un dittatore che si era illuso di governare il mondo insieme al suo degno compare Adolf Hitler.

·  Tonino Bonavita

Romano amico carissimo, purtroppo come certamente sai la cultura storica degli italiani soprattutto di centro sinistra che dovrebbe manifestare ed esultare per questa indimenticabile ricorrenza in tutte le piazze ‘Italia ha gravemente taciuto facendo un favore grande al governo fascista che certamente ne ha goduto.

Una riconoscenza al giornale Repubblica che ha pubblicato in 3 pagine minuziosamente la cattura, l’arresto di Mussolini su ordine del Re in persona e la fine della dittatura fascista

Anch’io sono rimasto dispiaciuto.

Grazie.

·  Anna Renzi

Pienamente d’accordo: la memoria storica è volutamente corta e le nuove dittature avanzano facilmente senza grosse opposizioni…

L’inizio dei festeggiamenti per la fine del regime fascista, la prima di 7 immagini

·  Romano Maria Levante

Una settimana fa, nell’80° anniversario del 25 luglio 1943, ho condiviso il ricordo della caduta di Mussolini fatto arrestare dal Re dopo la sfiducia del Gran Consiglio del fascismo con la nomina di Badoglio a capo del Governo che segnò la fine del regime. E mi sono posto la domanda, che giro ancora a chi è interessato al tema, sul perché del silenzio assordante non solo delle istituzioni, ma anche e soprattutto dagli antifascisti, compresi quelli di professione, per così dire, come l’Anpi il cui presidente della sezione di Viterbo il 25 aprile scorso si è perfino rifiutato di stringere la mano a Sgarbi sottosegretario alla Cultura nelle celebrazioni della Liberazione. La risposta sulla scarsa memoria storica degli italiani di alcuni commenti non mi sembra dia una spiegazione convincente perché le ricorrenze vengono onorate eccome, e non serve citarne degli esempi noti a tutti. E allora ripropongo la mia domanda sul perché soprattutto l’antifascismo militante ignora tale data fatidica, disposto a dare una mia risposta dopo aver conosciuto quelle degli amici.

·  Agostino Nori

Io credo che alle nuove generazioni anni 80 in poi l’antifascismo non interessa minimamente…in quelle dei miei genitori (anni 60) l’antifascismo non solo non è mal visto ma anche denigrato in quanto molti sognano un ritorno a quel tipo di stabilità..…

La folla plaudente, c’è anche l’immagine del Re

·  Romano Maria Levante

Mi riferisco al mio post iniziale del 25 luglio. Ha ragione Agostino, l’antifascismo sembra non interessare e ne dà conferma il fatto che soltanto lui nell’intera settimana trascorsa dal mio post successivo ha risposto alla domanda del perché è passato inosservato l’80° anniversario della caduta di Mussolini con la fine del regine fascista nel nostro paese, dopo generici accenni alla memoria storica corta degli italiani. Ma c’è un antifascismo di professione, per così dire, lo stesso che utilizza l’accusa di fascismo come arma politica. Ed è a questo antifascismo che si rivolgeva la mia domanda: perché non viene celebrato e neppure ricordato il momento così dirompente della defenestrazione e arresto di Mussolini da parte del Re e il nuovo governo Badoglio, mentre il fascismo si dissolveva? Ho detto che avrei fornito la mia risposta e mantengo la promessa. Io penso che l’evento del 25 luglio 1943 viene ignorato perché viene spostato in avanti di quasi due anni, al 25 aprile 1945. In questa ricorrenza viene proclamato con clamore ogni anno, nella festa nazionale e non soltanto nelle cadenze decennali, con la liberazione, l’abbattimento del regime a quella data. E questo perché a quella data c’erano anche gli antifascisti e i partigiani che hanno meritoriamente combattuto contro gli occupanti tedeschi e contro il ridotto fascista della Repubblica sociale italiana arroccata nel Nord a Salò del tutto avulsa dal resto del territorio nazionale dove il fascismo di fatto non esisteva più. Soltanto così gli “antifascisti” possono dire di avere “abbattuto” il fascismo, perché il 25 luglio 1943 i partiti antifascisti erano fuori gioco e ancora non era nata la Resistenza con i Partigiani insorti dopo la dissoluzione del regime avvenuta per il voto del Gran Consiglio del fascismo e soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre. Invece, celebrando il 25 luglio 1943 verrebbe riconosciuto che il regime è imploso al suo interno con l’approvazione dell’O.d.G. Grandi che sfiduciava Mussolini e dava al Re la possibilità di destituirlo, come avvenne nella stessa giornata nella quale fu anche arrestato. Con questo non vengono ridotti i meriti della Resistenza e dei Partigiani, ma doverosamente precisati: la loro battaglia contro gli occupanti tedeschi è stata un aiuto prezioso agli alleati, ai quali però va il merito prevalente di aver liberato l’Italia, con i 90 mila giovani americani morti nella campagna d’Italia seppelliti in quasi 50 cimiteri di guerra sparsi nella penisola, e questo non viene ricordato come si dovrebbe il 25 aprile a causa della celebrazione dell’abbattimento del fascismo tanto inappropriata da diventare di comodo. La festa nazionale del 25 aprile fu istituita all’art. 1 del decreto del 22 aprile 1946 n.185 con questa motivazione:”A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1945 è dichiarato festa nazionale”; e anche lo sciopero generale dichiarato quel giorno dai sindacati fu “contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”. Nessun riferimento al fascismo nel decreto, solo per la guerra nello sciopero. Le manifestazioni di giubilo del 25 aprile 1945 furono infatti essenzialmente per la fine della guerra e in omaggio agli alleati, mentre le esplosioni di gioia per la fine del regime, con la distruzione delle statue e dei busti di Mussolini e la devastazione delle sedi fasciste, ci furono il 25 luglio 1943. Ma c’è un significato che mi sembra ancora più importante nella vicenda di allora, e verrebbe rimarcato se si celebrasse anche il 25 luglio: le nostre istituzioni hanno reagito, sono stati decisivi perfino un organo di regime come il Gran Consiglio del fascismo e la vituperata monarchia, sotto la spinta dall’andamento della guerra è vero, ma operanti nell’ambito delle rispettive funzioni. La capacità delle nostre istituzioni di rigenerarsi è stata importante, come il trasferimento a Brindisi per assicurare la continuità dello Stato. Per il modo in cui avvenne fu definita “la fuga di Pescara” ma questo dipese da inefficienze e incapacità dei vertici, non dall’operazione in sé e per sé che altrimenti sarebbe stata provvidenziale, mentre fu seguita dal caos di “tutti a casa”. Lungi da me entrare nei controversi meandri di questa storia , ho voluto soltanto esprimere la mia modesta percezione – non certo una analisi storica ma una semplice riflessione – per rispondere a una domanda che mi è sembrato lecito pormi in tale ricorrenza e condividerla con gli amici. Tutto qui.

La demolizione dei simboli dl Fascismo

  Tonino Bonavita

Condivido la ricostruzione e le motivazioni

Ricordo che per l’occasione il Giornale Repubblica ha pubblicato in due pagine e per diversi giorni la esatta e dettagliata vicenda storica del periodo in cui fu arrestato Mussolini, gli spostamenti e la liberazione con conclusione definitiva del fascismo

·  Romano Maria Levante

“La Repubblica” ha confermato la sua alta qualità giornalistica, ma credo sia stata un’eccezione, i Telegiornali che ho visto non hanno neppure citato la ricorrenza come semplice notizia, ed è stato l’80° anniversario, e così i talk show che ho seguito, nulla, figurarsi se potevano esserci celebrazioni, è stata ignorata del tutto. Come non sorprendersi?

L’esplosione di esultanza, ci si arrampica sempre più in alto…

·  Tonino Bonavita

Il giornale la Repubblica l’ha potuto ricordare con ampia e dettagliata informazione confermando di essere stato l’unico giornale che i governanti non sono riusciti a imbavagliare dando ai suoi lettori informazioni esatte e dettagliata degli ultimi momenti di Mussolini e del fascismo

Viva l’Italia libera e democratica

·  Romano Maria Levante

Ma gli “antifascisti” di professione, che dovevano celebrare la fine del regime e l’arresto di Mussolini, si sono “imbavagliati” da soli, e non soltanto quest’anno con il governo di destra, ma anche nelle ricorrenze decennali precedenti quando al governo c’era la sinistra e alla Presidenza della Repubblica Pertini o Napolitano….

Si inneggia anche al Re che ha destituito il Duce

·  Gelasio Giardetti

Caro Romano, io non penso che la data della caduta di Mussolini avvenuta il 25 luglio del 1943 debba essere ricordata o festeggiata, per il semplice fatto che, pur essendo caduto il capo di un regime sanguinario, il fascismo restava in carica anche se osteggiato dal popolo italiano con dimostrazioni di giubilo per la defenestrazione del dittatore. In effetti il regime, attraverso la radio, diede il seguente annuncio: ” Il re ha accettato le dimissioni del cavalier Benito Mussolini, l’Italia, con il nuovo governo Badoglio, continuerà la guerra a fianco dell’Asse”. Non c’è niente da festeggiare oggi per un evento, pur significativo, che all’epoca seminò paura ed apprensione non solo fra politici ed oppositori, ma anche all’interno del CLN, poiché i tedeschi non avevano fiducia nel governo Badoglio che l’8 settembre del 1943 firmò l’armistizio con gli Alleati passando al nemico così come accadde molti anni prima nell’ambito della Grande guerra. Hitler non perdonò all’Italia il tradimento poiché non solo le divisioni di Rommel conquistarono l’Italia centro settentrionale, ma rimise in piedi Mussolini dopo la liberazione dal Gran Sasso dando vita al governo fantoccio di Salò che portò alla guerra civile che straziò il Paese per ben due anni. Cosa vuoi festeggiare, caro Romano, un evento tragico che fece migliaia e migliaia di vittime? Cosa vuoi festeggiare con il 25 luglio la caduta di un dittatore rimesso in piedi dai tedeschi che, con le sue bande repubblichine partecipò a tutte le stragi perpetrate dai tedeschi sul suolo italiano? E’ in questo periodo che il CLN diede il meglio di sé con i Partigiani che, insieme agli Alleati,, combattevano per ricacciare i tedeschi oltre le Alpi ed abbattere definitivamente il regime fascista di Salò e il suo capo Benito Mussolini. Come dimostra la storia la caduta del Duce il 25 luglio del 1943 non ha alcun effetto limitativo sul prosieguo della guerra anzi si accende una vera e propria miccia che innesca una brutale guerra civile. Con il 25 aprile del 1945, invece, si ha la piena liberazione: Mussolini è definitivamente sparito e con lui anche il fascismo, i tedeschi sono stati ricacciati oltr’Alpe, la Germania e il nazismo sconfitti su tutti i fronti dalle forze alleate… è la libertà definitiva. Qui ha senso festeggiare, ricordare ogni anno il 25 aprile del 1945 in cui il mondo si liberò dalla tirannia e dalla dittatura ed è ciò che è successo da quella data sino ad oggi. Nessuna scusante, poi, per la fuga del governo, del re, della regina, di tutto lo stato maggiore dell’esercito che per salvare le loro vite abbandonarono l’esercito italiano senza direttive né ordini lasciando che venissero catturati e deportati nei lager nazisti circa 800 mila soldati italiani, solo i Carabinieri e i Granatieri di Sardegna si opposero ai tedeschi nella conquista di Roma, Sì, ci fu una fuga vergognosa, e non un trasferimento come tu affermi, poiché Badoglio ed il re erano stati informati dell’ira di Hitler il quale aveva ordinato al suo capo di stato maggiore generale Jodl di catturare in blocco i vertici politici e militari italiani: “Ordino di catturare il re, il governo e tutta la banda fascista”. I Nostri, in preda al panico, si dettero a precipitosa fuga solo ed esclusivamente per salvare le loro vite e non per assicurare la continuità dello Stato, uno stato pavido e tremante che in pratica non esisteva più.

·  Romano Maria Levante

Ma gli “antifascisti” di professione, che dovevano celebrare la fine del regime e l’arresto di Mussolini, si sono “imbavagliati” da soli, e non soltanto quest’anno con il governo di destra, ma anche nelle ricorrenze decennali precedenti quando al governo c’era la sinistra e alla Presidenza della Repubblica Pertini o Napolitano….

Un’altra immagine della folla plaudente

·  Gelasio Giardetti

Caro Romano, io non penso che la data della caduta di Mussolini avvenuta il 25 luglio del 1943 debba essere ricordata o festeggiata, per il semplice fatto che, pur essendo caduto il capo di un regime sanguinario, il fascismo restava in carica anche se osteggiato dal popolo italiano con dimostrazioni di giubilo per la defenestrazione del dittatore. In effetti il regime, attraverso la radio, diede il seguente annuncio: ” Il re ha accettato le dimissioni del cavalier Benito Mussolini, l’Italia, con il nuovo governo Badoglio, continuerà la guerra a fianco dell’Asse”. Non c’è niente da festeggiare oggi per un evento, pur significativo, che all’epoca seminò paura ed apprensione non solo fra politici ed oppositori, ma anche all’interno del CLN, poiché i tedeschi non avevano fiducia nel governo Badoglio che l’8 settembre del 1943 firmò l’armistizio con gli Alleati passando al nemico così come accadde molti anni prima nell’ambito della Grande guerra. Hitler non perdonò all’Italia il tradimento poiché non solo le divisioni di Rommel conquistarono l’Italia centro settentrionale, ma rimise in piedi Mussolini dopo la liberazione dal Gran Sasso dando vita al governo fantoccio di Salò che portò alla guerra civile che straziò il Paese per ben due anni. Cosa vuoi festeggiare, caro Romano, un evento tragico che fece migliaia e migliaia di vittime? Cosa vuoi festeggiare con il 25 luglio la caduta di un dittatore rimesso in piedi dai tedeschi che, con le sue bande repubblichine partecipò a tutte le stragi perpetrate dai tedeschi sul suolo italiano? E’ in questo periodo che il CLN diede il meglio di sé con i Partigiani che, insieme agli Alleati,, combattevano per ricacciare i tedeschi oltre le Alpi ed abbattere definitivamente il regime fascista di Salò e il suo capo Benito Mussolini. Come dimostra la storia la caduta del Duce il 25 luglio del 1943 non ha alcun effetto limitativo sul prosieguo della guerra anzi si accende una vera e propria miccia che innesca una brutale guerra civile. Con il 25 aprile del 1945, invece, si ha la piena liberazione: Mussolini è definitivamente sparito e con lui anche il fascismo, i tedeschi sono stati ricacciati oltr’Alpe, la Germania e il nazismo sconfitti su tutti i fronti dalle forze alleate… è la libertà definitiva. Qui ha senso festeggiare, ricordare ogni anno il 25 aprile del 1945 in cui il mondo si liberò dalla tirannia e dalla dittatura ed è ciò che è successo da quella data sino ad oggi. Nessuna scusante, poi, per la fuga del governo, del re, della regina, di tutto lo stato maggiore dell’esercito che per salvare le loro vite abbandonarono l’esercito italiano senza direttive né ordini lasciando che venissero catturati e deportati nei lager nazisti circa 800 mila soldati italiani, solo i Carabinieri e i Granatieri di Sardegna si opposero ai tedeschi nella conquista di Roma, Sì, ci fu una fuga vergognosa, e non un trasferimento come tu affermi, poiché Badoglio ed il re erano stati informati dell’ira di Hitler il quale aveva ordinato al suo capo di stato maggiore generale Jodl di catturare in blocco i vertici politici e militari italiani: “Ordino di catturare il re, il governo e tutta la banda fascista”. I Nostri, in preda al panico, si dettero a precipitosa fuga solo ed esclusivamente per salvare le loro vite e non per assicurare la continuità dello Stato, uno stato pavido e tremante che in pratica non esisteva più.

·  Tonino Bonavita

Gelasio carissimo, sono molto contento della tua esatta e corretta ricostruzione con date e nomi, circostanze e motivazioni del periodo dall’inizio alla fine di Mussolini e della dittatura fascista vicenda molto dettagliata fatta dal giornale Repubblica per alcuni giorni su 2 pagine

La visione e parere di Romano con minori informazioni e quindi pareri incompleti ma altrettante interessante perché la conoscenza storica di chi ha direttamente vissuto il male del fascismo possa comunque trasmetterlo ai giovani che spero leggano questo post che considero interessante

Grazie.

Si demoliscono i busti di Mussolini

·  Romano Maria Levante

La minuziosa ricostruzione storica di Gero si contrappone solo apparentemente alle mia critica che nasce dalla istintiva sorpresa della assenza di citazioni, e non solo di celebrazioni, di un evento che non mi sembra così secondario: la fine del regime fascista in Italia fu segnata dalla caduta di Mussolini e così’ fu festeggiata allora. Non dobbiamo ricordare neppure le manifestazioni popolari antifasciste del 25 luglio 1943 – distruzione dei busti e delle statue di Mussolini e devastazione delle sedi fasciste – che non ci furono dopo il 25 aprile quando si festeggiarono gli alleati liberatori cui si aggiunsero i partigiani? Ricordo quei festeggiamenti al paese in cui abitavo, Colonnella: “Evviva Churchill, evviva Roosevelt! !” nessun “abbasso Mussolini” gridava la folla, era già dimenticato, forse sono influenzato dai miei ricordi di allora. Ho detto, e lo confermo, che non mi sono addentrato in un’analisi storica e non intendo farlo ora, ma ho espresso soltanto una percezione che, evidentemente, tanti non hanno, e li rispetto come credo rispettabile la mia percezione. D’altra parte, che con il trasferimento a Brindisi fu assicurata la continuità dllo Stato italiano non lo dico io, ma importanti storici, mentre il modo con cui avvenne la “fuga di Pescara” è certamente deprecabile e lo è ancora di più l’assenza da parte del nuovo governo di indirizzi soprattutto per le forze armate che portò il paese allo sbando, il “tutti a casa” cui ho già accennato. La disposizione di Hitler riportata da Gero “Ordino di catturare il re, il governo e tutta la banda fascista” conferma, sempre a mio avviso, che fu provvidenziale non farsi catturare salvando la continuità dello Stato, altrimenti sarebbe stata rappresentata dai “repubblichini” di Salò, mai assurti a dignità nazionale proprio per la sopravvivenza di un governo legittimo anche se inetto. E’ la forza delle nostre istituzioni, rivelatasi decisiva per la caduta di Mussolini, che mi sembra legittimo rivendicare. Come è legittimo ritenere che tale evento “non ha alcun effetto limitativo sul prosieguo della guerra anzi si accende una vera e propria miccia che innesca una brutale guerra civile”, ma la storia non si fa con i se, quindi inutile ipotiuzzare cosa sarebbe avvenuto senza la defenestrazione di Mussolini. A me sembra un fatto che qualifica il nostro paese rivelatosi capace di liberarsi dalla dittatura con la forza delle istituzioni, cosa rara se non unica. E’ ovvio che solo il 25 aprile 1945 segnò la fine di tuutti i mali, con la fine della guerra e dell’occupazione tedesca – o se si vuole “nazi-fascista” – e la “liberazione” del nostro paese, ma non dal fascismo dal quale si era già liberato con la forza delle istituzioni, la ridotta “repubblichina” era un corollario dell’occupazione tedesca. Per questo la festa nazionale fu istituita all’insegna della “liberazione” senza qualificazioni limitative che sarebbero state fuorvianti. E così la festeggiamo tutti senza distinzioni.

·  Tonino Bonavita

I nostri ricordi di adolescenti vissuti direttamente in luoghi e mezzi di informazione non sempre uguali e quindi le considerazioni e le valutazioni sulla storia di quel periodo forse presentano delle piccole differenze

Gelasio, Romano e il sottoscritto amano la storia del proprio paese:

L’Italia libera e democratica.

Ci si accanisce sui busti del dittatore deposto

·  Gelasio Giardetti

Caro Tonino ti ringrazio per gli apprezzamenti che fai nei confronti della discussione scaturita da questo post pubblicato da Romano in cui anche noi abbiamo dato il nostro contributo nell’interpretazione di quel terribile periodo buio e prevaricatore che io spero non ritorni più in Italia. Bisogna ringraziare Romano che spesso da il là per parlare di fatti che non debbono assolutamente essere dimenticati, ma ricordati per mettere al corrente le giovani generazioni dei dolori e dei lutti generati da un megalomane che credeva di essere il novello Cesare. Naturalmente le opinioni possono divergere ed io noto nell’atteggiamento di Romano una percezione più indulgente della mia nei confronti di quel periodo. Romano parla “della forza delle nostre istituzioni” che determinarono la caduta del Duce. Le istituzioni fasciste come il Gran Consiglio non erano le “nostre istituzioni” poiché non scaturite dalla volontà popolare e l’ordine del giorno Grandi rispondeva al solo timore di perdere la guerra con tutte le conseguenze per la loro incolumità ed allora giù il Duce. Certo all’epoca il popolo festeggiò l’evento poiché si sperava che la defenestrazione di Mussolini portasse anche alla fine del fascismo, ma così non fu anzi ci fu una devastante guerra civile. Napolitano, Pertini, ambedue eletti Presidente della repubblica, non “antifascisti di professione”, ma antifascisti convinti con le armi in pugno, non si “imbavagliarono” volontariamente perché semplicemente non potevano celebrare una caduta del regime fascista che il 25 luglio del 1943 in effetti non era avvenuta. Per quanto attiene alla fuga del re e del governo a Brindisi non mi trovo d’accordo con Romano poiché nessun governo eticamente e moralmente sano abbandona il suo popolo al proprio destino causando la deportazione dell’intero esercito italiano nel lager nazisti. E poi io non sono al corrente di questa fantomatica “continuità dello stato”, evocata dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi, in quanto non conosco leggi o interventi che i fuggiaschi presero da Brindisi per rimediare almeno alla conseguenze nefaste della loro fuga. So solo che vissero tranquillamente con tutti i vantaggi del loro lignaggio reale all’ombra della protezione degli Alleati. Per fortuna nel referendum del 2 e 3 giugno del 1946 il popolo italiano defenestrò la monarchia anche per la ignobile fuga da Roma a Pescara sulla via Tiburtina e da Pescara a Brindisi a bordo della corvetta Baionetta.

L’albergo di Campo Impertore sul Gran Sasso, dove fu portato Mussolini arrestato

·  Tonino Bonavita

Gelasio carissimo condivido che a Romano va il merito di aver aperto un dialogo poco conosciuto dai nostri giovani e meno giovani

Esprimere le nostre esperienze e conoscenze sperando che vengano lette e che siano utili per la conoscenza di un periodo buio della storia del nostro paese. Argomento di cui né nella scuola né in famiglia si parla della cultura civica fondamentale per la conoscenza storica della nostra bellissima Italia

Grazie a Romano per questa opportunità e grazie anche a te per il prezioso supporto con precisazioni storico/documentate.

Mussolini appena liberato dal commando tedesco su alianti con Otto Skorzeny

·  Romano Maria Levante

Mi permetto di fare alcune semplici precisazioni dopo il fiume di parole che – come per il significato dei colori della bandiera – è seguito ai miei due post evocativi, e ringrazio chi ha colto l’occasione di discuterne in modo civile e appassionato, in particolare Gelasio, che chiamo Gero da amico, e Tonino.

