Ritratti di poesia, 16^, 3. Altri 12 poeti nella “maratona”, fino alla”Altalena con Faber”

di Romano Maria Levante

Nei due articoli precedenti abbiano dato conto della mattinata e parte del pomeriggio  sella 16^ Edizione dei “Ritratti di poesia”, iniziando nel  primo articolo da “Caro Poeta” , con gli studenti di tre licei di Roma, consueta apertura  seguita dalle nuove iniziative editoriali, dalle Premiazioni  per poesie  a livello dei “social” di 280 battute, per l’”opera prima” da stampare, culminate nei due Premi a livello nazionale e internazionale consegnati da Emmanuele F.M. Emanuele, l’ideatore e realizzatore delle 16 edizioni, il quale ha poi aperto la sezione “Di penna in penna”  presentando il suo nuovo libro di poesie “Versi in cammino”. Nel secondo articolo la sfilata di poeti italiani nelle sezioni “Di penna in penna” e di poeti stranieri nelle sezioni “Poesia sconfinata”, con una parentesi fotografica di notevole valore  come denuncia dell’oppressione sulle donne iraniane e afghane resa da immagini che l’hanno testimoniata e fatta sentire in un modo visivo quanto mai efficace. In questo articolo conclusivo la sfilata di poeti italiani e stranieri continua, fino alla poesia in musica di Fabrizio De Andrè e Pilar Patassini resa in una “altalena “ coinvolgente nel concerto di chiusura.

Un momento della manifestazione, un’immagine della sala

La sfilata finale di poeti inizia – come abbiamo preannunciato a chusura del precedente articolo -con la  nostra conterranea di Teramo Mariagiorgia Ulbar,  nella 5^ parte  di “Di penna in penna”. Docente e traduttrice da tedesco e inglese, è del 1999 il suo primo libro di poesie, del 2012 la raccolta “I fiori dolci e le foglie velenose”, e la silloge “Su pietre tagliate e smosse” nell’11° Quaderno italiano di poesia contemporanea. Fondatrice della collana “Isola”  che unisce poesie e illustrazioni, collegamento presente anche nell’iniziativa “on line” di poesia e fotografia “Il tempo qui non vale niente”. Nel 2015 vincitrice del Premio Dessì con “Gli eroi sono eroi” e finalista nel premio Metauro. Le sue poesie sono ambientate in luoghi conosciuti o soltanto visti con l’immaginazione, spesso è presente il mare e gli oggetti che porta. I suoi versi raccontano di luoghi visitati o solo immaginati, con percorsi al limite di un confine o un abisso, la sua è stata definita “speleologia della parola e del ricordo”.  Interessante ciò che pensa della traduzione poetica comune a tanti poeti presentati oggi: considera il lavoro di traduzione “un’officina di poesia” perché le dà ispirazione, “passare da una lingua a un’altra è un movimento che alimenta il pensiero e ne accelera il ritmo”, e le lingue anglosassoni delle sue traduzioni influenzano anche la sintassi dei propri versi.  Ecco la sua poesia inedita “Medusa”: “Quando nacqui questo fu/e non si vedeva/ un pesce di tentacoli, medusa/ al centro dell’abisso e tocca altro/ teste e silicio sulle spiagge/ spalle, caviglie e si attorciglia/ fili lunghi, elettrici, urticanti/ addosso un colore trasparente/ lucido è il niente/ la fine sa di sale e di granelli/ infine il sole tutto secca./ Mi tocca ora la risacca/ tutto è fermo in un momento/ e brilla/ la notte quando cade poi sigilla”.

“Di penna in penna” 5^, Mariagiorgia Ulbar

La testimonianza di Emillio Isgrò, cancellare l’inutile.

Ed ora passiamo alla “Scrittura e cancellatura” di Emilio Isgrò,  che ci  è parso un vero evento per il suo contenuto insolito e la passione con cui è stata fornita un testimonianza pressoché inedita. L’artista non può essere presente di persona per lo sciopero dei treni,  ma è come se lo fosse per il perfetto collegamento video in una lunga conversazione in diretta con Mascolo. E’ giornalista, scrittore e drammaturgo, pittore e artista, sottolinea Mascolo, e gli chiede cosa  sente di più di essere. Riferendosi alle proprie  celebri cancellature, Isgrò risponde che essendosi occupato della parola umana per tutta la vita si sente poeta, e la parola l’ha considerata in tutte le sue forme anche visive con dei paradossi che ama da siciliano.

“Scrittura e cancellatura”, Emilio Isgrò in collegamento con Mascolo

Partito con una valigia carica di poesie, come mai si è dedicato all’arte?  Lo spiega così. Alla metà degli anni ’70, era molto giovane,  a Venezia sbarcò la Pop art con una immagine del mondo di tipo visivo e sacrificava la parola, lui nato nel Mediterraneo, terra del “logos” cioè della  parola, si preoccupò di questa invasione sapendo che gli americani avevano tratto una lezione da contadini analfabeti calabresi, siciliani, veneti diventando nazione con i fumetti e il cinema; il cinema hollywoodiano lo preoccupava maggiormente perché vedeva sacrificata anche la lingua di Shakespeare. Allora, temendo che questa involuzione si estendesse a tutto il pianeta, pensò di ripristinare le forze che danno valore alla parola continuando a scrivere di notte e a cancellare di giorno, come faceva Penelope con la sua tela.

Naturale la richiesta di Mascolo sul significato della cancellatura, “cancella o vitalizza la parola?”  “Serve a far capire il valore della parola umana”, risponde, “senza la quale non c’è un pensiero degno di questo nome”, non ci sarebbe stata la cultura dei greci e neppure il nostro Rinascimento, e cita Michelangelo che considera un grande poeta del ‘500 anche se la grandezza di scultore ha oscurato quella di poeta. Ricorda che  la poesia ermetica  aveva fatto smarrire la grande musica della parola italiana, “in un impeto atonale di per sé pregevole”, ma Montale era tutt’altro che atonale, nell’800 la parola italiana conquistò il mondo con il melodramma. “Una poesia che manca di appartenenza non serve a nessuno, anche se poeta e artista sono cittadini del mondo. Bisogna tornare alla grande tradizione del passato per  guardare lontano e riequilibrare rispetto agli ultimi 50 anni nei quali ha prevalso la cultura anglosassone”.

“Poesia sconfinata” 4^, Katarina Frostenson

Sui motivi alla base delle sue celebri “ cancellature” confida di averlo fatto perché in questo modo faceva saltare i codici della comunicazione, e consentiva il superamento delle avanguardie degli anni ‘70  che considerava come un limite. Nel documentario su di lui, “Cancellare l’inutile” – osserva Mascolo – “forse la mano cancella per scrivere il vero, così la cancellatura diventa ricerca della verità?”.  Isgrò risponde che piuttosto che la verità – sarebbe troppo – c’è la ricerca dell’autenticità umana  perché la poesia non può dare la verità – e non possono farlo neppure filosofia  e scienza – ma ha il compito di fare le domande che pochi pongono. La sua poesia si è espressa nelle forme diverse della sua arte, tuttavia il suo recente libro di poesie cerca di recuperare la tradizione, sceglie il sonetto non in chiave nostalgica bensì per fermare la china in cui si trova la poesia.

Isgrò è irrefrenabile, visibilmente felice di sfogare quanto sente dentro di sé e ha dovuto reprimere, la maratona poetica è stata un’occasione unica e non manca di esprimere il suo forte apprezzamento. Aggiunge che il poeta viene messo all’angolo oggi in Italia, per un eccesso di specializzazione dell’editoria e per problemi di mercato, e il mercato non è tutto, mentre all’estero in grandi paesi la poesia è amata non meno dei romanzi. Un insegnamento per i giovani, è non cercare di compiacere il pubblico che delle volte ama le sofisticherie.

Luis Garcia Montero

Legge alcuni sonetti dal suo libro, definito “di avanguardia” mentre lui detesta le avanguardie, un altro paradosso come la sua identitaria “cancellazione” delle parole per valorizzarle, come la sua confidenza “mi sono bendato una notte per vedere cosa succede al buio”, nella notte che attraversiamo con la pandemia, le guerre, i disastri economici, il razzismo in varie forme, la mancanza di prospettive. Ha detto che “si sente poeta” anche se ha preso altre strade come artista, Ebbene, senza presunzione ma con autentica convinzione possiamo dire che “è poeta”. Dal suo “Si’ alla notte”, 2022, la parte centrale della poesia “Parti di me”: “”… Non dirmi che la notte/ è cominciata quando non dormivo/ stremato dal rimpianto e dalle lotte// del nulla contro il nulla -perchè vivo/ in una culla e ormai si sono rotte/ parti di me che scarto o non arrivo/ a prendere. Dovrei dirmi prima/ ch’ero squmato da un’altra Hiroshima.”

Dopo l’appassionata testimonianza di Isgrò, divenuta un’orazione in omaggio alla poesia, tornano i poeti stranieri con la 4^ parte della “Poesia sconfinata”, la svedese Katarina Frostenson  è presentata da Paolo Ruffilli  che ha scritto la Prefazione del suo libro in italiano. La sua è una poesia del Nord legata agli archetipi nordici come la luce, una luce molto diversa dalla nostra,  una luce radente fatta anche di molte ombre che –  come diceva Goethe – crea una dimensione particolare prima e dopo l’aurora boreale, un’atmosfera celestina in cui la visione si scatena; l’altro archetipo del Nord è il bosco con i suoi alberi fitti. C’è del dramma che si cerca di contenere nella sua poesia, permeata di dolore, la traduzione può renderne il contenuto ma non la potenza originale fatta di una musica che è un fattore importante non solo perché si “sente”: lei stessa la nomina, e perfino i morti ce la fanno sentire da dove sono in un congiunzione arcana. In una poesia due raggi si incontrano e producono una dolce melodia musicale. La poesia inedita “Pettirosso”, traduzione  di Enzo Tozzo: “Quando sbocciò la rosa,/ Presto quando dormivamo/ L’uccello dal petto rosso/ passò/ estrae le spine, secondo la leggenda/ dici/ guardami/ felicità/ è un momento e più/ che cos’è d’improvviso/ – dico sempre d’improvviso/ dici/ Sì d’improvviso è la mia parola/ dico io e sono – se si rilegge Il cammino dell’uomo/  d’improvviso si ama di nuovo/ ciò che avviene è la sola meraviglia/ accade da se stessa”.

“Di penna in penna” 6^, Gianni d’Elia

Dalla Svezia alla Spagna con Luis Garcia Montero, introdotto dalla traduttrice Marisa Martinez Persico,  sono passati 40 anni dal suo “Manifesto sentimentale” del 1984 che segue la Costituzione del 1978, in una transizione durata fino al 1992. Con la fine della dittatura occorreva ricostituire la dignità anche sul piano sentimentale e umano, questo il suo impegno nella sincerità superando ogni finzione e messa in scena. Nella moderna società industrializzata l’utilitarismo occupa il maggiore spazio, quello che conta è l’utilità immediata, e allora il poco spazio che resta deve essere occupato dalla poesia, a questo mirava il Manifesto. Come professore universitario di letteratura spagnola veniva chiamato Poeta-professore, poi da direttore di Istituto culturale era chiamato Poeta- direttore, osserva con compiaciuto humor, comunque al di là di quella che può sembrare una battuta il contatto quotidiano con la lingua porta  a valorizzarla perché trasmette l’identità non solo in senso geografico ma come  espressione di libertà che non è data dall’intrattenimento dei siti “social” e tanto meno dal discorso univoco senza senso critico. Da “ No puedes ser asi (breve storia del mondo)”, 2021, la poesia “Prometeo”, inedita in Italia, traduzione di Loretta Frattale, seconda parte: “ Come tutti i giorni,/ dopo aver ricevuto notizie dalle fabbriche,/ dal fronte di battaglia./ dai laboratori, le alcove clandestine/ e le chiamate telefoniche,/ si avvicinò al fuoco,/ lo sguardo fisso contro le fiamme,/ e affermò di nuovo, lentamente,/ speriamo, continuiamo, ancora una volta”.

Annalisa Mainstretta

La 6^ parte di “Di penna in penna” vede il celebre poeta Elio Pecora presentare in successione tre poeti. Il primo è Gianni d’Elia, del quale sottolinea due grandi riferimenti, Leopardi e poi Pasolini per il quale oltre alla poesia ha prestato attenzione al suo impegno morale e alla sua inquietudine. Il libro del 2020 “Il suon di lei”, con il verso leopardiano per titolo, rimanda alla fine di una stagione, quale?  gli chiede Pecora:  “Leopardi  si riferisce alle stagioni passate ma poi si richiama al suono della stagione presente”. Che turba l’autore, perché il suo è un libro di affetti, ma è anche un libro impegnato. E qui la seconda domanda su quanta necessità ci sia oggi di una poesia con impegno civile, mentre è divenuta quasi prosa che riflette un mondo più largo con tutti i grandi problemi e si avvicina a un futuro di cui non sappiamo nulla; e se un simile impegno  è presente o lui si sente isolato in questa battaglia. D’Elia risponde che ci si trova senza cittadinanza, l’impegno lascia il passo a qualcosa che si riassume nelle parole “tristezza e collera, i nostri marchi civili in una tremenda impotenza. Siamo passati dal Cantico dei cantici all’Apocalisse con la pandemia, le guerre e la violenza dilagante”. Troviamo la poesia diffusa in modo semplice anche in forma di  canzone d’autore, perché la canzone ha bisogno di parole che la poesia dovrebbe dare in modo diverso, come la canzone non riesce a fare. Ha scritto anche testi per canzoni,  ma i cantautori non li sente vicini ai poeti. Leopardi lamentava “la  funesta separazione della poesia dalla musica, del poeta dal lirico ed è un male, io canto la mia musica … “ conclude.  Da “Il suon di lei”, 2020,  la prima parte e il finale della poesia  “Al vivente Vincent”: “Se inclini la testa e l’occhio avvicini/  Seduto su uno scoglio alla distesa/ Come un bimbo stupito che s’inchini/ Verso l’acqua che bolle in verde ascesa// Vedrai srotolarsi in trecce sublimi/ come una gioia spumante e inattesa/  Le onde fiorenti dai cieli nativi/ Ribollenti e schiumanti fino alla resa.// … Frusciando un rombo per pennelli chini/ Dentro un’eterna mutilante attesa”.

Silvio Ramat a dx, con Elio Pecora

Annalisa Mainstretta   viene presentata da  Pecora  subito dopo come poetessa che parla di eventi anche vicini, molto forti, quindi non di normale quotidianità, e li porta nella poesia, “in quell’altrove dove c’è la distanza nell’indeterminatezza della poesia in senso leopardiano ampliando la parola  per vedere cosa c’è dietro la parola. La poesia non è dentro ma dietro le parole, cariche di tanto altro che il lettore sente, vede, amplia, e si pone delle domande” – aggiunge Pecora – la poesia della Mainstretta  “è fatta di moti d’animo, di emozioni e finisce per accompagnarci”. Alla domanda sulla femminilità della poesia, la poetessa conviene che non ci sono generi maschile e femminile, anche se nelle donne si avverte la gentilezza e la grazia, negli uomino il vigore e la vigilanza.   Vengono citate 3 raccolte, “ Il sole visto di lato”, “Gli occhi delle stagioni”, e “La dolce manodopera” del  2006, da quest’ultima la parte iniziale e il finale di una poesia senza titolo: “ Ecco come entrano i campi nel sole/ come entrano lunghi filari di pioppi nel sole/ esponendosi in silenzio,  coi rami nudi./  Questi rami allungati nell’aria/ hanno sentito tutto il gelo di gennaio,/  adesso sono dentro questo sole/  e in ogni albero, silenziosa, si svolge una festa di primavera.// … Noi vediamo ancora rami secchi, alberi spogli/ e silenzio. Così ci dice la gioia”.

“Poesia sconfinata” 5^, Doris Kareva

E’ la volta di Silvio Ramat,  docente a Padova di letteratura contemporanea, Pecora parla del suo libro di poesie più recente, nel quale in una poesia sul mondo in cui viviamo descrive un giardino con tante piante, una scivola via, è un fiore di  loto inservibile rifiutato anche dagli uccelli. C’è un merlo  che vola leggero, “la poesia compone una costruzione, è il racconto di una emozione, un pensiero su un evento che dà alla parola una precisa identità, è una parola densa che nasconde tante altre parole, Calvino scriveva che la poesia è un  imbuto attraverso cui deve passare il mondo”. Dopo queste osservazioni, Pecora gli  chiede cosa pensa della tradizione della poesia italiana, del ceppo italiano, se ne sente la presenza? Ramat risponde che la sua poesia ha alle spalle questa grande tradizione e non ritiene possibile che non sia così, c’è una musica poetica, un ritmo che non nasce da sé ma da quanto si è accumulato.  In Sardegna in un incontro gli è stato detto “lei è la tradizione..”, si è sentito inorgoglito di essere considerato il portatore  di una tradizione come la nostra. Da  “Le chiavi del giorno”, 2022, l’intera poesia “Un rio sottile”: “Tra il non dimenticare e il ricordare/ come un rio sottile dove una barca/ leggera, senza più vela né remi,/ va lenta, incerta se una chiusa, presto/ le sbarrerà la via o se queste acque/ avranno sbocco in un più largo fiume./  A bordo non un’ombra di pilota. / Tutto è rimesso alla grazia del vento”.

Dimitris Lyacos

La 5^ e ultima parte di “Poesia sconfinata”  ci fa conoscere Doris Kareva, con la traduttrrice Erminia Caccese, presentata da Mascolo come una delle più importanti poetesse dell’Estonia, ha pubblicato 20 volumi di poesie e  saggi, ha tradotto, scritto per il teatro, in Italia è presente attraverso le traduzioni ed edizioni di Piera Mattei, si parla del libro “L’ombra del tempo”, l’ unico in Italiano, è in preparazione una antologia di poesie. Alla domanda di Mascolo “qual è il suo rapporto con l’Italia” risponde che il nostro paese è stata una grande fonte di ispirazione, anche perché lei ha collaborato con diversi italiani ed ha avuto un rapporto molto proficuo con Piera Mattei; alla nuova domanda  “come ha inciso sulla sua poesia il proprio paese con tante isole, laghi e soprattutto acqua”  ha mostrato il retro del vestito con l’immagine del suo paese circondato dall’acqua, una risposta eloquente che conferma a parole. Da “L’ombra del tempo”, 2011, l’intera poesia “Ciò di cui hai bisogno viene da te”: “Ciò di cui hai bisogno viene da te/ in una o altra forma velata./  Quando tu lo riconosci/ diventa tuo.// Ciò che vuoi verrà a te/ E ti riconoscerà e diventerà parte di te./ Respira, conta fino a dieci.// Ne saprai il costo più tardi”.

“Di penna in penna” 7^, Filippo Davoli

Chiude la poesia internazionale il greco Dimitris Lyacos  con la traduttrice della casa editrice “Il Saggiatore”, Viviana Sebastio. Lo presenta come drammaturgo candidato al Nobel della letteratura per una sua opera tradotta in oltre 20 lingue, che si può definire  “un working progress in divenire”, ha preso forma gradualmente con cambiamenti “in itinere” anche nel corso della traduzione.  Non legge dalla sua “trilogia” poetica ma da quello che chiama “libro n. 0”. Al festival del Saggiatore ha parlato della scrittura legata alla nostra oralità, ricorda Omero non come solitario ma come chi esprime la stratificazione dell’opera omerica, fa un passo indietro e legge “prima che la vittima  diventi nostra”: si è risvegliato alle 5 del mattino,  ancora a notte fonda, non  si è fatto giorno, non filtra la luce,  non sente voci, né rumori di automobili, sente soltanto se stesso come se gli parlasse nel sonno dicendo: “E’ notte, svegliati, non puoi vedermi nel buio,  alzati perché ormai mi senti, ascoltami,  sei solo nel cuore della notte, devi solo alzarti, alzati e vestiti, lascia che gli altri dormano, hai una lunga strada davanti finché sei ancora solo, non avrai paura, davanti hai un nuovo giorno di cui non sai nulla, avrai una compagnia …”. Da “La prima morte”, in “Poema Damni”. la parte centrale di una poesia identificata con “III”: “Eserciti di morti che sussurrano senza posa/ in un cimitero smisurato, dentro di te/  e non puoi più parlare, anneghi/ e quel dolore familiare lambisce/ vie d’uscita nel corpo inaccessibile/ ora non puoi più camminare/ ti trascini, lì dove l’oscurità si fa più densa/ più tenera…”.

Emanuele Franceschetti

Termina anche  di “Di penna in penna”, con la 7^ e ultima parte di poesia italiana, in collegamento con Filippo Davoli, poeta  marchigiano  che dirige una collana di saggistica e ha pubblicato diverse raccolte di poesie, tra cui “Dentro il meraviglioso istante”  e “Tenerissimo amore”. Mascolo lo presenta dicendo che nella  sua poesia entra la musica e si è occupato anche di Fabrizio De André in uno studio. Ha curato un dialogo teatrale tra le canzoni di Fabio Sanfilippo e le proprie poesie lette da Neri Marcorè, tutti marchigiani. Mascolo gli chiede di definire il rapporto delle proprie poesie con la musica, risponde  di considerarsi “un suonatore di penna, cresciuto a pane e musica,  la poesia è stato un approdo tardivo”. E’ importante il suono nella parola poetica, del resto la voce è un suono. Con la musica ha fatto altri esperimenti, ora ha in preparazione un poemetto musicale. “Vengo dalla musica ma ancora di più dalla vita – ha concluso -difendo la relazione tra la parola e il suo suono all’interno della vita. Ma  posso stare anche in silenzio perché dalla vita venga fuori la voce della poesia”. Da “la luce a volte”, 2016, un’intera poesia senza titolo: “Quando l’autunno arriva si assottigliano/ i fantasmi degli amori che non erano/ e non saranno. Il gioco ha termine.// Forse è la calura che li genera,/ come il miraggio dell’acqua in un deserto./ Se almeno avessimo l’energia per resistergli/ e non flirtare vanamente con le ombre./ Giocare agli adolescenti (non tramontati)/ come se la bobina si riavvolgesse davvero./ Sappiamo essere previdenti, invernali”.

Paolo Ruffilli

Il rapporto con la musica è altrettanto stretto nel penultimo poeta presentato, Emanuele Franceschetti, musicologo, ha insegnato storia della musica al Conservatorio, la sua è un scrittura molto interessante, per il ritmo, l’incalzare, la scelta di temi non banale. Con “Dialoghi sulla poesia” è stato finalista di un premio importante. Cita un verso, “Ti ricordi che i vivi se ne vanno…” poi segue un verso che fa riferimento al segni che ci lasciano, e si chiede cosa: “La poesia è una forma del tragico che rifiuta la conciliazione, sia a livello formale linguistico che esperienziale, non è una forma narcisistica e ci lascia testimoniare ciò che è altro da noi in maniera per quanto possibile sorvegliata.  Il segno che rimane può essere politemico, interpretato in modi diversi,  può essere la parola che testimonia nella memoria e nella storia i vivi che se ne vanno”. Nella sua poesia ha cercato di conciliare la microstoria, cioè la storia individuale,  con la macrostoria per dare voce anche alle figure anonime, perché la poesia è un modo forse vano di certificare la loro presenza nel mondo, con la linea sottilissima del reale che riconduce alla sua origine, al silenzio primitivo del mondo. Da “Testimoni”, 2022, un’intera poesia senza titolo: “Pensi ai tuoi simili, al primo uomo./ E poi la quiete composta delle cose. La storia./ Ma niente accade, niente acconsente./ Non la voragine, non le voci dei superstiti./ La mente non distingue, la mente è sigillata/  il suo fondo oscuro (dunkler gtund)/ dal suo presente./ Piove da cento giorni./ Immagini una torsione. La lingua disarticola la forma,// la parola è tesa, divisa”.