Sul 25 luglio 1943 e sviluppi successivi, in primo luogo mi dispiace di aver dato l’impressione di essere indulgente – o almeno più indulgente di Gero che me lo attribuisce – nei confronti di quel periodo veramente tragico della nostra storia che suscita esecrazione ma anche riflessione. Non è indulgenza rilevare dei fatti, quali la imprevista reazione delle istituzioni che pro-tempore – al di là di ogni ovvio giudizio – erano “nostre” ,anche se “non scaturite dalla volontà popolare”; anzi l’essere “fasciste” , come sottolinea Gero – e monarchiche – non ne annulla il valore come non lo annulla la motivazione del disastroso andamento della guerra: nella realtà il dittatore fu rovesciato non da un golpe militare o una insurrezione popolare e neppure da una congiura di palazzo ma con la procedura istituzionale, e sebbene il voto di sfiducia del Gran Consiglio fosse consultivo Mussolini lo portò al Re che ne prese atto destituendolo da capo del Governo e sostituendolo con Badoglio senza che ci fu alcuna reazione, neppure all’arresto e “deportazione” questo sì fuori dalle “regole”. Sono fatti, che mi sono sentito di sottolineare perché insoliti, direi unici nelle dittature. Come sono fatti i festeggiamenti popolari iconoclasti per la caduta del fascismo che fu effettiva a livello nazionale anche se poi ci fu il colpo di coda dei “repubblichini” di Salò, confinati al Nord del paese.

L’aliante del commando tedesco con il quale Mussolini sarà portato a Pratica di Mare

La seconda precisazione riguarda gli “antifascisti di professione” che si sono “imbavagliati” da soli: era una risposta, che forse è stata fraintesa, alla notazione di Tonino secondo cui, se ho interpretato bene, li avrebbe “imbavagliati” l’attuale governo di destra; il riferimento ai governi anche di sinistra e a Pertini e Napolitano, presidenti in anteriori ricorrenze decennali, la 40° e la 70°, ignorate alla pari delle altre, era soltanto per indicare precedenti del tutto insospettabili. Che poi la caduta del fascismo “il 25 luglio del 1943 in effetti non era avvenuta” è il rispettabile punto di vista di Gero dato che c’è stato il colpo di coda finale al Nord, ma mi permetto di averne uno diverso riferito al “regime fascista” a livello nazionale come governo del paese e non al fascismo genericamente inteso.

Mussolini sta per salire sull’aliante

La terza precisazione riguarda il seguito della vicenda nazionale innescata dal 25 luglio, l’armistizio dell’8 settembre sempre del 1943 e la “fuga del re e del governo a Brindisi” ricordata da Gero. L’armistizio indica che il governo di Badoglio fece pure qualcosa di molto rilevante, almeno all’inizio, addirittura l’uscita dalla “guerra fascista” e l’intesa con gli alleati in chiave antitedesca. Poi ci fu l’abbandono della Capitale la stessa notte dell’8 settembre, con il “trasferimento a Brindisi” o, da un altro punto di vista, la “fuga di Pescara”. Quella che Gero chiama “la fantomatica ‘continuità dello Stato’” non è stata evocata soltanto nel 2006 dal presidente della Repubblica Ciampi – che pure soffrì da militare di quella situazione di sbando – ma da una diecina di storici, tra i quali Lucio Villari che si è espresso così nel 2001: “Sono, in proposito, assolutamente convinto che fu la salvezza dell’Italia che il Re, il governo e parte dello Stato Maggiore abbiano evitato di essere ‘afferrati’ dalla gendarmeria tedesca, e che il trasferimento (il termine ‘fuga’ è, com’è noto, di matrice fascista, però riscuote grande successo a sinistra) a Brindisi gettò, con il Regno del Sud, il primo seme dello Stato democratico e antifascista, ed evitò la terra bruciata prevista, come avverrà in Germania, dagli alleati”. D’altra parte non fu una “fuga” all’estero, come per altri regnanti europei, ma uno spostamento dalla capitale di poche centinaia di chilometri, oggi poco più di 600. Certo, le conseguenze furono tragiche per la mancata difesa di Roma – anche a causa della rinuncia da parte del gen. Eisenhower all’azione militare avio trasportata su Roma promessa per l’8 settembre e poi annullata – e soprattutto per l’assenza di valide direttive ed iniziative politiche e militari che hanno esposto colpevolmente il nostro esercito, pur consistente, all’aggressione tedesca senza potersi difendere; di qui i 600 mila internati, in questo sono d’accordo con Gero che ne ha parlato ampiamente e appassionatamente nel suo libro “I Carabinieri nella storia italiana. In memoria della loro deportazione nei lager nazisti”. Però non vi è controprova, se restando il Re e il governo a Roma difendendola ad oltranza il nostro paese poteva uscirne meglio opponendosi con le armi del suo esercito all’ordine di Hitler di arrestarli oppure si sarebbe creata “terra bruciata” come avverte Villari in base a quanto previsto dagli alleati.

L’incontro di Mussolini con Hitler a Rastenburg dopo la liberazione sul Gran Sasso

Ma non sono qui per un’analisi storica che non mi compete, queste sono semplici citazioni, ho voluto soltanto condividere una mia percezione e reazione di stupore perché sia stato sempre del tutto ignorato anche dagli antifascisti più accaniti – e non solo nell’80^, ribadisco, ma anche nelle ricorrenze decennali precedenti – l’evento del 25 luglio1943 che ha innescato le epocali vicende successive. Ho dato nel post del 9 agosto una mia risposta, rispetto alla quale le argomentazioni portate in replica non mi sono sembrate convincenti, ma ringrazio Gero che le ha formulate e Tonino che ha partecipato, apprezzandola espressamente, alla nostra discussione senz’altro civile e garbata nel pieno rispetto personale e nella grande stima reciproca.

Il Re a Ortona tappa intermedia nella “fuga di Pescara” per il trasferimento a Brindisi

Tonino Bonavita

Dopo la lettura degli articolo sulle vicende della caduta del potere di Mussolini pubblicati su Repubblica la mia speranza che vengano dai giovani lette le nostre riflessioni che è certamente un valido contributo alla storia buia del nostro paese grazie a Romano che lo ha iniziato e a Gero che lo ha arricchito con il supporto dettagliato.

La corvetta “Baionetta” che porta il Re e il suo seguito a Brindisi

Info

Testi tratti da Facebook, pagina “Romano Maria Levante”, nei post pubblicati dal 26 luglio al 12 agosto 2023 su questo tema in risposta al primo post del 26 aprile: integrali anche nelle spaziature dei capoversi. Sono state aggiunte invece le immagini.

Photo

Le immagini, non contenute nei post di Facebook sono state inserite a mero scopo illustrativo, senza alcun intento economico nè pubblicitario, quelle sui festeggiamenti popolari e l’abbattimento dei busti del Duce rono eloquenti nel sottolineare la rilevanza dell’evento del 25 aprile. La “fuga di Pescara” nella notte dell’8 settembre trascorsa dal Re e dal suo seguito a Ortona, seguita dal trasferimento a Brindisi il giorno successivo sulla corvetta “Baionetta”, precede la liberazione di Mussolini avvenuta il 12 settembre, ma le immagini del Gran Sasso sono poste in sequenza con quelle dei festeggiamenti e dei busti divelti, perchè la reclusione nell’albergo di Campo Imperatore precede gli sviluppi successivi. Tutte le immagini sono tratte dai siti di seguito citati, dei quali si ringraziano i titolari, con la precisazione che se l’inserimento in questo articolo di qualche immagine non fosse gradito verrà subito eliminata, basta una semplice richiesta. I siti sono, nell’ordine di inserimento delle immagini nel testo: patriaindipendente.it, larepubblica.it, patriaindipendente.it, amplissone.overblog.it 4^ e 5^ immagine, fattiperlastoria.it, istoreco.it, , museotorino.it, storiaememoriabassaromagna.it, patriaindipendente.it, wikipedia.org, 10^ e 11^, virtuquotidiane.it, lecodibergamo.it, italianinguerra-wordpress.com, ortona.italiana.it, 15^ e 16^ , mole24.it, Di nuovo grazie a tutti.

Il Re a Brindisi dove si è trasferito con il governo Badoglio

Spalletti e De Laurentis, ne parlano “due amici al bar”su FB

di Romano Maria Levante

Oggi 1° settembre 2023 inizia la nuova avventura di Luciano Spalletti alla guida della nostra nazionale di calcio, dopo le improvvise dimissioni di Roberto Mancini, il quale dopo il trionfo nel Campionato europeo 2021 ha dovuto subire l’eliminazione dai mondiali del Qatar cui l’Italia non ha potuto partecipare per colpa… di due rigori sbagliati da uno dei suoi giocatori. Dalle dimissioni di Ferragosto alla fine dello stesso mese Mancini è diventato Commissario Tecnico dell’Arabia Saudita con un contratto faraonico di 100 milioni di euro per 4 anni, una tombola, dimenticata l’italianità che lo portò a fare il giro di campo dopo la vittoria del suo Manchester City nel campionato inglese con il tricolore al collo, e la successiva accettazione della panchina azzurra rinunciando ai 13 milioni di euro del contratto con lo Zenit di San Pietroburgo. In questi 15 giorni di emergenza creata dalla sua inattesa e repentina rinuncia la Federcalcio ha scelto come nuovo Commissario Tecnico della Nazionale Luciano Spalletti, reduce dalla memorabile vittoria del Napoli – da lui allenato per i due ultimi anni – nel campionato italiano, tanto straordinaria da fargli rinunciare a proseguire con la squadra vittoriosa non sentendosi di sopportare lo stress derivante anche dall’impazzimento cittadino per il successo atteso da 33 anni. A questo punto è scoppiato il caso perchè il presidente da venti anni del Napoli, Aurelio De Laurentis, paradossalmente ha preteso il pagamento di una penale di 3 milioni di euro in base al “patto di non concorrenza” fatto firmare a Spalletti per liberarlo dell’anno restante di contratto dopo la conquista dello scudetto. Tutte cose note, almeno agli appassionati, le abbiamo ricordate per introdurre, a celebrazione di questo 1° settembre di inizio dell'”era Spalletti” nella Nazionale – nella quale auguriamo che abbia lo stesso successo ottenuto nel Napoli – la discussione, avviata dal Post su Facebook del 17 settembre, si è svolta in 17 Post fino al 30 agosto, con un amico ed ex collega, siamo stati come “2 amici al bar”. . In più, rispetto al testo di Facebook – riprodotto identico, anche nella diversa spaziatura dei capoversi – ci sono le immagini, importanti per evidenziare l’impazzimento cittadino che mostra come chi lo ha suscitato – l’allenatore vittorioso – ne ha sentito con la profonda soddisfazione l’immancabile contraccolpo nello stress accumulato. . I “2 amici al bar” la vedono in modo completamente diverso, anzi opposto, li accomuna solo la determinazione, o, se si vuole, la pervicacia nel sostenere la propria tesi.

La squadra del Napoli con la Coppa della vittoria nel Campionato di calcio 2022-23

& Friend

Romano Maria Levante

Non capisco come i napoletani possano essere d’accordo con l’azione del Napoli calcio il cui comunicato si conclude così: “Per il club Napoli 3 milioni non sono certo molti, e per Aurelio De Laurentiis sono ancora meno. Ma la questione nel caso di specie non è di ‘vil denaro’ bensì di principio”. I 3 milioni sono la pretesa di De Laurentiis secondo cui l’allenatore uscente del Napoli Luciano Spalletti dovrebbe pagare 3 milioni di euro per poter allenare la Nazionale italiana, per effetto della clausola firmata allorché ha deciso di non proseguire ad allenare il Napoli dopo la travolgente vittoria del campionato per un anno sabbatico di riposo. Non entro, se non per un accenno, nelle questioni giuridiche del “patto di non concorrenza” liberatorio dal precedente contratto, mi limito ad osservare in base alle poche notizie disponibili che comunque la Nazionale non è in concorrenza con il Napoli e anche se fosse inclusa esplicitamente nella clausola questa sarebbe nulla perché immotivata e troppo limitatrice della libertà di lavoro, secondo le sentenze della Corte di Cassazione. Mi interessa invece la “questione di principio” evocata dal presidente del Napoli: ebbene, l’unica “questione di principio” è la riconoscenza che non solo la società e il suo Presidente, ma anche l’intera popolazione napoletana devono a Spalletti per aver realizzato il sogno impossibile della vittoria nel campionato trentatre anni dopo il secondo dei due scudetti dovuti a Maradona, mentre questo scudetto è dovuto a Spallett; ed è una vittoria con risultati economici che surclassano i 3 milioni, quindi è giusto che nel comunicato si dica che “non sono certo molti” per il Napoli, sono molti di più quelli che Spalletti ha fatto e farà guadagnare alla società e al suo Presidente. A stare ai festeggiamenti ininterrotti imperversati molto a lungo in una città letteralmente impazzita dalla gioia per merito di Spalletti, il sentire che invece di fargli un monumento e altri regali adeguati gli si chiedono 3 milioni di euro lascia sbalorditi e increduli. Come nel leggere che “non si tratta di ‘vil denaro’” dato che i 3 milioni di euro “per il presidente sono ancora meno”, resto esterrefatto dinanzi a una simile sfacciata ostentazione in una città che presenta il record dei “Redditi di cittadinanza” per un denaro non certo “vile”. Questa è la “questione di principio”, non l’eventuale cavillo contrattuale, che credo comunque perdente, e lo spero. Aurelio De Laurentis per quanto sopra, essendo uomo di cinema, merita di essere insignito del “Premio Oscar dell’ingratitudine”: invito i Napoletani, che in queste cose sono maestri, a farlo senza indugio.

Il presidente del Napoli Aurelio De Laurentis dopo la vittoria del 3° Scudetto

Tonino Bonavita

Provo a esprimere le mie interpretazioni su questa « strana « vicendaSe Spalletti a portato il Napoli a vincere lo scudetto è facile immaginare che sia stato aiutato da una squadra di soggetti e denari messi a disposizione dal presidente De Laurenti il quale avrà programmato con il contratto di ripetere la vittoria per il prossimo torneoSe Spalletti lascia il Napoli per la Nazionale ne avrà un vantaggio economico e di immagine e costo lo dovrebbe pagare al danneggiatoSu questa storia non possono essere i napoletani a decidere anche se, secondo me, meglio che resti con il NapoliE qui non ci szzeca niente né il Reddito di cittadinanza e tantomeno De Laurenti figlio di un produttore di cinema e della meravigliosa Anna MagnaniNessun giudice può annullare un contratto di lavoro senza giusta causa, Cassazione o non!!

Un’altra immagine della squadra del Napoli con la Coppa della vittoria

Romano Maria Levante

Caro Tonino, condivido la tua definizione di “strana vicenda”, e hai ragione nel ricordare i meriti del presidente del Napoli Aurelio De Laurentis che non riguardano soltanto l’attuale scudetto quanto soprattutto il salvataggio e il rilancio alla grande della sociatà dopo il fallimento e la retrocessione in serie C con l’acquisto nel 2004 e la risalita nelle classifiche fino alla vittoria nella Coppa Italia. Ma lo scudetto è restato un miraggio per i 20 anni quasi della sua presidenza, raggiungerlo dopo 33 anni dal precedente, come è avvenuto nello scorso campionato, è stato un immenso regalo ai tifosi e all’intera cittadinanza, e lo si è visto dai festeggiamenti senza fine. Per questo ci si aspettava che la riconoscenza fosse altrettanto immensa per l’allenatore Spalletti che ne aveva il grande merito soprttutto da parte di un presidente tifoso così appassionato. L’impegno di Spalletti è stato tale da richiedere il distacco da una competizione in cui lui e la squadra avevano dato tutto, di qui la rinuncia a proseguire con il Napoli, tutto questo è umano. La Nazionale è un’altra cosa, “selezionatore” più che “allenatore”, poche competizioni sia pure di alto livello a distanza nel tempo e non lo stress settimanale, si può comprendere che questo impegno Spalletti lo può assolvere e il Napoli con il suo Presidente dovrebbe essere orgoglioso di tale incarico prestigioso nato dallo scudetto conquistato. Non si poteva prevedere la rinuncia dell’allenatore uscente Mancini, con ancora almeno due anni di contratto, quindi nulla di preordinato, tutt’altro. Naturalmente Spalletti non potrebbe comunque restare con il Napoli, come tu auspichi, al contratto è subentrato il “patto di non concorrenza” di cui ho già detto che “non c’azzecca” con la Nazionale che non compete con il Napoi. Non “c’azzecca” neppure Anna Magnani, la grande attrice di tempi lontani, che citi, e neppure la “giusta causa” in un contratto di lavoro già chiuso; mentre “c’azzecca” il Reddito di cittadinanza come battuta dinanzi a una ostentazione sfacciata che offende i tanti napoletani alla ricerca del “vil denaro” per vivere. Sono d’accordo che “su questa storia non possono essere i napoletani a decidere”, ma possono benissimo conferire al grande produttore cinematografico Aurelio De Laurentis il “Premio Oscar dell’ingratitudine” da me evocato.

L’allenatore del Napoli Luciano Spalletti con la coppa e la medaglia dello Scudetto conquistato vincendo il Campionato di calcio serie A 2022-23

Tonino Bonavita

Romano caro, non ripeto quanto già espresso ampiamente di cui sono fermamente convintoSottolineo comunque che Spalletti senza i sostegni che De Laurentis gli ha messo a disposizione non avrebbe potuto raggiungere il successo per i napoletani ma anche per lui che lo ha reso oggi successore inaspettato di ManciniEcco perchè è Spalletti che deve ringraziare De Laurentis e i napoletani che senza il loro sostegno sarebbe rimasto un semplice allenatoreI napoletani sono folcloristici, geniali nella filosofia della creatività per sopravvivere e qui il Reddito pagato con le nostre tasse per chi non ha lavoroNel 2004 meriti a De Laurentis per la risalita e vittoria della coppaChiudi confermando da parte dei napoletani il “Premio Oscar dell’ingratitudine” a De Laurentis “Come si conciliano queste due opinioni?

I festeggiamenti iniziano fuori dalla stadio di Napoli

Romano Maria Levante

Non sta a me misurare, caro Tonino, i meriti di allenatore e Presidente rispetto ai risultati ottenuti dalla squadra, ho sottolineato quelli di De Laurentis nell’aver tirato su il Napoli dopo il fallimento portandolo in quasi 20 anni di presidenza ai livelli alti della classifica; ma lo scudetto con gli altri allenatori, anche di grande caratura, è stata sempre una chimera mentre Spalletti ha realizzato il sogno dei napoletani dopo 33 anni dal secondo scudetto con Maradona. Legittimo che tu ritenga essere “Spalletti che deve ringraziare De Laurentis”, anzi nel tuo post precedente mi sembra di aver letto che lo deve risarcire avendolo “danneggiato” – però potrei aver capito male- io la penso in modo opposto, ma “de gustibus non est disputandum”. Oggi Spalletti è stato nominato Commissario Tecnico (e non allenatore…) della Nazionale, e questo dovrebbe porre fine ad ogni diatriba. A meno che il Presidente non lo citi in giudizio perchè paghi la penale di 3 milioni di euro, allora saranno i giudici a decidere, ma De Laurentis meriterebbe un altro Oscar che non definisco per carità di patria, mentre il “Premio Oscar dell’ingratitudine” se lo è già meritato e spero che i napoletani con la loro atavica saggezza mista ad ironia si decidano a conferirlo.

I festeggiamenti a Piazza Plebiscito

Tonino Bonavita

Se fossi napoletano non avrei dubbi a chi dare l’oscar della gratitudineIl napoli è resuscitato fino a vincere un campionato grazie a chi ci ha messo le risorse per pagare profumatamente allenatore, giocatori e team Nei giudici ho poca fiducia perché da tuttologhi spesso sbagliano valutazioni.

Romano Maria Levante

Ho capito, caro Tonino, che tu da napoletano daresti al Presidente del Napoli l'”Oscar della gratitudine”, io da italiano gli dò l'”Oscar dell’ingratitudine” per pretendere una “penale” di 3 milioni di euro dall’allenatore che gli ha fatto vincere lo scudetto dopo quasi 20 ann di presidenza, 33 anni dopo il secondo scudetto con Maradona; e questo per la “colpa” di andare a fare il Commissario Tecnico della Nazionale italiana. Ma tengo in serbo un “Oscar” ben più… pesante se avrà il “coraggio” di portare in tribunale l’allenatore che ha fatto impazzire di gioia per settimane una citta’ intera, la sua città. Ripeto, “de gustibus non est disputandum”, finiamola così.

Tonino Bonavita

L’italiano per l’intera nazione. Il napoletano per la sua città. Non penso che De Laurenti desideri portare Spalletti in tribunale visto che non lo ha ancora fatto sapendo anche che l’ex allenatore del Napoli potrebbe non avere 3 milioni di Euro. Passo e chiudo.

Romano Maria Levante

E soprattutto De Laurentis potrebbe non portare Spalletti in tribunale sapendo che perderebbe la causa per l’orientamento consolidato della Cassazione di non ammettere limiti troppo stringenti alla libertà di lavoro riservandoli alla concorrenza vera e propria che in questo caso non esiste, tra Nazionale e Napoli calcio. Comunque è sempre pronto il mio “Oscar” ben più … pesante dell'”Oscar dell’ingratitudine” che gli ho già dedicato.

Tonino Bonavita

La Cassazione non può avere orientamenti ma traduce e applica la legge soprattutto in SU qui chi crea danno alla al popolo di una nazione o di una Città non va distinto: il bianco e bianco – il nero è nero e nessuna legge può dire grigio. Il desiderio soggettivo, noi due lo dimostrato, in Cassazione non viene considerato, la legge si. Confermo quanto già detto sopra.

Romano Maria Levante

Caro Tonino, non sono io che ritengo decisivi gli orientamenti consolidati della Cassazione, negli studi giuridici mi hanno insegnato che la giurisprudenza ha di fatto, e non certo di diritto, forza di legge – anche se questo è un’espressione impropria – tanto più se si tratta della Cassazione perchè i giudici di primo e secondo grado sanno che una sentenza difforme verrebbe cassata. Non capisco quale sia “il danno al popolo di una nazione” che creerebbe Spalletti, nè qui si tratta di “desiderio soggettivo” ma, a quanto dicono, di “patto di non concorrenza” che non può limitare oltre l’ammissibile il diritto al lavoro per il capriccio di un Presidente… Sei liberissimo di restare della tua opinione, la mia non la considero un’opinione quanto la logica conseguenza che posso trarre dalle premesse. Poi, chi vivrà vedrà…

·  Tonino Bonavita

Come tu stesso hai scritto che De Laurentis non porterebbe Spalletti in tribunale sapendo che perderebbe la causa per l’orientamento consolidato della cassazione, io confermo che la cassazione preposta a tradurre le leggi e non ha interpretare ruolo che spetta ai giudici di primo grado e di appello [ ricordi dei miei studi di scienze politiche] e di frequentazione di un mio fraterno amico giudice penalista e Consigliere di Cassazione

Bianco è bianco

Nero è nero

Senza orientamenti che tu hai evidenziato

La distinzione tra noi

-io napoletano e tu italiano riferito esclusivamente all’oscar e non al danno economico, desideri da noi non condivisi

Il diritto al lavoro previsto dalla Costituzione viene regolamentato dalle leggi con l’istituzione di contratti nazionali sottoscritti dalle parti interessate con accordi specifici notarili e privati contenenti accordi dettagliati che solo gli interessati di comune accordi possono modificare

Nè con il tuo legittimo desiderio di italiano e neanche con il mio da napoletano per l’occasione

La logica richiede conoscenze ed esperienze altrimenti ognuno resta con la sua logica interpretazione o lettura del problema

Mi piacerebbe conoscere anche il parere del nostro amico G…..