“In altalena con Faber”, Ilaria Pilar Patassin

Con Paolo Ruffilli si conclude la maratona poetica, lo presenta Fabrizio Fantoni, affermando che la sua ultima raccolta “Le cose del mondo “ è  un’opera compatta che prova la costanza nel restare fedele alla propria idea di poesia che dura da 40 anni. “Di formazione autoironico”, così Pontiggia definì la raccolta del 1987 “Prima colazione”,  definizione che si attaglia anche all’ultima raccolta dove nei rapporti con la figlia adolescente i ricordi di infanzia sono resi con grazia  ed eleganza in versi brevi che tendono all’oggettivazione delle emozioni. Concepito come un “continuum”, è un ampio poema aperto in cui il pensiero sembra ripullulare di continuo  come la vita in un susseguirsi di riprese ed echi- Fantoni cita Giovanardi “per l’interna  e ossessiva coerenza”, intesa come  coerenza di un sistema che accetta la propria dissoluzione facendone anzi materia privilegiata di espressione, e nel far questo scopre d’improvviso che è di nuovo possibile dire tutto. Ruffilli aggiunge di essere stato studioso di libretti d’opera buffa e anche librettista, perciò rimane in lui questa spinta ritmica musicale. Legge la poesia “Nell’atto di partire “ che racconta la contraddizioni di chi vorrebbe stare sempre fermo ma è costretto a muoversi e viaggiare. Da “Le cose del mondo, 2020,  la prima parte della poesia “Nell’atto di partire”: “Ma poi, alla fine, mi rimetto in moto/ nonostante ogni volta sia tentato/ dalla voglia che mi prende di restare/ nelle zone più vicine e risapute/ in vista e nel contatto del mio noto./ In compenso, parto sempre/ solo per tornare. E non so mai/ neanch’io, in realtà,… un’intuizione certa e / un sesto senso che mi spinge,/ la coscienza comunque fulminante/ della scoperta più paradossale,/ che bisogna intanto perdersi/ per potersi davvero ritrovare”.

La Pataccini con gli accompagnatori Antonio Ragosta alla chitarra e Andrea Colella al contrabbasso

L’inesauribile Mascolo può chiudere a questo punto annunciando il sito www.ritrattidipoesia.com con tutto quanto attiene alla manifestazione che dura da 16 anni e tende anzi ad espandersi: sono stati definiti specifici progetti con  le Università romane e sono stati avviati  collegamenti con altre Università e con Istituzioni poetiche internazionali. Ma non si dilunga, incalza l’atteso finale  ”In altalena con Faber” di Ilaria Pilar Patassini con Antonio Ragosta alla chitarra e Andrea Colella al contrabbasso. E’stato già introdotto in precedenza nel colloquio della Patassini con Mascolo al termine della mattinata, ripetiamo che  il “concerto nrrativo”  nasce dall’assonanza tra parole e versi della cantautrice e l’opera di De Andrè.  La Patassini rompe il ghiaccio riproponendo l’interrogativo: “Qual è il rapporto tra canzone d’autore e poesia?” E dà questa risposta: “Ha detto  Benedetto Croce che fino a 18 anni tutti  scrivono poesie, poi rimangono a scriverle due categorie,  i poeti e i cretini,  precauzionalmente preferirei essere considerata cantautore.” Un inizio del concerto perfettamente in carattere con la giornata poetica, lapidario e insieme coinvolgente, del resto la Patassini confida subto che l'”imprinting di Faber” su di lei si è avuto sin da quando da piccola ascoltava le sue canzoni, poi la sua “frequenza di voce e tipo di scrittura ha permeato l’immaginario musicale” che si è sviluppato in lei, a fianco a Verdi e Mozart, e ha avuto la consacrazione nell’aver dato la voce di recente alla grande versione orchestrale del “De André sinfonico” citata nel primo colloquio con Mascolo. Poi i 4 blocchi di canzoni, ciascuno con una di De Andrè e una sua ad essa collegata.

Un primo piano di Ilaria Pilar Patassini

La prima canzone di De André incisa su disco, che lo ha salvato “dal diventare un pessimo avvocato” – scritta con l’insegnante di francese, precorrendo tante sue canzoni ispirate a cantautori francesi,  in particolare Brassens – si intitola “Andrè”; segue la sua “Eccomi”, con la “luna in Ariete”, una specie di “nuovo inizio” per lei con una citazione pasoliniana. Il secondo blocco comprende “Altalena”, di De Andrè , come alternanza, separazione, limbo, “ho visto Nina volare” con un riferimento al proprio padre; e la sua “A metà” ispirata a un lbro sull’emigrazione con un richiamo all’altra canzone, molto concitata nel continuo accostamento di opposti con l’immagine della casa che torna: “Quando sono in terra sono a metà/ la casa è un’altalena con la luce portante./ La casa è una cometa con la luce portante/ Quando sono in cielo sono a metà…”. Un “Caustico addio” di De Andrè apre il terzo blocco, evoca l’amore di una donna che lo ha lasciato con note dolorose ma senza cattiveria, mentre il suo “Occhi coltelli” è un sarcastico addio da giullare che aspetta sulla sponda del fiume e, confida lei, il … cadavere simbolico passò realmente. Nel quarto e ultimo blocco si parla di amore e di tempo, che entrano di fatto in ogni canzone quale ne sia il tema, l’ordine è invertito per dare l’onore del finale a De André. La canzone della Patassini è “Niagara”, ispirata alla prima donna funanbola che ha attraversato le cascate camminando su un filo – era italiana e lo ha fatto anche ad occhi bendati – per sottolineare il difficile equilibrio che ogni donna deve avere, però con la conclusione che è bene lasciarsi andare, tagliare il filo e restare al di qua; mentre di De Andrè “Amore che viene, amore che va”, già anticipata con la sola voce senza acconpagnamento al termine della mattinata, un classico pieno di sentimento. Ma ci piace sottolineare un aspetto che ci appare sorprendente: nella canzone “A metà” della Pataccini ci sono una quindicina di opposti, citati in modo incalzante, alcuni sono indicati nella scenografia della sala: che lo scenografo Enrico Miglio si sia ispirato a quella canzone? Alla fine l’abbraccio con Mascolo, la foto insieme a Carla Caiafa e ai due bravissimi accompagnatori con chitarra e sassofono che hanno dato una musicalità profonda a testi difficili e a una voce intensa, e il bis che ha chiuso un concerto così suggestivo.

Così è terminata la maratona poetica 2023,  con il concerto conclusivo che ha visto in passato, tra tanti altri, Vecchioni e Dalla, De Gregori e Fiorella Mannoia, fino alle canzoni di Lucio Battisti con Mogol, infine il recital di Lina Sastri. Questa volta parole e musica ancora più strettamente unite in una “altalena” veramente emozionante oltre che evocatrice nell’ispirato recital canoro della sensibile artista.

L’arrivederci è alla 17^ sessione del 2024, fissata al 15 marzo sempre a Roma, nell’Auditorium della Conciliazione.

Il presidente Emmanuele F. M. Emanuele mentre applaude con un pizzico di commozione

Info

Auditorium della Conciliazione, via della Conciliazione 4,  Roma. In televisione l’intera giornata è stata trasmessa in “streaming” su Rai Cultura e Rai Scuola ed è raggiungibile su Rai Play, le singole parti sono su Youtube. I primi due articoli sulla manifestazione sono usciti in questo sito il 13 e 16 febbraio 2024.  Cfr. in questo sito i nostri articoli, sulle precedenti edizioni dei “Ritratti di poesia”  20-21 maggio 2022, 12 marzo 2020, 17 febbraio 2019, 1° e 5 marzo 2018,  10 marzo 2017, 10 febbraio 2016, 15 febbraio 2013, 9 maggio 2011 ; su Emmanuele F.M. Emanuele   22 ottobre 2019, 14, 20 aprile 2019; su Pasolini citato, gli articoli nel centenario della nascita il 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 marzo 2022

Uno scorcio della sala vuota

Photo

Le immagini sono state tratte dal sito www.ritrattidipoesia.com tsi ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Ciascuna fase della manifestazione è documentata con la relativa immagine. In apertura, Un momento della manifestazione, un’immagine della sala; seguono, “Di penna in penna” 5^, Mariagiorgia Ulbar e “Scrittura e cancellatura”, Emilio Isgrò in collegamento con Mascolo, poi, “Poesia sconfinata” 4^, Katarina Frostenson, e Luis Garcia Montero, quindi, “Di penna in penna” 6^, Gianni d’Elia,, Annalisa Mainstretta, e Silvio Ramat a dx, con Elio Pecora; inoltre “Poesia sconfinata” 5^, Doris Kareva, e Dimitris Lyacos; continua,“Di penna in penna” 7^, Filippo Davoli, Emanuele Franceschetti, Paolo Ruffilli; prosegue, “In altalena con Faber”, Ilaria Pilar Patassini, La Pataccini con gli accompagnatori Antonio Ragosta alla chitarra e Andrea Colella al contrabbasso, e Un primo piano di Ilaria Pilar Patassini,; infine, Il presidente Emmanuele F. M. Emanuele mentre applaude con un pizzico di commozione; in chiusura, Uno scorcio della sala vuota e L’ingresso dell’Auditorium della Conciliazione..

L’ingresso dell’Auditorium della Conciliazione

Ritratti di poesia, 16^, 2. 14 poeti, e “scoprire la libertà” per le donne iraniane e afghane

di Romano Maria Levante

Abbiamo dato conto nel primo articolo della fase iniziale della maratona del 14 aprile 2023 sulla poesia contemporanea “Ritratti di poesia” con “Caro Poeta” , iin cui gli studenti di tre Licei romani hanno presentato i loro componimenti poetici accompagnati dai poeti che li hanno assistiti, sono state commentate iniziative innovative in campo poetico, sono stati conferiti i premi alle Poesie brevi di 180 caratteri e all’”Opera prima” che viene pubblicata, e i premi principali  della Fondazione Roma “Ritratti di poesia nazionale” e “Ritratti di poesia internazionale” da parte del Presidente ideatore e realizzatore delle 16 edizioni della manifestazione, Emmanuele F. M. Emanuele, poeta egli stesso che ha presentato il suo nuovo libro di poesie “Versi in cammino” nella 1^ parte di “Di penna in penna” in un colloquio quanto mai aperto ed eloquente  con il conduttore, intervistatore e regista della manifestazione Vincenzo Mascolo.

Un’immagine dal fondo della sala

Si passa  alla 2^  parte di “Di penna in penna”, la poesia italiana,  con  due poeti, comincia Maria Clelia  Cardona, definita nella presentazione di Fabrizio Cantoni  “una intellettuale poliedrica”, autrice di molte traduzioni e testi di critica letteraria, oltre a libri di poesia. La sua visione poetica  ha “un forte legame con il mito visto non come recupero di un mondo perduto. ma come specchio di una storica condivisione esistenziale dell’essere umano”. Alla domanda sul valore che il linguaggio del mito continua ad avere nella cultura contemporanea risponde così: “Il mito ci consente di uscire dalle strettoie sia espressive che mentali della nostra quotidianità”, alla base c’è “la condivisione di una condizione umana non al di fuori dal tempo ma presente in tutti i tempi. quindi ci mette in contatto con qualcosa che ci riguarda da  sempre. L’importante, però, è che non si perda di vista il presente in cui si vive”.  Da “Il pozzo e i rovi” dell’ultima raccolta “I giorni della merla”, 2018: “Mio tempo – come un pozzo cui troppo attingiamo/ senza troppo badare finché appaiono cocci e melma,/ sterpi, foglie secche, ossicini di uccelli –  ma quando tutto ci sembra esaurito/ riaffiora acqua da vivere – non è/ prosciugata la vena di sotterra,/ darà vita ancora al cespuglio di rovi/ che rampica  e s’intriga sui bordi e spande spine,/ e lampioni di more si accendono/ verso il giù sotto verso/  il buio”.

“Di penna in penna 2”, Maria Clelia Cardona con Fabrizio Canton

Segue Cesare Imbriani, autore di molti libri ed economista, per questo Mascolo gli chiede di parlare del suo percorso per arrivare alla poesia. “E’ stato un fatto automatico”, risponde, le prime poesie pubblicate risalgono agli anni ’60, quando era adolescente, è stato influenzato dai poeti contemporanei e soprattutto da Cesare Pavese, che definisce “un passepartout verso l’internazionalizzazione”, citando l’opera “Atlantic City” che definisce stupenda, e afferma che più del linguaggio lirico gli interessava  “trasmettere il senso civile della poesia”, desiderio che considera almeno in parte realizzato, ben aderente alla realtà anche ai tempi del digitale.  Da “Mille e mille giorni” del 2020, ecco i primi e gli ultimi versi della poesia “Selfie e l’immortale a termine”: “Un trucco di magia  e sorride/ il pagliaccio che mai legge critiche/ né risponde a difficili domande./ Ma per una volta la trama degli esigenti fatti/  sceglie tra realtà e fantasia, frena/  alchimie e vuoti sogni, prende distanza/ dalle chimere del clown…// …Si nutrono/ così di ingenua presunzione/  i vagabondi passi che saranno posta / sul web degli AMICI per aggiungere/ like alla collezione del nulla/ che sempre mancherà di un capolavoro”.

Cesare Imbriani con Mascolo

Lo stesso Mascolo poi, dopo aver ricordato che la poesia riflette la realtà che viviamo, presenta le promotrici  di due progetti fotografici strettamente collegati, la cui realizzazione è visibile dalle fotografie esposte ai margini della sala, sul tema “Scoprire la libertà”.

Il progetto “Inside Burqa”di Loredana Foresta è rivolto alle donne iraniane che da decenni lottano per la salvaguardia dei propri diritti, calpestati da un legislazione oppressiva che va dall’obbligo del velo a una serie di imposizioni sui comportamenti che le sottopongono all’autorità maschile, dai limiti allo studio, al lavoro, al matrimonio, conculcando la libertà di potersi esprimere. Lo presenta così: “Questo lavoro è dedicato alle attiviste iraniane che da anni lottano per promuovere un cambiamento radicale  in patria, in particolare a coloro che  con coraggio si espongono in prima linea incuranti dei rischi”. E abbiamo visto di recente nella barbara esecuzione di una di loro che si era particolarmente impegnata che si tratta di rischi mortali. “Come donne –  continua la presentazione – rappresentano la parte della popolazione più vessata dal regime, appiattite ormai da decenni in un ruolo secondario e private della facoltà di scegliere, ma come tali incarnano anche la forza propulsiva del rinnovamento nella lotta per un Iran civile e democratico, un Iran in cui non si venga  frustati per una scollatura e giustiziati per un chignon”. Le fotografie intendono comunicare, in assenza di un’identità precisa negata dal regime, “non chi sono e cosa fanno, ma che esistono, col diritto inalienabile all’espressione e al libero arbitrio”. Al progetto hanno collaborato donne iraniane residenti in Italia  e volontarie del movimento  “Donna Vita Libertà”, dunque un meritoria iniziativa personale con partecipazioni  molto significative.

“Scoprire la libertà”. Loredana Foresta

Stefania Rosiello ha voluto immedesimarsi nella situazione delle donne afghane dopo la presa di Kabul da parte dei talebani nell’agosto 2021, mettendo una sorta di “mini burka” alla propria macchina fotografica in modo da ridurne al minimo la capacità di riprendere e di spaziare, girando per le strade fotografando con tali forti limitazioni ciò che incontrava; e questo per sei mesi. “Quello che ho visto – dichiara – è stato un mondo squarciato, come una tela di Fontana. Avevo perso il mio raggio visivo, si era drasticamente ridotto, non solo ai lati ma anche  soprattutto nella parte alta e bassa del mio frame. Mi sono trovata ad abbassare la macchina fotografica, ovvero la mia testa, per riuscire a vedere dove mettere i piedi, ma così facendo non sapevo cosa avessi di fronte di lì a pochi metri da me, persone, macchine, semafori. Poi ho provato a guardare il cielo e sono rimasta senza respiro, non riuscivo a vederne che una striscia, perdendo qualunque riferimento con tutto il resto di ciò che mi circondava”.  Provava “sensazioni di smarrimento, di claustrofobia, di paura” sempre maggiori  finché – prosegue il racconto – “negli ultimi due mesi del progetto, la sensazione di frustrazione per la mancata libertà di espressione mi ha reso davvero difficile continuare a fotografare”, non si sentiva più di uscire con la macchina fotografica. Tutto questo “per portare all’esasperazione quella sensazione di mancata libertà e cercare di capire”. Una simile immedesimazione ha prodotto “un senso di claustrofobia e costrizione”. Come nelle donne afghane.

Stefania Rosiello

“Dall’Iran raccontato all’Iran poetico”, esclama Mascolo introducendo  la poetessa iraniana Mina Gorij nella 1^ parte della sezione “Poesia sconfinata” dedicata ai poeti stranieri, la presenta il suo traduttore Andrea Sirotti. Vive a Cambridge dove insegna letteratura inglese, emigrata da piccola in Gran Bretagna dove si è sviluppata una fioritura di poeti giovani migranti di varia provenienza anche di seconda e terza generazione le cui poesie sono pubblicate da case editrici britanniche:  “Una voce poetica che viene da vari strati sociali”, così da avere un senso  sociale e civile, per l’esistenza e la vita di tutti i giorni, a differenza di quanto si riscontra in  Italia.  La sua è “una poesia di grande e dettagliata osservazione”,  che osserva la natura, piante e animali, alla ricerca di un modello per le emozioni e per le relazioni umane. Viene considerata  la natura nei suoi limiti estremi, temperature rigide e ghiacci, deserti e vulcani, ma anche nell’osservazione quotidiana con un occhio scientifico e poetico al  tempo stesso per individuare le modalità di sopravvivenza; il riscaldamento climatico e altri fenomeni connessi suscitano in lei un preoccupazione che nasce dall’osservazione precisa della realtà.  Data la sua caratura accademica, nelle due raccolte pubblicate  non mancano citazioni nascoste di grandi come Shelley e Shakespeare. Una scelta di poesie tradotte in italiano è uscita in “Nuovi Argomenti”; ecco, integrale, la poesia inedita in Italia “Fuga”  tradotta da Andrea Sirotti: “Mi chiese: ‘Da dove vieni, signora’?/ e quando gli risposi ‘Iran’,/ mi abbracciò dicendo/ c’e l’ho fatta’/ con una tale gentilezza / che non ebbi il coraggio di chiedere/ ‘Ma le conosce le lucertole a Persepoli?/ le catene montuose/ che si allungano nella neve?/ il sapore del kharboozeh?’/ la sensazione finale quando la porta dell’ascensore si chiude?’’

“Poesia sconfinata” 1^, Mina Gori

L’appuntamento musicale della serata, “In altalena con Faber”,  viene presentato in anteprima al termine della mattinata con la protagonista Ilaria Pilar Patassini, la cantautrice di cui è appena uscito il singolo “Niagara” e sta per uscire l’album “Terra senza terra”. Mascolo la definisce “la voce del mastodontico progetto di Geoff Westly su De André sinfonico”,  con la London Simphony Orchestra, 70 orchestrali, 30 coristi, e Peppe Servillo oltre lei: è giunto in porto a fine 2019  quando la pandemia ostacolava tante presenze contemporanee, sarà portato anche a Roma. C’è stata una rispondenza inattesa, De Andrè giudicato dai classici troppo “pop” e dai “pop” troppo intellettuale, viene riportato ai  suoi autentici valori epici e lirici e ai contenuti  che hanno avuto un impatto sociale e anche politico negli anni ’60 considerati rivoluzionari per il mondo musicale. Ilaria, parlando del  recital serale, spiega che l’”altalena”, vista come alternanza,  è “l’elemento fondante” della sua canzone ‘A metà’”  uscita nel 2019. Ebbene l’alternanza sarà in 4 blocchi di 2 canzoni ciascuno, una propria canzone con una di De André. Intanto canta, senza alcun accompagnamento musicale, la canzone “Amore che vieni, amore che vai”,  in modo suggestivo. “Bravissima, bellissima, veramente grazie”, commenta Mascolo e gli applausi accompagnano il suo spontaneo riconoscimento. Con questa anticipazione veramente emozionante del recital che concluderà  la maratona poetica termina la prima parte della giornata, si riprenderà alle ore 14,30. 

“In altalena con Faber”, Ilaria Pilar Patassini con Mascolo

La ripresa pomeridiana inizia con le “Idee di carta”, l’incontro di Mascolo con l’editore di “Il Saggiatore”Marco Marino,  e la domanda è d’obbligo: il rapporto della casa editrice con la poesia. Risponde che vi è un rapporto solido con molti poeti, una traccia mantenuta anche con poeti francesi, ora stanno indagando sulla grande poesia internazionale del ‘900, con grande attenzione al mondo poetico, e cita una serie di poeti presenti nelle collane della casa editrice. Non c’è una collana specifica sulla poesia perché la letteratura in generale converge nella collana dedicata alla cultura, non occorre una distinzione di categoria; inoltre anche se finora non hanno pubblicato testi di poeti italiani contemporanei, a maggio uscirà una raccolta di 1100 pagine sugli ultimi 50 anni di poesia italiana con attenzione maggiore verso gli ultimi anni. Mascolo sottolinea l’importanza di dare spazio alla poesia italiana contemporanea che rischia di essere “poco ascoltata” e la risposta è che mancano gli editori in grado di affrontare  il problema delle scarse vendite. La poesia è attrattiva, e questo é un dato reale, ciononostante non si investe davvero sui poeti, non si fa distribuzione né promozione dei libri di poesia; le scarse vendite dipendono dal fatto che non si lavora in modo adeguato a monte. Anche le grandi case editrici, commenta Mascolo, quando pubblicano un libro di poesia lo abbandonano, e non fanno alcuna preparazione per presentarlo in modo efficace. Marino lamenta che nella distribuzione non si tiene conto della peculiarità dei libri di poesia, ma quando si opera correttamente – e cita degli esempi – non mancano ottimi  risultati di vendite. Conclude affermando che alla mancanza di coraggio degli Editori si aggiunge l’assenza di una “intelligenza poetica che consiste nel formarsi poeticamente al mondo per abitare la complessità delle cose”; e informa  che il Saggiatore pubblica cinque libri di poesie l’anno, anche di grandi poeti internazionali, uno sarà in libreria nel 2024 e parlerà di Dio, il suo essere indefinibile tra una realtà e l’altra, oltre alla già citata antologia della poesia italiana degli ultimi 50 anni.

“Idee di carta”, Marco Marino  con Mascolo

Dopo questo interessante annuncio si torna ai poeti con le loro poesie,  nella 3^ parte della sezione “Di penna in penna”, sulla poesia italiana. Mascolo invita a salire sul palco Michele Bordoni con Gianni Gualtieri che presenta il giovane poeta con tante pubblicazioni e riconoscimenti, impegnato anche in un interessante lavoro di ricerca sulle immagini, i suoi testi sono apparsi in una rubrica sui poeti dei trent’anni. Alla domanda su come si rapporta la sua poesia con le immagini, riferendosi  ai risultati delle sue ricerche, risponde tra l’altro che cerca di fermare i flussi di immagini mentre lo attraversano. Alcuni versi della parte finale di una poesia senza titolo sulla “Camera di ascolto” di Magritte,  tratta da “Poeti italiani negli anni ’80 e ‘90”, a cura di Giulia Martini, 2022: “… ascolto senza possibilità di voce/ pittura deprivata di parola,/ silenzio che si incunea nella sala e splende/ nel verde di smeraldo, bocca/ chiusa, morso non dato al mondo fuori/ che dentro il vuoto di finestra aperta/ nel grigio di mattoni lì a sinistra/ racconta del mare.”

Segue Yvonne Mussoni,  viene presentato il suo libro di poesie del 2021 “Sirene”, in cui la creatura Sirena prende la parola e in modo quasi oracolare con una narrazione che riguarda la perdita dell’innocenza. L’autrice spiega che lo ha scritto mentre lavorava alla tesi di laurea, quindi con molti approfondimenti, e cita le “Metamorfosi” di Ovidio con la storia delle Sirene, presenti al rapimento di Persefone per portarla all’Ade con un abbraccio che non era d’amore ma veniva dall’inferno; vengono punite perché innocenti – è questo il paradosso intrigante – dotate di ali per cercare Persefone e di una sguardo capace di penetrare in profondità nel cuore degli uomini, perciò il loro canto è così trascinante. Ecco un  frammento:”Legge naturale è smarrirsi/ per vostra profonda natura/ sentite il richiamo/ dell’essere persi per sempre./ Perderò la mia voce/ per potervi tenere  come il più grande dei segreti./ Solo guardarmi negli occhi è ritornare/ nell’esatto luogo dove/ per la prima volta e senza fine/ avete smarrito al rotta/ e siete davvero, per poco, esistiti”.

“Di penna in penna” 3^, Michele Bordoni a sin. con Gianni Gualtieri

Torna “Poesia sconfinata”, la 2^ parte di poeti stranieri è aperta da Mary Jean Chan,  presentata dalla sua traduttrice  Giorgia Sensi, da poco è uscito il suo libro di poesie. Una vita movimentata e inquieta, prima a Hong Kong per studiare business, poi nel Regno Unito per studiare politica ma non soddisfatta va  negli Usa per studiare di nuovo business, finalmente trova la sua strada nel Regno Unito con la poesia. Nell’Università di Oxford diventa  docente di scrittura creativa, nel 2019 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie,  “Flèche” con  un prestigioso editore inglese,  tradotta in italiano. “Fleche” è un movimento della scherma, l’affondo, lei frequentava un corso di scherma che riteneva importante, una poesia si ispira proprio alla scherma. Due temi metaforici la agitano, l’identità dell’orientamento sessuale e l’identità cinese contrapposta  a quella europea, con contrasti anche familiari e problemi di razzismo. Ma le sue sono poesie d’amore, di diverso contenuto e forma poetica fino ai sonetti, divise in sezioni con titoli cinesi. Da “Fléche”, Interno Poesia” 2023, la parte finale della poesia “(Auto)biografia”, traduzione di Giorgia Sensi: “Quella volta che mia figlia mi disse che amava una donna e/ io mentii e le dissi che era tutto a posto. Tre anni/ di carestia cosa insegnano a una persona? Niente/ Tranne che esiste una cosa che si chiana fame perpetua/ che la perdita batte sulla finestra come pioggia. Tranne che/ mio padre mi amava e ritornò – non appena poté -/nella  farfalla dalla coda forzuta che svolazzava/ nell’appartamento, nel nostro pet Papillon, nella mia amata figlia”.

Yvonne Mussoni

Natascia Sardzoska  viene dalla capitale della Macedonia del Nord, la accompagna l’editore Andrea Cati, docente con dottorato in antropologia, ha pubblicato diverse raccolte poetiche tradotte in 20 lingue, è traduttrice di molti poeti anche italiani, in particolare è la prima traduttrice di Pasolini. Il libro che presenta, di poesie scritte dopo la morte del padre con il richiamo a Dio, è imperniato sul linguaggio del corpo, dà voce ai vari organi, portatori principali della sconfitta e del dolore umano. L’insegnamento è che si può fallire e non sempre avere successo, per questo è un libro di dolore e di pena, ma non solo. Cati le chiede come interagiscono in lei le varie lingue che parla e nelle quali è traduttrice, risponde che la traduzione letteraria è un lavoro difficile per le sue contaminazioni, tutto è molto permeabile, con i vari mondi che si incontrano, ma quando lei traduce un poeta,  pur con tutte le proprie motivazioni,  si immerge nel suo mondo. Da “Osso Sacro, Interno Poesia” 2020, la conclusione della poesia “Giochi senza limiti”: “… perché solo l’illusione ci nutre/ e tutto quello che è niente/  e tutto quello ch’è di nessuno// buttati via da tutti i lati del mondo/ inarrivabili ladri di tempi/ inghiottiamo solo i nostri inganni// ma giammai/ le nostre verità”.

“Poesia sconfinata” 2^, Mary Jean Chan

Di nuovo la poesia italiana con la 4^ parte di “Di penna in penna”, inizia Nadia Agustoni  accompagnata da Maria Grazia Calandrone  che indica i motivi del suo apprezzamento. Il primo è la rarefazione della  scrittura della poetessa che significa densità di fondo di ciascuna parola, pesante e significativa; poi la coesistenza tra uno sguardo che viene da lontano e uno sguardo che si ferma ad analizzare il dettaglio, dalla panoramica del mondo e dell’umano al particolare nei fatti. “Bisogna amare il poco per capire”, il poco fino al dettaglio con il salto nella sua scrittura dalla densità alla rarefazione. C’è  “il non capire che ognuno di loro è ognuno di noi”, si deve pensare a una “permeabilità dell’io che diventa un io collettivo”. Parla a nome della comunità  di lavoro o di vita descrivendo le varie situazioni senza sovrastarle. Da “La casa è nera”, 2021,  la breve poesia senza titolo: “Non portano il prato/ ma l’erba di queste notti/ cura il piangere e il prato/ li raggiunge lontano.// il  cielo degli azzurri imprime/  un cuore alto/ e corrono i conigli allo scoperto/ si respirano da soli.//case senza tetto piene di luce/ i figli nel fuoco di fotografie// con la loro storia/ avranno le domande del viso”.

Natascia Sardzoska

Paola Loreto è docente di letteratura anglo- americana e traduttrice, scrive libri dedicati ai poeti anglicani ed è autrice di diversi libri di poesie. Il suo discorso  poetico è impregnato di natura, animali, umani: “la lirica è natura”, l’approdo è una posizione di parità con gli altri elementi dell’eco sistema, “gli altri della terra” oltre l’elemento umano che non è più predominante avendo la ragione e il linguaggio, ma diventa un elemento tra gli altri. Da “Case/spogliamenti”, 2016, l’inizio e la fine di una poesia senza titolo: “Nella prossima vita/ avremo una casa io e te, / Un orto, un giardino//… Nella vita che viene/ avremo un bambino/ ispido e nero/ selvatico, ardente./ Non avremo  paura. Lasceremo la fine/ agli altri. Inizieremo”.

“Di penna in penna” 4^, Nadia Agustoni con Marta Grazia Calandrone

Poi  Irene Santori con Fabrizio Santori, traduttrice, saggista, ha pubblicato diverse raccolte poetiche, dopo un soggiorno in Cina all’Università di Canton nel  2021 ha creato una collana di poesie bilingue, “Parallela”, che dirige oltre alla collana “Album”  con l’incontro tra testi poetici ed arti visive. Nei  suoi testi l’immagine della caccia, con  preda e predatore,  diventa un racconto spinto da una energia controllata in un  confronto ininterrotto con la coscienza. C’è il senso del finito nella nostra condizione umana in cui preda e predatori tendono a identificarsi in “un paesaggio esistenziale che incontra il vuoto ed è esso stesso il vuoto”, arrivando dai recessi più profondi del nostro essere umano.  Un rapporto predatorio c’è anche tra poeta e lingua nelle due direzioni, ed è alla base della collana, attraverso la traduzione e auto traduzione il poeta “sfugge alla casa circondariale della madre lingua”. Da “Il libro dei Liquidi!, 2021,  la poesia  “Una macelleria in Cisgiordania”: “Una pecora contromano/ da lontano fissa il suo cranio/ accanto a quello/ di un somaro issato per il naso/ nel pronao blu reale/ del macellaio sano di mente/ di schiena col pugnale e non so quale/ taglio di un cammello/scoppiato come/ il copertone/ del blindato.”..// Sgocciolano come se piovesse ma non spiove/ – fa spazio dentro al secchio al mio polmone-// e questa è Nablus/ e questo è niente”.

Paola Loreto

Dopo i tre poeti italiani, due poeti stranieri con la 3^ parte di “Poesia sconfinata”. Viene dagli USA Robyn Schiff,  si presenta con la  traduttrice Giorgia Sensi.  Insegna all’università di Atlanta, ha pubblicato 4 libri di poesie. Il titolo della nuova raccolta è “Un richiamo a chi mi ha lasciato qui”, cioè all’autrice. Poi parla di un poema che nasce dal lavoro nel banco informazioni del museo Metropolitan, dove ha dovuto rispondere alle domande più varie sull’arte e su tanto altro,  e questo le ha dato gli elementi per raccontarne la storia in due volumi.  Dalla poesia “Quattro luglio”, inedita in Italia, traduzione di Giorgia Sensi, l’inizio e la fine: “Ricordo uno spettacolo/ di Antigone in cui lei/ si gettava sul pavimento/ dell’universo  e raccoglieva/ un pezzetto di polvere. E’ quella/ la particella? La cosa mi colpì”//…C’era una particella sfuggita./ Glorificata dalla mia distanza/ Sentii gli zoccoli della polvere/ il ticchettio del copione/ che calibra l’oblio. Vidi/ penzolare la particella/ e Antigone aveva bisogno/ di fare qualcosa con le mani/ e così fece”.

Irene Santori con Fabrizio Santori

Il secondo poeta è il marito. Nick Twemlow, giunto a Roma  ma impossibilitato ad essere presente per un’improvvisa indisposizione, lei legge anche alcune sue poesie. Dalla poesia “Il sonno” inedita in Italia, traduzione di Giorgia Sensi, la parte centrale: “… Troppo stanco/ per sognare come sognano i ricchi. Le mosche si raccolgono/  sulla crosta del sandwich saltando dalla mano,/ così tranquilla, la mano, la mosca/  il sogno ispirato dal girare degli ingranaggi,  leve e livelli, tutta l’astrazione messa/ a fuoco”.

Con la 5^ parte di “Di Penna in penna” , altri 3 poeti italiani.  Riccardo Frolloni  è anche traduttore, vive e insegna a Bologna dove da un anno ha fondato uno spazio letterario molto vivace sulla poesia con incontri e altre iniziative. Nella raccolta “Corpo striato” tratta il tema dell’assenza  con un movimento continuo come un ballo, tra i personaggi la figura paterna, “l’assenza non è di mio padre ma sono io, l’assenza come un fatto che c’era prima e poi,  ma entrambi sono presenti”.  E confida: “Non avrei potuto scrivere della morte di mio padre, ma la poesia è un racconto di chi esiste, come fosse nell’altra stanza diviso solo da una parete sottilissima”, in una presenza-assenza che lascia come traccia una testimonianza. Da “Corpo striato”, 2021, la seconda parte della poesia “Sogni”: “… mio padre già in cima/ del primo promontorio, ce ne sarà poi un altro/ e un altro ancora, ma neanche una parola, aveva il volto/ sereno, da uomo, mi ammoniva di salire, di darmi/ un tono, ma io arrancavo, passavo da altre parti, lo perdevo,/ lentamente gli altri scomparivano nelle nuvole/ e dietro ai sassi, io pure mi facevo più bianco, con la pelle/ fredda di sudore, mi dicevo non svenire ora, resta sveglio, svegliati”.

“Poesia sconfinata” 3^, Robyn Schiff, al centro, con Giorgia Sensi e Mascolo

Gabriella Musetti  viene  presentata come “infaticabile portatrice di poesia e di parola poetica”, fondatrice e direttrice editoriale  di due case editrici, attiva negli incontri internazionali e nelle residenze estive da molti anni, ha curato volumi e riviste letterarie e pubblicato numerose raccolte poetiche.  Nelle sue poesie parla spesso di Tempo, e anche di Spazio, è come “abitare un limbo”.  Tempo inteso non solo in senso  lineare come tempo che passa, e neppure in senso circolare come tempo che  ritorna,  ma come “tempo interrotto, il tempo delle ripetizioni, del pensiero,  elementi che visti in sequenza danno spazio a poesie diverse”; e viene sottolineato lo “spazio”,  che nella sua poesia alla fine si lega con il tempo come avviene nella fisica. Da “Un buon uso della vita”, 2021, una breve poesia senza titolo: “ le storie sono all’inizio/ tutte uguali/ nasci da un ventre aperto/ dal buio vedi la luce/ ma subito la storia cambia/ secondo il luogo lo status/ il modo e l’accoglienza/ non c’è una regola prescritta/ uguale  a tutti/ ognuno trova a caso la sua stanza/ chi bene – felice lui o lei – chi/ con dolore”.

Segue la poetessa  Mariagiorgia Ulbar, nata a Teramo – il capoluogo di provincia del nostro paese natìo alla falde del Gran Sasso, Pietracamela, ci sia consentita la citazione personale  – vissuta a Bologna e ora a Roma con ritorni in Abruzzo, anche in questo ci identifichiamo con lei. Ne parleremo nel prossimo articolo insieme ai rimanenti  poeti della “maratona” fino allo spettacolo conclusivo.  

“Di Penna in penna” 5^,Riccardo Frolloni a dx

Info

Auditorium della Conciliazione, via della Conciliazione 4,  Roma. In televisione l’intera giornata è stata trasmessa in “streaming” su Rai Cultura e Rai Scuola ed è raggiungibile su Rai Play, le singole parti sono su Youtube. Il primo articolo sulla manifestazione è ucito in questo sito il 13 febbraio u.s., il terzo e ultimo uscirà il 18 febbraio p. v..  Cfr. in questo sito i nostri articoli, sulle precedenti edizioni dei “Ritratti di poesia”  20-21 maggio 2022, 12 marzo 2020, 17 febbraio 2019, 1° e 5 marzo 2018,  10 marzo 2017, 10 febbraio 2016, 15 febbraio 2013, 9 maggio 2011 ; su Emmanuele F.M. Emanuele   22 ottobre 2019, 14, 20 aprile 2019; su Pasolini citato, gli articoli nel centenario della nascita il 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 marzo 2022

Gabriella Musetti

Photo

Le immagini sono state tratte dal sito www.ritrattidipoesia.com tsi ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Ciascuna fase della manifestazione è documentata con la relativa immagine. In apertura, Un’immagine dal fondo della sala; seguono,  “Di penna in penna 2”, Maria Clelia Cardona con Fabrizio Cantoni, e Cesare Imbriani con Mascolo; poi, “Scoprire la libertà”. Loredana Foresta, e Stefania Rosiello; quindi, “Poesia sconfinata” 1^, Mina Gori , e “In altalena con Faber” Ilaria Pilar Patassini, con Mascolo, inoltre, “Idee di carta”, Marco Marino  con Mascolo, “Di penna in penna” 3^, Michele Bordoni a sin. con Gianni Gualtieri, e Yvonne Mussoni; continua, “Poesia sconfinata” 2^, Mary Jean Chan, e Natascia Sardzoska; poi, “Di penna in penna” 4^, Nadia Agustoni con Marta Grazia Calandrone, Paola Loreto, e Irene Santori con Fabrizio Santori, quindi, “Poesia sconfinata” 3^, Robyn Schiff, al centro, con Giorgia Sensi e Mascolo; inoltre, “Di Penna in penna” 5^, Riccardo Frolloni a dx, e Gabriella Musetti; in chiusura, un’immagine laterale della sala.

Un’immagine laterale della sala

Il bombardamento di Montecassino, 15 febbraio 1944. Dal paradiso all’inferno e ritorno

Dal mensile “Realtà del Mezzogiorno” del febbraio 1984

di Romano Maria Levante

Ottanta anni fa, il 15 febbraio 1944, il terrificante bombardamento u Montecassino con la distruzione dell’abbazia benedettina che svettava sulla piana di Cassino dove i tedeschi arroccati sulla linea Gustav avevano bloccato l’avanzata delle truppe alleate dopo gli sbarchi avvenuti più a sud. Nel quarantennale del terribile evento, nel febbraio 1984, ricostruimmo, oltre al bombardamento, il provvidenziale salvataggio dei tesori dell’abbazia che furono portati in salvo circa tre mesi prima ad opera dei tedeschi e per loro iniziativa, con il fattivo contributo dei frati benedettini impegnati anche nell’impedire che fossero trafugati per la Germania e non portati inVaticano e negli altri luoghi al sicuro, si è trattato di circa mille casse con opere d’arte e valori inestimabili, preziosi documenti di archivio e una biblioteca storica, il tutto evacuato dall’abbazia con una teoria di camion, ciascuno “presidiato” da due frati. La nostra rievocazione avvenne dopo una visita all’abbazia all’inizio del 1984 con la guida illuminata di mons. Martino Matronola, fino a poco tempo prima abate, che nel periodo in questione era segretario dell’abate Diamare ed ebbe un ruolo primario nella vicenda dato che parlava tedesco, era sempre vicino all’abate ottantenne con l’incarico di coordinare e vigilare. E’ una storia in cui i cattivi sembrano dventati “buoni”, per il salvataggio dei tesori di arte, cultura e storia, e i buoni “cattivi”, per il dissennatobombardamento distruttivo. La conclusione è quella che ci consegnè mons. Matronola al termine dell’incontro: l’inferno va dimenticato, Montecassino è tornato ad essere un paradiso. Dopo quarant’anni ripubblichiamo oggi, 15 febbraio 2024, nell’ottantesimo anniversario l’articolo che pubblicammo allora, nel febbraio 1984, sul mensile “Realtà del Messogiorno”, senza alcuna modifica per mantenerne tutta l’immediatezza, aggiungendo soltanto le immagini non contenute nella pubblicazione a stampa di allora. E lo dedichiamo, con comprensibile emozione, a mons. Matronola che si regalò la sua testimoniana preziosa.

A quarant’anni di distanza una rievocazione del dramma del 15 febbraio 1944. “15 febbraio 1944, bombardamento di Montecassino, ore 9,20 – 9,35 – 9,50 – 10,50 – 11,10 – 13,10 – 13,20 (a formazioni di 36) fortezze volanti 142 e bombardieri medi 112”. Non è tratto dagli annali di guerra ma dagli appunti di un teste oculare – l’allora studente Carotenuto -che assistette al dramma dalla collina di San Michele.

E non è finita: nel trigesimo del bombardamento di Montecassino, il 15 marzo, bombardamento di Cassino: “Un ufficiale inglese, amico, mi conferma – annota sempre Carotenuto – che hanno partecipato al bombardamento 1500 aerei sganciando oltre 2500 tonnellate di esplosivo. Subito dopo la fine del bombardamento inizia un terrificante fuoco d’artiglieria che investe la città, la montagna di Montecassino e le zone circostanti”. In quei tragici momenti l’abbazia appare un vulcano in eruzione; nelle immagini successive uno scheletro umano proteso verso il cielo.

E’ stata un’altra distruzione, questa volta totale, dopo quella dei Longobardi nel 577 (allora vi era l’oratorio di San Giovanni Battista), dei Saraceni nell’883 (l’oratorio era stato trasformato dall’abate Ginulfo in una chiesa a tre navate) e dopo quella del terremoto del 1349 (che colpì la basilica costruita con un diverso orientamento e una maggiore estensione dall’abate Desiderio poco dopo l’anno 1000), a cui seguì la ricostruzione sei-settecentesca che tutti conoscono.

Da sempre il cenobio benedettino cassinese ha svolto un ruolo culturale oltre che religioso di grande importanza attraverso la Biblioteca, il Collegio e una intensa attività: un paradiso di fede e di cultura, di arte e di tradizione posto sulla cima della montagna che svetta nella piana cassinese.

Su questo paradiso quaranta anni fa si è scatenato l’inferno (“Inferno a Cassino” ha intitolato il suo libro rievocativo un ufficiale americano tornato a visitare i luoghi della guerra). E’ una storia incredibile ma vera, dove i ruoli si sono rovesciati: i “buoni” sono diventati “cattivi” ed i “cattivi” “buoni”; mentre sono rimasti inermi, lassù nell’abbazia, i frati benedettini sui quali si sarebbe dovuta distendere la mano protettiva della Chiesa, dello Stato, del mondo; ma sono stati lasciati soli.

Su queste drammatiche contraddizioni si può fare chiarezza perché è tutto scritto nel “diario di guerra” tenuto con preveggenza in quei giorni prima da don Eusebio Grossetti, poi da don Martino Matronola, allora segretario dell’ottantenne abate Diamare; diario pubblicato dai monaci cassinesi nel 1980, quando Monsignor Matronola, divenuto abate, celebrava le nozze d’oro con il sacerdozio.

Il prezioso quaderno fu ritrovato tra le macerie dell’abbazia quasi integro: un evento fortunato dopo il vero miracolo del ritrovamento della tomba e della cella di San Benedetto intatte sotto le macerie e l’altro miracolo della salvezza dei monaci usciti illesi dall’abbazia, divenuta il cratere di un vulcano.

Scorriamo il “diario di guerra” tenuto durante l’intera vicenda per cinque interminabili mesi e soffermiamoci sulla cruciale decisione dei monaci: l’accettazione dell’offerta tedesca di procedere allo sgombero del patrimonio di cultura e di arte per metterlo in salvo.

Il salvataggio del patrimonio di cultura e di arte

L’offerta fu tempestiva quanto pressante, ma la richiesta era troppo insistente per sembrare disinteressata, e poi proveniva dalla divisione Goering che non aveva certo la fama di mirare alla preservazione dei patrimoni artistici nelle zone occupate, ma li asportava di forza per scopi evidenti.

I monaci dovevano decidere e decisero per il meglio, rinunciando al facile disimpegno: decisero per lo Stato italiano, del quale custodivano il prezioso Archivio, la Biblioteca e tante opere d’arte; per Napoli, che aveva affidato all’abbazia il tesoro di San Gennaro; decisero per tutti.

E aver collaborato sin dall’inizio consentì a loro di controllare e quasi “gestire” l’intera operazione. Inermi, isolati, e in qualche misura abbandonati da tutti, riuscirono perfino a “imporre” due monaci di scorta ad ogni autocarro che trasportava le preziose casse, tessendo una rete sottile fatta di riconoscimenti e fiducia e insieme di sospetti e sfiducia.

Tutto fu registrato e classificato con cura e puntiglio. La lista del materiale trasmessa da don Matronola a don Leccisotti – inviato nella Capitale per ricevere il materiale e contattare il Vaticano – è un capolavoro di precisione, anzi di pignoleria, rimarchevole date le circostanze.

Le casse della Biblioteca monumentale dello Stato italiano furono 240, casse e capsule dell’Archivio nazionale 154, del Monastero 275 casse della Biblioteca privata, e poi diecine di capsule e codici, corali e pergamene, quadri e reliquie. Infine 187 casse del Museo di Napoli.

Non solo, ma ciò che poteva suscitare maggiori tentazioni e cupidigie fu occultato in vario modo- è il caso del Museo numismatico di Siracusa – dando fondo a tutte le cautele e astuzie che la posta in gioco richiedeva, e non solo nei confronti dei tedeschi: si pensi al gran numero di rifugiati che affollava l’abbazia. Per i nascondigli all’interno – scrive don Matronola – “due o tre monaci diversi furono messi al corrente dell’uno o dell’altro ripostiglio, ma nessuno sapeva ciò che vi era riposto; io solo ne avevo l’elenco completo”.

Interpretazioni sul salvataggio e sui “salvatori” tedeschi

Ma potevano i “cattivi” essere diventati tutto a un tratto “buoni” ed avere – nella tempesta della guerra – quell’interesse autentico per il salvataggio delle opere d’arte e dei tesori della cultura ostentato dal colonnello Schlegel e rivendicato nel suo memoriale “Il mio rischio a Montecassino”?