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, non so come mai ti accanisci sulla mia battuta che De Laurentis difficilmente citerà Spalletti in tribunale temendo di perdere la causa per l’orientamento – che dicono sia consolidato – della giurisprudenza, in particolare della Cassazione, nel limitare l’ampiezza del “patto di non concorrenza” all’essenziale per non condizionare troppo la libertà di lavoro. Non serve citare il presidente Maddalena per dire che i giudici sono soggetti solo alla legge e non sono tenuti a seguire gli orientamenti giurisprudenziali – i quali oltretutto sono in continua evoluzione – neppure quelli della Cassazione a Sezioni Unite. Ma gli orientamenti suddetti danno l’interpretazione più consona della legge, dinanzi ai diversi significati che possono esserle dati, e chiaramente pur senza esservi tenuti i giudici vi si adeguano per non veder cassate le loro pronunce. Ma il punto essenziale che io ho posto non è giuridico, anche se ho parlato di quella che mi appare una eventualità scontata dato l’orientamento della Cassazione. Ho posto un problema morale proprio per l’immenso valore che ha avuto per la cittadinanza napoletana la conquista dello Scudetto dopo 33 anni, e allora c’era Maradona… . E’ proprio l’intensità dei festeggiamenti ininterrotti che sottolinea l’enorme stress accumulato dal protagonista allenatore in un anno così impegnativo; e la sua onestà intellettuale lo ha portato a dire al suo Presidente che non se la sentiva più, proprio per quel carico di emozioni, di proseguire l’anno successivo. Cosa ci si aspettava? Che De Laurentis lo ringraziasse per aver confidato una difficoltà personale a proprio danno, perché non avrebbe avuto il lauto emolumento previsto, mentre gli avrebbe fatto comodo restare anche se con uno stato d’animo non all’altezza, che avrebbe danneggiatola squadra, come avvenne nel Leicester l’anno dopo il “miracolo” della vittoria nel campionato inglese di una squadra per lo più impegnata nella lotta per non retrocedere. Invece cosa ha fatto il Presidente? Per liberarlo dall’anno di contratto lo ha fatto passare sotto le forche caudine di un “patto di non concorrenza” di cui non si conosce l’estensione, ma soltanto la penale di 3 milioni di euro che avrebbe dovuto pagare al Napoli andando ad allenare un’altra squadra, per la quale non aveva le remore psicologiche di cui ho detto. E a che titolo De Laurentis avrebbe incassato 3 milioni di euro? Non per un debito pagato, non come corrispettivo di un danno inesistente, Spalletti non è il dirigente che porta al concorrente segreti aziendali. Ma se ritengo già molto negativo avergli fatto sottoscrivere tale patto in un momento simile, volerlo applicare anche per aver accettato di essere il CT della Nazionale italiana con la quale il Napoli non ha alcuna concorrenza, è inconcepibile, ha dell’incredibile. Di qui la mia previsione che De Laurentis non citerà Spalletti perr non venire sconfessato platealmente dalla giustizia, almeno in Cassazione, anche se potrebbe trovare in primo e secondo grado giudici che la pensano come te, caro Tonino. Almeno questo è il mio pensiero. Ma ora il tema sembra superato nell’interesse, alla ribalta c’è ora il CT della Nazionale che Spalletti sostituisce, Mancini, però questo caso lo definirei l’opposto, “canone inverso”, per usare un termine cinematografico.

·  Tonino Bonavita

La visione della situazione rapporti Spalletti, De Laurentis la tua è diversa dalla mia per diverse interpretazioni dei fatti: investimenti, superpagato, popolarità/celebrità, carriera etc tutto ha portato a De Laurentis, Spalletti e ai napoletani innegabili

Sottolineo, i giudici di primo e secondo grado interpretano sulla base della loro conoscenza e coscienza

La cassazione in Sezioni Unite traducono e non possono interpretare le leggi fatte dai legislatori e approvate dal Presidente della Repubblica quale garante della Costituzione

Non conosco né il contratto tantomeno le clausole o accordi verbali

La giustificazione della stsnchezza fisica non ci sta visto che non va in pensione ma dovrà affrontare un lavoro certamente più impegnativo e quindi più faticoso fisicamente e mentalmente

Sull’orientamento della Cassazione non so la tua fonte di informazione, io ne ho uno diretto e personale al quale ho posto la domanda con risposta secca:

Tony noi non non interpretiamo ma applichiamo la legge non scritta da noi senza influenze. Se è scritto rosso è rosso, se è scritto nero è nero e tutte le sentenze devono avere lo stesso comportanento.

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, non credo ai miei occhi nel leggere il tuo ulteriore accanimento su un tema secondario nella nostra discussione, rispondo soltanto perché il mio silenzio non sia equivocato. Aggiungo a quanto già ho scritto sull’efficacia delle pronunce della Cassazione interpretative delle leggi pur senza vincolare, un esempio: dopo la sentenze Grilli-Leister della Cassazione che modificava l’orientamento sull’assegno di mantenimento al coniuge divorziato, Berlusconi chiese la revisione alla Corte d’Appello in base a quella sentenza e la ottenne con lo stop all’assegno mensile e la condanna della moglie a restituire 60 milioni di euro… non sono quisquiglie. Ma è troppo elementare per insistervi e non ne parlerò più., mi sorprende la risposta che dici di aver avuto, che nega la realtà. Altrettanto sconcertante che attribuisci a De Laurentis – se ho capito bene – il merito di aver dato a Spalletti “superpagato popolarità/ celebrità, carriera”: anche qui i fatti: allenatore di lungo corso dal 1994, di parecchie squadre, anche di Roma e Inter, negli anni ha vinto diverse Coppe Italia, 4 premi come migliore allenatore italiano e addirittura con lo Zenit di San Pietroburgo ha vinto 2 campionati russi, nel Napoli c’è stato solo 2 anni e nel secondo anno ha vinto lo Scudetto che De Laurentis inseguiva invano da 20 anni e i Napoletani da 33 anni, a chi il merito maggiore? Ma rispetto le tue simpatie e antipatie, però presto molta attenzione ai fatti, e ne ho ciato solo alcuni, per me sono quelli che contano. Finiamola qui. The End.

·  Tonino Bonavita

Tralascio la vicenda Spalletti con interpretazioni non condivisibili.

Preciso che la Cassazione non “interpreta” le leggi ma le applica traducendole.

Se le leggi sono fatte male è colpa dei politici.

Sulla sentenza delle SU della Cassazione in Italia esiste la possibilità di poter ricorrere alla Corte di Appello organo giurisprudenziale del Ministero di Grazia e Giustizia che può modificare completamente, in alcune parti o completamente la sentenza della Cassazione.

Così come Nordio ha modificato la legge Cartabia sulle intercettazioni etc.

La precisazione aiuta a capirci e non a interpretarci.

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, ho concluso con “the End” il post precedente  per segnare la fine del Film…della nostra discussione, protrattosi già troppo a lungo, fino a stancare. Ma il tuo post successivo mi fa pensare che dopo il Film c’era il Documentario, mettiamola così, per questo posso dare un’ultima risposta, poi credo che non ci sarà un seguito, come avveniva alla fine delle proiezioni. Continui ad accanirti sulla Corte di Cassazione che – lo ripeto e me ne dispiace –  citai soltanto incidentalmente conoscendone gli orientamenti in materia di “patto di non concorrenza”, che a mio modesto avviso avrebbero dissuaso il presidente del Napoli De Laurentis a citare in giudizio l’ex allenatore Spalletti, lo dicevo solo come ipotesi e concludevo, “chi vivrà vedrà”. Ma non mi sottraggo a rispondere al tuo reiterato  “preciso che la Cassazione non ‘interpreta’ le leggi ma le applica traducendole”, dicendomi d’accordo sul fatto che “le applica”. Rispetto a “non interpreta le leggi”, tuttavia,   non posso che riferirmi alla norma sull’ordinamento giudiziario, che all’art. 65 attribuisce alla Corte di Cassazione il compito di “garantire  l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale” . Quindi non solo la Cassazione “interpreta” le leggi ma ne garantisce “l’uniforme interpretazione” , e questo in aggiunta alla normale applicazione cui tu ti riferisci. In tal modo, oltre a garantire l’attuazione della legge, fornisce indirizzi interpretativi uniformi  alla giurisprudenza per  mantenere per quanto possibile l’unità dell’ordinamento giuridico.  Tutto ciò trova la sua massima espressione nelle pronunce a Sezioni Unite che possono essere richieste quando le linee interpretative delle diverse Sezioni sono difformi .  E poi, non so come puoi fare a dire che sulle sentenze “delle SU della Cassazione in Italia esiste la possibilità di poter ricorrere alla Corte di Appello organo giurisprudenziale del Ministero di Grazia e Giustizia che può modificare completamente, in alcune parti o completamente la sentenza della Cassazione”;  a quanto so io non potrebbe esistere nessuna “Corte d’Appello organo giurisprudenziale del Ministero di Grazia e Giustizia” per la divisione dei poteri, e tanto meno un organo sovraordinato alle SU che sono la massima espressione della giurisdizione, le cui pronunce non possono essere modificate in alcun modo. Nordio e Caltabia “non c’azzeccano”, quella sulle intercettazioni che citi è una  normale modifica normativa sottoposta al Parlamento. Ma puoi continuarla a pensare come vuoi, dato che persisti nella tua opinione, però io non posso condividere il tuo pensiero per quanto ho accennato, e non è una mia opinione che conterebbe ben poco, è il funzionamento del nostro sistema giudiziario.. In conclusione, però,  vorrei tornare sul motivo del nostro “ping pong” con un’ultima citazione: l’intervista che il presidente del Napoli rilasciò a Marco Cattaneo per Dazn, pubblicata il 29 aprile 2022. In essa, su Spalletti allora verso il termine del primo anno di allenatore del  Napoli, disse, tra le altre cose: “… Andai a Milano di nascosto a casa sua e gli feci firmare il biennale più un’opzione per il terzo anno a mio favore, che non voleva sottoscrivere.. Poi l’ho convinto, facciamo un secolo e mezzo in due. Poi quando e se vorrà andare via ci daremo la mano e non succederà nulla”.  Ci si poteva spettare che per riconoscenza gli avrebbe perfino pagato il terzo anno, anche se “sabbatico”, da meritare l’”Oscar della gratitudine”; ma sarebbe stato troppo;  invece a Scudetto epocale conquistato  lo ha “convinto” a firmare il “patto di non concorrenza” addirittura con penale di 3 milioni di euro per liberarlo dal terzo anno.  Continuo a trasecolare dinanzi a una simile…. metamorfosi. 

Supplemento anche “scaramantico” di Post del 4, 5, 6 settembre, dopo i 17 Post di commento al primo post del 17 agosto.

Tonino Bonavita

Romano caro la metafora della partita di Ping Pong dove da ragazzo nel circolo della parrocchia ero tra i più bravi mi piace e con te uno pari in quanto le nostre opinioni e pareri li abbiamo dettagliatamente espressi nel link che riproponi

Confermo anche in questo post che molti miei amici napoletani sono riconoscenti a Spalletti ma filosoficamente ed egoisticamente per noi Spalletti non doveva lasciare il Napoli squadra delusa dopo un lungo percorso insieme per arrivare allo scudetto.

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, il fatto che Luciano Spalletti abbia lasciato il Napoli dopo la vittoria epocale dell’ultimo campionato ha deluso tutti, non soltanto i napoletani, ma solo sul momento, perché quando se ne sono capite le ragioni si è apprezzato ancora di più: non si sentiva di continuare e ha rinunciato ai milioni di euro di un anno di contratto, mentre poteva per convenienza restare anche se pensava di non poter ottenere lo stesso risultato conoscendosi e conoscendo l’ambiente. Fece il bis di allenatore e di vittoria del campionato – allora russo – con lo Zenit di San Pietroburgo nel 2010 e 2011-12 e forse da quell’esperienza nasce la sua decisione dieci anni dopo; avrà anche pensato al collega Claudio Ranieri che nel 2016 ha portato miracolosamente alla vittoria del campionato inglese il Leicester, mentre lo aveva iniziato impegnandosi come sempre per non retrocedere, ed è rimasto l’anno successivo, ma la squadra è andata così male al punto da venire sostituito. Spalletti è’ stato molto corretto, ha comunicato di voler lasciare subito a fine campionato dando tutto il tempo al Presidente di cercare il successore, e ha firmato il “patto di non concorrenza” che gli è stato sottoposto, o imposto, da un presidente rivelatosi invece freddo e calcolatore, almeno ai miei occhi: non si chiede una penale di 3 milioni di euro a chi ha rinunciato ai milioni di euro del contratto, senza che a questa penale vi fosse una contropartita accettabile oltretutto nella situazione di immensa riconoscenza dovutagli; tanto più che nel Comunicato ufficiale si afferma – lo ripeto di nuovo testualmente – che “per il club Napoli 3 milioni non sono certo molti, e per Aurelio De Laurentiis sono ancora meno. Ma la questione nel caso di specie non è di ‘vil denaro’ bensì di principio”. Appunto, un principio, nel quale manca il più umano dei sentimenti, la gratitudine. L’offerta di fare il Commissario Tecnico della Nazionale era inimmaginabile, avendo il CT in essere Mancini altri due anni di contratto, ma a differenza di Spalletti si è dimesso all’improvviso a Ferragosto mettendo in seria difficoltà la Federcalcio nel trovare il sostituto solo poco più di due settimane prima di una partita decisiva; e ha fatto discutere la coincidenza con i 100 milioni di euro del contratto firmato repentinamente per allenare l’Arabia Saudita da parte di chi, Mancini appunto, aveva dimostrato un grande attaccamento ai colori nazionali facendo il giro di pista al termine della partita che segnò la vittoria nel campionato inglese del suo Manchester City con il tricolore al collo e rinunciando a 13 milioni di euro del contratto con lo Zenit di San Pietroburgo – sempre questa squadra russa … – per i soli 2 milioni da CT della Nazionale italiana, poi portati a 4 milioni nel 2021. Né mi sembra che la Federazione per liberarlo del contratto gli abbia fatto firmare un “patto di non concorrenza” – come ha fatto invece De Laurentis con Spalletti – che in questo caso avrebbe funzionato, dato che nei prossimi Campionati mondiali l’Italia potrà trovare come avversaria l’Arabia Saudita allenata dal suo precedente Commissario Tecnico, mentre il Napoli non potrà avere mai come avversaria la Nazionale….. Altre storie, intanto chiudiamo la nostra piccola “storia”, un bel “ping pong” – anch’io lo praticavo nell’adolescenza – senza colpi proibiti, nell’amicizia e stima reciproche. Eppoi, immedesimandoti nei napoletani, con il tuo ultimo commento, caro Tonino, hai superato i 17 “colpi” seguiti al mio primo Post, un numero poco piacevole, così andiamo a 19 “colpi”, oltre la maggiore età.. Inserirò questi nostri due commenti conclusivi, anche scaramantici, nel sito che li riporta tutti in sequenza, e ti ringrazio di avermene dato l’occasione con il tuo post finale.

Luciano Spalletti mentre festeggia la vittoria al campionato russo
con lo Zenit di San Pietroburgo nel 2011

·  Tonino Bonavita

Romano caro, mi sono messo al posto di un napoletano amante del calcio che non è a conoscenza delle clausole del fantomatico contratto Spalletti-DevLaurentis che, se Mancini non avesse lasciato per l’Arabia Saudita, Spalletti sarebbe rimasto con il Napoli magari con tante altre vittorie per la felicità dei napoletani che ora si sentono abbandonati

Credo sia umano questo sentimento per un napoletano sportivo, amante della sua squadra

Le beghe legali e morali al popolo non, a conoscenza, non interessa. La gratitudine dei napoletani a Spalletti è stata manifestata osannandolo subito, sminuita con il sentirsi abbandonati (e non traditi)

Il ping pong partita simpatica e amichevole

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, Mancini ha lasciato la posizione di C.T. della Nazionale mesi dopo che Spalletti ha lasciato il Napoli perchè non si sentiva di continuare in quelle condizioni del tutto particolari dopo la vittoria epocale, e le dimissioni di Mancini sono state assolutamente inattese, aveva ancora due anni di contratto. Quindi anche se Mancini fosse rimasto alla Nazionale, Spalletti aveva già lasciato il Napoli e ho spiegato come lo abbia fatto per motivi ammirevoli. La gratitudine dei napoletani per Spalletti, quindi, non dovrebbe essere sminuita, anzi accresciuta, avendo rinunciato a continuare per senso di responsabilità verso la squadra e la città. Almeno io la penso così, potrebbe non essere stato compreso, ma lui lo ha detto con chiarezza nell’immediato della vittoria e si è sobbarcato anche a firmare il “patto di non concorrenza” richiestogli dal presidente freddo e calcolarore, sempre ai miei occhi. I veri sportivi sapranno giudicare.

·  Tonino Bonavita

Squadra vincente non si cambia

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, nel calcio non è sempre così, il Leicester dopo la vittoria del campionato inglese nel 2016, la prestigiosa “Premier League” – ancora più memorabile di quella del Napoli, dato che a inizio campionato la sua vittoria dai bookmaker era pagata 5000 volte la posta – aveva adottato il motto che citi, ma stava per retrocedere, tanto che l’allenatore Claudio Ranieri, omaggiato l’anno precedente quasi come nuovo re d’Inghilterra, fu esonerato. Ma nel Napoli non si è scelto di “cambiare squadra vincente”, l’allenatore vittorioso non se l’è sentita per il troppo stress e con grande onestà ha lasciato invece di continuare l’anno successivo con i cospicui emolumenti cui ha rinunciato, avrebbe potuto proseguire pur non sentendosi più in grado danneggiando il Napoli a proprio vantaggio. Non lo ha fatto, considero il suo comportamento esemplare e non solo per il mondo del calcio! Mi sembra non ci sia altro da aggiungere, la penso così.

·  Tonino Bonavita

Amen

Claudio Ranierim “incoronato” simbolicamente dopo aver portato il Leicester alla inimmaginabile vittoria nella Premier League inglse, pochi mesi dopo fu esonerato

Info

Testi tratti da Facebook, pagina “Romano Maria Levante”, nei post pubblicati dal 17 al 30 agosto 2023 su questo tema in risposta al primo post del 17 agosto: integrali anche nelle spaziature dei capoversi molto diverse dei post pubblicati, in uno dei “due amici al bar” compatte, nell’altro molto aperte. Sono state aggiunte invece le immagini.

Photo

Le immagini, non contenute nei post di Facebook, sono state inserite a mero scopo illustrativo, senza alcun intento economico nè pubblicitario, una ogni post, per sottolineare come la partecipazione popolare sia stata pervasiva e prolungata, facendo da sfondo alla questione di cui si discute nei post riportati. Le prime 4 immagini sono dei protagonisti, la squadra del Napoli vincitrice del Campionato di calcio 2022-23, il presidente Aurelio De Laurentis e l’allenatore Luciano Spalletti; seguono 12 immagini con i festeggimenti popolari che iniziano fuori dello Stadio, poi a Piazza Plebiscito e quindi nelle altre zone della città, di giorno e di notte; si conclude con i due protagonisti della vicenda e con Spalletti nella vittoria del campionato russo, in chiusura lo stadio di Napoli “Diego Armando Maradona” già “San Paolo” al centro della grande impresa calcistica.Tutte le immagini sono tratte dai siti di seguito citati, si ringraziano i titolari con la precisazione che se la pubblicazione in questo articolo di qualche immagine non fosse gradita verrà subito eliminata, basta una semplice richiesta. I siti sono, nell’ordine di inserimento delle immagini nel testo: larepubblica.it, eurosport.it, ansa.it, guerinsportivo.it, fanpage.it, grandenapoli.it, avvenire.it, calcionapoli24.it, corrieredellosport.it, ilnapolista.it, napolike.it, positanonews.it, siamoilnapoli, gazzetta.it, fanpage.it, corrieredellasera.it, napolirepubblica.it, skysport.it, goal.it, quotidiano.net, ilnapolista, fanpage.it.

Di nuovo grazie a tutti.

Mancini a Riad dopo la firma del contratto di C.T. dell’Arabia Saudita fino al 2027

A Pietracamela “La farfalla di Andrea”, di Gelasio Giardetti

di Romano Maria Levante

Domani, sabato 19 agosto 2023, alle ore 18, viene presentato a Pietracamela nella Sala Consigliare Comunale in via XXV luglio 18, il romanzo “La farfalla di Andrea”, di Gelasio Giardetti, ambientato in questo borgo dell’Appennino abruzzese, versante teramano, alle falde del Gran Sasso d’Italia, sotto le vette di Corno Grande e Corno Piccolo, uno scenario definito “il gigante che dorme”. Presiederà il sindaco Antonio Villani, intervengono, oltre all’autore, Pietro Piccioni presidente dell’Anc di Teramo,Corrado Bellisari e Paride Tudisco, presidenti rispettivamente dell’Asbuc di Intermesoli e di Pietracamela; nel corso dell’ncontro verrà presentato il cortometraggio “Testimonianza dialettale pretarola”.e sarà distribuito un limitato numero di copie omaggio ai cittadini nativi di Pietracamela. Nella trama avvincente del romanzo sono rievocati gli usi e costumi del borgo, isolato nei lunghi e gelidi inverni, e la vita negli anni della seconda guerra mondiale con le irruzioni e razzie dei tedeschi dalle quali nasce un colpo di scena altamente drammatico che avrà sviluppi impensati nel prosieguo della storia narrata. Di Gelasio Giardetti abbiamo recensito negli anni, in vari articoli, tre libri di saggistica, il più recente sull’epopea dei Carabinieri nella storia italiana,i due libri precedenti sui grandi misteri della religione e della vita.. Sul romanzo che sarà presentato domani non pubblichiamo una recensione, ma la Prefazione posta in apertura del libro scritta su richiesta dell’autore: lo ringraziamo ancora della sua fiducia.

PREFAZIONE

Curiosità unita a interesse suscita la nuova fatica letteraria di Gelasio Giardetti. Curiosità perché dopo 4 volumi di impegnativa saggistica questa volta si tratta di un romanzo; ed è  vero che la saggistica riguardava temi quanto mai elevati –  da “Gesù l’Uomo”, a “L’uomo il virus di Dio”, e “Dio, fede e inganno”, seguiti da “I Carabinieri nella storia italiana”  – ma è altrettanto vero che il romanzo rappresenta un “salto di specie” e incuriosisce vedere l’autore all’opera. Interesse perché la storia è ambientata nel comune paese natìo, Pietracamela, il “nido di aquile” di cui vengono rievocati usi, costumi e vicende in tempi lontani. Si tratta in parte di vita vissuta impressa nella memoria personale e analizzata con la profondità e l’accuratezza del ricercatore, tale l’autore è stato in campo scientifico nella sua vita professionale.

La curiosità e l’interesse hanno riscontri nettamente positivi. Il “salto di specie” non ha creato problemi perché già nella saggistica il modo di esporre era avvincente, nulla di didascalico ma tutto presentato come una storia in divenire; e a questo punto l’interesse non può che acuirsi, dinanzi alla saldatura tra i ricordi personali e le memorie familiari che si vede affollano la mente e il cuore dell’autore con la storia narrata e i suoi sviluppi. Mente e cuore perché alla accuratezza espositiva unisce una passione che si accende quando si toccano tasti di valore morale e civile: la vicenda personale è inserita nella vita familiare, a sua volta inquadrata nella storia collettiva. E il lettore ne riceve una serie di messaggi, per il passato e per il presente.

Una inquadratura dall’alto del centro storico, nella piazza si svolge una scena chiave del romanzo

Nella parte iniziale i ricordi sembrano avere il sopravvento, con una condivisione quasi autobiografica, e si stenta a immaginare come dalla “famiglia”, dall’”infanzia” e dai “freddi mesi invernali” possa nascere una trama avvincente; ma nello stesso tempo si è coinvolti nella rappresentazione di un mondo rimasto così fortemente impresso al punto che ci si lascia trascinare dalla rievocazione dimenticando che si è solo all’inizio, quindi senza avere l’impazienza di superare i preliminari per entrare nel vivo della vicenda. La storia si sviluppa in dieci capitoli dai titoli icastici che danno già un’idea precisa del percorso narrativo.

I preliminari su “La famiglia”  sono particolarmente accurati, ne viene descritta anche nei dettagli la vita difficile nel paese di montagna dove occorreva provvedere a tutto nell’isolamento e nelle precarie condizioni ambientali, per cui si dovevano accumulare le provviste e la legna per difendersi dal freddo; e si sentono anche i valori della solidarietà tra gli abitanti, da cui veniva un grande aiuto nei momenti difficili. e soprattutto il calore dell’affetto reciproco. Una famiglia che cresce e con la nuova vita che ne entra a far parte vede accresciute le responsabilità e le difficoltà, ma anche lo slancio vitale.

Il bivio di Ponte Arno in una foto d’epoca, dopo 9 km di salita l’arrivo a Pietracamela

Altrettanto accurato il racconto su “L’infanzia”, con la descrizione minuziosa dei giochi di allora -spicca l’inventiva dei ragazzi montanari nell’escogitarli non avendo i giocattoli cittadini – e della vita spensierata a quell’età, ma anche con le impressioni dolorose che si provano e i dubbi che nascono dinanzi ad eventi imperscrutabili come la morte di un bambino travolto da una roccia in contrasto con la bontà divina. L’autore tornerà su questi dilemmi, ma solo sfiorandoli; nei suoi libri saggistici citati all’inizio ha già esposto compiutamente il suo pensiero.

In un crescendo rossiniano, “I freddi mesi invernali” – è evidente  che l’autore li ha vissuti di persona negli stessi luoghi del protagonista – fanno sentire il peso dell’inclemenza stagionale nell’isolamento della montagna. L’autore descrive gli animali, presenta la caccia analizzandone le modalità da ricercatore non solo negli aspetti pratici ma nelle ripercussioni sulla sensibilità del bambino di certi aspetti considerati efferati. E vediamo le lunghe serate intorno al focolare con i racconti favolistici a sorprendere bambini e adulti. C’è anche la rievocazione di eventi che sconvolsero la vita paesana, come la tragica fine di due donne sopraffatte dalla bufera nel ritorno da un paese a valle dove si erano recate per le normali esigenze di vita, ricordo rimasto nella memoria di tutti.

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L’evento epocale che sconvolse il paese come il mondo intero, “La guerra”, viene introdotto con delicate immagini della crescita del nuovo nato, ci si avvicina all’inizio della storia, che diventerà incalzante. Lo soccorrono non più i ricordi personali – l’autore non ha l’età per aver vissuto quegli anni – ma le memorie familiari. Si ispira ai racconti di genitori e nonni, sempre con l’accuratezza e la minuzia del ricercatore, applicata al macrocosmo del grande affresco storico come al microcosmo del paese nel quale, pur nell’isolamento dell’alta montagna e nella distanza dai luoghi caldi del conflitto, non si stava affatto tranquilli e venivano escogitate misure di protezione quanto mai elaborate e ingegnose.

La guerra non risparmia gli inoffensivi montanari, ed è di straordinaria efficacia la descrizione di momenti nei quali si sono trovati di fronte a situazioni estreme cui hanno fatto fronte mantenendo la loro consapevolezza e la loro dignità, un vero affresco di vita paesana nella tempesta scatenatasi a livello mondiale. Anche le normali esigenze quotidiane diventano impegni sovrumani con cui devono misurarsi, come devono fronteggiare le emergenze della vendicativa occupazione tedesca con l’appoggio fascista: dalle efferate esecuzioni alla requisizione delle provviste alimentari della popolazione, isolata e inerme, condannandola alla fame.

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Nel cuore del centro storico di Pietracamela

Alla guerra è collegata “La morte”, nella realtà e nel romanzo nel quale si passa dagli espedienti per salvare le provviste alimentari per l’inverno dalle requisizioni dei tedeschi al cupo irrompere della tragedia individuale e collettiva in una descrizione che sembra la sceneggiatura di un film, tanto è incalzante. Siamo sempre nel piccolo paese di montagna, anzi nella piazza principale divenuta teatro di un dramma che vede come protagonisti gli spietati tedeschi e la popolazione – allora numerosa, lo spopolamento è di epoca successiva – con le vittime e gli eroi che vengono intensamente ricordati, in una esposizione tanto avvincente da evocare come vera una realtà solo immaginaria.

Non ci si attendeva un cambiamento così brusco, dalla tranquillità all’angoscia e non solo dinanzi ai comprensibili timori legati all’occupazione tedesca, ma in presenza di fatti che portano al diapason la drammaticità di quei momenti; il pensiero va al film “La vita è bella” allorché una cappa di orrore cala all’improvviso su una comunità tranquilla e operosa.

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Altra foto d’epoca di Ponte Arno con la “corriera”, al centro vestita di chiaro la “mitica” Luigina

La presa diretta con la realtà porta a “riveder le stelle” riemergendo dall’inferno della guerra, ma non torna per tutti l’antico “modus vivendi” scandito dal cambio di stagioni sul quale si misurano le povere attività agricole di una comunità che vive, non va mai dimenticato, nell’isolamento dell’alta montagna. Il “miraggio” di una promozione sociale e personale altrimenti inimmaginabile agita l’animo di uno dei personaggi, con i duri dilemmi che comporta: emigrare per dare una svolta alla propria vita sostenendo il peso di una scelta che porta a tagliare le radici con la propria terra allontanandosi dai propri affetti, oppure restare in paese fidando sulle nuove occasioni create dalla ricostruzione, che già avevano portato alle assunzioni della società impegnata nei lavori per la grande centrale idroelettrica alimentata dalle acque che scendono dal Gran Sasso imbrigliate tra dighe e gallerie? 

Nelle pagine del libro si vive, anzi si rivive tutto questo, muovendosi tra la cronaca e la storia, con le tessere di un mosaico che si va a poco a poco componendo, ma neppure quando si supera la metà del libro si ha un’idea di quali possano essere gli sviluppi, anzi un evento fa sorgere un interrogativo sullo stesso titolo del libro perché non si vede come possa restare valido, dopo quanto accaduto, eppure lo sarà e se ne avrà conferma più avanti, fino al termine.

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Intanto “Lo scorrere veloce della vita” ci presenta il protagonista nelle diverse fasi della crescita, prima nella sua montagna con la passione per le scalate e lo sci anche a livello agonistico e un impegno particolare che gli fa vivere di nuovo momenti tragici, quali sono le sciagure montane con il passaggio repentino dalla gioia al dramma. Poi nel mondo del lavoro preso da un’altra passione non meno sentita, quella per la ricerca scientifica dove l’intensa attività a livello avanzato gli dà soddisfazioni e successi, anche per le esperienze  a livello internazionale che ne scandiscono le varie fasi.

In queste descrizioni si sente la partecipazione personale dell’autore, in un’immedesimazione che fa pensare all’autobiografia, ma è solo una sensazione transitoria, quando avviene la “rivelazione” la storia del protagonista e della sua famiglia sovrasta con la sua intensità narrativa ogni altra considerazione e impressione nate nelle parti evocative della vita di allora.

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Un tratto del centro storico con le caratteristiche arcate

Con “La rivelazione” un vero colpo di scena, fa tornare indietro nel tempo, senza che ci sia Superman a modificarne il corso ruotando l’asse terrestre all’incontrario, come nell’avveniristica scena del film, basta un racconto inimmaginabile nel contenuto e nella drammaticità, che irrompe sulla trama fino ad allora volutamente statica.

La narrazione compie un salto di qualità introducendo una “suspence” coinvolgente in quello che era un affresco ambientale e di costume percorso da un’evocazione di tipo storico, facendo lievitare l’interesse fino a non potersi staccare dalla lettura.  Il “salto di specie” dell’autore trova così la sua consacrazione con un cambio di tono che lo distingue sempre di più dalla saggistica rendendo incalzante il prosieguo della storia sotto il segno di una imprevedibilità che nella “rivelazione” si è espressa al massimo e promette nuove emozionanti sorprese.

La “corriera” che sale verso Pietracamela, Luigina con le altre al finestrino

Perché di vera emozione si tratta quando ciò che sembrava definitivamente sepolto torna alla ribalta in modo prepotente facendo immedesimare nella fase successiva, “La ricerca”, in cui ci si sente coinvolti al pari dei protagonisti, nel loro impegno appassionato che fa sentire direttamente partecipi. E qui veramente la narrazione cambia di nuovo marcia, seguendone passo passo i movimenti e registrando con cura l’altalena di speranze e delusioni, in un clima coinvolgente di ansia  data la posta in gioco. Così anche l’inizio della ricerca in un ufficio burocratico diventa emozionante, e si fa sempre più incalzante quando ci si muove sul territorio, ben lontani dal piccolo paese montano, in una industriosa città tedesca. Muta radicalmente  l’impianto narrativo, prima basato sulle descrizioni ambientali necessariamente statiche, ora su un percorso conoscitivo, anzi investigativo  quanto mai dinamico.

Nell’accuratezza con cui ne vengono resi i particolari interviene una “suspence” di tipo diverso da quella che finora è stata una trama avvincente, sembra di essere entrati in un giallo poliziesco, di quelli che “non fanno dormire”, e in effetti così è stato per noi. Naturalmente, come è d’obbligo per i gialli, non diciamo nulla né sul percorso né tanto meno sulla conclusione, alla quale ci si avvicina passando a un’altra sconvolgente sorpresa dopo una telefonata con cui si riapre una prospettiva che sembrava chiusa.

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Con ”la rivelazione” si è presi dalla “suspence” per tutto il tempo in cui viene rievocato un episodio chiave ma con contenuti del tutto diversi e sconvolgenti da quelli che erano apparsi; e nell’immersione in un contesto storico nel quale torna la mano del saggista che avevamo conosciuto nei libri precedenti. “Suspence” che si alza di livello con “La scoperta”, altrettanto inattesa e sconvolgente della rivelazione, su un piano ben diverso che ha riferimenti diretti all’attualità e non più a un evento nel passato anche se si matura nel tempo; il piano è quello interiore, attiene a certe pulsioni umane genuine quanto insopprimibili.

Anche qui si segue un percorso che non dà risposte immediate, ma fa sentire partecipi di una paziente quanto appassionata ricerca, passando dal piccolo paese montano all’industriosa città tedesca dove ci si immedesima pure nelle questioni aziendali in cui è impegnato il protagonistai. E qui torna la visione autobiografica perché siamo proprio nel settore in cui l’autore ha speso la propria attività professionale. Quindi ai ricordi d’infanzia e familiari si aggiungono quelli personali della piena maturità lavorativa.

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La “storica” chiesa di San Giovanni

Fino all’”agnitio” definitiva con “L’incontro”, in una sorta di “Metti, una sera a cena…”, pur se di diverso contenuto ma di analoga valenza, che apre ulteriormente all’attualità più viva e porta alla conclusione il tormentato itinerario che abbiamo seguito fin qui sommariamente. Non abbiamo dato alcuna chiara indicazione sulla vicenda cercando di rendere il clima e lo sviluppo narrativo, per non togliere l’interesse che nasce da una trama avvincente aperta alla rivelazione e alla scoperta finale, con l’incontro conclusivo.

Che dire al termine della lettura?  Il “salto di specie” ha avuto esiti altamente positivi  e lo si vede nei dialoghi serrati che affollano l’ultima parte del libro in un crescendo quanto mai coinvolgente, senza far perdere all’autore il rigore del ricercatore manifestato nella saggistica che abbiamo citato all’inizio; e lo ritroviamo nelle descrizioni molto precise in cui continua a indulgere nel suo affresco ambientale e di vita. Torniamo alle nostre abitudini quotidiane dopo esserci immedesimati in una vicenda appassionante che ci ha riportati al nostro “natìo borgo selvaggio”, il “nido d’aquile” alle falde del Gran Sasso d’Italia, e ci ha fatto rivivere stagioni lontane percorse da angosce e inquietudini fino a farci volare nell’industriosa città tedesca con problemi manageriali di stretta attualità per poi ritornare nel paese montano alla conclusione. Cosa si può volere di più?

La maggiore “pittura rupestre” di Guido Montauti – tra quelle sopravvissute alla frana del 2010 – all’inaugurazione dopo il restauro, davanti il restauratore Corrado Anelli in camicia celeste

Info

Gelasio Giardetti, “La farfalla di Andrea”, Narrativa, Arduino Sacco Editore, 2022, pp. 210, euro 22,90. Le nostre recensioni ai precedenti libri di saggistica dell’autore sono le seguenti, in questo sito, alle date che vengono indicate. Sui Carabinieri nel 2018: Giardetti, 1. “I Carabinieri nel Risorgimento e nella 1^ Guerra mondiale” 4 novembre, 2. “I Carabinieri nel regime fascista e nella 2^ Guerra mondiale” 6 novembre, 3. I Carabinieri dopo l’8 settembre ’43, nella difesa di Roma e nella RSI 8 novembre, 4. “I Carabinieri nelle deportazioni e nella Resistenza fino alla Liberazione” 10 novembre, con un richiamo nel 2019 “I Carabinieri nella storia italiana” 7 gennaio. Sui temi religiosi: “Gelasio Giardetti, ‘L’uomo e Dio nel corpo universale 13 giugno 2015, “Dio, mistero senza fine, in un libro di Gelasio Giardetti” 2 febbraio 2014. (negli articoli prima del 2019 sono saltate le immagini nel passaggio a questo sito, sono da reinserire).

Foto

Nel romanzo non vi sono illustrazioni, come sempre, ma noi abbiamo voluto inserire delle immagini per ambientare il lettore. Inseriti nel testo si succedono tre blocchi di illustrazioni costituiti da un’immagine del borgo com’è oggi, in particolare del centro storico, da un’immagine d’epoca al bivio di Ponte Arno, la “porta” di accesso al borgo, e da una composizione di 4 immagini d’epoca di Pietracamela; la sequenza si conclude con una terna diversa. Le immagini attuali del borgo sono tratte dal sito dei “Borghi più belli d’Italia”, di questo prestigioso “club” Pietracamela fa parte dal 2007, per sottolinearlo abbiamo operato questa scelta e ringraziamo i titolari del sito. Le immagini d’epoca sono dell'”Archivio Bonaduce”, di Aligi Bonaduce che ringraziamo, sono state già pubblicate in articoli precedenti di Romano Maria Levante: le 3 di Ponte Arno nell’articolo “Pietracamela 2019, 1. Ponte Arno, il ricordo della mitica Luigina” 15 agosto 2019; le 3 a quartetti nell’articolo “Pietracamela, 2019, 2. Il Borgo in Arte, pittura e musica, teatro e tradizioni” 31 agosto 2019, fotografate sempre dall’autore come erano esposte nella manifestazione; l”immagine della “pittura rupestre” di Guido Montauti restaurata, è stata ripresa e pubblicata sempre da chi scrive, nell’articolo “Guido Montauti, nel centenario, il recupero delle ‘Pitture rupestri'” 19 agosto 2018″ (negli articoli ante 2019 sono saltate le immagini nel passaggio a questo sito, sono da reinserire).

Pietracamela, nel Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga, sotto “il gigante che dorme”

In memoria di Sebastiano Vinci, vittima delle BR

di Romano Maria Levante

Oggi, 19 giugno 2023, ripubblichiamo il nostro articolo del 2009, per ricordare il sacrificio del vice questore  Sebastiano Vinci, ucciso dalle Brigate Rosse in un vile attentato a un semaforo nel 1981 da un commando di cui faceva parte Roberta Cappelli con altri tre brigatisti della colonna romana comandata da Adriana Petrella. Come ogni anno,  a parte l’interruzione per il Covid,  al Commissariato Primavalle che dirigeva si è tenuta stamane la commemorazione celebrativa, con la partecipazione del Presidente del Municipio e del Questore di Roma.

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Sebastiano Vinci, vittima delle Brigate Rosse,
19 giugno 1981

 Nell’introdurre il nostro articolo che ripubblicammo nel quarantennale del 2021 parlavamo dell’arresto in Francia di 10 brigatisti, tra cui – oltre a Giorgia Pietrostefani, condannato per l’uccisione di Luigi Calabresi –  anche Marina Petrella e Roberta Cappelli, condannate all’ergastolo per l’uccisione di Sebastiano Vinci, essendo finita  la “dottrina Mitterand” che aveva protetto fino ad allora la loro latitanza  in Francia, augurandoci una pronta estradizione, e riportavamo i forti dubbi del fratello di Sebastiano. Purtroppo aveva visto giusto.  Meno di 3 mesi fa, il 28 marzo 2023 è stato comunicato che  la Cassazione francese ha definitivamente respinto la richiesta di estradizione già negata dalla Corte d’Appello il 29 giugno 2022, dopo il nuovo arresto del 28 aprile 2021, motivando il rifiuto con il rispetto della vita privata e familiare ristabilita in Francia da quarant’anni e con il diritto a un processo equo, secondo  gli articoli 8 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. essendo stati processati in contumacia. A questa pronuncia si era opposto pubblicamente  il presidente Emmanuel Macron, il cui governo rappresentato dal procuratore generale della Corte d’appello di Parigi, Rémy Heitz, presentò subito ricorso alla Corte di Cassazione, contestando l’irragionevole argomento della violazione della vita privata e familiare degli imputati, e chiedendo di accertare  se i terroristi già condannati in Italia in contumacia potevano ottenere un nuovo processo . La Cassazione francese è stata lapidaria nel respingere il ricorso considerando “sufficienti” le motivazioni dei giudici nel loro “apprezzamento sovrano” (sic!) e definendo “definitivo” questo “parere sfavorevole sulle richieste di estradizione”

Non aggiungiamo un nostro commento, tanto è evidente la irragionevolezza della pronuncia, ma riportiamo alcune reazioni delle vittime di familiari: Il presidente dell’Associazione nazionale vittime del terrorismo Roberto Della Rocca ha dichiarato: “È una vergogna che non ha fondamento giuridico. Io e la mia associazione facciamo appello al ministro Nordio affinché la giustizia italiana intervenga. E chiedo alla Francia: se fosse successa la stessa cosa al contrario con le vittime del Bataclan?”. E  Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi assassinato nel ’72:  “C’è un dettaglio fastidioso e ipocrita: la Cassazione scrive che ‘i rifugiati in Francia si sono costruiti da anni una situazione famigliare stabile … e quindi l’estradizione avrebbe provocato un danno sproporzionato al loro diritto a una vita privata e famigliare’. Ma pensate al danno sproporzionato che loro hanno fatto uccidendo dei mariti e padri di famiglia. E questo è ancora più vero perché da parte di nessuno di loro c’è mai stata una parola di ravvedimento, di solidarietà o di riparazione. Chissà…”.  Non conosciamo la reazione del fratello di Sebastiano, ma l’aveva avuta subito alla notizia dell’arresto con i suoi forti dubbi sulla concessione dell’estradizione ed è stato purtroppo pr eveggente.  Adriano Sabbadin, figlio di Lino,  ucciso nel 1997 ha commentato: “Non c’è giustizia così! E’ tuttavia una decisione che ci aspettavamo dalla Francia. Ci dicano allora, i giudici, quali sono i colpevoli? Ci sono dei morti sulla coscienza di queste persone”. Condanna sacrosanta a giudici quanto mai  ingiusti e irragionevoli.  Una nuova  palese manifestazione di certa ostilità dei cugini francesi che nella celebrazione di oggi del sacrificio di Sebastiano Vinci risalta ancora di più’ per il rinnovato dolore che arreca tale eclatante ingiustizia.

Segue l’introduzione alla ripubblicazione dell’articolo il 19 giugno 2021, nel quarantennale, e poi l’articolo del 2009 che scrivemmo quando, in una rimpatriata tra compagni di scuola, apprendemmo della triste sorte di Sebastiano, compagno nelle scuole medie a Teramo, assassinato a Roma nel vile agguato delle Brigate rosse.

Sono trascorsi 40 anni dalla morte di Sebastiano Vinci, vice-questore a Roma, vittima delle BR il 19 giugno 1981 a 44 anni, e vogliamo ricordarlo, da compagni di scuola e soprattutto da cittadini che si inchinano dinanzi al suo eroismo, ripubblicando il nostro servizio sulla celebrazione del 19 giugno 2009 al Commissariato di Prinmavalle di Roma che Vinci dirigeva nei terribili anni di piombo. Per la sua forte azione di contrasto al terrorismo eversivo entrò nel mirino dei brigatisti che in quattro gli tesero un vile agguato sparando sulla sua auto ferma al semaforo e colpendolo a morte ferendo gravemente l’agente Pacifico Vuotto al volante, per fortuna sopravvissuto. Nel nostro ricordo siamo risaliti agli anni di scuola per trovare le radici del suo intemerato impegno civile in una formazione in cui, oltre alla scuola, troviamo a sorpresa gli eroi dei fumetti che si battono contro la malavita per far trionfare la legalità e la giustizia. Viene celebrata oggi la triste ricorrenza, ma mentre ogni anno vi è stata una cerimonia ufficiale nel Commissariato di Primavalle, con la partecipazione di Sindaco e Questore di Roma, nel quarantennale, a causa della pandemia, ci si limita ad officiare una messa di suffragio dal Reverendo cappellano della Questura di Roma. Il Liceo classico Delfico-Montauti di Teramo dove compì i suoi studi, ricorda oggi nel proprio sito la sua figura e il suo sacrificio con un profilo dell’antico alunno divenuto eroe. Nel risalire agli anni di scuola riviviamo la commozione e lo sgomento con cui scoprimmo l’eroica fine del nostro compagno; e facciamo rivivere l’emozione di familiari e colleghi unita all’indignazione per i responsabili di quei crimini efferati condannati all’ergastolo. C’è stata di recente la fine della lunga latitanza di Marina Petrella, che comandava la colonna BR di Primavalle, e di Roberta Cappelli, una dei quattro terroristi del commando assassino, condannata all’ergastolo, come la Petrella, anche per l’omicidio del generale dei carabinieri Enrico Galvaligi e dell’agente di polizia Michele Granato, sono tra i 9 arrestati di recente in Francia, finora protetti dalla “dottrina Mitterand”. Ma sull’estradizione e l’esecuzione della pena già sono sorti dubbi e incertezze. Così ne ha parlato Aldo Vinci, fratello di Sebastiano, l’unico rimasto della sua famiglia: “Si dice che sono vecchi. ma pure io sono vecchio, anche più di loro, e da oltre quaranta anni mi è stato portato via un fratello e nessuno ha pagato per questo: siamo tutti invecchiati, solo che noi siamo invecchiati senza che giustizia sia stata fatta. Di conseguenza non provo pena nei confronti di queste persone. Non si può che considerare questa gente una schifezza e di conseguenza come ci si può impietosire davanti all’età avanzata o all’eventuale malattia di qualcuno di questi?”. E ha aggiunto: “Spero che il nostro Governo tiri fuori gli attributi e pretenda che questi tornino, anche se purtroppo tutta questa gran fiducia non la ho. Parlano di due-tre anni e comunque in generale ci credo poco. Quando avverranno i fatti, allora ci crederò, ma fino ad allora non mi fido, anche perché siamo un Paese affetto da bontà costituzionale. O interessi, sia quello che sia. Ci saranno processi, psicologi, certificati di malattia. Rischia di diventare, come sta già diventando, una tragica farsa”. Poi ha ricordato il fratello con parole commosse, nell’articolo che ripubblichiamo ne è delineata la figura dalla fomazione all’approdo nella polizia, l’impegno generoso fino all’estremo sacrificio. Al termine ripubblichiamo anche i commenti che nei giorni successivi vennero “postati” da ex compagni di scuola, colleghi e altri, all’articolo riportato di seguito che uscì il 20 giugno 2009 nel sito cultura.inabruzzo.it, con l’ultimo commento del gennaio 2011 e la nostra risposta finale.

Celebrato a Roma Sebastiano Vinci, vittima nel 1981 delle BR

di Romano Maria Levante

– 20 giugno 2009

Studente a Teramo al “Melchiorre Delfico”, vice-questore a Roma, un eroe borghese

E’ un luogo inconsueto quello in cui ci troviamo nella calda mattinata del 19 giugno 2009, a un passo dall’inizio dell’estate. Siamo nel Commissariato di Primavalle alla periferia nord di Roma dove tra poco, con la partecipazione delle autorità e di un reparto d’onore delle forze dell’ordine già schierato, si celebrerà l’anniversario del sacrificio di Sebastiano Vinci, che dirigeva il commissariato, assassinato dalle Brigate Rosse ventotto anni fa, il 19 giugno del 1981.