Certo, l’appartenenza alla divisione Goering non favorisce questa interpretazione; lascia forti perplessità anche il fatto che tutto quanto apparteneva allo Stato italiano – precisamente l’Archivio e la Biblioteca – non fu portato a Roma ma a Spoleto nonostante le rimostranze del monaci, ed era destinato ad andare sempre più a nord, mentre il fronte si spostava, totalmente in mano ai tedeschi. Non solo, ma a Spoleto giunsero in missione speciale esperti d’arte inviati da Berlino, forse da Goering in persona, per scegliere le opere più pregiate ai fini che è facile immaginare.

Su questo aspetto della vicenda seguiamo il memoriale del capitano Becker, l’altro organizzatore – con il colonnello Schlegel – del salvataggio, che sembra animato da propositi più genuini; e “marca” strettamente Schlegel e con lui i superiori della divisione Goering – da Bobrowski a Jacobi fino al generale Conrad – per impedire quello che sospetta stiano tramando.

Becker scrive della propria ferma opposizione a che fossero manomesse o, peggio, depredate le opere che i monaci avevano affidato ai tedeschi e dei sistemi a cui ricorse per scongiurare che fossero trattenute come pegno a garanzia del compenso per l’opera di salvataggio.

E tutto quello che seguì, le interviste, i documentari filmati, lo sfruttamento propagandistico per rovesciare l’immagine di “cattivi” sugli anglo-americani ed attribuirsi quella di “buoni” difensori della cultura e dell’arte fu anche, scrive Becker, un usbergo per sventare il temuto colpo di mano tedesco. Il ritorno da Spoleto a Roma dell’Archivio e della Biblioteca di proprietà dello Stato italiano e la regolare consegna di tutto quanto evacuato da Montecassino sarebbero stati il risultato positivo anche di questa amplificazione dell’operazione-salvataggio, posta in tal modo sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

Ne dà conferma il diario di don Leccisotti, puntuale nel descrivere il labirinto dei palazzi vaticani e dei ministeri italiani, da lui percorso con pervicacia fino a riuscire collocare il carico di opere da salvare, prezioso quanto ingombrante sotto tanti profili: “Lo Schlegel successivamente attribuì a sé tutta l’iniziativa di questo sgombero e quindi del salvataggio dell’Archivio e della Biblioteca. Pare invece più verosimile quanto sostiene il capitano Becker”. Se ne deve dedurre che tutti i “cattivi” non diventarono “buoni”, ma dovettero fare di necessità virtù.

Il drammatico epilogo

Ultimato il 2 novembre del 1943 lo sgombero delle opere di cultura e d’arte asportabili e l’evacuazione della maggior parte dei monaci e delle suore, nell’abbazia rimase una pattuglia di dodici religiosi, i cui nomi vanno ricordati: l’abate Diamare e fra Pelagalli ottantenni; don Matronola, don Graziosi e don Tardone quarantenni; don Grossetti e don Saccomanno trentatreenni; fra Zaccaria e fra Ciaraldi trentenni; fra Colella ventiquattrenne; don Falconio del clero secolare e Cianci, oblato.

Difesero Montecassino da qualsiasi intrusione militare ottenendo una zona di salvaguardia di trecento metri all’interno della quale non vi fu mai postazione tedesca; evitarono che fosse posta una unità di avvistamento nel punto più alto dell’abbazia, che ben si prestava e quindi faceva gola all’occupante. La rete di fiducia-sfiducia intessuta con le autorità tedesche a diversi livelli funzionò pure sotto questo aspetto, anche se tutto fu inutile visto l’epilogo della vicenda.

Si sta per consumare il dramma. Il 13 febbraio muore don Eusebio Grossetti per una malattia contratta nelle terribili condizioni in cui era ridotta la vita della comunità, tragico prologo della tempesta che si addensa. I tempi sono scanditi dai bollettini militari. La quinta armata americana lancia dei volantini con l’ultimatum e don Matronola annota nel suo diario: “Il nostro cuore è pieno di sgomento nel leggere tale volantino lanciato dai… Liberatori. Anch’essi hanno gettato giù la maschera”.

L’indomani è il giorno dell’Apocalisse. Lo riviviamo nelle sue parole: “E’ un inferno. Il più crudele generale non si sarebbe accanito con tanto furore contro la più formidabile fortezza, quanto si sono accaniti in questi giorni gli anglo-americani contro un luogo così santo… moriremo avvinghiati all’altare”.

L’immane scempio è ormai compiuto e l’abbazia di Montecassino è un cumulo di macerie dal quale riemergono i sopravvissuti: proprio la pattuglia dei nove monaci rimasti e dei due secolari, con un piccolo gruppo di rifugiati. Sotto l’imperversare dell’artiglieria avanza lentamente una processione spettrale con in testa il grande Crocefisso di legno della Stanza dei vescovi; i soldati “a vedere questo strano corteo preceduto dalla Croce di Cristo sulla linea del fuoco – sono sempre le parole di don Matronola – rimangono stupiti e forse commossi”.

Sono immagini, quelle del bombardamento e queste dell’esodo dalle rovine, che riportano al Cristianesimo delle origini, alle invasioni barbariche con le loro profanazioni e i loro martiri, ma anche con le grandi vittorie della fede. Montecassino è un capitolo luminoso in questa lunga storia.

Dall’inferno al paradiso

Monsignor Matronola ci fa da guida nella visita all’abbazia ricostruita. E’ il 1984, quarant’anni dopo il bombardamento; fino al 25 aprile 1983 e’ stato abate, lui che nel 1944 era il segretario quarantenne dell’ottantenne abate Diamare e, forte anche della sua conoscenza del tedesco, aveva gestito e vissuto da protagonista l’intera vicenda.

Abbiamo cercato di strappargli un giudizio sulle responsabilità della distruzione. I ricordi sono vivi, e anche l’angoscia, ma non ha dubbi. Le colpe erano di Hitler che scelse come caposaldo la zona di Cassino, decisione a seguito della quale Montecassino – posto al centro come bastione naturale – non poteva salvarsi; era il “rischio calcolato” di cui aveva parlato il generale Clark, trasformato in tragedia per l’umanità, i suoi valori di fede, d’arte e cultura.

Sulla solitudine dei monaci dinanzi alle gravi decisioni da prendere, la risposta è altrettanto netta: bisognava riportarsi a quei momenti, allorché lo Stato italiano era ridotto allo stremo, mentre il Vaticano doveva dare credito agli affidamenti ricevuti; e proprio la tragedia di Montecassino aprì gli occhi a tanti e impedì che il dramma si ripetesse a danno degli altri sacrari della fede e della cultura.

Non va oltre queste scarne risposte, vede la vicenda “sub specie aeternitatis”. L’ombra angosciosa del passato si ripresenta davanti ai grandi pannelli della distruzione (“noi eravamo lì sotto”, commenta) e alle gigantesche bombe trovate inesplose ed esposte per memoria e per monito. Ma le meraviglie che ci circondano e l’entusiasmo giovanile della nostra illustre guida esorcizzano il ricordo dell’inferno che, lo dice lui esplicitamente, va dimenticato.

Sottolinea con orgoglio che si era cercato di ripristinare tutto com’era, con il concorso di artisti e artigiani insigni di ogni parte del paese; non c’erano state “riparazioni di guerra” palesi od occulte, l’onere era stato sostenuto interamente dallo Stato italiano.

I preziosi intarsi di marmo della basilica, il coro ligneo, i mosaici, tutto era stato ricreato con amorevole cura; al posto dei dipinti di Luca Giordano quelli di Annigoni e di altri artisti moderni, l’unica modernizzazione a cui si era dovuto far ricorso. Mancava solo la patina del tempo per perfezionare questo ulteriore miracolo cassinese. Non ci sono più dubbi, Monsignor Matronola ha ragione, l’inferno va dimenticato. Montecassino è tornato ad essere un paradiso.

Febbraio 1984

Photo

Come si è premesso l’articolo – esclusa ovviamente l’introduzione in corsivo che ne spiega la genesi e l’intento – è la copia identica di quello pubblicato sul mensile di politica e cultura “Realtà del Mezzogiorno” nel numero di febbraio 1984, ad eccezione delle immagini che non erano contemplate dalla rivista. Le abbiamo inserite per documentare anche visivamente la vicenda e le operazioni che portarono al salvataggio dei tesori di Montecassino: in due immagini le figure dei protagonisti, l’abate Diamare e il colonnello tedesco Schlegel (nella seconda immagine immediatamente dietro l’abate si vede il segretario don Martino Matronola che ebbe un ruolo primario), e nelle immagini che seguono le operazioni di imballo e caricamento sui camion delle preziose opere da salvare, fino all’arrivo a Roma, con i conclusione l’attestato di benemerenza per il colonnello tedesco.: queste immagini sono tratte dal sito web “momenti sospesi”, che contiene un ampio reportage dell’evento. L’articolo si apre e si chiude con le immagini dell’abbazia di Montecassino prima del bombardamento, dopo la distruzione e dopo la ricostruzione, dal paradiso all’inferno e ritorno, tratte dal sito “beni culturali on line”. Si ringraziano i titolari di questi siti e dei diritti sulle fotografie riportate per l’opportunità offerta precisando che le immagini sono state inserite a puro scopo illustrativo senza alcuna finalità economico-commerciale, pertanto se la pubblicazione non fosse gradita saranno subito eliminate dietro semplice richiesta.

1 Commento

Rita Martini Abitbol

Sono figlia di un cassinese (si dice così’?)e dalle parole del Dr. Levante ho potuto rivivere l’amore che mio padre sentiva per Montecassino. Complimenti all’autore. Articolo scritto bene, preciso e dettagliato. Un piccolo capolavoro in questa nostra epoca di decadenza intellettuale e culturale.
Grazie Dr. Levante!
Rita Martini Abitbol

Ritratti di Poesia 16^, 1. L’inizio, con i giovani, le premiazioni, e non solo

di Romano Maria Levante

Tra il 6 e il 10 febbraio 2024 si è svolto il “Festival della canzone italiana” a Sanremo , una maratona canora che per una settimana ha monopolizzato l’attenzione dei media e delle persone di  ogni età e  ceto sociale, ne fanno fede gli ascolti record della trasmissione televisiva.. Alla maratona canora vogliamo far seguire, in questa settimana che segue quella sanremese, la rievocazione della maratona poetica dei  “Ritratti di poesia”, svoltasi il 14 aprile 2023 in una intensa giornata da mattina a sera a Roma, all’Auditorium della Conciliazione. Questo per l’evidente collegamento tra canzone e poesia, le parole unite alle melodie spesso sono poetiche, e per i  punti di contatto tra le due manifestazioni, pur nella differenza abissale tra il gigantismo della kermesse  canora   e la dimensione raccolta di quella  poetica: la cadenza annuale, nell’una le storie espresse in parole e musica e nella seconda  in parole e versi, 30 protagonisti in entrambe  di cui viene evidenziato contenuto e percorso  artistico, testi poetici delle  volte declamati tra le canzoni nella maratona canora,  e le canzoni  a chiusura della maratona poetica, con un concerto che nel gennaio 2010 vide protagonista Roberto Vecchioni e nel febbraio 2013 Fiorella Msnnoia, entrambi presenti al Festival di Sanremo di quest’anno, Vecchioni nell’emozionante serata “cover” con “Sogna ragazzo sogna” e la Mannoia concorrente con la canzone “Mariposa” premiata per il miglior testo..  La rievocazione della maratona poetica del 2023 inizia oggi 13 febbraio 2024 con il primo articolo, che sarà seguito  il 15 e il 17 dagli altri due articoli, nella nostra “settimana della poesia” dopo la “settimana della canzone” nella pari dignità tra le due forme d’arte diverse ma contigue. Il nostro resoconto contiene scampoli di poesie e confidenze dei poeti e le immagini di tutti i poeti e non solo.

La sala , prima dell’inizio, con gli studenti di ‘Caro Poeta

Una scenografia diversa dal solito ha accolto il 14 aprile 2023 a Roma, all’Auditorium della Conciliazione, i partecipanti alla 16^ edizione dei “Ritratti di poesia”, voluti dal prof. Emanuele considerando la poesia un’arte che come le altre va esibita e diffusa. Non più immagini evocative di un tema di fondo – lo scorso anno il riscaldamento climatico – ma parole contrapposte in modo binario, a riproporre le alternative nella nostra vita, anche se la scenografo è sempre Enrico Miglio.

Vincenzo Mascolo, il conduttore, organizzatore e intervistatore della manifestazione

Con questo sfondo l’onnipresente Vincenzo Mascolo, il conduttore, organizzatore e intervistatore di sempre – con il solito garbo dal quale traspare la forte carica ideale di una passione inesausta  – ha ricordato il merito del prof. Emanuele nell’ideare, promuovere e realizzare da 16 anni la manifestazione. Il Presidente  è stato prodigo di riconoscimenti verso Mascolo e la consorte Carla  Caiafa, “senza di loro questo non sarebbe stato possibile” e, aggiungiamo, tanto meno senza di lui.

La maratona sulla poesia contemporanea inizia con la sezione “Caro poeta”  riservata agli studenti dei licei romani, Mascolo sottolinea come la poesia abbia bisogno dei  giovani  per avere un futuro. I poeti  Nicola Bultrini per gli studenti del  Liceo Nicolò Machiavelli,  Maria Grazia Calandrone per il  Liceo Cavour, Laura  Cingolani per il  Liceo Vittoria Colonna hanno presentato i giovani studenti cimentatisi nella poesia  inquadrando l’impostazione data nella scuola al loro impegno prima delle letture poetiche in una incalzante successione al microfono con il tifo dei compagni assiepati nella sala.

 Liceo Machiavelli, lettura poetica della studentessa accompagnata dal ‘rumore di fondo’ dei compagni con il poeta Nicola Bultrini

 Bultrini ha detto di aver preso come base la  poesia “Parole povere” di  Pierluigi Cappello – che si rivolge al mondo della propria infanzia – ogni strofa un personaggio della comunità in cui viveva, con toni anche dolorosi, il tutto  riprodotto dai giovani con una strofa ognuna riferita alla  propria  comunità, ultima la strofa originale del poeta. Un accompagnamento discreto definito da Butrini “rumori di fondo”, in realtà un tamburello e diversi altri strumenti utilizzati per produrre il loro suono, veramente originale e anche suggestivo: ci viene un’associazione di idee ardita, il “flamenco” con i ballerini accompagnati da “rumori di fondo”, i battimani ritmati ai bordi della pista oltre che dalla musica, qui i “rumoristi” sono schierati vicino al microfono. Sfilano i giovani poeti del Liceo Machiavelli,  leggendo ciascuno la propria strofa per comporre la versione personale della poesia presa come base, l’ultima strofa è quella originale del poeta Cappello.

Liceo Cavour, lettura poetiuca dello studente con la poetessa Calandrone

La Calandrone ha ammonito di non confondere la poesia con la fantasia e l’immaginazione perché nasce da fatti reali, e in questo senso nel liceo si erano già esercitati in questa direzione su luoghi di Roma e altro: ha scelto due poesie tra cui una di Pasolini con una visione di questo futuro che lo acceca e di quello che arriverà in cui “decoro coincide con rancore”, e l’altra di un  poeta su una fetta di pane che è l’inizio di tutto, fino all’esortazione  “rompetela”. Con riferimento a queste due poesie l’invito agli studenti del Liceo Cavour ad osservare la realtà e metterla in versi; ognuno  ha letto la propria trasposizione poetica parlando non solo di sé – ha concluso la Calandrone – ma anche dando voce agli altri come avviene nella poesia.

“Caro Poeta” si conclude con  la presentazione da parte della Cingolani delle prove poetiche dei giovani del Liceo Vittoria Colonna, che ha cercato di orientare in base al valore  della “presenza” mettendoli di fronte a delle situazioni e dando degli stimoli facendo superare il timore di essere giudicati più da loro  stessi che da altri in modo da potersi esprimere liberamente. Ne è emerso un mondo fatto di tante cose, gioia e anche sofferenza, soprattutto autenticità, in composizioni caratterizzate da freschezza e brillantezza, cercando di “scavare  per ritrovare quello che già c’è e ci serve e di volare per liberarci di quello che non ci serve”. Vengono lette da alcuni studenti le poesie di tre classi, e la Cingolani ci tiene a sottolineare che c’è stato uno scambio di stimoli reciproco tra lei e gli studenti. Aggiunge che la poesia va considerata come “presenza” rispetto alla realtà e come strumento per raccontarla, ciascuno a suo modo.

Liceo Vittoria Colonna, lettura poetica della studentessa con i compagni

Ha colpito l’impegno e la compostezza dei giovani studenti in veste di poeti, intere classi e non singole individualità, e il succedersi al microfono con i loro abiti casual ne ha marcato l’identità quanto mai attuale.

Si passa ai risultati del concorso per il premio“Ritratti di Poesia  280”, alla 9^ edizione, il numero dei caratteri di Twitter, prima erano 140, un modo geniale di calare la poesia nella contemporaneità anche attraverso il veicolo dei “social” , aggiornandolo con il raddoppio dello spazio pur sempre esiguo. Tema “La natura”, il vincitore, Lorenzo Pataro, parla delle foreste amazzoniche in 8 versi che offrono – secondo la motivazione -“una visione del mondo nel rapporto paritario tra umano e non umano, e l’umano è visto con umiltà in una prospettiva di metamorfosi, una dimensione di sogno, senza perdere la propria identità”.

“Premio Ritratti di poesia 280”, il vincitore Lorenzo Pataro con membri della Giuria

Da un concorso  all’altro, Mascolo presenta la vincitrice del premio “Ritratti di poesia si stampi”, il concorso per l’”Opera prima”, alla 2^ edizione, per la pubblicazione di  un inedito di autore  “under 30 anni”: è Anna Paradisi. La motivazione sottolinea “il timbro di autenticità in versi ruvidi o pieni di grazia, a volte anche con il dolore, sull’esperienza della maternità e lo strazio della perdita”; l’autrice non rinuncia a confidare le proprie esperienze anche drammatiche senza accontentarsi di essere autoreferenziale.  

Mascolo poi presenta “Zeugma, la Casa di poesia di Roma”, iniziativa di Aessandro Anil e Sacha  Piersanti  con pubblicazioni e premi, ha  vinto il premio per l’“Opera prima” lo scorso anno. L’idea nasce dal desiderio di avere un luogo della memoria e delle rimembranze dove parlare di poesia tra giovani, lo associamo agli incontri notturni nella grotta della “Setta dei poeti estinti” nell’indimenticabile film cult “L’attimo fuggente”. Piersanti parla degli incontri avuti sulla poesia  con altre discipline dal vivo, come teatro e musica, per stare insieme collegati alle  eccellenze. Alla domanda di Mascolo se c’è programmazione, la risposta è che nulla è prestabilito, tutto nasce dall’osservazione di ciò che avviene. Non è riservato ai giovani, “l’età non conta”. Si sono incontrate difficoltà nel trovare uno spazio adatto, ci si è riusciti in un luogo idoneo alla Garbatella con appuntamenti ben precisi.

“Premio Ritratti di poesia si stampi”, la vincitrice Anna Paradisi con menbri della Giuria

Dall’iniziativa improvvisata da giovani intraprendenti a quella sperimentata in una sede autorevole  come il “Corriere della Sera”, che ha in comune con la prima la ricerca di una sede, per i giovani la Casa della poesia, per il Corriere l’”Ufficio poesie smarrite”.  Ne parla  Luca Mastrantonio che lo cura nell’inserto “Cultura”, nacque nel 2011  dall’idea di Beppe Severgnini – che dirigeva il supplemento settimanale “7”  alcuni anni fa –   di pubblicare le prime edizioni poetiche del ‘900 e condividere  pezzi di  “poesie smarrite”, cioè senza padri noti. Con il grande afflusso del “popolo dei poeti”  è diventata qualcosa d’altro,  una comunità poetica  – che riceve una “news letter” settimanale – per condividere suggerimenti di poeti contemporanei e anche poesie dei lettori; non sono sui social dato il gran numero raggiunto che si moltiplicherebbe in modo eccessivo. Viene rovesciata la domanda  “a cosa serve la poesia”, che ricorre spesso nella “maratona “ poetica, nell’espressione speculare “come possiamo servire la poesia”. Un modo di servirla è l’ascolto perché la poesia ha bisogno di essere letta, e non solo scritta; è stato verificato negli scambi con i  lettori mediante  il “fermo posta” con il quale vengono messe a disposizione  le poesie di poeti che vogliono essere letti, ci sono le “Poesie amuleto”, definite come la “magia bianca” contro gli eventi negativi. Nella rubrica si risponde a tutti, mentre si pubblicano le poesie più interessanti per la loro consonanza con il momento che si sta vivendo, una sorta di “vitamina P”. Mascolo sottolinea il fatto che dibattiti importanti passano attraverso la poesia, il  mondo dei poeti è molto vivo e la difficoltà risiede nell’incanalare il suo  entusiasmo, le voci dei poeti sono sempre vive.

“Zeugma, la Casa di poesia di Roma” – gli ideatori Aessandro Anil e Sacha  Piersanti, con Mascolo

La conversazione di Mascolo prosegue con Stefano Petrocchi. Direttore della Fondazione Bellonci, Segretario del Comitato direttivo del Premio Strega che ha introdotto dopo tanti anni una grande novità, il “Premio Strega Poesia”. Già nel 1997 con la Fondazione lavorò a una antologia dei poeti degli ultimi 25 anni dal 1970 in poi, mentre la scuola ha sempre ignorato i contemporanei, si ferma a Montale. L’idea è nata dalla volontà di aggiornare il premio Strega – che fino  al 1914  era l’unico premio di narrativa italiana – estendendo lo sguardo agli altri generi, prima la Letteratura straniera, poi la Poesia nella prospettiva di una rinascita considerando anche che è molto adatta alla comunicazione rapida dei “social”. E’ stato chiesto agli Editori di inviare un libro di poesia e ne sono giunti 120, tanti sono quelli che hanno risposto, i 12 componenti del Comitato scientifico del premio ne hanno aggiunti 15, per un totale di 135  tra i quali, mediante l’apposita scrematura, verrà scelta la “cinquina”  da sottoporre al giudizio finale di una Giuria più ampia, come per il Premio di narrativa, parla di 100 persone come ponte tra le scelte del Comitato scientifico e la comunità  dei lettori.  Il Tempio di Venere nel Parco archeologico del Colosseo è stato scelto per ospitare l’evento il 5 ottobre.  L’ultima domanda di Mascolo riguarda lo strano rapporto della Poesia con i “social”, sembrerebbe lontana dalla velocità che caratterizza il nuovo strumento di comunicazione e invece lo utilizza molto; la risposta è che quando  qualche verso va sui social ci si sofferma maggiormente rispetto al resto, anche loro cercheranno di interagire con i“social”.

“Ufficio poesie smarrite” del “Corriere della Sera” – il curatore Luca Mastrantuono, con Mascolo

A sorpresa il poeta della 1^  parte della sezione “Di penna in penna”,dedicata alla poesia italiana, è addirittura Emmanuele F. M. Emanuele, il presidente onorario della Fondazione Roma che  promuove e organizza l’evento da lui ideato 16 anni fa e realizzato ogni anno. Nel dare a Mascolo il suo nuovo libro di poesie recentemente premiato lo ringrazia insieme alla moglie Carla Caiafa per il loro impegno decisivo nella realizzazione dell’evento sin da quando lo ideò 16 anni fa: e questo perché la poesia merita di essere presentata come le altre arti rispetto alle quali è particolarmente significativa in quanto colpisce l’animo del lettore e lo  mette immediatamente in contatto con la sensibilità di chi l’ha scritta. Della sua nuova opera “Versi in cammino” parla il poeta  Boldrini che ne ha scritto la Prefazione, è il sesto libro di poesie di Emanuele, i precedenti sono “Un lungo cammino” e “Le molte terre”, “La goccia nel cielo” e “Pietre e vento”, “Vivere nel cielo”, poi l’attuale “Versi in cammino”. Ringrazia anche l’editore Lucarini per quanto fa nel pubblicare libri di poeti; e alla domanda di Mascolo sulla destinazione dei suoi “versi in cammino” risponde che “la poesia aspira ad andare nel cuore delle persone a cui si rivolge”.  