I ricordi per noi dell’agente Pacifico Votto

Siamo giunti in anticipo sull’orario della celebrazione delle ore 10 perché il sostituto commissario Isolabella ci ha promesso di rintracciare un agente di allora, cosa non facile dato il tempo trascorso. Non crediamo ai nostri occhi, è andato ben al di là della sua promessa, ci presenta addirittura l’altra vittima designata oltre al vice-questore Vinci, l’agente Pacifico Votto che guidava l’auto il giorno dell’attentato, salvatosi miracolosamente con tante pallottole in corpo.

Lo prendiamo in disparte, il sostituto commissario ci accompagna in una saletta, c’è ancora da attendere. Ne approfittiamo per fargli qualche domanda, ecco le risposte che ci ha dato su quei tempi lontani che sente ancora così vicini sulla sua pelle.

“I ricordi di allora sono tanti”, ci dice, e si vede che ha una gran voglia di parlare, e alla fine capiremo perché. Iniziamo con la figura di Vinci: “Oltre che un dirigente preparato e scrupoloso era un amico dei suoi uomini. La sua porta era sempre aperta per tutti noi che lavoravamo con lui. E anche con la gente del quartiere aveva un ottimo rapporto, da tantissimi era considerato un amico. Sul lavoro era sempre presente, non mancava mai e il suo impegno era sempre massimo”.

Qualche parola sugli antecedenti dell’attentato: “Da parecchio tempo eravamo nell’occhio del ciclone, almeno da molti mesi ci sentivamo seguiti, erano stati trovati in un covo delle Br anche dei numeri di targa delle nostre autovetture, di servizio e private. Davamo fastidio ai terroristi perché il nostro Commissariato era molto impegnato contro le Brigate rosse e i gruppi eversivi neri, oltre che contro la criminalità comune. Hanno scelto quel giorno ma la preparazione è stata molto lunga”.

Il ricordo va subito al tragico momento: “Eravamo appena giunti all’incrocio tra via Battistini e via della Pineta Sacchetti, e ci eravamo fermati al semaforo rosso, accodati a due auto in attesa del verde. Si sono accostate alla nostra macchina quattro persone con dei giornali ripiegati su un braccio, come volessero venderli agli automobilisti, due dalla parte destra e due dalla parte sinistra. In quel momento un tremendo dubbio mi ha attraversato la mente, chiedermi ‘Perché vengono tutti qui e non vanno dalle due auto ferme davanti da noi?’ e dire ad alta voce ‘Attenzione, attenzione…’ è stato tutt’uno. Come prendere la pistola, ma si era affiancata un’auto con una donna e poi hanno cominciato subito a sparare, due contro di me e gli altri due dall’altro lato contro il Vice-questore”.

L‘agente Votto si sente miracolato: “I proiettili mi hanno trapassato il polmone e il fegato, rotto delle costole, graffiato il rene, oltre che colpiti la mano e il braccio”, e mostra segni evidenti. “Sono stato sottoposto a tre difficili interventi chirurgici, mi hanno dichiarato fuori pericolo solo dopo cinquanta giorni. Forse nessuno si è salvato con ferite simili a organi vitali”. Ma non sono quelle del corpo le ferite che sente oggi, bensì altre.
“Aver vissuto un’esperienza simile vuol dire aver perduto la tranquillità, non solo quella personale ma anche quella familiare. Siamo coscienti del rischio che corriamo ad ogni perquisizione, ad ogni inseguimento, ma essere bersaglio di un vile attentato è troppo. Perché lascia i segni per sempre anche su chi è sopravvissuto. Mi sento abbandonato da tutti, forse per il fatto che vivo posso dare fastidio. E poi il poliziotto è solo un numero, gli ex terroristi sono dei personaggi, tutti in libertà ricercati e riveriti. Non è giusto”.

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I funerali di Sebastiano Vinci

Le parole del fratello Aldo Vinci

In questo momento l’altra grande sorpresa, entra il Primo dirigente del Commissariato, il dottor Todaro con Aldo Vinci, il fratello di Sebastiano, appena sbarcato dall’aereo da Palermo, la moglie ha dovuto rinunciare all’ultimo momento per un’indisposizione, altrimenti come in passato ci sarebbe stata anche lei. Un bell’uomo, figura eretta, espressione bonaria ma insieme decisa, una grande somiglianza con il fratello e soprattutto un grande affetto per lui.

ldo è sempre presente alle commemorazioni, a Roma come a Torino, sede di lavoro precedente del Vice-questore, impegnato a ricordarne la memoria e a far sentire la sua voce e la sua protesta quando serve, e avviene spesso. E’ un fiume di parole, dice cose pesanti con un’espressione serena. Come quando ricorda le performance televisive della Petrella che fa boccacce e del compagno Novelli che parla in Tv, terroristi assassini del fratello “ricercati e riveriti” come ci aveva appena detto l’agente Votto. Addirittura Pancelli, altro componente del commando omicida, oltre ad essere in libertà come gli altri si fregia del lavoro in una Onlus che è tra quelle del 5 per mille.

Ha i ricordi molto vivi del processo “Moro-ter” nel quale furono giudicati e condannati gli assassini del fratello, il clima da “kermesse” con gli atteggiamenti strafottenti degli imputati, che ebbero però un sussulto quando lo videro per la sua somiglianza con il fratello. C’era anche Curcio nella gabbia.

“Chi è andato in galera è stato quasi un volontario” dice con “humor” amaro, perché “per una ragione o per l’altra hanno potuto evitarla, addirittura la Petrella ci sta riuscendo anche senza doversi pentire, anzi avendo proclamato di essere irriducibile”.

Riguardo quest’ultima, nel rievocare l’assurdo diniego francese all’estradizione rivendica la sua scelta di non andare all’Eliseo dal presidente Sarkozy con l’Associazione dei familiari delle vittime, non voleva essere preso in giro; scelta rivelatasi giusta non solo per l’inutilità della visita ma perché il presidente francese ebbe un visibile quanto intollerabile moto di stizza rigirandosi sulla sedia, e un gesto di fastidio simile rispetto a una sacrosanta indignazione passava davvero la misura.

Non sono solo amare le parole dette con tono amabile da Aldo Vinci. Il suo volto si illumina quando parla dei riconoscimenti al fratello, la strada intitolata a lui a Roma, l’intitolazione del nuovo Centro polifunzionale della Polizia a Torino per volontà del Questore, anche lui come il fratello Sebastiano con una tale vocazione da fargli lasciare una posizione molto ben remunerata e di prestigio per entrare in Polizia e ricominciare da capo; del questore dott. Faraoni parla con affetto, oltre che con rispetto, la celebrazione a Torino sembrava la “Festa dell’amicizia”, dice, tanto il clima era aperto e confidenziale. Aggiunge che il questore per lui è “quasi il terzo fratello”. E poi la Medaglia d’oro e le attenzioni della Polizia a Roma dove ogni anno l’anniversario viene celebrato dalle autorità con la deposizione della corona dinanzi alla lapide all’ingresso del Commissariato. Non manca mai di esserci con la moglie, ci tiene a precisare, è un modo per sentirsi quel giorno con Sebastiano.

Ma anche qui la sua sincerità, che si unisce alla squisita amabilità, ci fa scoprire un particolare che dà un’altra conferma alle parole dell’agente Votto. Si parla dell’apposizione della lapide diversi anni dopo il tragico evento. “Non fu automatico, dice con un mesto sorriso, un giorno in cui mi sentivo più insofferente del solito rispetto alla rimozione che era stata fatta dell’episodio, ormai ignorato del tutto, ho scritto al Presidente della Repubblica, era Pertini, lamentando che il sacrificio di mio fratello era stato dimenticato. Poco dopo, miracolosamente, ci fu l’apposizione della lapide”. Ed ecco la rivelazione: “Passò del tempo, mi trovavo in Questura parlando di mio fratello quando un funzionario mi fece vedere una lettera scritta dal presidente Pertini in persona, diceva: ‘Il fratello di Sebastiano Vinci ha lamentato l’abbandono della memoria’. Da allora c’è stata la lapide e la memoria non è stata più abbandonata. Ed è stata per noi una vera consolazione”.

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La lapide in memoria del vice-questore Sebastiano Vinci al Commissariato Primavalle di Roma

La cerimonia di commemorazione

Tutti presi dalle parole di Aldo Vinci, veniamo avvertiti che è giunto il momento della cerimonia. Usciamo dalla saletta, è giunto il Questore di Roma dott. Caruso, ci sono le altre autorità: il Presidente del Consiglio comunale di Roma, on. Marco Pomarici in fascia tricolore come delegato del sindaco di Roma Alemanno; il Comandante provinciale dei Carabinieri Tomasone, il Comandante del Gruppo carabinieri Casarsa; per la Guardia di Finanza il col. Razzano in rappresentanza del Comandante De Gennaro; per la Polizia di Stato oltre al Questore Caruso il Vice-questore aggiunto Caggiano e, naturalmente, il dirigente del Commissariato Todaro, con il sostituto Isolabella e gli agenti presenti. Il picchetto d’onore è schierato con la Bandiera tricolore.

La cerimonia è semplice e toccante. L’attenti, lo squillo della tromba, la benedizione del diacono del Commissariato, l’Ass. C. Piccione. Il Questore depone la corona d’alloro davanti alla lapide, due agenti sull’attenti ai lati come scorta d’onore. Siamo tutti compunti, presi dalla solennità del momento, nel ricordo di un eroe borghese, il Vice-questore di Roma del 1981 Sebastiano Vinci.

Al termine abbiamo avvicinato il Questore. Al dott. Caruso non abbiamo posto domande di circostanza, ci ha dato lui il messaggio: “Non ci sono parole adatte per un momento come questo. Ma una cosa si può dire: guai a dimenticare questi fatti, la memoria serve a costruire un futuro migliore”.

Poi la mattinata è proseguita in un intrattenimento delle autorità e dei presenti, il Questore ha parlato lungamente con il dirigente del Commissariato e con tutti gli altri, è stato un incontro amabile con al centro Aldo Vinci; in un clima confidenziale che ha ricordato quello di Torino nella sua descrizione; anche oggi, come nel Centro polifunzionale, sembrava la “Festa dell’Amicizia”.

39^ Commemorazione, 19 giugno 2020, l’arrivo delle autorità, con la sindaca di Roma Virginia Raggi

Dalla cronaca alla storia

Questa la cronaca attuale di una giornata particolare, che abbiamo voluto descrivere momento per momento. Ma chi era Sebastiano Vinci? Ne raccontiamo la storia, capirete perché siamo qui con una commozione tutta nostra e ve ne renderemo conto.

“A due giorni dalle elezioni: offensiva elettorale delle BR. Quattro ore di sangue a Roma. Ucciso un Vice-questore, ferito l’avvocato di Patrizio Peci”, così il titolo di un quotidiano di sabato 20 giugno 1981. Ed ecco la notizia: “Alle 13,20 di ieri un commando uccide Sebastiano Vinci e ferisce il suo autista. Ore 16,50: terroristi sparano a un rappresentante di una casa editrice. Ore 17: colpito in un agguato il legale De Vita. Pochi minuti dopo un attacco contro la P.S.”. La segnalazione quasi di “routine” nella sala operativa della questura, di “colpi d’arma da fuoco in Via Pineta Sacchetti, angolo via Mattia Battistini” diventa ad un tratto concitata: “E’ uno dei nostri, è uno dei nostri. E’ il dottor Vinci. A tutte le auto, a tutte le auto: attuare il piano di emergenza di primo, secondo e terzo grado”.

E’ il linguaggio di tante avventure degli eroi dei fumetti, di cui Vinci era appassionato nella sua adolescenza trascorsa a Teramo dove la sua famiglia si era trasferita da Palermo al seguito del padre assegnato alla locale Banca d’Italia. Le sue collezioni suscitavano l’invidia di noi compagni di scuola, entrare nella stanza dov’erano pile di “giornalini” in perfetto ordine era come visitare il paese dei balocchi. Però l’invidia era mista a un senso di compatimento perché il fumetto era visto allora come disimpegno se non diseducazione, visione infantile e non coscienza matura della realtà, gli veniva addossata la “colpa” di spegnere la fantasia alimentata invece dalla parola scritta.

39^ Commemorazione, 19 giugno 2020, l’omaggio della sindaca di Roma Virginia Raggi

L’agguato mortale

Torniamo alla notizia giornalistica, illustrata proprio da fumetti disegnati nella prima pagina del “Messaggero”. Nel primo l’attentato al Vice-questore, un’auto ferma per far passare una colonna di autovetture, alle portiere i terroristi che fanno fuoco all’interno. La cronaca: “Due giovani a piedi, che fino a pochi minuti prima vendevano copie di ‘Paese Sera’, si sono avvicinati all’auto impugnando le pistole, una calibro 9 e una ‘357 magnum’, coperte dai giornali. Il Dr. Vinci, raggiunto da proiettili di tipo speciale con enorme potere penetrante, ha abbozzato un tentativo di reazione (la sua pistola è stata trovata sotto il sedile, l’aveva estratta e non aveva fatto in tempo ad usarla). L’agente al volante ha aperto la portiera e si è gettato a terra, ma dall’altro lato erano pronti altri due terroristi che hanno sparato contro di lui. Il commando è poi fuggito a bordo di una 128 di colore blu”.

Ricovero immediato al vicinissimo Policlinico Gemelli. Ancora dalla cronaca: “Per Vinci, colpito da sette proiettili di cui due mortali non c’è nulla da fare, muore dopo pochi minuti. L’autista, l’agente Pacifico Votto, in condizioni gravissime, con polmone, reni e fegato trapassati da un proiettile, viene operato e resta in rianimazione, tra la vita e la morte”. Fortunatamente sopravvive.

38^ Commemorazione, 19 giugno 2019, l’arrivo delle autorità, con la sindaca di Roma Virginia Raggi

La vocazione

Questo l’epilogo della storia di Sebastiano Vinci, Nello per gli amici e per noi suoi compagni di scuola a Teramo, alle medie e al Liceo-ginnasio “Melchiorre Delfico”. Ma come si era dipanata la sua vita dopo l’infanzia e l’adolescenza vissute nel segno delle magiche avventure degli eroi dei fumetti, suoi personaggi prediletti?

Conseguita la laurea in giurisprudenza era entrato nella Banca Nazionale del Lavoro, dove aveva lavorato undici anni prima di vincere nel 1968 il concorso per vice-commissario di polizia, la sua aspirazione di sempre, come sanno i suoi compagni di allora. Non ebbe dubbi, fece una grande festa con familiari e amici: “Finalmente mi sono liberato di un lavoro oppressivo e faccio la professione che mi è sempre piaciuta. Oggi sono felice”, aveva detto.

Ma qual è stata la molla che gli ha fatto coltivare quest’aspirazione facendogli lasciare, dopo undici anni, il lavoro bancario da tanti ambito, cambiare città e ricominciare da capo per un’attività così esposta e difficile, nelle file della polizia, in prima linea nella lotta alla delinquenza? Quali valori, assimilati nell’adolescenza, lo avevano portato a una inconsueta scelta di vita che lo rendeva felice?

Il ricordo torna alla sua passione per i fumetti, ai personaggi delle “strisce” strenuamente impegnati nella frontiera tra il bene e il male a far trionfare i valori positivi. Una lotta senza quartiere nella quale il bene è destinato a sconfiggere il male, ma attraverso inenarrabili vicissitudini, tremendi pericoli e tanta fatica. Ripensiamo in particolare all’Uomo Mascherato, il suo eroe prediletto, il personaggio da lui più amato. Ebbene, da “giustiziere della giungla” divenne “giustiziere della giungla d’asfalto” delle metropoli, agiva nel Golfo del Bengala ma era richiesto dalle polizie di tutto il mondo ed era sempre pronto ad accorrere dove era necessario affrontare situazioni intricate e pericolose. Andò in America per lottare contro bande criminali, nel mondo violento degli anni ’30, approdò anche in Inghilterra: lui con la polizia da una parte, le bande criminali delle metropoli dall’altra. Sulla frontiera tra il bene e il male irrompeva con la sua forza per far prevalere il bene.

Cominciamo a riflettere sui nostri giudizi di allora, si stringe il cuore nello scoprirne la vocazione.

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38^ Commemorazione, 19 giugno 2019, il raccoglimento delle autorità

La carriera nella Polizia

Abbiamo lasciato Vinci felice alla festa in famiglia per l’ingresso in polizia. Di qui prende avvio una brillante carriera. La parte iniziale a Roma, poi a Modena dove diviene presto Vice-capo della Squadra mobile. Di lì alla questura di Torino, vi resta sette anni, prima come funzionario addetto alla Criminalpol, poi aggregato alla Squadra mobile come dirigente della 1^ Sezione omicidi e rapine; quindi dirige il Commissariato “Barriera Milano” della periferia Nord di Torino.

Finalmente, questa sarà stata la sua esclamazione, il trasferimento a Roma nel 1979. Regge il Commissariato “Monteverde”, ma dopo due mesi i gradi superiori ritenendolo “un poliziotto con la P maiuscola”, come dissero, lo spostarono all’ufficio di gabinetto della Questura come diretto collaboratore del dirigente e infine – proprio infine, purtroppo – gli affidarono il Commissariato “Primavalle”, uno dei più “caldi” della capitale, con il grado di Vice-questore.

Un territorio molto vasto da presidiare disponendo di soli 60 uomini: dalla Pineta Sacchetti e dal quartiere Aurelio fino a Bracciano, Anguillara e Formello, con oltre 800.000 abitanti. E un commissariato di frontiera dove delinquenza comune e criminalità politica s’intrecciavano pericolosamente: spaccio di stupefacenti e rapine, malavita organizzata e racket, e in più un centinaio di autonomi, rivoluzionari violenti contigui al terrorismo, per metà clandestini.

Quasi quotidianamente veniva segnalato alla questura il reperimento di volantini, opuscoli e striscioni eversivi “che ormai – dissero gli agenti – avevano riempito una delle stanze del Commissariato”. Qualche giorno prima dell’agguato un pregiudicato, che non si era fermato a un posto di blocco, era stato colpito a morte dagli agenti del Commissariato nell’inseguimento. Un quadro non meno fosco dell’America degli anni ’30, una “giungla d’asfalto” non meno rovente di quella nella quale si batteva il “giustiziere mascherato” dei suoi fumetti preferiti.

E anche per Vinci la lotta sembrava impari. Il numero di agenti del Commissariato era rimasto lo stesso da trent’anni pur con la crescita esponenziale della popolazione nel territorio e per di più spesso il personale veniva dirottato in altri commissariati. Lui non chiedeva rinforzi ma diceva: “Vi chiedo solo di lasciarmi i miei uomini, non ho bisogno di rinforzi, purché mi lasciate loro”.

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37^ Commemorazione, 19 giugno 2018, un momento della cerimonia

La sua figura

Non aveva i poteri straordinari del suo eroe, ma tanta umanità unita a una sperimentata professionalità. Così lo hanno ricordato i suoi collaboratori: “Un funzionario colto, deciso, preparato. Qui al commissariato Primavalle si era fatto apprezzare dal personale costruendo un clima di amicizia e collaborazione”.
La sera prima dell’agguato mortale aveva diretto il servizio d’ordine pubblico alla manifestazione del PCI con Berlinguer e Petroselli, che nelle imminenti elezioni amministrative a Roma si contrapponeva a Galloni: Secondo una segnalazione anonima ci sarebbe stato un attentato, ma tutto filò liscio, come lui aveva previsto, e a notte inoltrata poteva cenare tranquillamente con i collaboratori in un’osteria della zona.

Ed ecco un’altra prova della sua umanità, che ci riporta ai banchi di scuola: “Il Commissario Vinci aveva agito con particolare decisione contro le infiltrazioni di gruppi eversivi nelle scuole – raccontò allora il maresciallo capo della squadra giudiziaria – soprattutto al liceo Fermi, ed era riuscito in parte ad arginarle. I muri del quartiere si erano riempiti di minacce contro di lui.” Allorché fu assassinato stava per testimoniare contro un docente del Fermi, accusato di istigare alla violenza; nei giorni precedenti l’udienza era stata rinviata.
Ma allora il nostro compatimento per la sua “mania” per i fumetti, la nostra aria di sufficienza per il disimpegno e la superficialità che questa passione “eccessiva”” sembrava esprimere? Non lo avevamo giudicato male, pur con l’affetto, la simpatia e un po’ d’invidia provata per i frutti proibiti che custodiva nella stanza magica delle sue collezioni di fumetti? Allora…

Il suo sacrificio appare in una luce sempre più umana secondo altre testimonianze: “Non puntava alla spettacolarità dell’azione. Una persona corretta, uno che il suo lavoro lo amava, uno che sapeva affrontare sempre le situazioni nel modo giusto con cautela ma, se occorreva, con decisione”.

Un esempio di questo modo di comportarsi si ebbe quando gli autonomi occuparono un locale dell’Istituto case popolari, non ordinò lo sgombero con la forza, e li convinse ad allontanarsi “usando civiltà e persuasione”, così le cronache; ma non esitò ad arrestarli allorché, credendo che non vi fosse più sorveglianza, tentarono una nuova occupazione.

Nessun piglio da giustiziere, dunque, nessuna imitazione dell’eroe prediletto della sua adolescenza se non nei valori. Ma equilibrio unito a fermezza; e, insieme, forza d’animo e soprattutto serenità. Aveva “passione per il mestiere inteso anche come rapporto con la gente e i suoi problemi”. Elena, la proprietaria del baretto vicino al Commissariato, disse: “Il dottore si faceva voler bene da tutti, era sempre sorridente, pieno di entusiasmo”.

I suoi colleghi di Torino rievocarono così l’ultima visita che fece alla Questura dove aveva lavorato per sette anni, pochi mesi prima dell’agguato: “‘Tutto bene, ragazzi? – disse – Non lamentatevi. Vedeste a Roma, lì non c’è un solo attimo di pace. E pensare che poco tempo fa mi hanno anche minacciato di morte!’. Aveva riso, sicuro e allegro come sempre”. Ricordavano che il suo nome era stato trovato alcuni mesi prima in un covo delle BR nel capoluogo piemontese. Era entrato nel mirino dei terroristi per il lavoro svolto a Torino: citano la scoperta dell’armeria clandestina di un nucleo delle BR, pistole, bombe a mano, candelotti di dinamite, in un alloggio vicino al Commissariato che aveva diretto.

Così “L’Unità” descrisse la sua figura: “Vinci era il simbolo di quella che dovrebbe essere una polizia moderna e democratica, fatta di uomini preparati, consapevoli, soddisfatti di servire le istituzioni democratiche, la collettività. E proprio per questo l’’infaticabile’, come affettuosamente lo chiamavano i colleghi, era odiato non solo dalla malavita ma anche dai terroristi. ‘Attento, Vinci’, si leggeva ancora ieri sera in una via di Primavalle, quartiere tra i più difficili della grande periferia romana. Accanto alla scritta una sigla del terrorismo rosso: MPRO”.

Una morte annunciata, dunque, ma da lui non temuta. Non ha la vettura blindata, non adotta particolari precauzioni nei ritorni quotidiani da Via Maglione dov’è il Commissariato all’abitazione di Via Cecilio Stazio, tragitto che a volte compie su un’auto di servizio, a volte sulla propria autovettura. Ha fiducia nel suo rapporto con la gente, consapevole di svolgere con correttezza oltre che con passione il suo delicato lavoro.

Non lo ha ucciso l’odio personale di delinquenti e terroristi, perché aveva saputo meritare il rispetto di coloro che lo avevano conosciuto, anche se si trovavano al di fuori della legge; lo ha assassinato l’aberrazione criminale degli anni di piombo, che si scatena con cieca virulenza nel giugno angoscioso del 1981 anche contro di lui considerato un simbolo da abbattere.

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37^ Commemorazione, 19 giugno 2018, gli onori militari

Il rispetto degli avversari

Un autonomo di Primavalle, subito dopo la sua morte, disse: “Sono stato in carcere fino a poco tempo fa, ho sfiorato il partito armato, ma questo inutile delitto mi ha aperto gli occhi. Conoscevo Vinci da avversario e, pur considerandolo tale, lo stimavo per come svolgeva il suo lavoro. Ucciderlo è stato un atto gratuito, inconciliabile anche con la più aberrante logica rivoluzionaria”. L’umanità che penetra nel cuore indurito da ideologie deliranti è un miracolo che scaturisce dal sacrificio: “Tutti adesso esprimono la loro esecrazione rituale – continua l’autonomo – io esprimo una condanna sentita e sofferta”.

Non sappiamo se questi propositi siano stati mantenuti. Sappiamo però che altre certezze furono scosse, altri cuori furono toccati.

La moglie di un terrorista condannato a 16 anni nel 1975, sposato in carcere, portò un mazzo di fiori sul feretro ed espresse con coraggio, in televisione, una condanna anch’essa sentita e sofferta e lanciò un appello: “Chi vuol cambiare le cose uccidendo persone, come hanno fatto con il Dr. Vinci, non ha capito niente di come si deve fare per cambiare perché in questo modo non si cambia proprio niente”. Ed ancora: “Le persone che commettono questi omicidi, avessero anche il coraggio di mostrare la faccia. Se vogliono cambiare le cose uccidendo, mostrino la loro faccia. Io sto dicendo queste cose perché uccidere non serve a niente, serve solo a creare panico, paura, a vivere male… sulla morte delle persone non si costruisce niente né di positivo né di negativo, assolutamente niente”.

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36^ Commemorazione, 19 giugno 2017, le autorità, con la sindaca di Roma Virginia Raggi

La sua memoria

Vi fu esecrazione ufficiale con le autorità schierate al completo, il Presidente Pertini in testa, ai funerali di Stato officiati dal Cardinale Poletti nella chiesa di S. Vitale a Roma.

Ma già nei giorni successivi l’attenzione dell’opinione pubblica fu attirata da altri eventi: i risultati delle elezioni amministrative, il nuovo governo presieduto da Spadolini, nuovi crolli in Borsa, gli strascichi della P2, altri scandali, le vicende dei sequestri terroristici, un ricovero d’urgenza in ospedale di papa Wojtila che era tornato il 6 giugno in Vaticano dopo l’attentato che lo aveva ferito gravemente, le polemiche sulla fine di Alfredino Rampi dopo i vani tentativi di salvataggio a Vermicino, e perfino l’arrivo dei bronzi di Riace al Quirinale.
La stampa si limitò a brevi notizie in cronaca sull’andamento delle indagini. Normale, certo. Ma a scorrere oggi i giornali del tempo, fa male vedere che Sebastiano Vinci era dimenticato pochi giorni dopo l’assurdo crimine, dopo l’“esecrazione rituale” delle autorità.

Poi qualcosa si è mosso, e dalle parole del fratello Aldo abbiamo ora capito perché. A Roma fu posta una lapide all’ingresso del Commissariato di Primavalle, gli è stata intitolata una strada del quartiere dove abitava; inoltre, è cronaca recente, gli è stata intitolato il Centro polifunzionale della Polizia a Torino. Ogni anno viene celebrato l’anniversario del 19 giugno con una cerimonia alla quale partecipano le autorità, Questore in testa. La famiglia è rappresentata sempre dal fratello Aldo con la consorte; la moglie di Sebastiano dopo la tragedia entrò in depressione e non si riprese più, si spense dopo un triste andirivieni con l’ospedale.

35^ Commemorazione, 19 giugno 2016, l’omaggio del Vice-questore vicario De Angelis

La riapertura della ferita

Quest’anno l’anniversario si celebra mentre un’autorevole componente del commando assassino, pur condannata e arrestata di recente, si è sottratta alla pena. Segno dei tempi? Forse sì, in tutti i sensi, per il tempo trascorso e per una specie di indulgenza che di fatto si è diffusa dopo l’esecrazione. Ormai sono fuori dal carcere quasi tutti gli autori dei più efferati attentati, e non solo degli anni di piombo, anche di molte stragi mafiose. Dove non sono intervenuti i benefici carcerari ci sono stati i benefici concessi per il pentimento.
Ma né l’uno né l’altro si sono verificati per la responsabile dell’atroce delitto, la brigatista Marina Petrella, a capo del commando costituito dalla colonna Primavalle; non si è pentita né dissociata, è rimasta sulle sue deliranti posizioni. Si è invece verificata un’incredibile concatenazione di eventi nei quali la burocrazia giudiziaria ha prevalso sulla giustizia: un’anomalia perversa, vincente per l’assassina, perdente per le vittime. Abbiamo sentito prima Aldo Vinci, ora diamo la parola ai fatti.

Implicata nel delitto Moro e in altri fatti di sangue, la Petrella fu arrestata ripetutamente, l’anno precedente e l’anno successivo l’attentato a Vinci e rimessa in libertà per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Fu processata nel “Moro-ter” per l’assassinio di Vinci, di cui fu riconosciuta colpevole. Nel corso del lungo procedimento, iniziato circa dieci anni dopo il fatto, fu ancora rimessa in libertà per decorrenza dei termini. Quando dalla Cassazione arrivò nel 2003 la condanna definitiva all’ergastolo non la trovarono più al suo domicilio essendosi rifugiata nella Francia che dava asilo ai terroristi per effetto della “dottrina Mitterand”.
Ha condotto una vita normale fino a quando, decaduta tale dottrina con la fine del governo socialista, e ripresa la collaborazione dei francesi nel perseguire i fuorusciti, è stata individuata e fermata dalla polizia. L’Italia ha chiesto l’estradizione e il presidente Sarkozy in un primo momento ha dato l’assicurazione che sarebbe stata concessa, con la richiesta irrituale al governo italiano di prendere in considerazione il conferimento della grazia per le sue condizioni di salute.

Fino all’ultima beffa, allorché nell’ottobre 2008 l’estradizione è stata addirittura negata motivando il diniego con la motivazione che le condizioni di salute della terrorista sono incompatibili con la detenzione; e ciò per l’intercessione della consorte del presidente francese Carla Bruni a sua volta sollecitata dalla propria sorella che aveva visitato la Petrella in carcere.

Una grottesca “pochade” che ha fatto protestare giustamente le istituzioni italiane. Il capo della polizia Antonio Manganelli, nell’inaugurare a Torino il Centro polifunzionale della polizia intitolato a Vinci, ha contestato “un sistema che dà la certezza della quasi assoluta impunità” e consente alla Petrella “condannata all’ergastolo con l’accusa di essere stato il capo del Commando che uccise proprio Vinci, di non essere estradata versando in uno stato di depressione grave. Noi ne abbiamo preso disciplinatamente atto – ha concluso – ma non senza sommovimenti interni in ciascuno di noi”. E nel dire questo ha reclamato l’esigenza della “certezza della pena”.

Il fratello Aldo Vinci, con dolore misto a rabbia, ha dichiarato nella stessa circostanza a Torino: “Si uccidono poliziotti e carabinieri e poi si fugge all’estero e finisce tutto. Non è giustizia. Non è un messaggio positivo. Lei è fuggita in Francia, dove ha potuto condurre una vita normale, mentre mio fratello è al cimitero crivellato di proiettili solamente perché era al servizio dello Stato”. E con sofferenza ancora maggiore: “Paola, la moglie di mio fratello, quando ha visto Sebastiano crivellato di proiettili al Policlinico Gemelli, ha subìto un tale trauma che non si è più ripresa. È caduta in depressione. Si è trascinata per qualche anno fino a morire in ospedale di crepacuore. Nessuno ha mostrato pietà per lei vedova di un servitore dello Stato. Mio fratello è stato ucciso per il lavoro che faceva”. Poi la conclusione:”Marina Petrella è stata la mandante e l’esecutrice materiale. Lei era a capo della colonna Primavalle delle Brigate Rosse e mio fratello era il dirigente del commissariato di quel quartiere. Ha commesso un reato di sangue: deve rispondere con l’ergastolo”.

Ricordando questi precedenti ripensiamo alle parole dette oggi da Aldo, con una serenità mista alla determinazione di battersi sempre e dovunque per la memoria del fratello Sebastiano. Anche lui ha reclamato l’esigenza della “certezza della pena” per i responsabili di crimini così efferati.

Sostiamo commossi dinanzi alla sua lapide, usciamo dopo averla accarezzata, per noi è tornato ad essere l’antico compagno di scuola appassionato di fumetti, caduto nell’esercizio del dovere. Nella strada vicina, alla fermata dell’autobus chiediamo un’informazione a una signora anziana e le domandiamo se si ricorda del capo del Commissariato di trent’anni fa, Sebastiano Vinci: “Me lo ricordo benissimo, ci dice, non è morto in un conflitto a fuoco ma in un vile agguato, lo hanno aspettato al semaforo i terroristi”. E poi aggiunge: “Dovrebbero ammazzarli tutti quei delinquenti, invece stanno tutti fuori liberi mentre il povero Commissario sta sotto terra…”.

Il Commissariato Primavalle diretto da Vinci, via Luigi Maglione, 9 Roma

L’umanità di un eroe borghese

L’ultima immagine che vogliamo lasciare di Nello – ci piace ora chiamarlo come nell’adolescenza – è familiare ai lettori di fumetti, come le immagini drammatiche di sparatorie ed attentati.

E’ quella di un cane, l’inseparabile compagno che lo accompagnava sempre quando tornava a casa. Così la cronaca dell’epoca: “Illeso il cane che, guaendo, era saltato sulle gambe del Dr. Vinci, come per proteggerlo”. Poi aveva abbaiato furiosamente dal finestrino frantumato ed era infine restato a guaire disperato accanto al corpo del padrone in fin di vita: così lo ricordavano i testimoni, così apparve nelle istantanee pubblicate sui giornali.

Un cane era anche il compagno inseparabile dell’eroe prediletto. Si chiamava “Diavolo” ed era impegnato nelle imprese epiche dell’Uomo Mascherato. Il cane di Nello si chiamava “Ciccio” e la sua presenza contribuiva a creare quel clima familiare che si respirava nel Commissariato, come dissero i suoi collaboratori.

Torniamo alle cronache di allora:“Ed in questo era aiutato anche dal suo inseparabile Ciccio, il cane di razza ‘beagle’ che tutti avevano imparato a conoscere. Dove c’era Ciccio c’era anche Vinci. Ciccio era lì accanto al suo padrone anche ieri mattina sulla Ritmo bianca , seduto sul sedile posteriore coperto di giornali. Mentre gli assassini sparavano”.

Un compagno fedele come quello dell’eroe dei fumetti, ma domestico e mansueto. Del resto, nella sua lotta contro la delinquenza, Nello non aveva le sembianze e i modi del giustiziere, lo abbiamo ricordato, bensì dell’uomo comune. Dell’“eroe borghese” che ogni sera portava a spasso il suo Ciccio e per ciò stesso, dissero i vicini, ispirava serenità quando lo vedevano passare.

Con questa immagine serena vogliamo concludere il ricordo del compagno di scuola nostro e di tanti coetanei teramani. Un ricordo che ci ha fatto ripercorrere un’avventura purtroppo tragica, intrisa di profonda umanità. Le strisce dei fumetti, gli eroi della sua e nostra adolescenza, fanno da sfondo ad una vicenda realmente vissuta che assume ora dimensioni mitiche e valori simbolici.

Una vicenda nella quale spicca la figura di un eroe, un “eroe borghese”. Per noi c’è un motivo in più di rimpianto. L’incomprensione di allora del suo spessore umano nascosto da quella che sembrava una “mania” per i fumetti. Era invece una condivisione profonda dei valori positivi incarnati negli eroi dell’adolescenza; che lo ha portato a una vita di frontiera, fino all’estremo sacrificio.

Come nel romanzo di Fred Uhlmann del 1971, tradotto nel film “L’amico ritrovato” del 1989 – una di quelle storie che non si dimenticano e molti hanno visto certamente – lo abbiamo scoperto purtroppo molto tardi, troppo tardi per dirglielo mentre era in vita. Ma non troppo tardi per rendere omaggio oggi, che è diventato un eroe, a un amico della nostra adolescenza. L’amico ritrovato.

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Liceo-ginnasio Melchiorre Delfico frequentato da Vinci a Teramo, oggi IIS Delfico-Montauti

Info

L’articolo sopra riportato, con i commenti che seguono, è stato pubblicato il 20 giugno 2009 sul sito”on line” cultura.inabruzzo.it , non più raggiungibile, gli articoli, che sono disponibili, vengono trasferiti su questo sito.

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Dopo le prime due fotografie – una foto tessera di Sebastiano Vinci e una scena dei suoi funerali – abbiamo inserito nell’articolo del 2009 sopra riportato una serie di immagini delle celebrazioni annuali svoltesi negli ultimi cinque ann, con la partecipazione del Questore e della sindaca di Roma Virginia Raggi, davanti alla sua lapide presso il Commissariato Primavalle di Roma, che dirigeva nel 1981, quando fu assassinato nell’agguato terroristico da quattro brigatisti rossi. Tali immagini sono tratte da siti web di pubblico dominio, ma qualora non ne fosse gradita la pubblicazione dai proprietari dei diritti, su semplice loro richiesta provvederemo ad eliminarle, facendo doverosamente presente che sono solo accessorie avendo mero intento illustrativo senza alcuna implicazione di nessun tipo di natura economica o pubblicitaria. I siti, di cui si ringraziano sentitamente i titolari per l’opportunità offerta, sono i seguenti, nell’ordine in cui le rispettive immagini sono nel testo: wikipedia, romalive.org, primapaginanews.it, questura.poliziadi stato.it, lavocedellazio.it, comunediroma.it, ilcaffe.tv, agvilvelino.it , 3 in fila da questura.poliziadi stato.it, le ultime 2 da lecodellitorale.it., facebook.com.

11 Comments

  1. Romano Maria Levante

Postato gennaio 11, 2011 alle 9:29 PM

Sono io a ringraziare Bartolo, che non conosco, per aver ricordato Sebastiano Vinci in questo inizio di 2011 con il suo commento di poche parole quanto mai toccanti. Lo ha “visto arrivare al Commissariato Primavalle e purtroppo anche morire”; rende “onore al dr. Vinci Sebastiano, anche a nome di molti ex del Comm.to Primavalle”.
Che si può dire di più, c’è memoria e commozione, in questo inizio di anno che riporta in primo piano la sua figura e ha fatto tornare nella prima pagina della nostra rivista anche il ricordo dei tanti i cui commenti precedono nel tempo quello di Bartolo.
Rileggiamo l’orgoglio di Giorgio, che purtroppo non c’è più, di averlo avuto compagno, il rimorso di Franco per non aver saputo battersi contro la barbarie, l’esempio per le giovani generazioni evocato da Luigi, l’impegno di Corrado a raccontarne la storia ai colleghi perché “narrare vuol dire resistere”, la condivisione di Enzo e Domenico, l’appello di Rosanna alla memoria pubblica per il “passato che non passa” nelle parole di Primo Levi.
Giorgio e Fabrizio, Franco e Luigi, Rosanna e io stesso lo ricordiamo avendo condiviso con Sebastiano Vinci, per noi Nello, la frequenza del liceo-ginnasio Melchiorre Delfico di Teramo.
In questo spirito posso dare a tutti una notizia, ringraziando il suo ex collega di commissariato Bartolo per avermene fornito l’occasione con il suo fresco commento di inizio anno.
La possibilità che Nello venga ricordato, come chiede l’ex collega di liceo Rosanna in un gemellaggio ideale con Bartolo, mi è stata confermata in questi giorni dal prof. Roberto Ricci, che si è adoperato al riguardo dopo il mio incontro a questo fine con il preside del Delfico. Soltanto l’avvicendamento al vertice dell’istituto ha creato un rallentamento, la nuova preside sarà sensibile a questa esigenza sentita così intensamente.
Ancora tutto è da definire, ma le premesse poste dal preside precedente ci sono, confidiamo che si traducano nel riconoscimento dovuto a un eroe autentico che sin dall’adolescenza ha sentito nascere l’insopprimibile bisogno di schierarsi dalla parte della giustizia.
In questo la scuola, e quindi il Melchiorre Delfico dove si è formato, ha avuto un ruolo importante, oltre alle sue letture che sembravano infantili, mentre rispondevano a un’esigenza profonda che solo dopo si è compresa appieno, come dimostra la storia della sua vita.
Un grazie ancora a Bartolo per aver ricordato il nostro eroe – un bell’inizio per il nuovo anno – dopo l’omaggio di tanti di noi orgogliosi di averlo avuto come compagno al Melchiorre Delfico.
Questo prestigioso istituto saprà esprimere, a sua volta, l’orgoglio di aver avuto un allievo come Vinci che ha saputo incarnare fino all’estremo sacrificio i più alti valori.

  • Bartolo

Postato gennaio 9, 2011 alle 9:04 PM

Grazie per aver ricordato il mio Dirigente – dott. Sebastiano VINCI. L’ho visto arrivare al Comm.to Primavalle e purtroppo anche morire.
Onore al dr. Vinci Sebastiano, anche a nome di molti ex del Comm.to Primavalle.

  • Rosanna Polidori Iacovoni

Postato agosto 11, 2009 alle 11:52 AM

L’articolo di Romano Levante del giugno 2009, sulla morte del commissario di polizia Sebastiano Vinci ucciso nel 1981 dalle B.R. , ha riproposto inevitabile, a 30 anni circa di distanza, l’immagine dei sentimenti e risentimenti legati ad un fenomeno storico, il terrorismo, che ha segnato in modo irreversibile la società italiana.
Premesso che non ho conosciuto S. Vinci, leggendo la ricostruzione della sua vita sono rimasta colpita dalle coincidenze tra le sedi scolastiche e lavorative del Commissario e le mie: Teramo, Torino e Roma. Teramo: liceo “M. Delfico” che abbiamo frequentato nello stesso periodo. Torino. E infine Roma: quartiere Primavalle. Nel 1981 infatti insegnavo presso una scuola statale di Primavalle. La storia della vita di S. Vinci e la sua morte lo collocano nella lunga lista di cittadini che le B.R, seguendo una precisa strategia, hanno ferocemente eliminato a causa del ruolo e del rigore morale e professionale con il quale lo esercitavano. La memoria pubblica non può chiudere i conti con il passato perché dal passato non si esce, ma si continua a portarselo dietro come un tratto della costruzione della nostra personalità. Primo Levi parlava di un “passato che non passa”. Ma le vittime delle B.R. andrebbero sempre commemorate per collaborare alla ricerca di un superamento della violenza. E i tempi della memoria dovrebbero anche andare del senso di una giustizia “giusta” cosi come R. Levante sottolinea.

  • Domenico Moschetta

Postato agosto 10, 2009 alle 8:01 PM

Articolo ben documentato! congratulazioni

  • Corrado

Postato agosto 6, 2009 alle 7:50 PM

lavoro al Comm.to Primavalle da molti anni, credevo di conoscerla tutta la storia dell’omicidio del Dott. Vinci, invece…. farò in modo di narrare la memoria del Dott. Vinci ai miei colleghi xchè narrare vuol dire resistere.
Sig. Levante, grazie del suo prezioso contributo.

  • Luigi Marini

Postato luglio 21, 2009 alle 8:48 PM

La memoria ed il ricordo di Nello Vinci possono, anzi, devono essere di stimolo alle nostre generazioni ed a quelle future, affinché una vita umana a difesa delle Istituzioni e dello Stato non sia stata sacrificata invano.

  • Franco Tomassini

Postato luglio 15, 2009 alle 4:05 PM

Il sacrificio di Nello Vinci, simile a quello del Commissario Esposito, assassinato a Genova, dove vivo, dalle BR, a quello del Giudice Alessandrini di Pescara, e a quello di tante altre vittime di una follia alla quale assistemmo inermi, impotenti ma, forse, e soprattutto, colpevolmente indifferenti, oggi viene ricordato da Romano Levante con una voce che stimola noi vecchi a frugare nelle nostre coscienze, alla ricerca di qualche salutare rimorso.
Le BR furono le figlie anomale dell’esaltazione di un ’68 infantile, privo di visioni politiche, e, quindi, il naturale sbocco di utopie impossibili. Mentre altri Paesi riuscirono ad assorbire il fenomeno, noi in Italia producemmo una guerra civile che seminò il Paese di morti ammazzati, persone come noi, della nostra età, dei nostri sentimenti.
E noi non facemmo nulla per impedire tutto questo.
L’articolo dell’amico Romano ha fatto rinascere in me un profondo rimorso, quello di non aver saputo oppormi con la dovuta forza a tanta barbarie.

  • Enzo

Postato luglio 12, 2009 alle 5:48 PM

anche se ho un flebile ricordo della vicenda che coinvolse Nello, apprezzo e condivido le considerazioni di Levante

  • Fabrizio Iacovoni

Postato luglio 8, 2009 alle 10:31 AM

Ho letto con attenzione l’articolo di Romano M. Levante la cui onestà intellettuale è nota ne condivido completamente l’analisi sociologica del ns. “Eroe” e le conclusioni per una giustizia più giusta. Spetterebbe alle istituzioni dare un segnale tangibile per ricordare alle generazioni future la nobiltà di questo servitore dello Stato ammazzato barbaramente da una vendetta priva di ideologia.

Fabrizio Iacovoni
Via Luigi Cadorna, 67
64100 TERAMO
Tel. 340 8512341 – 0861 244810

  1. Giorgio Di Pancrazio

Postato luglio 1, 2009 alle 9:32 PM

Sono orgoglioso di aver avuto Nello Vinci compagno al
Liceo Melchiorre Delfico di Teramo.

Il caso Ruby, prima del diluvio

di Romano Maria Levante

Nella giornata odierna, 14 giugno 2023, con i funerali di Stato di Silvio Berlusconi e il lutto nazionale, di nuovo ripubblichiamo i nostri due articoli del 2011 e del 2014 sul “caso Ruby” per contrastare – con gli elementi di fatto e la nostra motivata interpretazione – le infamie che si continuano a perpetrare nei suoi riguardi anche senza il rispetto dovuto nel momento supremo, con la gogna di aver violato l’articolo della Costituzione sull’obbligo di adempiere alle funzioni pubbliche con “disciplina e onore” e aver calpestato i valori morali e la dignità delle donne. Un falso palese ma ricorrente che si basa proprio sulle “cene eleganti” del “caso Ruby” equivocate in modo paradossale con un accanimento investigativo e giudiziario vergognoso sbugiardato dalla sentenza finale assolutoria, un accanimento fuori da ogni logica e correttezza elementare, come dimostrano i nostri due articoli scritti per amore di verità.

La sentenza di assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo “Ruby ter” perchè “il fatto non sussiste” ha cancellato l’accusa di corruzione in atti giudiziari del processo per prostituzione minorile e concussione intentato nel 2011 in cui era stato assolto in appello nel 2014. Sembra avviarsi a conclusione un’odissea giudiziaria di 12 anni, anche se resta aperto un processo a Bari per il quale si prevede la stessa conclusione per insanabili vizi apparentemente formali, dove la forma è sostanza. Per questo ripubblichiamo i due nostri articoli usciti nel 2011 quando si aprì l’azione giudiziaria e nel 2014 allorchè ci fu l’assoluzione (e ripublicammo anche quello dl 2011, come si legge nell’introduzione che segue). Ci sembra un “come eravamo” interessante e coinvolgente, almeno per noi è stato così, anche perchè i commenti dei lettori all’articolo del 2011, e le nostre considerazioni del 2014, rendono il clima che si viveva in quel periodo, oggi forse è intervenuta l’inevitabile stanchezza.. Di seguito il primo articolo del 2011, domani il secondo del 2014..