“Premio Strega Poesia” – il segretario del Comitato direttivo Stefano Petrocchi,, con Mascolo

Parla anche della sua attività di “creatore di bellezze” preannunciando il libro “Vivere nell’arte”  che ripercorre il proprio itinerario di vita nel quale ha promosso e organizzato ben 105 mostre d’arte con lo sguardo rivolto al futuro anche in senso avveniristico come nella mostra di grande successo “Ipotesi Metaverso”, l’ultima da lui ideata e promossa a Palazzo Cipolla. Ma nella sua vita c’è molto altro, la filantropia e l’impegno per i malati psichici, come quelli affetti da Alzheimer e dal morbo di Parkinson, aiutati quando nessuno li considerava, anche con accoglienza in sedi apposite, quali “Il villaggio Emanuele” a lui intitolato. “La sensibilità umana prevale sull’algoritmo”, la modernità sempre più incalzante che circonda il mondo dei giovani e minaccia di annullarla non potrà mai prevalere  sulla “sensibilità culturale, artistica, poetica e, perché no, sentimentale”. Anche in Oriente è giunto ed è stato apprezzato il suo messaggio secondo cui “cultura e bellezza, arte e poesia prevarranno sempre sulla macchina; la poesia è il completamento dell’uomo perché colpisce l’anima del lettore e lo mette in contatto con la sensibilità del poeta”.. E ancora: “La poesia è la speciale medicina che aiuta a guarire lo spirito reso arido quotidianamente dal mondo e dal vuoto che ci circonda”. Con questa precisazione: “La poesia aiuta la riflessione, accompagna la percezione  responsabile della realtà,  facilita la manifestazione del libero pensiero, e delle emozioni, senza nulla togliere ad altre modalità di partecipazione agli accadimenti nell’oggi”.

“Di penna in penna”, 1^, Emmanuele F. M. Emanuele al microfono, con il poeta Boldrini e Mascolo

E lo spiega: la poesia “non ruba il tempo, ma lo potenzia, non è una sottrazione, ma una moltiplicazione di voci, di persone, di ricordi, è la lingua privilegiata per parlare confidenzialmente con l’altro da sé”. Tra tutte le proprie multiformi attività ad alto livello – da professore di scienza delle finanze a top manager, filantropo,  mecenate e altro ancora,  come l’attività sportiva in gioventù a livello olimpionico nella scherma e nella pallanuoto, e poi  nelle relative associazioni sportive  – mette al primo posto “quel poco di poeta che sono”  perché ”quel sentimento che mi muove l’animo e riempie le mie notti mi ha salvato la vita”.  Con toni commossi si rivolge ai giovani  perché ne colgano l’importanza affinché il mondo diventi migliore, pur in un momento di grande preoccupazione per la pandemia ricorrente, la guerra in Europa e la crisi economica. Il saluto a quanti ne hanno condiviso l’impegno conclude l’intervento dalla intensa carica emotiva  di un protagonista spesso “clamans in deserto”  ma dalla voce forte che risuona sempre ammonitrice.

Emmanuele F. M. Emanuele, un’immagine ravvicinata

Boldrini nel commentare il libro presentato, afferma che “noi affidiamo alla poesia il compito di dire qualcosa che è indicibile, questo accade quando c’è una urgenza che viene dal profondo e diventa cruciale. La poesia di Emanuele ha un andamento più discorsivo, in realtà è sempre un’altra pagina di quel diario intimo al quale ci ha abituati nei libri di poesia precedenti, questa volta l’atteggiamento verso il lettore è ancora più confidenziale, ma anche se non si vede, in realtà è un libro pieno di domande, le domande che l’uomo con una esperienza di vita così intensa come quella del prof. Emanuele non può non porsi: cioè il senso del nostro essere nell’esistenza, non il significato delle nostre azioni, non la misura, non i risultati delle nostre azioni, ma come si collocano in un orizzonte più vasto che ci sovrasta dinanzi al quale siamo minuscoli e ammirati, meravigliati. La meraviglia è uno dei toni sempre presenti nelle sue poesie, anche le più amare”. Poi legge alcune poesie tratte dai vari libri di Emanuele, il quale al termine ne legge una intrisa di ricordi della sua infanzia, quando abitava in un palazzo vicino alla cattedrale nel quartiere del grande Federico II del quale viene considerato un continuatore  per la sua visione e la sua azione nei paesi del Mediterraneo che considera la sua patria, nei quali è molto conosciuto e  onorato.

Il presidente Emanuele legge la motivazione del
Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” nazionale

Da parte nostra vogliamo riportare una sua poesia dalla raccolta “Vivere nel sole” del 2021, che ci sembra evochi poeticamente l’itinerario della sua vita così operosa e ispirata, “La strada”: “Il simbolo più realistico/ della vita è la strada./La si percorre per tutto il/  tempo dell’esistenza./ Impervia a volte e/ piena di imprevisti, / per periodi piatta/ e confortevole ma sempre/ capace di insidie impreviste./ In essa ci si mette alla prova/ si diventa ciò che si è./ Io la strada l’ho percorsa tutta/  confortato dal sole che mi ardeva dentro/ prevedendo le sue svolte, i suoi/ slarghi, i suoi tratti più faticosi/ ho superato gli ostacoli/ e ho raggiunto i traguardi  che mi ero fissato./ E in tutto questo il calore del sole/ mi è stato e mi è compagno fedele./ E la strada,/ pur sapendo che è impossibile, sogno/ di ricominciare a percorrerla”.  Anche in Giorgio Gaber “la strada” ha un ruolo importante, pur nella diversa metafora, ci piace ricordarlo nel ventennale della sua prematura scomparsa.

Emanuele consegna il “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia”, a Vivian Lamarque

Dopo l’emozionante intervento del  poeta Emanuele, procediamo spediti nel resoconto della mattinata, restando con lui che, tornato nei panni del Presidente,  consegna il “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a Vivian Lamarque dopo aver letto la motivazione nella quale si sottolinea come la sua poesia “tra le più originali e riconoscibili del nostro tempo” è dedicata da sempre  alla “ricomposizione della memoria negli aspetti minuti del vivere quotidiano”. La poetessa “osserva, immagina, riflette, ricorda, racconta di sé e di ciò che la circonda affidandosi  a un linguaggio immediato, un tono colloquiale, che rendono il lettore partecipe, ma non complice, del suo sguardo” in un’opera che rappresenta “poeticamente la vita”.  Qualche verso di “Certe volte i soli” da “L’amore da vecchia” del 2022: “… al mare i soli guardano l’orizzonte e fanno/ ciao con la mano fanno finta di salutare/ qualcuno lontano come per dire/ non crediate sulla battigia sono sola ma/ nel mare oh nel mare ne ho di persone/  care da salutare …/ e le persone del mare ci aprono/ ci salutano, salutano proprio noi/ (e gli altri niente)”.

La premiata Vivian Lamarque legge alcune sue poesie

 Segue il “Premio internazionale Fondazione Roma – Ritratti di poesia”  alla poetessa americana  Tess Gallagher. Emanuele la introduce esprimendo la sua convinzione che “le donne sono migliori degli uomini”, e non lo dice come complimento rituale, afferma che “si deve a loro se siamo qui, non solo perché grazie a loro  abbiamo riprodotto il genere umano,  ma perché nei 2000 anni della storia umana, con la loro competenza, pazienza, intelligenza e i loro suggerimenti hanno cambiato il mondo”. Le consegna il premio e legge la motivazione  nella quale si afferma che “nella poesia raggiunge l’equilibrio tra autobiografia e relazione con il mondo come tratto distintivo”,  mentre  l’impianto narrativo di una autrice di racconti e saggi “intesse una fitta trama di ricordi, di sogni, di visioni che si interseca con la realtà del tempo presente …” traducendo poeticamente la propria esperienza esistenziale. 

Emanuele consegna ill “Premio internazionale Fondazione Roma – Ritratti di poesia”
 a Tess Gallagher

La poetessa, accompagnata dal traduttore Riccardo Duranti,  legge una serie di poesie la cui traduzione, come sempre,  appare in alto sullo schermo.  “Decisioni” da “Viole nere” del 2014, la riportiamo integralmente nella sua brevità: “Vado sul lato della casa che dà/ sulla montagna a tagliare arbusti/ per liberare la vista sulla neve/ della vetta. Ma appena alzo gli occhi/ con la sega già pronta,/ vedo un nido/ aggrappato ai rami più alti./ Quello non lo taglio./ E non taglio neanche gli altri./ D’un tratto, su ogni albero,/ un nido invisibile/ al posto della/ vetta”.

Con questa carrellata di premi, dopo l’inizio dei giovani studenti e l’emozionante incontro ravvicinato con il presidente-poeta Emanuele, concludiamo la prima parte del nostro resoconto:  seguiranno,  nei prossimi due articoli,  altre 6 parti della sezione sulla poesia italiana, “Di penna in penna”, e 5 parti della sezione internazionale, “Poesia sconfinata”, fino all’intenso recital conclusivo.  La maratona poetica è tutta da vivere. 

La premiata Tess Gallagher legge alcune sue poesie

Info

Auditorium della Conciliazione, via della Conciliazione 4,  Roma. L’intera giornata è stata trasmessa in “streaming” su Rai Cultura e Rai Scuola ed è raggiungibile su Rai Play, le singole parti sono raggiungibili su Youtube. Gli altri due articoli sulla manifestazione usciranno in questo sito venerdì 16 e domenica 18 febbraio 2024. Cfr. in questo sito i nostri articoli, sulle precedenti edizioni dei “Ritratti di poesia”  20-21 maggio 2022, 12 marzo 2020, 17 febbraio 2019, 1° e 5 marzo 2018,  10 marzo 2017, 10 febbraio 2016, 15 febbraio 2013, 9 maggio 2011 ; su Emmanuele F.M. Emanuele   22 ottobre 2019, 14, 20 aprile 2019.

Emmanuele F. M. Emanuele, ideatore e anima delle 16 edizioni dei “Ritratti di Poesia”

Photo    

Le immagini sono state tratte dal sito www.ritrattidipoesia.com tranne alcune dalla pagina “Facebook” dei “Ritratti di Poesia”, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Ciascuna fase della manifestazione è documentata con la relativa immagine. In apertura, La sala ,.prima dell’inizio, con gli studenti di ‘Caro Poeta’”, seguono,  Vincenzo Mascolo, il conduttore, organizzatore e intervistatore della manifestazione, e Liceo Machiavelli, lettura poetica della studentessa accompagnata dal “rumore di fondo” dei compagni con il poeta Nicola Bultrini,; poi, Liceo Cavour, lettura poetiuca dello studente con la poetessa Calandrone, e Liceo Vittoria Colonna, lettura poetica della studentessa con i compagni; quindi, “Premio Ritratti di poesia 280”, il vincitore Lorenzo Pataro con membri della Giuria, e “Premio Ritratti di poesia si stampi”, la vincitrice Anna Paradisi con menbri della Giuria; inoltre, “Zeugma, la Casa di poesia di Roma” – gli ideatori Aessandro Anil e Sacha  Piersanti , “Ufficio poesie smarrite” del “Corriere della Sera” – il curatore Luca Mastrantuono, e “Premio Strega Poesia” – il segretario del Comitato direttivo Stefano Petrocchi,, tutti con Mascolo; continua, “Di penna in penna 1^ Parte”, Emmanuele F. M. Emanuele al microfono, con il poeta Boldrini e Mascolo, ed Emanuele in un’immagine ravvicinata; prosegue, Il presidente Emanuele legge la motivazione del “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” nazionale, Emanuele consegna il “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia”, a Vivian Lamarque, e La premiata Vivian Lamarque legge alcune sue poesie; poi, Emanuele consegna ill “Premio internazionale Fondazione Roma – Ritratti di poesia”  a Tess Gallagher“, e La premiata Tess Gallagher legge alcune sue poesie ; infine, Emmanuele F. M. Emanuele, ideatore e anima delle 16 edizioni dei “Ritratti di Poesia” e, in chiusura, La platea con gli studenti dei tre licei romani protagonisti di “Caro poeta”.

La platea con gli studenti dei tre licei romani protagonisti di “Caro poeta”

Ceccarelli, “Il leone di Milano”, il nuovo romanzo sulle luci e ombre del successo aziendale

di Romano Maria Levante

Con il  nuovo romanzo di Piercarlo Ceccarelli,, “Il leone di Milano”,  si compone una ”tetralogia” di narrazioni che prendono lo spunto da situazioni aziendali al centro delle vicende, si diffondono in  analisi psicologiche e ambientali con intrecci di natura personale e familiare   e fanno entrare nella vita dell’imprenditore e uomo d’azienda facendo luce sui processi  aziendali e le relative scelte e decisioni, legate oltre che ai fattori oggettivi  delle tecnologia, del mercato e quant’altro, anche  – e in molti casi soprattutto –  agli elementi caratteriali.  


La Copertina del libro

E’ una storia coinvolgente che si svolge nel ”sancta sanctorum” delle imprese a gestione familiare. Per questo interessa non soltanto chi segue le vicende aziendali, ma anche il lettore comune che può entrare nel mondo misterioso dei capitani d’azienda,  con la stessa ansiosa curiosità con cui “Sabrina” nell’indimenticabile film spiava le feste della famiglia di imprenditori datori di lavoro del padre. Il protagonista viene seguito nei luoghi “riservati” che frequenta – dai campi di golf al club esclusivo,  alle  aste di oggetti preziosi  – oltre che nelle assemblee societarie,  teatro di contrasti familiari,  e nelle  relazioni di lavoro e personali, con una speciale attenzione ai risvolti psicologici e ai riflessi esistenziali delle scelte sue e dei familiari più stretti con cui il lettore si può confrontare.. 

Con questo nuovo romanzo di una serie che ne conta già tre si compie una “tetralogia” di quello che abbiamo definito a suo tempo  “company thriller”, una sorta di  nuovo genere narrativo  che si affianca ai “legal thriller” nel  portare l’autore a trasferire nel romanzo  quanto  interiorizzato in una lunga pratica professionale ad alto livello. In questo caso qualcosa, anzi molto di  professionale,   c’è non solo nell’ispirazione e nel contenuto, ma anche nel  valore pratico  dell’opera. 

L’Elicottero: “Aveva sempre amato le trasferte in elicottero: gli permettevano di osservare le cose dall’alto, riflettere liberamente e riordinare le idee; lo mettevano, in genere, anche di buon umore”

Gli insegnamenti  per la visione aziendale  e per la vita di tutti

Viene utilizzato il romanzo come  mezzo  appropriato e  quanto mai efficace per approfondire aspetti psicologici per lo più trascurati, se non ignorati,  mentre sono determinanti e spesso decisivi nelle decisioni aziendali. Queste non dipendono, come si ritiene comunemente, solo dai dati di fatto, per lo più quantitativi, e dai modelli  deterministici  utilizzati come ausilio  e  considerati spesso risolutivi, e l’autore ha usato, eccome!, il “Par Roi” con la relativa banca dati a tutto campo, descrivendolo nei suoi scritti aziendali;  bensì dai fattori psicologici che vanno dal carattere dei decisori e dei loro interlocutori, con le emozioni  suscitate, i sentimenti con i risentimenti  che nascono,  tutti elementi che intervengono in modo  preponderante e, ripetiamo, spesso decisivo, nell’insieme  di relazioni che intercorrono all’esterno nella vita aziendale e  personale, e all’interno delle famiglie e di loro stessi. 

Il  romanzo per sua natura può far uscire allo scoperto tali fattori  penetrando nei recessi più nascosti dell’animo umano con l’esplorazione dei diversi ambienti nella vasta gamma delle loro sollecitazioni spesso contrastanti.   Cade così la concezione, spesso un’illusione,  che le decisioni nelle aziende, e anche quelle personali nella vita comune, siano frutto soltanto di valutazioni razionali supportate da elementi oggettivi, quindi deterministiche  e in quanto tali indiscutibili; e si apre un campo  del tutto nuovo nelle analisi aziendali,  nel quale  assumono rilevanza altri fattori apparentemente imperscrutabili, che possono  essere analizzati  con un approccio di  natura diversa;   la lunga esperienza nella consulenza direzionale consente all’autore questa nuova visione. Del resto,  già in un precedente romanzo della serie avevamo trovato un insegnamento valido per tutti, non solo per gli imprenditori e manager: di fronte a una situazione di rischio o comunque a una scelta ardita,  prima di seguire l’impulso bisogna meditare   tenendo conto del proprio carattere, se estroverso e avventato oppure introverso e prudente, quindi regolarsi di conseguenza frenando slanci eccessivi o superando remore paralizzanti nei due diversi aspetti caratteriali.   

La Società del Giardino, il “Gentlemen’s club.: “Bernardo attendeva l’arrivo del suo antico concorrente, anzi rivale, che gli aveva dato appuntamento per cena, accomodato in una delle poltrone retro di cuoio verde della Sala Brasera,  uno degli ambienti che più amava della Società del Giardino,  il gentlemen’s club milanese di cui entrambi erano soci”

Nel romanzo  vengono seguite  attentamente le pressioni psicologiche interiori, le relazioni interpersonali, il modo di dialogare con i diversi soggetti, e anche di trattare nelle diverse situazioni, per chiunque fonte di apprendimento e di riflessione. Il protagonista  è al centro di un quadrilatero di forze – l’azienda e la famiglia, i parenti-coltelli con i colleghi-rivali  e le donne – che  di volta in volta stanno per schiacciarlo e sempre lotta anche con se  stesso per  sottrarsi  alle pressioni  opprimenti con uno sforzo psicologico nel quale lo aiutano fattori  che non valorizza da solo, ma con l’aiuto di chi può dargli consigli validi, e anche questo è un insegnamento. “Ti consiglio di accettare i buoni consigli ”  dice una pubblicità bancaria, per l’azienda il “deus ex machina” è il consulente di direzione,  ma anche nella vita bisognerebbe cercare e trovare un prezioso consigliere. E’  intrigante l’alternanza di situazioni,  che trova corrispondenza nella vita, dalle “stelle”  alle “stalle” e anche l’inverso,  “dalla  polvere agli altari”,  le vive sulla sua pelle il protagonista e il lettore con lui. Se poteva considerarsi un “leone” a Milano in campo aziendale e non una “gazzella” – come gli dice il consulente Fabbroli citando la nota metafora – teme, anzi è consapevole, che possano esserci leoni più forti.

Un romanzo anche didattico ed educativo, dunque,  per l’azienda e la famiglia, la persona e la vita, senza essere pedagogico né tanto meno pedante, anzi tiene in una “suspence “ da “thriller”.  Del resto, anche nelle problematiche di tipo aziendale troviamo elementi divenuti quasi abituali, come i collegamenti a distanza in un sistema integrato del quale abbiamo sperimentato forme diverse, ma paragonabili, con lo “smart working” e la “didattica a distanza”  repentinamente portati dal “lockdown” per il Coronavirus;  e la digitalizzazione , con l’intelligenza artificiale, evocata nel romanzo a livello di alta innovazione industriale con l’illustrazione dei vantaggi rivoluzionari, la cui penetrazione nella vita domestica non è acora avvenuta se non nelle avveniristiche anticipazioni di una “domotica”  fantascientifica o altre applicazioni suggestive. Mentre  la “meccatronica”,  pur essa citata nel romanzo,  riporta il pensiero a “King Kong” e soprattutto a “E.T., le indimenticabili creazioni  del “mago degli effetti speciali” Carlo Rambaldi; i suoi eredi, il gruppo  “Machinarium”, vi hanno innestato la digitalizzazione, in un processo innovativo che ricorda quello del romanzo.

L’appartamento a Milano: “Dalla terrazza del loro appartamento di via Mozart la vista era superba… In lontananza si poteva scorgere il merletto delle guglie del Duomo, che facevano da corona alla statua della Madonnina.”.

L’azienda nella vita del protagonista.

Del quadrilatero di forze che premono sul protagonista Bernardo, l’azienda è la più problematica, connaturata all’intera sua esistenza,  essendo un’azienda di famiglia, i Cerutti,  di cui è il leader sebbene restino ancora  attivi i fondatori nel padre Giulio e nello zio Alessandro; mentre per i figli Fabrizio ed Eleonora la prospettiva è lontana nell’incertezza delle loro scelte non condizionate.

E l’esistenza del leader aziendale non è  tranquilla, movimentata da sollecitazioni opposte: un’occasione di crescita con l’acquisizione di un’azienda concorrente, quella dei Colombo,  che si pone come contraltare, concentrata sul prodotto come quella del protagonista lo è sul  mercato, con il risultato che la sua ha respiro internazionale, l’altra solo nazionale, pur se di eccellenza; e a breve distanza il rischio della catastrofe per l‘improvviso profilarsi dell’inattesa supremazia tecnologica  di un concorrente americano più innovativo che minaccia di espellere la sua azienda dal mercato.

L’asta a Palazzo Amman: “Già salendo lo scalone di Palazzo Amman si riusciva a capire che quella seduta d’asta d’incanto sarebbe stata molto animata: del resto era prevedibile, lui e Benny non erano certo i soli collezionisti con la passione per l’Art Nouveau‘”

Queste opposte situazioni vengono fatte rivivere con una narrazione avvincente – scandita in modo incalzante come un diario giornaliero di eventi ed emozioni – dove in aggiunta  spicca la forza espressiva dell’autore nel descrivere le trattative con l’attenzione psicologica alle mosse dell’interlocutore, moderando e modulando gli accenti a seconda dei momenti, una vera lezione su come condurre i negoziati.

L’azienda ovviamente è molto di più della fonte di soddisfazioni e preoccupazioni per il protagonista: è anche il campo dell’innovazione, dove si  introducono le applicazioni più avanzate, cui abbiamo accennato, in uno “storytelling” particolarmente interessante perché mostra come l’intervento della consulenza direzionale possa essere risolutivo. Solo così soluzioni altrimenti impensabili diventano possibili, è fattibile il reperimento dei fornitori delle tecnologie avanzate richieste e degli ingenti mezzi finanziari necessari, con ardite architetture operative, finanziarie e azionarie che vengono descritte in modo piano e accessibile. In tal modo si possono superare le problematiche psicologiche e quelle collettive nella complessità dell’impresa familiare con  le partecipazioni anche di redditieri senza interesse per l’azienda ma solo per il loro capitale.

L’acquisto all’asta: “Benny riuscì ad accaparrarsi una lampada Tiffany del 1905, un soprammobile che a Bernardo non piaceva troppo…”

La famiglia, croce e delizia

Impresa familiare, dunque, lo è quella del protagonista, della dinastia dei Cerutti, i fratelli Giulio, suo padre, e Alessandro con i loro discendenti, in primis Bernardo.  Lo  è quella dell’impresa concorrente  per la quale si apre la possibilità di un’acquisizione, dei Colombo con il figlio Antonio, l’interlocutore nella trattativa e la cugina Anna, con cui Bernardo ha avuto una storia finita male.

I fondatori restano sullo sfondo, anche se attivi nella vita aziendale, ma riescono a  mettere in  campo la propria saggezza. Questa volta, a differenza dei romanzi  precedenti dello stesso autore, non entrano nelle scelte aziendali, non c’è il dilemma tra accettare i rischi  dello sviluppo accelerato o riposare sugli allori dei traguardi raggiunti con i pericoli relativi; lo si lascia ai figli, in particolare Bernardo, senza interferire. Ma ugualmente riescono a intervenire in modo risolutivo quando sono in gioco aspetti decisivi sul piano umano e non solo. Così quando c’è stata una grave mancanza di un figlio, non il protagonista, è calata la scure della punizione ma lasciando aperta la possibilità di un riscatto, prontamente colta con esiti positivi anche se poi la vicenda ha seguito il suo corso.

Gli  equilibri familiari da preservare da parte dei capistipite non attengono ai rapporti con i discendenti, bensì alle famiglie di questi ultimi e alle relazioni tra loro, sempre movimentate per effetto delle sollecitazioni psicologiche provenienti dai  caratteri di ciascuno. Non solo tra cugini sono continui i dissapori da dirimere, ma la dinamica familiare presenta realtà sempre complesse.

Al Golf Club di Tolcinasco: “Un pomeriggio di vento e di sole come quello era l’ideale per giocare a golf. Era da molto tempo che non si concedeva una partita: anni prima era solito frequentare i green quasi tutte le settimane”

Così tra la seconda e la terza generazione, i nipoti dei fondatori che tendono a sottrarsi alle pressioni dei genitori i quali vorrebbero averli come continuatori dell’azienda di famiglia; mentre c’è Loredana che cerca di crearsi un’altra ben più piccola azienda e si oppone ai tentativi di farla desistere  per dover entrare in quella familiare dedicandosi agli studi appropriati senza diversivi; e Fabrizio che segue la vocazione artistica  rifiutando ogni compromissione aziendale neppure sul piano della commercializzazione delle opere d’arte. Nulla, però, è a senso unico, nei colpi di scena c’è spazio per sviluppi imprevedibili, maturati lungo un percorso meditato, mai unidirezionale.

I problemi e rapporti familiari non sono, però, soltanto di ordine psicologico e comportamentale, attengono anche alla vita dell’azienda in senso stretto. L’azienda familiare, particolarmente diffusa nel nostro paese, è infatti protagonista anche di questo quarto romanzo, e le problematiche sono meramente di ordine proprietario: nel senso che le partecipazioni azionarie sono distribuite tra i due rami della famiglia, i fondatori Giulio e Alessandro  e i loro figli: un intreccio tra chi è operativo nell’azienda e chi ha solo interesse reddituale ed è attento, quindi, anche a possibili rendimenti alternativi, quindi pronto a vendere la propria quota mutando gli equilibri fino alla possibile cessione dell’intera azienda anche contro al volontà del suo leader. E’ una parte interessante perché rende appieno la complessità e le implicazioni di tale forma aziendale, fino all’approfondimento dell’alternativa tra conduzione diretta e management esterno indipendente garante per tutti.

La trasferta negli Stati Uniti: “Il viaggio aereo di ritorno era stato per Bernardo un tormento, il senso di colpa  lo assillava,  sentiva  la spada di Damocle della  meritata punizione, era sconvolto”  

Nella famiglia, allargata alla dinastia, ci sono sempre i “parenti-coltelli”, e qui ne abbiamo uno in particolare evidenza, si tratta di Giuseppe, il cugino del protagonista, ben diverso da lui che appare specchiato e lineare, quanto l’altro sembra ombroso e inaffidabile, rancoroso e vendicativo.

Sulla figura di Bernardo ruota la narrazione, si potrebbe accostare al personaggio tutto milanese della celebre ballata di Giorgio Gaber, “il suo nome era Cerutti Gino [con la variante di Bernardo], ma lo chiamavan drago, gli amici al bar del Gianbellino, dicevan ch’era un mago…”. Diverse  forze lo comprimono in un assedio continuo, e deve destreggiarsi con abilità e sofferenza per non essere schiacciato dall’una o dall’altra; ne deve schivare di minacce alla sua posizione e alla sua azione aziendale. Nel  farlo gli capita di sprofondare in crisi di pessimismo alternate dal ritorno all’ottimismo, mentre  la volontà e la ragione si alternano. La sua è una lotta costante, con la realtà ineludibile della vita aziendale, tra successi presenti e rischi di insuccessi futuri, risultati positivi frutto di bravura ed errori dovuti a presunzione, e con  i problemi della vita, nell’ambito personale e familiare, anche molto particolari. Si seguono le sue vicende immedesimandosi in lui, presi dal susseguirsi di situazioni che, pur nella loro semplicità, sono rese avvincenti dalla maestria narrativa che le fa rivivere al lettore.

L’antagonista Giuseppe impersona i “parenti-coltelli”, il  contraltare del protagonista su tutti i piani, anche su quello della correttezza personale di cui Bernardo è invece un esempio. E’ sua quella che si può definire la più grave infrazione all’etica aziendale e senza aggettivi, è suo anche il recupero della rispettabilità con un valido impegno sul piano professionale. Ma è anche suo il sordo tentativo di rivalsa captando surrettiziamente consensi familiari  per decidere in proprio e non certo in modo positivo, le sorti dell’azienda.  Il tutto mettendo in croce il protagonista su ritardi che lo stesso Bernardo si rimprovera ma cercando di rimediare per salvare l’azienda, a differenza di Giuseppe che invece vorrebbe affossarla in una sorta di “muoio io con tutti i Filistei”, anche se con le tasche piene. Una cosa positiva gli va riconosciuta: la coerenza che lo porta a uno scatto di orgoglio dinanzi a un’offerta seducente ma che andava contro la propria natura  arrogante.

Le macchine per i movimenti di terra: “… il produttore dovrà sviluppare prodotti sempre più intelligenti, attraverso tecnologie digitali integrate, cioè hardware in combinazione con software che offre nuove funzionalità. E concluse: ‘Storicamente, la parte hardware del prodotto era stata alla base della differenziazione sul mercato; ora la situazione è invertita: la componente software diventa sempre più il fattore che porta alla differenziazione e al valore'”

Molto diversa dalla figura di Giuseppe quella di Antonio Colombo, il  leader dell’impresa concorrente  interlocutore nella trattativa per la vendita ai Cerruti rappresentati da Bernardo, la sua abilità nella negoziazione, pur nelle posizione di inferiorità,  si sposa alla accettazione di un’offerta personale che poteva rifiutare per orgoglio o risentimento; invece fa vincere la professionalità e, a dispetto delle insinuazioni e della diffidenza di Giuseppe per lui, è un esempio di correttezza e di impegno per un’azienda che lo aveva sconfitto ma nella quale era entrato senza remore. Anche in questo caso spicca la  lungimiranza di Bernardo, nonché la sua generosità; mostrata addirittura persino nei riguardi di Giuseppe nonostante il suo comportamento ostile e i suoi odiosi sgambetti.

Gli elementi umani, e le componenti psicologiche, si aggiungono a quelli professionali, che non bastano: Giuseppe è molto valido su questo piano per la sua competenza nel settore tecnologico ma pur essendo questo un elemento importante non è decisivo, vale di più la qualità personale.

Competenza e qualità professionale  nell’ altro personaggio, torna il consulente di direzione Nicola Fabbroli, che si trova ad affrontare un problema aziendale spinoso sotto molti aspetti, da quello tecnologico al finanziario, cui si aggiungono le complicazioni di natura familiare dovute a intrecci azionari e motivazioni diverse: da chi non è interessato all’azienda ma al rendimento del proprio pacchetto azionario, a chi come il protagonista le è legato indissolubilmente. Ma l’ amore per l’azienda di famiglia non esclude soluzioni anche impensabili con dei colpi di scena appassionanti.

. Vigevano, lo stabilimento per le macchine:: “La sua azienda aveva il potenziale per vincere la sfida nella quale si sentiva impegnato personalmente e totalmente. Bastava guardare quello che erano riusciti a costruire: Case Rosse aveva cambiato aspetto negli ultimi vent’anni, con la costruzione dei nuovi capannoni destinati alle linee di lavorazione più innovative”. .

Le donne con  grandi e piccoli uomini

E poi ci sono le donne, che non hanno un ruolo secondario, tutt’altro, intervengono nei momenti topici della vicenda dando di volta in volta un tocco di classe e di eleganza, di sensualità e passione, con distacco ma anche condivisione. Si dice che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, non si applica alla nostra vicenda perché non sono mai dietro ma a fianco, anche davanti.

Le stesse zie, Sofia e Maria Paola, intervengono in una fase importante con delle sorprese che si inquadrano in un’attenzione mai venuta meno anche quando non compaiono e sono silenti.

Ma pensiamo ad Anna. forse la  figura femminile che rimane maggiormente impressa  per la sua orgogliosa dignità unita ad una sensualità seducente.  Fa parte dei Colombo – la famiglia  dell’azienda concorrente con cui  c’è stata la trattativa per la cessione tra Bernardo e il cugino Antonio –  ha avuto una storia con Bernardo terminata bruscamente per colpa di quest’ultimo; da parte sua poi un orgoglioso rifiuto a un’offerta accettata invece da Antonio, fino alla ricomparsa in un momento particolarmente difficile per chi l’aveva tradita, una possibilità di infierire per rifarsi dell’umiliazione, una ferita non rimarginata. Assistiamo a una  lezione di amor proprio e fierezza ma nel contempo di comprensione e benevolenza, senza sdolcinature bensì con la dimostrazione di come si possa  entrare nei recessi dell’animo dando una risposta non solo consolatoria ma anche e soprattutto  di incoraggiamento e di stimolo a chi, come Bernardo, ne aveva tanto bisogno. Unita a sferzanti riferimenti ai passati trascorsi e ai pensieri obliqui che percepiva nell’antico innamorato riuscendo ad evidenziarli con espressioni via via, però, sempre più dolci  e persino tenere, forte della sua carica sensuale che sconvolge Bernardo con il ritorno di fiamma dei desideri sopiti.

La birreria della figlia: “… Loredana si è messa a lavorare: insieme con Pietro, il suo ex compagno di liceo – ricordi? – hanno impiantato un birrificio artigianale. Pare che Pietro sia il birraio, mentre lei si occupi della promozione commerciale”

Una donna molto diversa Nadira, come è molto diverso da Bernardo l’uomo a cui si è unita, proprio Giuseppe, come abbiamo visto.  Apparentemente docile e remissiva, ma non ha davanti un grande uomo e non è di certo una grande donna, forse opportunista anche se ha sfoderato un’energia che non le si  attribuiva ottenendo ciò che voleva e dominando poi il suo piccolo uomo.

Ci  piace concludere con la figura di Benedetta, la moglie del protagonista, la più “normale” fra le tre, emblematica della difficile conciliazione tra famiglia e carriera per la donna: Benny c’è riuscita, ha allevato due figli e si è reinserita nella vita professionale in una posizione dirigenziale. Ma non è di questo che vogliamo parlare, bensì della sua femminilità, con l’eleganza e la raffinatezza unite a una sensualità naturale. Nel rapporto con Bernardo c’è di tutto, le liti e le riappacificazioni, le accuse immotivate  e le incomprensioni sull’educazione dei figli, il distacco per motivi di lavoro e per i dissapori familiari,  i dolci abbandoni e gli irrigidimenti, le confidenze e le chiusure. Ma prevalgono i momenti di affettuosa complicità in una visione costruttiva della vita con il coinvolgimento mentale e spirituale, emotivo e sentimentale, fino all’intesa  totale. Ci sono due momenti topici di quest’intesa, nei quali culminano fasi importanti della vicenda, la sessualità esplode una volta con tutta la sua forza prorompente, un’altra con una delicatezza altrettanto intrigante. Si rivivono anche questi aspetti della vita del protagonista, la sua donna è “con”  lui, mai “dietro” di lui per propria scelta volitiva, e sa quando abbandonarsi sulle ali dell’amore.

Dall’azienda alle donne, fino alla donna della sua vita, il protagonista ci appare in tutta la sua umanità, in una storia nella quale emerge la maestria dell’autore nel penetrare la psicologia dei personaggi nelle loro manifestazioni, le più diverse come lo sono per tutti, descrivendo gli ambienti in cui vivono e frequentano con citazioni particolari che ne mostrano la profonda conoscenza. Forse sono gli ambienti che lui stesso frequenta, ma di certo non lo vediamo nei panni del consulente di direzione quale è stato nella sua lunga vita professionale di successo – fondatore  e titolare di una primaria società internazionale – bensì di scrittore a tutto campo.

La premiazione del figlio: “Solo la settimana prima, Fabrizio aveva vinto il concorso interno organizzato ogni anno all’accademia di Brera fra gli allievi dei corsi di pittura e scultura. Era un riconoscimento importante, e lui ci teneva che alla premiazione ufficiale, fissata di lì a qualche giorno, partecipassero anche i suoi familiari”

La “tetralogia”  come “tetrafarmaco” sulle vicende della vita

L’interesse della “tetralogia” dell’autore, oltre alle vicende coinvolgenti che attraversano le quattro  famiglie con le rispettive aziende nasce, come si è detto, da una serie di insegnamenti che se ne traggono anche per la vita comune: su come affrontare le scelte difficili e i traumi di segno opposto dalle stelle alle stalle, dalle polveri agli altari, i contrasti  familiari e i normali colloqui di affari. Insegnamenti frutto di un’intensa attività professionale che lo ha messo a contatto con le situazioni più diverse  avendo in comune l’importanza decisiva dei fattori psicologici. Se ne ricava una sorta di “tetrafarmaco”, non quello epicureo riguardante la morte e gli dei, il dolore e il piacere, ma un aiuto quotidiano che nasce dalla migliore conoscenza di sé stessi per dominare le proprie reazioni. 

Anche sotto questo profilo  il “salto di specie” dell’autore –  se così possiamo chiamarlo dopo tanti libri di tecnica aziendale, da lui scritti e pubblicati a latere della consulenza direzionale – è definitivamente quanto positivamente compiuto. Quella che compone finora una “tetralogia”  narrativa con le peculiarità che abbiamo cercato di evidenziare, viene a formare un vero “poker d’assi”.

Il CdA sulle sorti dell’Azienda: “La prima riunione del CdA, dopo la morte di Alessandro, si era conclusa un’ora prima. Era stata, per lui, disastrosa. Di nuovo, affiorava alla sua mente il pensiero della sconfitta imminente, di una resa inevitabile su tutta la linea…”

Info

Piercarlo Ceccarelli, “Il leone di Milano“, Milano, novembre 2023, pp, 221, Amazon, euro 10,40. In merito alle citazioni nel testo cfr. le nostre recensioni su questo sito: per i primi 3 romanzi, Ceccarelli, Il nuovo romanzo per dire ‘Oggi sono migliore’ 9 ottobre 2021, e Ceccarelli, i Martini e i Gianselmi, storie aziendali e lezioni di vita 14 gennaio 2017; per la “meccatronica”, Rambaldi, il mago degli effeti speciali, al Palazzo Esposizioni 4 gennaio 2020 . I precedenti libri di Ceccarelli della tetralogia di “company’s thriller” sono: “Oggi sono migliore. Una storia imprenditoriale, Editore Interlinea 2020, euro 16,00. “I Martini, Una famiglia, un’azienda: leadership tra ostinto e ragione, Editore Libreria Utopia 2016, euro 19,50; “I GIanselmi. Una storia famigliare”, Mind Edizioni 2015, euro 19,99. I libri di Ceccarelli di saggistica aziendale, prima del “salto di specie” sono: “Le nuove forze della competitività” (con E. Presutti) Editore Sperling & Kupfer, euro 17,82; “Supereroi d’impresa, Creano i prodotti e i servizi che conquisteranno il mondo. Partendo dall’Europa”, Mind Edizioni 2014, euro 19,00; “Azienda, maledetta azienda. Perchè l’Italia non può sopravvivere se non torna a fare impresa”, Mind Edizioni 2012, euro 19,00; “L’urto della crisi. Leader d’impresa alla prova del grande cambiamento”, Mind Edizioni 2011, euro 19,00; “La crescita sostenibile nei mercati maturi, Posizionarsi in modo distintivo per crescere e creare valore nel tempo” (con Andrea Ferri, Carlo Martelli), Editore Il Sole 24 Ore 2008, euro 24,00; ; “I nuovi principi PIMS” (con Keith Roberts), Editore Sperling & Kupfer 2002, euro 18,00; “Gestire l’azienda nell’era di Internet” (con Carlo Martelli), Editore Sperling & Kupfer 2001, euro 17,82; “Il managementinnovativo per riprogettare l’azienda” , Editore Sperling & Kupfer 2000; euro 17,82; “Vincere con il benchmarking” (con Giovanni Calia), Editore Sperling & Kupfer 1995.

Dopo le decisioni finali, l’incontro di famiglia nella villa a Vigevano: “Maria Paola Cerutti aveva molto insistito molto perché Giulio e Sofia, Bernardo, Carlo e Giuseppe partecipassero a una cena a casa sua, a Villa Altea. Quell’incontro, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto svolgerso alcuni mesi prima per riunire la famiglia dopogliieventi degli scorsi mesi e appianare i residui contrasti, in modo che potessero venire superati accantonati una volta per tutte”; in chiusura,

Photo

Le immagini, come di regola, non sono nel romanzo, le abbiamo inserite per favorire l’ambientamento del lettore. Sono state tratte da siti di pubblico accesso, e inserite a titolo meramente illustrativo senza alcuno scopo di natura economica, pronti ad eliminarle su semplice richiesta se la loro pubblicazione non è gradita dai titolari dei siti che si ringraziano per l’opportunità offerta; la didascalia riporta una citazione del romanzo cui la singola immagine si riferisce, le immagini sono inserite nella progressione delle citazioni, tranne l’ultima, posticipata di una posizione. In apertura, la Copertina del libro; seguono, 1l’Elicottero.: “Aveva sempre amato le trasferte in elicottero: gli permettevano di osservare le cose dall’alto, riflettere liberamente e riordinare le idee; lo mettevano, in genere, anche di buon umore”, 16 “La Società del Giardino, il “Gentlemen’s club”.: “Bernardo attendeva l’arrivo del suo antico concorrente, anzi rivale, che gli aveva dato appuntamento per cena, accomodato in unadelle poltrone retro di cuoio verde della Sala Brasera,  uno degli ambienti che più amava della Società del Giardino,  il gentlemen’s club milanese di cui entrambi erano soci”, e 47 L’appartamento a Milano: “Dalla terrazza del loro appartamento di via Mozart la vista era superba… In lontananza si poteva scorgere il merletto delle guglie del Duomo, che facevano da corona alla statua della Madonnina.”; poi, L’asta a Palazzo Amman: “Già salendo lo scalone di Palazzo Amman si riusciva a capire che quella seduta d’asta d’incanto sarebbe stata molto animata: del resto era prevedibile, lui e Benny non erano certo i soli collezionisti con la passione per l’Art Nouveau”; e L’acquisto all’asta: “Benny riuscì ad accaparrarsi una lampada Tiffany del 1905, un soprammobile che a Bernardo non piaceva troppo…”; Al Golf Club di Tolcinasco: “Un pomeriggio di vento e di sole come quello era l’ideale per giocare a golf. Era da molto tempo che non si concedeva una partita: anni prima era solito frequentare i green quasi tutte le settimane”, e La trasferta negli Stati Uniti: “Il viaggio aereo di ritorno era stato per Bernardo un tormento, il senso di colpa  lo assillava,  sentiva  la spada di Damocle della  meritata punizione, era sconvolto”;    Le macchine per i movimenti di terra:    “… il produttore dovrà sviluppare prodotti sempre più intelligenti, attraverso tecnologie digitali integrate,–cioè hardware in combinazione con software che offre nuove funzionalità E concluse:  ‘Storicamente, la parte hardware del prodotto era alla base della   stata la differenziazione sul mercato; ora la situazione è invertita: la componente software diventa sempre più il fattore che porta alla differenziazione e al valore”. Vigevano, lo stabilimento per le macchine:: “la sua azienda aveva il potenziale per vincere la sfida nella quale si sentiva  impegnato  personalmente  e totalmente. Bastava guardare quello che erano riusciti a costruire: Case Rosse aveva cambiato aspetto negli ultimi vent’anni, con la costruzione dei nuovi capannoni destinati alle linee di lavorazione più innovative”. La birreria della figlia: “…Loredana si è messa a lavorare: insieme con Pietro, il suo ex compagno di liceo – ricordi? – hanno impiantato un birrificio artigianale. Pare che Pietro sia il birraio, mentre lei si occupi della promozione commerciale”; La premiazione del figlio: “Solo la settimana prima, Fabrizio aveva vinto il concorso interno organizzato ogni anno all’accademia di Brera fra gli allievi dei corsi di pittura e scultura. Era un riconoscimento importante, e lui ci teneva che alla premiazione ufficiale, fissata di lì a qualche giorno, partecipassero anche i suoi familiari”;  Il CdA decisivo per le sorti dell’Azienda: “La prima riunione del CdA, dopo la morte di Alessandro, si era conclusa un’ora prima. Era stata, per lui, disastrosa. Di nuovo, affiorava alla sua mente il pensiero della sconfitta imminente, di una resa inevitabile su tutta la linea…”. Dopo le decisioni finali, l’incontro di famiglia nella villa a Vigevano: “Maria Paola Cerutti aveva molto insistito molto perché Giulio e Sofia, Bernardo, Carlo e Giuseppe partecipassero a una cena a casa sua, a Villa Altea. Quell’incontro, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto svolgerso alcuni mesi prima per riunire la famiglia dopogliieventi degli scorsi mesi e appianare i residui contrasti, in modo che potessero venire superati accantonati una volta per tutte”; in chiusura, L’intervento risolutivo di Nicola Fabbroli (nell’immagine Piercarlo Ceccarelli): “Nicola Fabbroli prese la parola: ‘Buongiorno, signori. La mia presenza a questa riunione privata è stata richiesta per fornirvi eventuali dettagli tecnici relativi agli interventi in corso. Ma prima permettetemi di aggiungere un elemento… è forse triste, ma vero, che nelle imprese a conduzione familiare si rischia, con il passare del tempo, che i più giovani perdano di vista i valori alla base del progetto imprenditoriale originario'”.

L’intervento risolutivo di Nicola Fabbroli (nell’immagine Piercarlo Ceccarelli): “Nicola Fabbroli prese la parola: ‘Buongiorno, signori. La mia presenza a questa riunione privata è stata richiesta per fornirvi eventuali dettagli tecnici relativi agli interventi in corso. Ma prima permettetemi di aggiungere un elemento… è forse triste, ma vero, che nelle imprese a conduzione familiare si rischia, con il passare del tempo, che i più giovani perdano di vista i valori alla base del progetto imprenditoriale originario”.

Botero, una straordinaria “Via Crucis” al Palazzo Esposizioni

Ci siamo sentiti di onorare la memoria del grande artista Botero, scomparso nei giorni scorsi, ripubblicando le nostre recensioni alle sue due ultime mostre romane. Dopo i 3 articoli degli ultimi tre giorni sulla mostra antologica del 2017 al Vittoriano, concludiamo la nostra partecipazione ripubblicando anche la recensione alla mostra monografica sulla “Via Crucis”, svoltasi al Palazzo delle Esposizioni nel 2016. E’ straordinario come le sue forme ridondanti, ironiche e dissacranti, applicate al tema sacro più struggente riescano a emozionare rendendo partecipi del grande dolore espresso nelle 14 Stazioni della Via Crucis. Questa è vera, grande arte.

di Romano Maria Levante

La Pasqua al Palazzo Esposizioni con la mostra “Botero. Via Crucis, la passione di Cristo”, aperta dal 13 febbraio al 1°maggio 2016. Sono esposti 27 dipinti, la maggior parte di grandi dimensioni, in numero quasi doppio rispetto alle 14 Stazioni canoniche per la reiterazione di una serie di momenti del dramma cristiano con qualche aggiunta,.e 34 disegni a matita ed acquerello, tutti del 2010-2011 in una eloquente immersione dell’artista nel mistero della Passione e Crocifisisone. La mostra è  promossa dall’Ambasciata della Colombia in Italia, organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con il Museo d’Antioquia di Medellin e Glocal Project Consulting, Catalogo bilingue italiano-inglese della “Silvana Editoriale” con un saggio introduttivo di Conrado Uribe Pereira.