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Un’immagine, come le tre seguenti, della trasmissione televisiva “Drive in”

.Siamo nel luglio 2014, nell’imminenza della sentenza di appello sul “caso Ruby” riproponiamo l’articolo pubblicato in “cultura.inabruzzo.it” nel gennaio 2011 per condividere alcune nostre riflessioni con i commenti che hanno suscitato, un modo per rientrare nel clima di allora “dopo il diluvio” della condanna a 7 anni di reclusione  che viene ora sottoposta all’esame della Corte d’Appello. Il Pubblico Ministero ha chiesto la conferma della condanna, la difesa ovviamente l’assoluzione. Ma non è su questo che richiamiamo l’attenzione, e neppure sugli aspetti specifici della vicenda. Sul contesto in cui  è maturata nuovi elementi di interpretazione sono venuti dal retroscena dell’assegnazione dell’accusa da parte del procuratore capo alla Bocassini invece che a Robledo, al quale sarebbe spettata secondo le regole interne della procura, ma sono aspetti  che esulano dal nostro punto di vista. esclusivamente culturale, ora come allora quando scrivemmo l’articolo che ripubblichiamo.  

Da: “cultura.inabruzzo.it” 

Abruzzo » Culturalia » Caso Ruby, riflessioni a scena aperta

Scritto il 19 gennaio 2011 Autore: Romano Maria Levante Culturalia

Dopo i fatti di sangue di Cogne, Avetrana e la scomparsa della giovane Iara le prime pagine dei giornali e i talk show sono monopolizzati da un’altra emergenza mediatica, il caso Ruby. La storia si ripete ma la volta successiva passa dalla tragedia alla farsa; in questo caso lo fa anche la cronaca, perché nelle tre vicende ricordate alla base della sovraesposizione c’era un fatto drammatico, a danno sempre di minori, omicidio nei primi due, sparizione nel terzo. Qui la farsa inizia dalla “minore” protagonista, vicina ai canonici 18 anni al momento del “delitto”, per di più sembra siano stati molto vissuti.

Il codice e la minore età, la Costituzione e la competenza del giudice

Non dà certo un’immagine di bisognosa di quella protezione che il codice accorda a un’età in cui si presume si sia ingenui e indifesi; peraltro ci hanno sempre parlato della precocità delle donne di quei paesi, tanto che la madre della suddetta risulta essersi sposata a undici anni. La farsa prosegue con il “delitto” che viene imputato in termini giuridici e quello più grave in termini morali; una farsa a cui corrispondono toni apocalittici e visi accigliati, anzi con il sopracciglio del supercensore.

Sul piano giuridico la farsa inizia nel balletto del giudice naturale: il Tribunale di Milano secondo l’accusa, quello di Monza o il Tribunale dei Ministri secondo la difesa. Monza perché è il luogo del “delitto” per la difesa e Arcore è in quell’ambito; Milano per l’accusa perché nella presunta “concussione” il luogo del “delitto” è Milano e assorbirebbe la competenza di Monza; né ci sarebbe competenza del Tribunale dei Ministri perché la famigerata telefonata con cui si sarebbe consumato il reato sarebbe stata fatta “nella qualità” e non “nelle funzioni” di Presidente del Consiglio.

Lana caprina o mera semantica, si direbbe, può mutare competenza la “qualità” invece delle “funzioni”? E poi un magistrato è sempre magistrato dovunque esso operi, o no? Però il diritto sancito dalla Costituzione al proprio “giudice naturale” non è un fatto solo ordinatorio, bensì serve ad evitare la persecuzione giudiziaria, fatto umano pur se escluso dalla deontologia. Infatti, cosa porterebbe un giudice “non naturale” a perseguire un cittadino, se non lo spirito di persecuzione?

C’è tanto arretrato, all’inaugurazione dell’anno giudiziario è stato fatto il numero di milioni di cause penali, che portano alla prescrizione, quindi all’impunità, oltre 200 mila processi l’anno, il 95% dei furti non perseguiti, così il 50% degli omicidi. Non sarebbe l’inattività a far debordare i magistrati dalla loro competenza, ma altro, il che rende oggi oltremodo necessaria tale garanzia costituzionale.

I benpensanti e il clima imperante, da “veline” e “letterine” a Sanremo

Ma lasciamo stare il lato giudiziario sul quale c’è questo primo macigno da rimuovere, e andiamo sul terreno morale dove si sono accaniti i benpensanti, incitando la Chiesa a dire la sua: proprio quelli che hanno fatto a gara nel denunciare l’inammissibilità di ogni sua ingerenza nella politica, finché il severo fondo dell'”Avvenire”, il giornale dei Vescovi, li ha soddisfatti; e così la giacca tirata al Presidente della Repubblica che alla fine è intervenuto chiedendo di fare presto chiarezza.

Finiscono qui le cose serie, torniamo alla farsa che però a sua volta rischia di trasformarsi in tragedia. “Dobbiamo vergognarci di fronte al mondo” e “il mondo si vergogna di noi”, ha detto pressappoco Bersani, il leader del maggiore partito di opposizione. Ed è senza dubbio vero. Come è comprensibile l’ondata di riprovazione diffusasi, insieme a un “voyeurismo” di antica data. Chi appartiene alla nostra generazione ricorderà il caso Montesi, non c’erano i talk show, ma parecchie pagine dei giornali ne furono monopolizzate per mesi e il “voyeurismo” si scatenò anche lì, con l’evocazione delle “notti brave”, ma allora erano in ballo i democristiani timorati di Dio: era il clima nel quale lo Scalfaro poi presidente schiaffeggiò in pubblico una signora – non “escort” ma moglie di un colonnello – per le sue spalle scoperte, spinto da un’indignazione irrefrenabile.

Oggi non c’è più quel clima, le “veline” e le “letterine” sono diventate gli oggetti del desiderio degli italiani, concupite da persone sole e in astinenza, ma anche sposate da attori e calciatori famosi. La stessa Rai servizio pubblico ha provato con le “schedine”, nella trasmissione domenicale in contemporanea con le partite, per non parlare delle presenze conturbanti diffuse a piene mani. Per l’imminente Sanremo la Rai non ha scelto delle sperimentate intrattenitrici ma due che appartengono al mondo effimero per cui c’è riprovazione. La prima ex “velina” ma compagna dell’attore famoso; la seconda confessa di aver provato gli stupefacenti, “peccato” per il quale ebbe l’ostracismo con ignominia nel precedente Sanremo l’artista Morgan di ben altro spessore, per di più viene dalla “scuderia” del reietto Lele Mora, a noi non è piaciuto neanche prima, non solo ora.

L’indignazione a orologeria e l’intelligenza di Renzo Arbore

E allora la farsa dell’indignazione pubblica a orologeria di questi giorni, con il sopracciglio dei politici trasformati in Inquisitori lascia allibiti, è come se venissero da Marte e non partecipassero anche loro al Circo Barnum televisivo, comprese le scosciate star e starlette promosse a opinioniste. Il clima da “basso impero” che viene lamentato è generale e non lo si scopre adesso, sempre che lo si ritenga tale e il giudizio non risenta di un moralismo opportunistico: ed è un clima indubbiamente introdotto o favorito dalla televisione commerciale, ma al quale la Rai si è accodata ben volentieri.

Ricordiamo che l’intelligenza di Renzo Arbore lo portò a popolare le sue trasmissioni cult in seconda serata delle colleghe e in parte antesignane di “veline” e “letterine”, con la coda e l’impagliata del “balletto coccodè”, e l’ammiccante balletto del “Cacao Meravigliao”; ma non solo, in “Tagli, ritagli e frattaglie”, se non erriamo – e in questo caso chiediamo venia in anticipo – una prosperosa Lori del Santo veniva inquadrata dal retro appoggiata a un bancone basso con il “lato B” che data la posizione quasi prona appariva in bell’evidenza. Satira di un andazzo della Tv commerciale e ironia, nelle corde dell’intelligenza di Arbore. Ma con un effetto di “voyeurismo”.

L’inventore di questa televisione ha un nome preciso, è alla ribalta in queste ore: non come antesignano di un genere discutibile quanto si voglia, ma sempre forma di spettacolo ammesso sugli schermi che entrano in ogni famiglia, per di più con la gratuità della Tv generalista; bensì come sfruttatore della prostituzione anche minorile e organizzatore di un mercimonio dei corpi. E questo non perché abbia dato scandalo pubblico andando oltre i limiti ammessi anche in Tv, per entrare nel territorio proibito della pornografia: nulla di pubblico o esterno, visibile o noto, riprovevole o meno.

Tutto nel chiuso della propria residenza: nei “festini” disinvoltamente descritti come orge di un insaziabile malato del sesso; in una telefonata per la comica vicenda della “nipote di Mubarak”.

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Le “vite degli altri” messe in piazza in una mobilitazione sproporzionata

E allora perché dobbiamo vergognarci di fronte al mondo e il mondo deve vergognarsi di noi, e questo può essere senz’altro vero? Chi ha diffuso immagini non viste dal buco della serratura – che sarebbe stato già grave, però avrebbe avuto il pregio dell’autenticità e della certezza – ma ricostruite sulla base di sovreccitati racconti trasversali e fatti passare per cronache da “dieci giornate di Sodoma”? La vergogna nasce dal quadro che è stato diffuso, non dai fatti che si pretende di svelare.

Il “foro interno” e il “foro esterno” in cui la Chiesa distingue gli atteggiamenti, interiori o “coram populo”, assume qui aspetti da “pochade”, è vero; ma quando l’onorabilità del paese è minacciata c’è poco da scherzare. Si dirà del diritto all’informazione che è sacrosanto; infatti non critichiamo i giornalisti che fanno il loro lavoro con le paginate di intercettazioni, oltretutto fanno vendere più copie sia per “voyeurismo” sia perché è sempre piaciuto fare il “pollice verso” , sin dal Colosseo. Critichiamo chi ha alimentato un “foro esterno” devastante, non dal foro della serratura ma con una strumentazione investigativa che dovrebbe lasciare perplessi anche gli antiberlusconiani accaniti.

Non ci riferiamo tanto ai cento uomini mobilitati nelle perquisizioni all’alba non di pericolosi terroristi, ma di “starlette” e magari “escort”, a diecine, per acquisire chissà quali preziosi “reperti”, forse la “veste macchiata” che fu la “pistola fumante” nel caso di Clinton; quanto all’apparato investigativo che per un anno ha “accerchiato” la villa di Arcore intercettando i visitatori, pardon, le visitatrici; si è parlato di cento controllate. Con microfoni direzionali per l’esterno, e per l’interno – non potendo fare rilevazioni – con le intercettazioni telefoniche alla pletora di donnine più o meno allegre e agli omini – diminutivo o dispregiativo secondo i gusti – che le organizzavano.

Risultato: una montagna di conversazioni telefoniche tra tali soggetti diligentemente trascritte per oltre seicento pagine, di cui circa trecentottanta allegate all’atto di accusa e quindi rese pubbliche: le “vite degli altri” messe in piazza come neppure la Stasi; che le custodiva negli archivi. Vorremmo conoscere risorse impiegate e costi, e fare una valutazione costi-benefici limitando questi ultimi a quelli giudiziari senza considerare quelli politici che non andrebbero ammessi come tali; e valutare i possibili impieghi alternativi per la lotta alla delinquenza e per lo smaltimento dell’arretrato. L’obbligatorietà dell’azione penale non escludeva di certo una valutazione”a priori” di questo tipo.

Da dove viene il discredito e la vergogna

Consideriamo quest’operazione giudiziaria. Se occorreva allegare i mezzi di prova, averli diluiti in 380 pagine vuol dire che non c’è una vera prova ma si intende rappresentare un clima. E questo non considerando che sarebbero divenute di pubblico dominio portando il discredito al Paese che Bersani e tanti altri giustamente lamentano. Non nasce dunque da questa incomprensibile operazione tale discredito? Se qualcuno riprende un amplesso in un luogo chiuso, poi lo pubblica nei suoi particolari in prima pagina, si può accusare di oscenità il protagonista dell’amplesso, o chi diffonde l’immagine che il soggetto invece aveva tenuto rigorosamente nascosta nella sua casa?

Ancora ci chiediamo e chiediamo quale legittimazione abbia la vagonata di fango di quelle 380 pagine date in pasto alla stampa; e se la magistratura non deve valutare gli effetti delle sue operazioni la politica può farlo, con il dovuto rispetto per le istituzioni, tutte e non solo alcune. Non si possono dare responsabilità per lo scandalo internazionale a chi, comunque, si è guardato bene dal far trapelare tali notizie, rese pubbliche invece non attraverso una rappresentazione dei fatti ma con le affabulazioni sovreccitate e deliranti che hanno fatto degenerare in pornografia conclamata. Con l’ulteriore riflesso di mettere in piazza conversazioni confidenziali di persone non indagate.

Ma perché tale degenerazione? Perché le “fonti” utilizzate – riverite come l’Erodoto delle antiche battaglie – sono le più improbabili corrispondenti di “guerra”: ascoltate nei loro colloqui telefonici dove “voyeurismo” e protagonismo, ignoranza e superficialità si mescolano a invidie e delusioni o quant’altro. Si potrebbe dire che proprio per questo le 380 pagine, fior da fiore delle presunte 600 complessive, vengono offerte alla valutazione di chi riuscirà a separare il grano dal loglio; ma si poteva immaginare che non sarebbe stato così, l’informazione fa titoli ad effetto di poche parole, il “voyeurismo” gode dei particolari più piccanti, senza interrogarsi sulla veridicità; e neppure sulla qualità dei protagonisti di uno spettacolo che diviene degradante per il modo con cui è presentato.

La villa di Arcore e il “Drive in 2010”

E’ questo l’aspetto che ci interessa considerare maggiormente, alla ricerca di una spiegazione di qualcosa che appare altrimenti incredibile. Si è scomodata la storia antica citando Nerone, ma stiamo a quella contemporanea con Gheddafi, che sembra l’ispiratore del famigerato “bunga bunga”, e questo può essere un punto di partenza. Ma soltanto quale omaggio al leader di un paese importante per l’Italia, come lo è la Russia del “lettone di Putin”. Perché secondo noi, al di là della denominazione delle serate, l’ispirazione è ben diversa dalla riproduzione di un harem africano, e non perché la villa di Arcore non è una tenda nel deserto anche se il leader libico può aver influito.

Ed è proprio per questo che abbiamo parlato di spettacolo, equivocato come realtà dalle stesse protagoniste, e non poteva essere altrimenti data la loro età e qualificazione professionale e umana. Uno spettacolo che il tycoon televisivo si fa organizzare nei fine settimana in cui cerca serate “rilassanti”, come ha detto, dopo impegni di governo che lo assorbono e lo stressano totalmente negli altri giorni della settimana, tra Palazzo Chigi e gli incontri internazionali, nei quali non si può dire non sia partecipe attivo rivelando energia e vitalità.. Mentre dalle cronache sembrerebbe che l’orgia da “dieci giornate di Sodoma” ad Arcore sia l’occupazione permanente del premier.

Una precisazione va fatta per la rispondenza alla realtà, premettendo che anche una sola orgia – nei termini che si vuol far credere con l’equivoco contenuto delle intercettazioni – sarebbe esecrabile e meritevole non solo di riprovazione, ma della più assoluta condanna; però pur sempre con il distinguo, di valore e importanza dirimente, su come e da chi sarebbe stata resa pubblica svolgendosi nel chiuso di una villa definita con disinvoltura dimora del sultano con il vicino harem.

Ad Arcore, da cronache passate se non ricordiamo male, risulterebbe esservi una sala attrezzata a discoteca e lì si sarebbero svolte le presunte “orge” da “basso impero” denunciate dalla procura e “raccontate” negli ammiccamenti telefonici tra starlette, “escort” e aspiranti “veline”. Chi ricorda “Drive in” non ha dimenticato la procacità delle starlette “fast food” che esibivano un seno “quarta misura” debordante anche se non esibito integralmente. C’erano scenette e barzellette in quantità, da Gianfranco d’Angelo aEzio Greggio, da Erico Beruschi a Carlo Pistarino, da Francesco Salvi all’attuale scrittore di successo Giorgio Faletti. Si vedevano travestimenti che lasciavano scoperta l’epidermide di finte infermiere e poliziotte; canzoni e imitazioni, situazioni esilaranti e grottesche portate al limite. Ebbene, nei racconti tratti dalle intercettazioni abbiamo ritrovato una parte di quel clima e di quei “quadri”, di quelle figure e di quella crassa comicità, di quelle starlette e di quelle performance: in definitiva quel misto tra il disinibito, il cattivo gusto e il rivoluzionario.

Tanto rivoluzionario che la produzione non approvò il “numero zero” e decise di non farne nulla. Intervenne il Presidente, a cui i comici erano riusciti a far visionare una cassetta, ne capì la presa e la carica innovativa, e dispose per l’andata in onda la settimana successiva. Il Presidente era proprio il personaggio di cui parliamo, il tycoon divenuto premier e ora inquisito, anzi messo in croce.

Deprecabile, direbbe qualcuno, certo non tutti e forse neppure tanti se viene ricordata come trasmissione “cult” e non come degrado e degenerazione; e se il personaggio che si identifica da sempre in tutto questo continua ad avere tanti suffragi che lo hanno fatto prevalere nella gran parte delle elezioni degli ultimi 15 anni, vuol dire che il suo modo di essere non suscita riprovazione.

E allora, perché non pensare che il tycoon divenuto parlamentare e primo ministro, dopo quasi vent’anni di ininterrotta leadeship politica e di instancabile attività di governo – con la “traversata nel deserto” di lunghi anni all’apposizione – abbia voluto improntare le serate “rilassanti” di cui ha bisogno a quella creazione televisiva di Antonio Ricci che però sente sua per averla “salvata” dalla bocciatura portandola così al trionfo? E abbia voluto far rivivere in qualche misura un clima fatto di barzellette e travestimenti, per i quali non ricordiamo proteste delle categorie come quelle di questi giorni, sebbene il presunto dileggio fosse pubblico mentre ora è stato all’interno di una residenza?

Teatri casalinghi e serate musicali, lo spogliarello di Aichè Nanà al “Rugantino”

La messa in scena di Arcore è ben diversa, opposta rispetto al teatro nella casa all’Aventino di Gassman e al “quartetto del Vittoriale” che allietava le serate di D’Annunzio, nelle quali peraltro qualche bella ospite si “fermava” per la notte e al mattino trovava dei bei regali. Ma ognuno fa rivivere nella propria casa le situazioni predilette, quelle di “Drive in” sembrano esserlo per il tycoon suo “salvatore”. Il passaggio dagli schermi nelle case, in orario da visione familiare, al chiuso di una sala-discoteca in una villa immersa nel verde nel circondario di Monza può aver fatto cadere qualche reggiseno coprente ben poco nella trasmissione e le barzellette possono aver forzato le tinte; ma di qui alle vere orge che si lasciano intravedere e alla qualifica che termina in “aio” ce ne passa.

Anche l’indignazione per lo spogliarello di Aichè Nanà nel locale “Rugantino” di Roma – e non ci riferiamo allo spettacolo attualmente al “Sistina” con Enrico Brignano – che già allora scatenò un puritanesimo da inquisizione, nasceva dal luogo pubblico in cui avvenne l’esibizione della spogliarellista turca con gli astanti entusiasti nel mettere le proprie giacche come tappeto per accoglierne le morbide forme. Neppure questo è avvenuto, il “Rugantino” di Arcore non è un luogo pubblico né lo “spettacolo” è stato pubblicizzato dai protagonisti ma da altri. Ed era l’epoca in cui per vedere “il primo seno nudo di donna bianca” al cinema ci volle “L’uomo dal banco dei pegni” con le immagini delle ebree spogliate nel lager, sappiamo cos’è successo poi al cinema e in Tv.

Un lavoro d’indagine ciclopico con il rischio sopravvenuto di ricatti

Purtroppo l’operazione mediatica – largamente distorsiva per quanto finora noto – è stata possibile per il lavoro d’indagine ciclopico, degno di miglior causa, della procura, se si pensa all’ascolto e trascrizione per un anno e alle verifiche sulle celle telefoniche delle posizioni dei telefonini delle starlette per accertarne i movimenti e gli spostamenti “day by day” e farne un’incredibile agenda da “catalogo” del Don Giovanni. Non solo, ma l’operazione ha comportato sequestri in massa di valanghe di computer e di quant’altro rastrellato nelle moltissime abitazioni perquisite nella retata!

Potrà suscitare divertimento a qualche moralista, sembrerà una punizione anche meritata in ossequio alla morale puritana violata dai festini di Arcore; rispettiamo i giudizi, nei fatti è stata una operazione quasi di controspionaggio per la sicurezza nazionale contro lo Spectre; mentre è proprio la distorta divulgazione a minacciare la sicurezza dando nuovi motivi alla speculazione finanziaria.

Non solo, ma si è scatenata l’orgia, ora sì, di possibili ricatti da parte delle “intercettate” le cui parole disinibite ed equivoche al telefono vengono prese per oro colato, figurarsi presunte rivelazioni di convenienza. Ricordiamo i dieci pentiti che accusarono ignobilmente Enzo Tortora anche per i benefici che questo dava loro, siamo su un terreno scivoloso in cui ci si può impantanare. E non si può dire che è colpa di chi si è messo in questa situazione: Non ha mai nascosto, anche nei consessi internazionali, atteggiamento disinibiti, la sua predilezione per le belle donne è proverbiale e ostentata, lo sono anche certi eccessi spettacolari fatti per stupire gli ospiti; tutti ricordano il vulcano che erutta a Villa Certosa.

Per questo non sarebbero nulla le esibizioni e anche gli eccessi del “Drive in 2010”, se la magistratura non ci mettesse il carico da undici del reato penale infamante: fa diventare ricattabile ciò che prima non lo era, basta un’invenzione presa – lo ripetiamo – per oro colato come le intercettazioni – per affossare lui e il governo, con gli effetti negativi per il paese da tutti paventati. Né dimentichiamo la “protezione” della minorenne di 17 anni e mezzo di cui tutti hanno visto e giudicato la “fragilità” e l'”innocenza”, per “salvaguardare” la quale si cono mobilitati mezzi da film di James Bond che servivano a scongiurare minacce inenarrabili di perfidi nemici dell’umanità.

I pagamenti sono sempre mercimonio?

I particolari “piccanti” delle telefonate non mutano la valutazione dello spettacolo organizzato nella discoteca privata di Arcore; basta l’evocazione di “Drive in”. Si spiegano anche gli appartamenti con parcheggiate le starlette, la “compagnia stabile” di questi spettacoli andava sistemata per essere mobilitata all’occorrenza; si spiegano i ruoli al procacciatore di starlette e all’addetta ad occuparsi in qualche modo di loro – ahimè eletta nel “listino” della regione Lombardia – gli stessi compensi nelle “buste”. Tutto appare in linea con l’organizzazione del “Drive in 2010” pur se di gusto discutibile, ma non degradato a un’orgia definita collettiva nei soggetti femminili bensì incentrata su una sola persona, ovviamente il presunto Sultano, senza rendersi conto della contraddizione.

E poi, non sono pagati gli ospiti delle trasmissioni televisive, anche starlette non molto diverse da quelle incriminate? E gli stessi “figuranti” dei programmi con il pubblico in studio, cioè quelli che non fanno nulla, assistono e magari straparlano o applaudono a comando? Se a loro va un legittimo compenso, non può andare a chi partecipa a un “Drive in” riveduto e corretto nei termini di una visione privata non ostentata? Il fatto che vi fosse un “ufficiale pagatore” addetto alla bisogna non prova in alcun modo l’improbabile harem personale, può confermare invece la “compagnia stabile”. E se inopportunità e scorrettezze possono rilevarsi, vanno a carico di “cortigiani” non all’altezza.