“Gesù e la moltitudine”, 106 x 81 cm;

Una Via Crucis come quella di Botero sarebbe un evento straordinario anche per un pittore dedito alle celebrazioni dei momenti della fede, perché non si tratta dei temi consueti della religione trionfante, con la glorificazione della Madonna e il Bambino, Cristo e i Santi, e neppure del solo Crocifisso, ma viene ripercorsa interamente la Passione con tutte le 14 stazioni della Via Crucis, e alcuni momenti reiterati con grande efficacia, in 27  dipinti, la maggior parte  di grandi dimensioni,  con 34 disegni e acquerelli preparatori, anch’essi di elevato livello artistico. 

Ma oltre a questo aspetto pur illuminante,  ne va considerato un altro: l’artista che si è cimentato in un’opera così eccezionale per sua natura e scelta stilistica non è rivolto al dramma e alla sofferenza, tutt’altro. La sua peculiare caratteristica è rappresentare, con figure ridondanti e tranquille, una condizione umana ben diversa nella quale è del tutto assente il dramma e inoltre vi è uno spiccato senso di ironia, anche questo non si addice di certo al tema della Passione.

La formazione e il percorso artistico di Botero

E allora la prima cosa che viene da chiedersi riguarda il motivo che ha portato l’artista a una prova così lontana dal suo orientamento tradizionale, la seconda se abbia mantenuto la sua cifra stilistica delle forme abbondanti, la terza se abbia conservato la sua tendenza all’ironia e alla dissacrazione.

Per l’interrogativo di fondo seguiamo le riflessioni di  Conrado Uribe Pereira che nascono da un’accurata analisi dell’opera del maestro dal primo periodo ad oggi; le altre due risposte vengono dalla visione dei suoi dipinti e dei disegni preparatori, una galleria  fortemente espressiva.

“Il flagello”, 123 x 94

Sull’ispirazione non vi è dubbio che la sua terra, la Colombia, abbia rappresentato il primo  influsso con la solarità e  il clima sudamericano nel quale sono immerse le sue figure corpose e indolenti; ma su questo motivo si è innestata la cultura occidentale della quale è stato imbevuto avendo diviso le sue residenze tra Colombia, la sua Medellin e Bogotà,  Italia e Francia, Stati Uniti a  New York.

In Italia è stato fondamentale il suo contatto con le opere dei grandi maestri dal 400 e Rinascimento in poi, tra quelli che più lo hanno interessato, osserva Uribe Pereira, “nella sua pittura attraverso omaggi e reinvenzioni. Botero si riappropria così di alcuni artisti che hanno lasciato il segno nella storia dell’arte”. Non solo mediante  citazioni, ma “nel far proprie molte, se non tutte, le tematiche di questi artisti”.  La chiama addirittura “ossessione per i i soggetti tradizionali dell’arte”.

Come citazione diretta  indica il suo dipinto del 1972 “Cena con Ingres y Piero della Francesca”, in cui si rappresenta a tavola con i due artisti, comunque la sua attenzione va anche a Paolo Uccello, Rubens e Velasquez, Cezanne e Picasso. Nelle opere religiose dei grandi maestri ritrova gli stimoli che gli provenivano dalla  religiosità della sua terra, espressa negli ambienti  pubblici e privati.  Si realizza, così, un incrocio virtuoso tra i ricordi del passato del pittoresco  mondo sudamericano, e le sollecitazioni del presente di un’arte di livello alto nei temi e nelle forme espressive.

“Il cammino delle sofferenze”, 188 x 146

Pur con questi forti influssi, però, la sua opera non è mai imitativa, perché li traduce nel suo stile personalissimo e inconfondibile.  Abbiamo così anche sue opere religiose, ma si sbaglierebbe se da queste si facesse discendere la “Via Cruicis”  sia per la sua specificità, anzi unicità nella forma seriale della rappresentazione –  un ciclo completo sullo stesso tema – sia per la sua netta diversità.

Infatti anche i temi drammatici sono resi abitualmente dall’artista in modo sereno e tranquillo, il suo è sempre, osserva Uribe Pereira, “un mondo sensuale, popolato da esseri dilatati di un piacere turgido e felice, generalmente immuni dal degrado del tempo e della miseria morale. Tutto in intima relazione con questo modo così particolare di ricomporre le proporzioni ed esaltare i volumi”. 

Perciò gli viene attribuita “la capacità di evocare quella domenica felice della vita in cui ogni essere vivente, ogni pianta, ogni mobile ed ogni casa trovano tranquillamente  e pigramente il posto più adeguato, lontano dal male e dalla meschinità, in un’uguaglianza felice e antigerarchica”.

“Gesù cade per la prima volta”, 139 x 158

Anche nel “Trittico della Via Crucis” del 1969, realizzato quarant’anni prima dei 27 dipinti  del 2010-11,  prosegue Uribe Pereira, “l’elaborazione di questi temi si effettua attraverso l’abbondanza tranquilla e voluttuosa di tutte quelle forme che raggiungono la maturità alla fine degli anni settanta”;  di anticipatorio ci sono le “distorsioni spazio-temporali”, come l’ambientazione moderna e certe inversioni nella sequenza, ma non si sente il dramma: “Questo è un Cristo morto già sceso dalla  croce, come testimoniano le ferite sul costato e sulla mano destra; anche gli occhi chiusi sembrano suggerire l’idea della morte, ma il Cristo non giace accanto alla croce né all’interno del sepolcro: in posizione eretta sembra benedirci con un gesto che conosciamo dalle immagini del sacro Cuore di Gesù e il cui sangue continua a scorrere, come se fosse ancora vivo”.

Nelle stazioni della nuova “Via Crucis”,  in numero quasi doppio delle 14 canoniche, aleggia invece il dramma, anche se le forme sono sempre opulente, i colori delicati, le linee arrotondate, nell’assoluto rispetto del suo stile personalissimo. Si può dire che queste forme turgide, altrimenti segno di  abbandono felice all’opulenza, nella drammaticità della Passione rendono Cristo ancora più indifeso e vulnerabile, suscitando una pena indicibile nel vederlo vilipeso e oltraggiato, ferito e crocifisso.

Abbiamo così dato una risposta alle altre due domande  poste all’inizio: mantiene il suo stile personalissimo delle forme ridondanti  ma ne fa un elemento drammatico; assente  ogni ironia o attenuazione del pathos della “Passione”.

 “Gesù cade per la seconda volta”, 27 x 31

I precedenti della “Via Crucis”, “Violencia in   Colombia” e “Abu Ghraib”

Dobbiamo, però, trovare ancora risposta  all’interrogativo di fondo su come sia stato spinto ad esprimere in modo così drammatico un tema in passato affrontato con la leggerezza che abbiamo ricordato. Uribe Pereira collega la “Via Crucis” ai due  precedenti cicli pittorici sulla  violenza in Colombia e sulle torture nel carcere di Abu Ghraib: “Trasformazioni. La presenza del dramma nell’opera di Botero”; con l’interrogativo: “Un nuovo capitolo nell’opera dell’artista?”

La sua risposta è nettamente affermativa. In passato, anche quando ha affrontato temi politici e sociali, nonché temi religiosi – compresa la  stessa Via Crucis, come abbiamo ricordato – la sua cifra artistica è stata sempre la sensibilità umana con una tendenza verso l’aspetto esistenziale nella sua espressione più serena e tranquilla con inclinazione all’ironia e alla satira. Ciò vale anche per il tema della morte, come in “La corrida”, 1984, dipinto nel quale mancano toni drammatici: i tori pur nella loro imponenza sono inoffensivi, il sangue sembra un ornamento, l’insieme una festa collettiva.

Nei due cicli più recenti anteriori alla “Via Crucis”, invece, il dramma è insito nella violenza delle scene rappresentate. Il ciclo ispirato dal suo paese, “Violencia in Colombia”, è esplicito:  in “Un consuelo”  nel 2000  il grande scheletro che avvinghia dal di dietro una figura bendata, raffigura la morte con la pietà verso il prigioniero  torturato, le mani legate e insanguinato come Cristo.

“Gesù incontra sua madre”, 145 x 160

Appare evidente la  partecipazione dell’artista al dramma del suo paese, sconvolto da decenni da un conflitto  aspro come una guerra civile,  da lui attribuito alla mancanza di giustizia sociale oltre che all’ignoranza; sembrerebbe che non si è sentito di restare estraneo a una vicenda che sconvolge da troppo tempo il suo paese, la sua sensibilità  umana si ribella in un soprassalto di patriottismo.

Ma  non è solo patriottico, la sua è una reazione appassionata alla violenza e all’ingiustizia in ogni latitudine. Lo dimostra la  drammaticità che troviamo anche nelle opere del ciclo “Abu Ghraib”, il carcere nel quale l’esercito americano ha sottoposto i prigionieri a inenarrabili violenze e torture.

Botero si è impegnato in tali cicli contro la violenza per 14 mesi nel 2000, quasi una missione contro le violazioni dei diritti umani ovunque  si verificano, nel suo paese o in altre parti del mondo. tanto più se perpetrate da una nazione come gli Stati Uniti  che si presentano come modello di democrazia mentre si sono macchiati di “cose che sfuggono a qualsiasi norma di civiltà”.  Commenta Uribe Pereira: “Perfettamente consapevole che l’arte non ha il potere di cambiare lo stato delle cose, Botero sa anche che l’arte ha però la capacità sociale di mettere in evidenza, e la potenza storica di promuovere, il ricordo e la memoria”. 

“Simone aiuta Gesù”, 29 x 33

L’arte come testimonianza per non dimenticare

Nel 2004 veniva definito “Testimonio de la barbarie” da Santiago Londono,  riferendosi alle sue nuove donazioni al Museo Nazionale della Colombia; nel 2005  due interviste dai titoli eloquenti, in aprile a “Revista Diners”  è in prima persona, “Fernando Botero. “Botero pinta el hottor de Abu Ghraib: la injustitia  me hace hervir la sangre”,  in giugno a “El Tiempo” è intitolata “Botero: el arte es en accusaciòn permanente”.

In una nuova  intervista del febbraio 2007  al periodico “Revolution”  intitolata  “Fernando Botero y Abu Ghraib: No me pude quedar callando”  ribadisce:  “Quando i giornali smettono di parlare e la gente smette di parlare, l’arte rimane. Ci sono tanti avvenimenti storici conosciuti attraverso l’arte. I dipinti di Goya e ‘Guernica’ sono fatti che potrebbero essere dimenticati se non fosse per le immagini che li raccontano . Spero che questi dipinti fungano da testimonianza per tanto tempo”.

Sono parole eloquenti che Botero ha accompagnato con i fatti. Le due serie di opere che hanno precorso la “Via Crucis”  le ha donate  con l’intento di diffonderne  la visione perché la sua testimonianza svolgesse un ruolo attivo nel muovere le coscienze. “Violencia in Colombia”  la donò al Museo Nacional de Colombia, addirittura con la condizione che fosse presentata in una mostra itinerante nel paese e all’estero. “Abu Ghraib”  fu donata all’Università californiana di Berkley.

Entrambe suscitarono  polemiche, segno che l’iniziativa dell’artista aveva raggiunto il suo scopo: una testimonianza quanto più viene discussa tanto più si diffonde e si imprime nelle coscienze.

Gesù e Veronica”, 114  x 58

Le reazioni alla denuncia dell’artista

Rispetto a “Violencia in Colombia”   le discussioni vertevano soprattutto sul piano artistico. Secondo alcuni critici il suo stile pittorico non era idoneo ai temi drammatici, le sue caratteristiche figure ridondanti non avrebbero potuto esprimere il ripudio della violenza, in particolare Andrés Hoyos ha espresso questa sua convinzione in “El Malpensante” del giugno-luglio 2004, in un articolo intitolato significativamente “Monotonia”.  Mentre per Santiago Londono nel già citato “Testinonio de la barbarie”  proprio la staticità e imponenza delle figure dava al dolore una rappresentazione toccante,giudizio su cui concordiamo; Elkin Robiano  nella rottura con la sua pittura tradizionale placida e beata ha visto una “irradiazione della verità accompagnata da commozione”.

Le reazioni alla donazione di “Abu Ghraib”  all’Università californiana furono invece soprattutto di tipo politico;  fu vista, soprattutto da una parte del pubblico,  come una provocazione agli Stati Uniti, come lamenta Botero in un’intervista a Milena Fernandez  in “Arcadia” del novembre-dicembre 2009  osservando che nel registro dei visitatori ha trovato espressioni di odio e accuse di ingerenza negli affari interni degli americani. Lo stesso artista ne ha ridimensionato la portata dicendo che venivano da gruppi reazionari pericolosi ma ristretti, perché la maggioranza degli americani è contraria alla tortura. Un critico a lui favorevole, Arthur C. Danto in “Body in Pain”, su “La Nation” del novembre 2006,  attribuisce alla serie una forza drammatica addirittura superiore a “Guernica”  che appare decorativo a chi non ne conosce il significato; mentre in Botero “il suo tanto denigrato manierismo rende più intenso il nostro coinvolgimento rispetto alle immagini”.  E ancora: “Raramente il dolore si è avvertito così da vicino o è stato così umiliante per chi lo ha perpetrato”.

“Altra caduta di Gesu“, 139 x 158

Botero, nel già citato discorso con il quale nel 2007 presentò la serie negli Stati Uniti  disse: “Ovviamente è più gradevole dipingere soggetti gradevoli. Durante tutta la vita ho scelto, con convinzione, di dipingere soggetti piacevoli. Nella storia dell’arte la maggior parte dei soggetti sono gradevoli ma, naturalmente, ci sono pittori che riescono a dare piacere attraverso temi drammatici”. E, con riferimento alle immagini “orribili” della Crocifissione dipinte dal pittore tedesco Grunewald, aggiunse: “Niente potrebbe essere più orribile, Lo spettatore vive prima il piacere estetico della bellezza e poi, con il tempo, avverte il dolore”.

Uribe Pereira , nel rievocare questi precedenti, collega la presentazione in America della “Via Crucis”  a quella del ciclo “Abu Ghraib”. Non per la donazione, avendola  donata al Museo della sua città natale Medellin dopo averla realizzata per il proprio 80° compleamnno; ma per la prima esposizione dato che scelse New York – dov’era peraltro una delle sedi del suo gallerista – e suscitò polemiche il fatto che la “Crocifissione”, una delle stazioni più spettacolari della “Via Crucis”, aveva come sfondo i grattacieli come se Cristo fosse stato crocifisso in quella città; per di più  si vedono  persone che passeggiano con carrozzine o fanno jogging, minuscole ma abbastanza nitide per coglierne l’indifferenza rispetto alla sua gigantesca  figura che sovrasta il parco con i filari di alberi, sembra guardare in alto solo una madre con bambino..

“Gesù consola le donne”, 138 x 195

Secondo il critico “l’artista esprime una nuova dichiarazione d’intenti in una duplice ottica: l’una artistica continuando ad andare contro corrente,come già aveva fatto da giovane, scegliendo con convinzione una proposta figurativa, e l’altra in favore della pittura, minacciate di morte l’una dall’astrazione  e l’altra da un presunto storico conseguimento degli obiettivi”.  E lo fa proprio nella terra dell’espressionismo astratto e del  minimalismo, dell’arte concettuale e della Pop Art per citare solo alcune delle avanguardie trasgressive statunitensi, “collocando una crocifissione, un’opera che si oppone al flusso, che va contro le tendenze dominanti, giusto al centro della Grande Mela”.

Il retroterra culturale e il percorso nei due mondi

C’è un vasto retroterra nelle scelte artistiche di Botero considerando la sua costante presenza nei due mondi. In quello  americano è vissuto al Sud, tra la Colombia – dal paese natale  Medellin alla capitale Bogotà – e il Messico, in cui si stabilisce nel 1956 dopo il matrimonio, mentre nel 1958, a 26 anni, è nominato professore  alla Scuola delle Belle Arti dell’Università nazionale della Colombia di Bogotà  dove nel 1971 apre uno studio; ed è stato anche al Nord,  nel 1967 si è trasferito a  New York al Greenwich Village e nel 1971 ha spostato lo studio alla 30ma strada.

“Gesù spogliato delle vesti”, 168 x 130

Nel  mondo europeo lo troviamo ventunenne a Firenze nel 1953, nell’Accademia San Marco  dove vive  un’importante esperienza formativa, ammira maestri come Giotto e Tiziano,Masaccio, Piero della Francesca e Paolo Uccello, nel 1973 va a vivere a Parigi, conservando le altre sedi, nel 1983 si stabilisce  in Toscana per due anni. Mantiene contemporaneamente diversi studi sparsi per il mondo, attualmente si divide tra Medellin, New York e Pietrasanta in continuo  movimento  da una parte all’altra, anche per seguire le sue mostre,  l’elenco negli anni è fittissimo.

Da questa esperienza così vasta e articolata ha tratto la conclusione che “la storia dell’arte è la storia di coloro i quali hanno assunto posizioni forti” e non solo per le tematiche affrontate. Lo ha scritto nel 1990 aggiungendo che  “il soggetto è, nello stesso tempo, molto e poco importante”, ciò che conta è che l’artista  crei un proprio mondo  riconoscibile.  

Uribe Pereira concorda dicendo che “non si può identificare l’artista nell’adesione ad alcune tematiche o nel perdurare delle stesse, bisogna riferirsi, piuttosto, al linguaggio con cui le  affronta e le interpreta”.  E il linguaggio, nel caso di Botero, è così importante da rappresentare il suo sigillo inconfondibile,  più che nella gran parte degli artisti, quale che sia il tema trattato, sacro o profano.

 “Gesù inchiodato alla croce”, 180 x 129

Pur in questa coerenza e costanza nel tempo, qualcosa è cambiato.  “Il mondo boteriano – conclude il critico – è rimasto relativamente immutabile per quasi quattro decenni. Più che un tradimento, come qualcuno ha osservato, questa svolta, in cui fa incursione il dramma, dovrebbe essere considerata come un nuovo sviluppo, nel quale la continuità si accompagna alle trasformazioni che arricchiscono e potenziano l’opera e, di conseguenza, le interpretazioni che ne derivano”. 

Guardando i dipinti del ciclo della “Via Crucis” ci si sente immersi nel grande mistero della svolta di un artista nel quale, comunque, prevale sempre la misura e la fedeltà al suo personalissimo modo di rappresentare l’umanità, con forme esuberanti che generalmente portano al sorriso anche per l’ironia che le anima, ma nella Passione accentuano fortemente  il senso di pietà e di tenerezza.

Le 27  stazioni della “Via Crucis” di Botero

Sono 27 e non le 14  canoniche,  le “stazioni”  della “Via Crucis” di Botero, e  34 i disegni preparatori su carta – di 40 x 30 cm,  20  in matita e colori e 14 in matita e acquerello – che consentono di ripercorrere l’itinerario figurativo dei 27 dipinti, tutti del 2010-2011: per alcuni,  come l’aiuto a Gesù di Simone  il cireneo ci sono tre disegni, mentre i due disegni con Ponzio Pilato e quello nel Giardino degli ulivi non sono stati tradotti in un dipinto; nel Giardino degli ulivi la distanza siderale tra il Cristo orante in ginocchio e i discepoli addormentati nell’indifferenza è accentuata dalla sproporzione tra la sua gigantesca figura svettante e i loro piccoli corpi distesi. Quattro disegni sono sulle cadute di Cristo sotto la croce, due riferiti espressamente alla prima e seconda caduta, gli altri due genericamente intitolati “Gesù cade” non tradotti in dipinti.

“Crocifissione”, 206 x  150

I disegni a matita fanno risaltare ancora di più le forme ridondanti delle sue figure, mentre quelli ad acquerello creano delicati effetti cromatici. La sequenza grafica è  un complemento  alla visione dei dipinti,  in quanto rende partecipi della tensione creativa del Maestro nel suo  primo manifestarsi.

Dei 27 dipinti  8  superano i 2 metri di altezza e 13  il metro, 6 si svolgono in orizzontale, solo 4 sono della dimensione dei disegni. In  4 dipinti Gesù è a terra con la croce, 2 sono intitolati “Gesù cade per la prima volta” e “Gesù cade per la  seconda volta”,  gli altri due  “Simome aiuta Gesù”  e “Gesù e Veronica”, non c’è il dipinto “Gesù cade per la terza volta”.

La figura di Cristo è al centro della composizione  nel “Bacio di Giuda” e in “Gesù e la moltitudine”, in “Gesù consola le donne” è sulla sinistra rispetto al gruppo di pie donne  con le braccia tese parallele e le teste coperte dal velo che si confondono fino a formare un’unica immagine. In “Gesù incontra sua madre” la moltitudine è in secondo piano, fatta di teste sbiadite che non contano,  Cristo guarda solo la genitrice in tunica bianca con un lungo velo nero.

Tre  persone intorno a lui, sono quelle evangeliche, nella “Deposizione dalla croce”  e nella “Sepoltura di Cristo”, a loro nel secondo dipinto  si aggiunge un angelo che evidentemente prepara la Resurrezione, è l’unico segno perché quella che è considerata la 15^ stazione non viene espressa né nei disegni né nei dipinti.

“Deposizione dalla croce”, 229 x 127

C’è  vicino a lui il soldato romano suo aguzzino in Il flagello”e“Il cammino della sofferenza”, in  “Gesù cade per la prima volta” e “Gesù spogliato delle vesti”:  negli ultimi due è presente un’altra persona in atteggiamento diverso. poi il dipinto  “Simone aiuta Gesù”  mostra il cireneo caritatevole  in primo piano;  in “Gesù e la Veronica” si vede la Sacra sindone, il lenzuolo con il volto di Gesù è in primo piano in “Veronica”.

Dalla carità si passa all’amore materno nei tre dipinti  in cui Cristo è solo con la madre, dopo quello in cui c’era anche la moltitudine ma sbiadita e lontana dai suoi pensieri. In  “Maria e Gesù morto” lei lo sorregge amorevolmente quasi volesse rimetterlo in piedi per farlo tornare in vita, in “Pietà” è  preso in braccio dalla madre in piedi monumentale, lui piccolo con la tenerezza di un bambino; mentre in “Cristo è morto”  la Madonna si copre il volto in lacrime vegliando il figlio disteso in una  camera ardente. Due dipinti più piccoli  la mostrano  in raccoglimento a mani giunte,  “Madre di Cristo” a  occhi chiusi,  “Madre afflitta” con gli occhi aperti e il viso implorante rivolto al cielo. Di dimensioni maggiori “Testa di Cristo”, con la corona di spine e le gocce di sangue che gli scendono sul corpo. C’è sempre misura, l’opposto della “Passion” cinematografica  di Mel Gibson, cruenta fino all’orrore. Botero non suscita repulsione da grand guignol, ma tanta tenerezza.

“Sepoltura di Cristo”, 150 x 303

In 8 dipinti Cristo sembra da solo, non ci sono altre figure come la sua, a differenza delle altre stazioni della Via Crucis che abbiamo citato; ma a ben vedere non è mai  solo. In “Cristo alla colonna” e in “Flagellazione di Cristo”  c’è una piccola figura di donna alla finestra e una al balcone della propria casa con le  braccia aperte quasi volesse abbracciarlo, in “Gesù  cade per la seconda volta”  si protende una mano verso di lui; invece  le minuscole figure di passanti nel parco sono indifferenti rispetto alla “Crocifissione” tra i grattacieli che abbiamo già commentato.  Sono piccole le figure dei soldati romani, rispetto a quelle dei dipinti con la flagellazione e le sofferenze, in “Gesù inchiodato alla croce” e “Crocifissione con il soldato”: la figura di Cristo giganteggia, sono i momenti culminanti della Passione, nel secondo si vede la  lancia levata in alto verso il costato.