Il livello certo era basso, ma che l’entourage del premier non sia di prima qualità è ben noto; e come poteva mancare il procuratore delle starlette Tv , fino alla precedente inchiesta giudiziaria da tutti riverito, e comunque depositario delle prestazioni professionali – sedicenti di immagine e spettacolo – di quelle della sua “scuderia”? Tale livello si manifesta nelle intercettazioni, cosa che serve anche a scagionare: è emersa l’attesa spasmodica della serata successiva, ma com’era per le comparse a Cinecittà, non attendevano di essere chiamate di nuovo per guadagnare? Lo sparlare del “benefattore” per la cupidigia di avere di più non esclude alcuni caratteri che nella ricostruzione di “orge” da “basso impero” sono incentrati sulla condiscendenza del “Sultano” ad ogni richiesta e la totale sottomissione delle ospiti dell’harem in attesa di essere proclamate come le favorite?

Si è detto di qualche sexy-struscio con il il tycoon-presidente di ammiccanti e disponibili starlette, ma non avviene lo stesso nei locali con spettacoli di spogliarello e con il rito delle banconote nella giarrettiera? Nel revival di “Drive in” non ci stupirebbe ci fosse anche questo, né scandalizzerebbe.

Con disponibilità economiche come le sue le banconote in euro hanno tre zeri, equivalenti, per una persona normale che a mala pena sbarca il lunario, a qualche monetina. Molto squallido tutto ciò, diranno i benpensanti, e non ci sentiamo di contraddirli, ma la logica del denaro purtroppo è questa, pensiamo ai calciatori, e chissà cosa si troverebbe in altre pur rispettabili categorie! Il riferimento ad altri più meritevoli destinatari di elargizioni assistenziali viene contraddetto dai generosi contributi con un numero di zeri ben più alto dati a organizzazioni caritatevoli e anche dall’aiuto a tanti bisognosi. Se si entra nel clima, nel “revival” di “Drive in” in chiave moderna, tutto si tiene.

Un reato? Un peccato? Entrambi o nulla di tutto ciò?

Tutto trova una spiegazione nel “Drive in”, anche l’altrimenti incomprensibile comportamento di un presidente del Consiglio che per i suoi vizi privati farebbe altrimenti, come Kennedy e Clinton, sfogandoli nel chiuso di una stanza e non ponendoli sotto i riflettori, sia pure esclusivi, di una discoteca anche se domestica ma con tanti ospiti. O per pagare le eventuali “escort” che dovevano alleviare – non illegittimamente – la sua solitudine di single stressato, aveva bisogno del contorno orgiastico che viene delineato? Il “voyeurismo” patologico è privato, non pubblico, lo ricorda la tragica storia della Casati Stampa prima proprietaria della stessa villa di Arcore. Mentre pubblica è la voglia di spettacolo di un tycoon televisivo che intendesse rinverdire i fasti della sua disinibita televisione, per scrollarsi di dosso le angosce della politica e le gravose cure di governo.

E’ un reato? E’ un peccato? Sono entrambi o non è nulla di tutto ciò? Ognuno potrà dare la sua risposta, ci auguriamo che lo faccia spogliandosi delle contrapposte posizioni di berlusconismo e antiberlusconismo; nonché di un insincero moralismo estraneo al clima e al mondo d’oggi.

Noi abbiamo cercato di farlo, ragionando sui fatti. Se non ci siamo riusciti assicuriamo di averci provato. L’occhio della cultura non può essere partigiano. Ci auguriamo sia così per tutti.

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12 Responses to Caso Ruby, riflessioni a scena aperta

  1. Fabrizio Bastianelli 19 giugno 2011 a 00:21 Apprezzo e condivido completamente l’articolo di Romano Levante e mi chiedo: in quale Stato al mondo il Capo di un Governo avrebbe mai potuto essere spiato da oltre 150 agenti addetti a controllare e fotografare chi fosse entrato e uscito dalla sua residenza privata di Arcore? Sembra siano state scattate 100.000 fotografie agli ospiti del Presidente del Consiglio dei Ministri che sono entrati nella villa di Arcore; sembra siano state intercettate le conversazioni telefoniche di 630 persone sol perchè hanno avuto accesso alla villa di Arcore. Mi domando, che ne è del diritto alla privacy? Eppure ho vivo il ricordo di quale attenzione ho dovuto prestare – avendo lavorato in un’impresa multinazionale ed essendo responsabile per un certo settore della privacy – all’infinità di norme che tutelano, giustamente, la privacy dei dipendenti per cui, non poche volte mi sono dovuto recare personalmente presso l’Ufficio del Garante per verificare la correttezza del mio comportamento nell’adempiere.
  2. fabrizio iacovoni 3 marzo 2011 a 17:27 Nel leggere i tanti articoli sul caso Ruby, cosi’ come quello di Romano Levante, mi e’ sorta tanta tristezza.Perche’? tristezza per la vita condotta prima dei recenti accadimenti dalla giovane donna che,vissuta in un contesto familiare gia’ molto precario,ha subito all’eta’ di 14 anni uno stupro da parte di un parente e dopo altre forti vicissitudini inserita in una comunita’.Di tutto questo neanche R.Levante,persona sensibile,purtroppo non ne parla.
    Ma ancora piu’tristezza,amara, mi ha destato l’uso strumentale che alcuni fede(li) del premier hanno fatto del corpo della ragazza,allettandola con il facile guadagno,al fine che la stessa arrivasse all'”utilizzatore finale”.Ed e’ qui l’atroce cinismo piu’ abietto cui sie’ arrivati.La corruzione la stabilira’ la magistratura,se le sara’ consentita.
    Ma il capo del Governo non dovrebbe fortemente impegnarsi con le leggi ed esempi per la garanzia di valori alti,quali punti di forza soprattutto per le giovani generazioni? Moralismo il mio o passone civile?.
    Possenti Iacovoni Michelina
  3. fabrizio iacovoni 3 marzo 2011 a 11:49 Romano puo’ avere ragione sul “consumismo” investigatorio e su un certo esibizionismo-protagonismo dei P.M.La risonanza mediatica e’ colpa del sistema di cui il ” presunto” colpevole e’ un tra i piu’ importanti fondatori, con le sue tv.Gli accostamenti con gli altri”scandali” non mi sembrano appropriati,sono di altre epoche,in contesti differenti.Sa di tutti colpevoli=nessun colpevole.E poi in essi “scandali”, che io ricordi, non c’e’ stato un protagonista come un Primo Ministro(parlo dell’Italia) come vittima o colpevole.Ma solo un figlio ed il padre dette subito le dimissioni,Attilio Piccioni appunto.
    A noi non interessa scrutare dal buco della serratura il privato relax di Berlusconi.Che sia vittima o colpevole ,in uno stato di diritto, ci pensino i Magistrati,pur con i loro limiti.
    A noi interessa che durante il quotidiano governi,se e’ capace, questo Paese ingessato e ormai alla deriva e i suoi relax notturni sessuali o meno non servino a smaltire lo stress(ma quale?) accumulato di giorno per incassare alla fine dell’anno astronomici profitti delle sue holding da spartire con i propri familiari,frutto di un capitalismo selvaggio.
  4. Franco Tomassini 28 febbraio 2011 a 10:30 Ho già avuto una modesta corrispondenza mail con Piero Ostellino, che, sul Corriere tiene la stessa posizione di Romano Levante, e ho già avuto la mia risposta, con la sufficienza e il sussiego del giornalista affermato che, da buon liberale, non tollera opinioni diverse dalle sue.
    Con Romano, invece, si potrà parlare e argomentare senza sentirsi dare dell’ignorante.
    Io, che credo nell’habeas corpus (ci si ricorderà di quel Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, uscito dal carcere dopo 12 mesi, e adesso ai domiciliari, ma ancora in attesa di processo: autentico orrore), devo dire che l’amico Romano (ma, tutto sommato, anche Ostellino) ha ragione.
    Però, vorrei, senza troppo indugiare in ricordi del passato, far presente che nel caso Montesi, il mi-nistro Attilio Piccioni si dimise dall’incarico di Ministro degli Esteri, malgrado nello scandalo fosse coinvolto solamente suo figlio Piero (la cui responsabilità non era neppure del tutto chiara: infatti, quattro anni dopo fu assolto).
    E Gassmann, oppure D’Annunzio, pur importanti personaggi, non erano il Presidente del Consiglio.
    Il quale non ci pensa neppure a passare la mano, sicuro di avere, come sempre, ragione.
    E, mi sia permesso di fare un po’ di moralismo, l’art. 54 della Costituzione (comma secondo) recita testualmente “I Cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con di-sciplina e onore……”.
    Definita però come impropria quest’invasione della privacy, ma anche tenuto conto che l’errore giu-diziario è sempre dietro l’angolo (per questo siamo contro la pena di morte, che non dà scampo al-l’errore), la persona normale affronta il processo e si difende (vedi Andreotti, Mannino e, recente-mente, Cuffaro).
    La sua innocenza, se è vera, sarà plateale, e palmare, attestata da un processo svolto nel rispetto del-le leggi e delle procedure del nostro ordinamento.
    Berlusconi, con i mezzi d’informazione che possiede, avrà ogni possibilità di conclamare la sua, a questo punto, attestata innocenza, risultando così ancora più acclamato dal suo popolo.
    Invece, e qui i miei timori di cittadino per bene si fanno veramente forti, egli si difende attaccando la Magistratura, definendola un covo di comunisti, arrivando al discredito pubblico persino della Corte Costituzionale, ovviamente non credibile, poiché anch’essa di sinistra.
    Tanti anni di fango gettato, e da sempre, sulla Magistratura, hanno ingenerato nel popolo l’idea che i magistrati sono una categoria di persone orientate politicamente nei loro giudizi e irresponsabili, da-to che non pagano per il male che fanno.
    Infine, e qui la cosa letteralmente mi terrorizza, egli propone una riforma della Giustizia con il solo scopo del suo salvataggio, con ciò dimenticando i reali problemi ai quali si dovrebbe mettere mano, e con urgenza. Adesso ci troviamo con un Ministro della Giustizia il quale è, come detto da qualcu-no, il Capo dell’Unità di Crisi dei processi contro Berlusconi, e passa il suo tempo a inventare scap-patoie giudiziarie, piuttosto che a occuparsi dei gravi problemi organizzativi del suo Ministero.
    Mi piacerebbe che Romano ci ricordasse anche questo lato, non poco importante, del problema.
  5. Marco Ciriello Vancouver 31 gennaio 2011 a 01:21 Prima di entrare nel merito dell’argomento, vorrei precisare che la mia posizione non dipende da quali saranno le conclusioni del caso: in altre parole se il Presidente del Consiglio verra’ riconosciuto colpevole od innocente. Per quanto possa sembrare assurda la mia affermazione, nel contesto di quello che scrivero’ tale fatto e’ irrilevente. La ragione per la quale ho affermato tale irrilevanza risiede nel fatto che penso che questo caso possa offrire lo spunto per riflessioni che sono ben piu’ importanbti del comportamento di un singolo uomo (o “omuncolo”, termine che ho sentito usare coloquialmente da altri riferendosi al Presidente del Consiglio).Vediamo ora di entrare nell’ambito del tema.Ho trovato l’articolo di Romano Levante estremamente interessante (come altri che egli ha scritto). Cio’ che lo rende tale e’ il taglio estremamente pragmatico che espone contraddizioni insite nella cultura e nella societa’ le quali sono allarmanti.La chiarezza della direzione verso la quale una cultura e, di conseguenza, una societa’ si dirigono e’ di fondamentale importanza perche’ tale cultura e tale societa’ offrano dei punti di riferimento affidabili.Penso che l’umanita’ debba decidere se voglia creare un ambito socio/culturale che segua leggi nelle quali “la supremazia del piu’ forte”, “lo sfruttamento del singolo o di un gruppo ‘, “l’inequalita’ degli individui”, “l’assenza del riconoscimernto dei diritti umani”, “la mancanza di rispetto verso se stessi e verso gli altri” siano principi sui quali costruire il futuro, o se invece le basi per il progresso siano quelle nelle quali si pongano queste tematiche e l’essenza etica della risposta ad esse sia rivelata da un dibattito filosofico.E’ una decisione di base che ha un effetto sul tipo di considerazioni che si possono fare sull’affare “Ruby”.Rispetto al caso Ruby, se la decisione e’ quella di perseguire un progresso culturale che non contempli etiche di nessun tipo, non esistono ulteriori considerazioni. La posizione sociale diviene chiara e il tipo di comportamento diviene non contradditorio.Diversa e’ la valutazione in un contesto che aspiri al chiarimento etico del proprio modo di essere e della nostra relazione con altri esseri. In questo caso, se le accuse avanzate dalla magistratura si dovessero dimostrare fondate, le contraddizione tra gli atti od il comportamento e quelli che sono i principi sui quali la nostra cultura e societa’ idealmente si fondano sono evidenti e notevoli. In questo caso, tuttti i principi elencati precedentemente (come esempio perche’ non ci si dovrebbe limitare solo ad essi) sarebbero stati violati.Nessuno mette in dubbio la difficolta’, non solo di creare una societa’ senza contraddizioni, ma di formarne una logicamente ed eticamente funzionante. Fermo restando questo fatto, abdicare a tale aspirazione sarebbe veramente disastroso. In un certo senso e’ quello che avviene quando il costume modifica la percezione di quello che sia appropaito e quello che non dovrebbe succedere.Quando una delle piu’ alte cariche dello stato, che dovrebbe stabilire i parametri di riferimento per il resto dei cittadini, viene a mancare nel fornire tale esempio (e non sappiamo ancora se questo sia vero o no) e questo viene in qualche modo condonato definendo l’atto stesso come fatto di costume, allora c’e’ il rischio d’aver abdicato.Ritornando.al fulcro del tema prededente, non ci puo’ essere contraddizione tra gli ideali di una cultura e societa’ (i quali si traducono in leggi ed istituzioni) ed il comportamento degli individui. Se la prostituzione e particolari atti espletati con una minore sono condannati dalla legge, il costume od il denaro non li possono giustificare.Forse un principio fondamentale chiarisce piu’ di tutti un comportamento di questo tipo: non fare agli altri cio’ che non vorresti che fosse fatto a te.Se Il Presidente del Consiglio avesse una figlia, la vorrebbe vedere coinvolta con individui che si possano essere comportati allo stesso modo (anche senza arrivare ai rapporti sessuali ma semplicemente per quello che e’ stato ammesso)?Nel caso la sua risposta fosse no, allora i problemi diverrebero ancora piu’ profondi perche’ ammetterebbero una disuguaglianza di considerazioni le cui radici porterebbero molto lontano rispetto a quello che la nostra societa’ idealmente propone.Per quanto riguarda l’articolo di Romano Levante penso che alcuni dei commenti siano stati ingiusti ed emozionali. A parte la liberta’ di espressione dell’individuo, la conclusione dello scritto pone i temi trattati dall’autore sul piano della discussione ed in un certo senso apre il dialogo ad opinioni contrarie delle quali non si teme l’effetto, sempre che esse vengano espresse sullo stesso piano culturale.Credo sia importante, anche nel disaccordo, non perdere di vista la positivita’ del dialogo e quanto questo sia necessario per un avanzamento culturale. L’opportunita’ per progredire puo’ essere scoperta in qualsiasi situazione.
  6. Francesco Ascani 21 gennaio 2011 a 19:36 Dal 6 aprile 2010 non fornivo mie considerazioni su scritti del dott. Levante e questo non per aver smesso di gustarli, ma per essere stato assorbito da tanti impegni, chiamiamoli “famigliari”, fortunatamente quasi tutti lieti.
    Per la verità, da qualche tempo, avevo notato una diminuzione dei suoi scritti su questa Rivista culturale e l’avevo addebitata alla necessità umana di “respirare”, di tanto in tanto; ciò perché, chi è a conoscenza del suo grande impegno in servizi culturali e sociali per diffondere “conoscenza”, ha bene appreso il dispendio di energie intellettuali e fisiche necessario.
    Mi sono, invece, reso conto che il dott. Levante non ha ridotto la sua attività, ma l’ha estesa ad altre Riviste online (ArcheoRivista e AmalArte), sempre con scritti abbastanza estesi, ma che non stancano perché ricchi di notizie, con approfondimenti che creano sempre cultura.
    In effetti, il dott. Levante, anche con questo articolo ha fornito, con la solita singolarità e brillantezza, su un argomento all’apice dell’attenzione della collettività, elementi di conoscenza completa al lettore (opportuno il ricordo del “Drive in”), lasciandolo libero di trarne le conclusioni.
    Questa mia affermazione trova rispondenza nelle conclusioni dell’autore che, dopo aver fornito tanti elementi da analizzare e valutare, pone degli interrogativi e si augura che ognuno dia la propria risposta, ragionando sui fatti, perché ” L’occhio della cultura non può essere partigiano. Ci auguriamo sia così per tutti”.
    Francesco Ascani
  7. Direttore 20 gennaio 2011 a 02:18 Gentile signora Rita, la sua supponenza e la sua mancanza di educazione, che qui si chiama scostumatezza, imporrebbero ben altra risposta. Dato che io coltivo l’educazione come bene primario dell’uomo evengo chiamato in casua dal suo commento mi limiterò a dirle che io, Giovanni Lattanzi, sono il direttore responsabile di questa testata giornalistica; il dr. Romano Maria Levante è l’autore dell’articolo; l’opinione espressa in esso è una “opinione” e come tale è degna del massimo rispetto al pari di tutte le altre, sia quelle che le piacciono sia quelle che non le piacciono; se desidera cancellarsi dalla nostra rivista, oltre a farlo liberamente, mi deve spiegare come fa a cancellarsi da una rivista gratuita e libera diffusa su internet; la rivista è sovvenzionata da me stesso con i soldi che provengono dal mio conto corrente personale e che sono frutto esclusivo del mio lavoro, soldi che invece di essere spesi in profumi, vacanze e altre amenità consumistiche vengono utilizzati per mantenere in vita un luogo di cultura dove tutti quelli che hanno qualcosa di sensato da dire possono esprimerlo liberamente in maniera educata. Detto questo, se intende avanzare dei dubbi sul finanziamento di questa testata insinando eventuali “direzioni politiche” privilegiate frutto di un ipotetico finanziamento (che ho appena sopra ufficialmente smentito), deve avere il coraggio di dirlo qui, qualificandosi con nome, congome e indirizzo, e poi di ripeterlo ovviamente quando ci vedremo in un’aula di tribunale dove risponderà del reato di diffamazione.
  8. lnavv 20 gennaio 2011 a 00:08 E’ una questione di “onore”. Provo a spiegarmi.La zoccolaggine, ben al di là di ipocriti moralismi, è croce e delizia dell’essenza femminile. E’ l’istinto primario della femmina in genere, e l’humana donna non sfugge a questa naturale e biologica legge. Ricordo sempre quella stupenda fotografia dell’essere umano tratteggiata da Nietzsche: l’uomo educato alla guerra, la donna al riposo del guerriero, e tutto il resto è stupidità. Spesso la zoccola (che qui non è una pantegana) non è una prostituta.La prostituzione, si sa ben al di là del luogo comune, è uno dei mestieri più antichi del mondo. Nulla da obiettare. La prostituta vende qualcosa che è indiscutibilmente di sua proprietà, e chiede giustamente il corrispettivo della merce noleggiata e del servizio prestato. Così come un operaio vende le sue braccia e vuole giustamente perciò essere retribuito. Così come il cliente spesso non si atteggia a guerriero, altrettanto spesso la prostituta non è una zoccola (men che meno una pantegana).Il problema nasce quando la prostituta e la zoccola (e qui chiedo scusa alle innocenti e bistrattate pantegane) convivono nella stessa persona. Allora l’uomo che si finge guerriero per allietare il suo riposo, ben sapendo di essere uno dei tanti delegati a ricordarci che non siamo noi a distinguerci dagli altri animali per il raziocinio, ma gli altri animali a distinguersi da noi per il diritto all’alibi del ridottissimo raziocinio… ebbene, quest’uomo va preso a pedate; a prescindere.Poichè, per me, il problema sta tutto qua: incontrare una di queste prostitute-zoccole e doverla chiamare “onorevole”. Le avesse soltanto pagate e buonanotte, affari suoi. Ma non tollero che possano diventare anche affari miei.
    E non c’è, per me, fine ed erudita e fondatissima disquisizione giuridica (reato) o morale (peccato) che tenga. E lo ammetto, sono partigiano della mia stessa ira.
  9. assunta 19 gennaio 2011 a 23:26 Sarà chiaro a lei come a chiunque la confutabilità di ogni tesi. Ma – sarà la stanchezza personale oltre che storica e concettuale – non intendo confutare alcunché, perché  se devo dirla tutta a me che Berlusconi organizzi festini secondo il format Drive in, Porta a Porta o Annozero non importa nulla, come non m’importa chi si sia portato o intenda portarsi a letto. Noto tuttavia due grandi anomalie in questa arringa-valanga: la prima è la totale assenza del concetto di dovere di tutti di sottostare e rispondere alla legge; la seconda (non in ordine d’importanza) è che la morale sembra essere che il lercio sia scusabile se sommerso, ammantato da un chador nazionalpopolare.Mi creda non ne faccio una questione morale, ché i moralismi non servono a niente e a nessuno tantomeno ad un’opposizione rozza e incapace di controbattere sul fronte politico tanto da leccare le briciole a luci rosse. Ne faccio però una questione di pudore. E chi ne conosce ancora il significato sa bene che esso investe la sfera dell’intimo e del personale. Non m’importa che il premier di questo Paese stampi il suo sorriso voglioso sulle gote di generose e procaci fanciulle sedute sui suoi ginocchi. Io, sono fortunata: ho termini di paragone dal contenuto umano e culturale elevato. Penso – come contrappunto e meglio di ogni tentativo di sterile confutazione – a certi uomini della mia vita: a mio nonno Domenico, a zi’ Custantin, al preside del liceo, a zio Matteo. Penso a loro e ringrazio la vita per avere avuto esempi di onestà, decoro, pudore, rispetto. 
    Spero che le minorenni di oggi abbiano anche loro questa opportunità e non si lascino convincere che sono solo carne fresca e appetitosa che, comunque, prima o poi sarà violabile dalla maggiore età.   
  10. rita orlando 19 gennaio 2011 a 23:23 Avevo aggiunto qualche parola sulla totale mancanza di riflessione da parte del Sig. Levante della pessima rappresentazione della donna da parte del nano sia nelle sie tv che nel suo privato…mi è stato dato un messaggio di errore…ci riprovo. Rita orlando
  11. rita orlando 19 gennaio 2011 a 23:19 Aggiungo una postilla a quanto già scritto: ma il Sig Levante ha per caso riflettuto per un attimo alla rappresentazione della donna che ne ha sempre dato già nelle sue tv ed ora ancor di più nei suoi “momenti rilassanti” il “drago” di Arcore…nel suo scritto non ce n’è neppure un minimo cenno…direi che forse è arrivata l’ora di cominciare a considerarla! Rita Orlando
  12. rita orlando 19 gennaio 2011 a 22:59 Dopo aver letto con attenzione il dotto scritto del Sig.Levante, aver valutato con la dovuta imparzialità le tesi da lui sostenute, non posso fare a me di sospettare e di arricciare il naso in merito a quello che lui sostiene…come si può ancora stare dalla parte del peggior bugiardo e del più grande imbroglione che la storia repubblicana ricordi…non so chi sia il direttore di questa rivista, se per caso fosse la stessa persona che ha scritto questo “editoriale”, bene La pregherei di comunicarmelo…mi cancellerò da questa rivista che non riceve denaro pubblico ma qualcuno lo sovvenzionerà…chissà chi?

Info

A questo articolo, riportato dal sito citato, ne seguirà un secondo di risposta ai gentili lettori, anch’esso scritto allora e tornato di attualità, ma, a differenza del primo, finora non pubblicato.

Foto

Le immagini sono della trasmissione televisiva “Drive in” di Mediaset che si ringrazia, come si ringraziano i titolari dei siti web da cui le abbiamo tratte per inserirle nel testo a mero scopo illustrativo senza alcun intento economico o pubbliicitario, pronti ad eliminare quelle di cui non fosse gradita la pubblicazione su semplice richiesta.