Andrebbero descritti i colori, che creano un’atmosfera raccolta, e gli ambienti, tipicamente domestici e sudamericani, a parte i grattacieli nella “Crocifissione”, come i volti della gente nei dipinti in cui è presente. Ma a questo punto  soltanto la visione diretta delle immagini può rendere il clima drammatico e insieme sereno e consapevole della “Passione ” di Botero: la  Passione di epoca antica di Cristo nel ciclo della “Via Crucis” che viene dopo le Passioni  della nostra epoca  nei cicli della violenza in Colombia e delle torture ad Abu Ghraib. Una trilogia di cicli della Passione che mostra come questi drammi si ripetono e l’arte ha il dovere e il merito di far rivivere per non dimenticare.

“Cristo è morto”, 134 x 191

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Da domenica  a giovedì, tranne lunedì chiuso, ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8. Catalogo “Botero. Via Crucis. La passione di Cristo”, introduzione di Conrado Uribe Pereira, Silvana Editoriale, febbraio 2016, pp. 92, bilingue italiano-inglese, formato  24 x 30, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e le correnti richiamati nel testo cfr.i nostri articoli; in questo sito per le mostre su Cezanne 24 e 31 dicembre 2013, Tiziano  10 e 15 maggio 2013, Cubisti e Picasso 16 maggio 2013, le correnti d’avanguardia americane nelle mostre su  Guggenheim 22, 29  novembre e 11 dicembre 2012, ed Empire  31 maggio 2013; in “cultura.inabruzzo.it” per la mostra su Giotto 7 marzo 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito)..

“La Pietà”, 238 x 147

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione  della mostra , si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Museo di Medellin con l’artista, per l’opportunità offerta. Tra i 27 dipinti, tutti del 2010-2011, ne presentiamo 14 con i quali abbiamo riunito le 14 Stazioni di una “Via Crucis” canonica; manca  “Gesù cade per la terza volta” che non figura tra i suoi dipinti, le altre immagini in cui è a terra con la croce, oltre alla prima e seconda caduta, sono con Simone il cireneo e  la Veronica; le 14 Stazioni da noi individuate sono precedute dall’immagine di “Cristo tra la moltitudine” e sono seguite da “Christo ha muerto”, “La Pietà” e “Madre afflitta”. In apertura,  “Gesù e la moltitudine”, 106 x 81 cm; seguono “Il flagello”, 123 x 94, e “Il cammino delle sofferenze”, 188 x 146; poi, “Gesù cade per la prima volta”, 139 x 158, e “Gesù cade per la seconda volta”, 27 x 31; quindi, “Gesù incontra sua madre”, 145 x 160, e “Simone aiuta Gesù”, 29 x 33; inoltre, “Gesù e Veronica”, 114  x 58, e “Altra caduta di Gesu“, 139 x 158; ancora, “Gesù consola le donne”, 138 x 195, e “Gesù spogliato delle vesti”, 168 x 130; continua, “Gesù inchiodato alla croce”, 180 x 129, e “Crocifissione”, 206 x  150; infine, “Deposizione dalla croce”, 229 x 127, e Sepoltura di Cristo”, 150 x 303; in chiusura, “Cristo è morto”, 134 x 191,  “La Pietà, 238 x 147 e “Madre afflitta”, 71 x 58.

“Madre afflitta”, 71 x 58

Pubblicato da wp_3640431

Botero, 3. Politica e Circo, Vita latino-americana, Nudi e Sculture, nella mostra al Vittoriano

Ripubblichiamo, come preannunciato, il terzo articolo – uscito a suo tempo come i due precedenti – sulla mostra antologica di Botero del 2017 al Vittoriano per onorarne la memoria a pochi giorni dalla sua scomparsa. Si conclude così la parata del suo mondo artistico e umano: dopo le Versioni da antichi maestri, Nature morte, Religione, sfilano idealmente nella sua inconfondibile interpretazione pittorica, Politica e Vita latino-americana, Nudi e Circo. Domani completeremo l’omaggio – e la sfilata dei suoi temi – ripubblicando l’articolo sulla mostra del 2016 al Palazzo delle Esposizioni interamente dedicata alla “Via Crucis”.

di Romano Maria Levante

Concludiamo il racconto della visita alla mostra  “Botero”, al  Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2017,  con le ultime 5 delle 8 sezioni tematiche, che seguono le prime 3 sezioni già commentate: 48 opere, di cui 43 grandi dipinti  e 5 sculture imponenti, realizzate per lo più dal 2000 in poi, nel personalissimo stile dell’artista in un insolito figurativo dai volumi dilatati. Patrocinata dalla Regione Lazio, promossa da Roma Capitale, la mostra è prodotta e organizzata da “Arthemisia” con MondoMostreSkira, e curata, insieme al Catalogo Skira, da  Rudy Chiappini.

“Il presidente”, 1987

Abbiamo già ripercorso la formazione di Botero per evidenziare le matrici del percorso artistico alimentato dalla cultura latino-americana della sua terra con l’arte tradizionale precolombiana e quella portata dalla dominazione spagnola con il barocco; poi nel contatto con l’Europa, Italia e Spagna, l’influsso dei grandi maestri, in particolare Piero della Francesca, cui i 15 anni vissuti negli Stati Uniti hanno aggiunto il contatto con le avanguardie dell’espressionismo astratto. Poi abbiamo cercato di penetrare nella peculiare cifra stilistica e contenutistica della sua arte e di comprendere da dove nascono quelle forme gonfie e ridondanti e come riescano a non suscitare il riso delle caricature, ma tenerezza e un senso di serena condivisione da parte dell’osservatore.

Dopo questa analisi preparatoria abbiamo dato avvio alla visita alla mostra descrivendo le prime 3 sezioni pittoriche, “Versioni da antichi maestri”, “Nature morte”, “Religione”. Ora passiamo alle ultime sezioni del nostro percorso, con le 4 sezioni pittoriche restanti, da “Politica”  e “Circo”, a “Vita latino-americana” e “Nudi”, e in conclusione alle “Sculture”  – collocate in modo ambivalente sulla rampa da cui si accede alla mostra e se ne esce – perché le abbiamo collegate ai “Nudi”.  Entriamo così ancora di più nel mondo di Botero, nell’umanità popolare fino all’intimità personale.

“Il presidente e i suoi ministri”, 2011

Politica

Iniziamo con la “Politica”,la  4^ sezione pittorica della mostra con 5 dipinti, di cui 4 dedicati al vertice delle istituzioni, il Presidente con la “first lady”, e 1 a un ambasciatore.  Hanno come caratteristica comune, oltre alla ridondanza delle forme e ad una certa fissità di espressione, la presenza di particolari nei soggetti, che sembrerebbero marginali ma riducono la solennità del loro “aplomb”.

Così “L’ambasciatore inglese”, 1987, stringe nella mano sinistra una bandierina minuscola, contrastante con le sue dimensioni e la postura, quasi una sua scelta per ridurre l’imbarazzo; dello stesso anno “Il Presidente”, analoga postura in contrasto con la mano destra che tiene tra le dita una minuscola sigaretta, mentre la sinistra stringe un foglio arrotolato.

E nella “Famiglia presidenziale”, 2003, la composizione in un interno che richiama le foto ufficiali dei regnanti, è resa meno pomposa e solenne dal  gesto del presidente di sistemarsi la cravatta con la mano destra, e anche il cagnolino in primo piano crea una maggiore familiarità; mentre la “first lady” –  la chiama così nel quadro successivo – lo tiene sottobraccio con la destra, ha un ventaglio nella sinistra e sul volto  un’espressione attonita,  quasi che l’immagine ufficiale la spaventasse, temendo di non apparire all’altezza di un ruolo così elevato. Il gesto di sistemarsi la cravatta, qui con la mano sinistra, lo ritroviamo in “Il Presidente”, 1990,  stesso abbigliamento ufficiale ma con cappello,  invece del quadro alle spalle, la vista dei tetti e dei monti dal balcone dietro di lui. 

L’opera successiva è il dittico “Il Presidente e la first lady” , 1989, entrambi con i loro grossi corpi rigonfi su cavalli dalle zampe tozze, davanti a lussureggianti piante di banano, il particolare che si distacca dal resto è il frustino che impugnano, minuscolo rispetto all’animale che cavalcano.

“Pagliaccio”, 2007

Dalle immagini presidenziali personale e familiare a quella corale in “Il Presidente e i suoi ministri”, 2011, anche qui la solennità è rotta dai gesti quasi imbarazzati con le mani al petto del Presidente, di un ministro e del Cardinale, con un cagnolino a terra, soltanto il generale in divisa e decorazioni saluta militarmente sull’attenti, in una composizione rappresentativa del potere. Nel “Ritratto militare della Giunta Militare”, 1971, non in mostra, il potere era raffigurato  in modo ancora più pomposo, il Presidente in rosso, quanto mai debordante, con un prelato e i generali, di cui uno addirittura  a cavallo, ma la scena marziale era ingentilita dal cagnolino, il bimbo in braccio in divisa però con un trenino a terra. Anche nel dittico del 1990, “Visita di Luigi XVI a Maria Antonietta a Medellin”, non in mostra, l‘immagine del  potere era ingentilita dal minuscolo uccellino nella mano sinistra della Regina e dalla testa che si affaccia timidamente dalla porta socchiusa dietro la monumentale figura del sovrano.  

Niente a che vedere con la forte denuncia del potere dittatoriale di Larraz, la cui “pittura della libertà” mette alla berlina i satrapi sudamericani rappresentandoli impettiti in modo ridicolo negli atteggiamenti più diversi; e neppure con il nostro Enrico Baj che ridicolizza i generali tronfi nelle loro medaglie.  Botero è interessato allo sfarzo e ai colori,  nulla di grottesco pur nelle forme ridondanti. “Il tono di Botero, commenta il curatore Rudy Chiappini, è quello di un narratore indipendente, di un affabulatore dall’accento libertario la cui caratteristica  risiede nella saggezza temperata dal sorriso e da un innato  senso di ironia”; che qui, forse, si manifesta maggiormente che sugli altri temi. Ma nei due cicli di cui abbiamo già parlato, “Violencia in Colombia” e “Abu Ghraib”, la denuncia del potere è invece quanto mai aspra, non c’è ironia ma condanna senza appello.

“Numero da circo”, 2007

Circo

Vi colleghiamo, quasi provocatoriamente, la 5° sezione pittorica sul“Circo”,  perché troviamo un’analogia nelle figure singole con una punta di imbarazzo, e nelle composizioni collettive ugualmente colorate e rappresentative del mondo del circo. “Pierrot”, 2007, e “Pagliaccio”, 2008, sembrano altrettanto  imbarazzati del “Presidente”, mentre “Numero da circo”, 2007, e  “Contorsionista”, 2008, rivelano la straordinaria capacità dell’artista di rendere agili anche le sue forme dilatate e ridondanti impegnandole addirittura in acrobazie, il primo un nudo.

Le due composizioni collettive, Musici”, 2008,e “Gente del circo con elefante”, 2007, riassumono il mondo del circo, durante lo spettacolo la prima in un cromatismo tenue, nei momenti di pausa la seconda, in un cromatismo molto intenso, con l’elefante e l’acrobata che si esercita, la donna cannone con una scimmia vestita e il clown. “Un universo variopinto e un caleidoscopio di colori che innalzano la meraviglia a principio essenziale di comprensione”, commenta il curatore, e aggiunge: “Se il circo è il luogo fisico e mentale in cui lo stupore è la regola indispensabile al funzionamento del suo articolato meccanismo, il particolare atteggiamento creativo di Botero con le sue invenzioni ne favorisce il trasferimento sulla tela”.

Così ne parla l’artista nel ricordare che l’idea iniziale gli venne assistendo alla sfilata dei carrozzoni e poi allo spettacolo serale con la moglie Sophia in una piccola città del Messico: “Io ho cercato di rendere armonici i colori che qui sono esagerati. Di questa gente mi ha colpito il nomadismo che si traduce in poesia. In tale clima appare leggera anche l’enorme donna trapezista sospesa sorprendentemente nel vuoto. Dunque io dipingo qualcosa che è improbabile ma non è impossibile”. E lo vediamo nel “Contorsionista”, 2008, altrettanto enorme e sospeso nell’aria acrobaticamente appoggiato a una testa: l’improbabile trasformato in realtà, del resto è questo il messaggio del circo con i domatori di bestie feroci e gli uomini volanti, gli equilibristi e i giocolieri.

“Contorsionista”, 2008

Vita latino-americana

Mentre il ciclo del “Circo” nasce da una circostanza occasionale, la “Vita latino-americana”, cui è dedicata la6^ sezione pittorica, è permeata dal profondo legame dell’artista con la sua terra, mantenutosi intatto, come lui stesso ricorda, pur essendo vissuto molti anni in Europa e 15 anni negli Stati Uniti, a New York. “Le esperienze personali che ho vissuto in Sudamerica  e che hanno caratterizzato la mia giovinezza – sono le sue parole – si ritrovano nella maggior parte dei miei lavori. L’anima latino-americana permea tutta la mia arte”.

Non ne fa una propria peculiarità, bensì un connotato generale: “Quello che un artista vede nel corso della sua giovinezza resta fondamentale per gli sviluppi di tutta la sua opera futura… Credo che un artista che lavora senza tener conto delle proprie radici culturali non possa giungere a un’espressione autentica, universale”.  E lo spiega: “Da una parte emerge costantemente un sentimento di nostalgia per certi momenti della gioventù e dall’altra si ha sempre la tendenza a dipingere la realtà che si conosce meglio: il vissuto dell’adolescenza. Bisogna descrivere qualcosa di molto locale, di molto circoscritto, qualcosa che si conosce benissimo, per poter essere capiti da tutti”.  In termini personali: “Io mi sono convinto che devo essere parrocchiale, nel senso di profondamente, religiosamente legato alla mia realtà, per poter  essere universale”.

“Le sorelle”, 1969-2005

Così descrive questa realtà: “L’essere cresciuto a Medellin mi ha consentito di vivere in una sorta di microcosmo in cui erano rappresentate tutte le componenti sociali, dalla borghesia benestante alle classi più povere, in cui il vescovo era per noi come il Papa e il Sindaco come il Presidente della Repubblica.” E  confida come l’ha metabolizzata: “Medellin era una piccola città, ai tempi contava circa centomila abitanti, oggi ne ha quasi tre milioni. Proprio questa sensazione di vivere in un mondo a parte ha contribuito a sviluppare la mia ispirazione, perché nell’arte spesso ci si affida alla memoria per costruire il proprio immaginario”.

Ed ecco come questo si traduce in immagini nelle parole del curatore: “Il tessuto narrativo di Botero proviene dai racconti e dai climi della terra natale in cui egli continua a specchiarsi e da cui trae alimento. Nelle scene di vita quotidiana ricondotte sulla tela le persone raffigurate sono profondamente comprese nel loro ruolo di dispensatrici di immagini così lontane dal nostro vivere attuale: ci osservano dal loro paesaggio incantato, esibendo una compunta impassibilità. Le azioni godono di una lenta armonia e di una espansione osmotica capace di coinvolgere gesti, atteggiamenti, ambientazione e oggetti”.

Degli 8 grandi dipinti esposti in mostra, 4 sono scene all’aperto e 4 in interni molto raccolti.

Tra i primi il più recente, “Carnevale”, 2016,  presenta un folto gruppo di gente del popolo, in maschera o meno, con le più diverse fattezze, posizioni e colori, dietro al grande suonatore di tromba, in primo piano di profilo, con le due gambe dei
pantaloni dalle tinte differenti, figura che ricorda il ciclo del “Circo”, mentre a terra sono sparse le cicche di sigarette come in molti interni.

“La strada”, 2000

“La strada”, 2000, mostra invece poche persone ben caratterizzate; la donna con bambino per mano e il cane, il grosso uomo che cammina visto di spalle e l’altrettanto ridondante donna di colore con un grande vassoio di frutta sul capo che viene avanti; mentre sulla destra un uomo piccolo sta per uscire dalla porta di  una casa dal muro di un viola intenso, sulla sinistra una grossa donna si affaccia a una piccola finestra di una casa dall’altro lato della strada con un muro giallo, nello sfondo case e un campanile, poi una collina. Come la finestra, così la strada sembra troppo angusta rispetto ai passanti, lo ritroveremo negli interni più intimi, quelli dei “Nudi”.  L’evoluzione verso il più marcato stile boteriano rispetto al dipinto con lo stesso titolo del 1988 è notevole, le proporzioni erano quasi quelle reali con la prospettiva corretta, gli spazi adeguati, i volumi poco dilatati. 

Le altre due scene all’aperto sono molto diverse. “Il club del giardinaggio”, 1997, .presenta cinque donne quasi in posa per una foto ricordo, con vasi di fiori e alberi, due sedute e tre in piedi, due delle quali con un cappellino, tutte con in mano strumenti del loro lavoro, pompa, rampini, palette.

Invece “Picnic”, 2001, mostra una coppia, con lei che si appoggia a lui, entrambi distesi a terra su una coperta viola stesa sul prato verde, a lato un cesto di frutta con una bottiglia e un bicchiere, sullo sfondo un paese a sinistra, alberi e più dietro dei monti sulla destra, scena placida e dolce. Era ancora più delicato il  “Picnic in montagna”, 1966, non in mostra, coppia quasi infantile, con i viveri già apparecchiati per lo spuntino, il tutto su improbabili rocce aguzze, senza sfondo. I viveri riempiono addirittura l’intera scena in “Picnic”, 1989, non in mostra, sulla tovaglia un grande cesto ricolmo di frutta, banane e arance, mele, uva e altro, un bottiglia e 4 bicchieri, due piatti con salami e altro, un’arancia tagliata, peperoni o cetrioli, un filoncino di pane tagliato; a destra  la testa dell’uomo addormentato, a sinistra spuntano solo le mani della donna ben sveglia  che beve e fuma.

“Il bagno“, 1989

Siamo in un ambito sempre più personale, che troviamo nei 4 dipinti in interno, il primo dei quali, “Le sorelle” , 1969-2005, richiama, come struttura compositiva e atteggiamenti, “Il club del giardinaggio”: quattro donne e una bambina schierate  come in posa, anche se di una seminascosta si vede solo la testa, tre di loro hanno in mano qualcosa, i ferri per la maglia di cui si vede il gomitolo a terra, il rosario, un gatto, altri due sono a terra e un altro sul mobiletto dietro di loro, sulla parete di fondo la parte inferiore di un grande quadro e dei quadretti, il tutto con forti contrasti cromatici. Più raccolta “Una famiglia”, 1989, non in mostra, lei seduta in poltrona con la bimba in braccio sotto un albero dal quale cadono frutti,  lui in piedi che tiene per mano un altro bambino, a lato l’immancabile cane.

Mentre altri due dipinti mostrano i soggetti intenti nel loro lavoro quotidiano: “Atelier di sartoria”, 2000, con quattro donne, due sedute e due in piedi con abiti di colori diversi, impegnate a cucire, a macchina e con l’ago, davanti a un’esposizione di tessuti anch’essi di vari colori, a terra un gatto sopra a un tappeto verde sul pavimento di legno. “La vedova”, 1997, è una composizione altrettanto affollata, con la protagonista in piedi in nero e tre bambini, due in piedi, di profilo e di spalle, una seduta a terra con il bambolotto, e a fianco dei giocattoli, dietro un tavolo con sopra due teli, rosso e  verde, e un  ferro da stiro collegato da un filo elettrico che il bimbo in piedi prende in mano, stesi su un filo dei panni di vari colori. Un’instancabile operosità addolcita dal gatto in braccio alla vedova. Al contrario “La casa di Mariduque”, 1972, non in mostra, presentava cinque donne di cui si può immaginare l’attività anche dall’uomo disteso a terra addormentato sotto la sedia,  che gozzovigliano gaudenti con venti cicche di sigarette a terra,  mentre una  piccola fantesca a destra, con la ramazza in mano, sembra attendere il via per ripulire il pavimento.   

“Il bagno“, 2001

Ancora più personale “Fine della festa”, 2006, quattro figure, un uomo disteso sul letto stremato a occhi chiusi con la sigaretta tra le dita, sul pavimento  le  cicche sparse, ancora venti, testimoniano le molte presenze alla festa, è nudo con gli abiti a terra, seduta sul letto davanti a lui una donna che si è tolta il reggiseno e si copre quasi fosse stata sorpresa da un estraneo, l’altra discinta con una gamba appoggiata sul letto, mentre in piedi dietro al letto un uomo con il cappello continua a suonare la chitarra guardando avanti come se la festa proseguisse, in primo piano a terra un bimbo che si protende. Un letto era anche al centro di “La casa di Armanda Ramirez”, 1988, ma invece dell’uomo addormentato è raffigurato un amplesso con una bambina di spalle che guarda e un uomo in primo piano alza sulla spalla una minuscola donna nuda, a lato la piccola fantesca con ramazza. 

Con queste immagini entriamo in una intimità che viene disvelata appieno nei “Nudi”.

I Nudi

Nella  7^ sezione pittorica, quasi da 7° sigillo,  sonoesposti 4 “Nudi” rappresentativi di unaproduzione ampia, di cui della mostra del 1991-92 ricordiamo “Donna sdraiata”, 1974, e “Omaggio a Bonnard”, 1975, “La lettera”, e “Donna seduta”, 1976, “Donna che si sveste”, 1980, e “Colombiana che mangia una mela”, 1992,  “Donna di fronte alla finestra” e il trittico “L’Atelier”, 1990, fino a “Il modello maschile”, 1984, e “Autoritratto con bandiera”, che ritrae l’artista in piedi con tavolozza e pennelli nella mano sinistra e una bandierina rossa nella destra  quale pudica foglia di fico.

C’era anche “Il Bagno”, 1989, esposto pure nella mostra attuale, nel quale la sproporzione tra le forme straboccanti in modo quanto mai vistoso della donna di spalle che si specchia contrastano visibilmente con le dimensioni ridotte della vasca e del WC, per non parlare del minuscolo rotolo di carta igienica rosa, nell’impossibilità palese di utilizzarli. Ripensiamo ad “Alice nel paese delle meraviglie” con il corpo ingigantito dai prodigi della favola rispetto al resto, sedia e tavolo minuscoli rispetto a lei e uscio divenuto una strettissima porticina da cui non può uscire. Mentre in “Omaggio a Bonnard” del 1975 la donna era distesa dentro la vasca, la dilatazione dei volumi era ancora contenuta, l’effetto favola non si dispiegava come nelle opere più recenti in mostra.

L’altro nudo che vediamo esposto con lo stesso titolo “Il Bagno”, 2001, è successivo di 12 anni, la donna è sempre in piedi ma di fronte, con nella mano sinistra un asciugamano cremisi e al polso un orologino miniscolo, a lato si intravede l’orlo di una vasca visibilmente di dimensioni ridotte ma la sproporzione non è così palese come nel precedente.

 “Donna seduta“, 1997

Testimonial della mostra, che figura in grandi cartelli pubblicitari nelle strade del centro, sui bus, nelle stazioni della metropolitana, per citare i più vistosi, è il terzo nudo esposto, “Donna seduta”, 1997, figura frontale su una panca rivestita di verde con un panno bianco e dietro una tenda viola, quasi in posa da concorso di  bellezza con il braccio sinistro dietro la testa in un gesto vezzoso ed esibizionista. Il dipinto dallo stesso titolo del 1976  ha somiglianze nella positura, ma la  capigliatura è molto diversa e nel lato destro spunta una mano maschile con un cerino per accendere la sigaretta che lei ha nella mano destra, c’è il minuscolo orologino al polso di “Il Bagno” del 2001.

Il quarto nudo esposto, “Adamo ed Eva”, 2005, reca in piedi, di profilo, le due imponenti figure che si dividono la minuscola mela, tra loro si insinua come una rossa saetta dal cielo  il serpe tentatore. 

La raffigurazione dei primi esseri umani nell’Eden, fatta già in precedenza, ha fatto dire a Paolo Mauri nel 1991: “Il mondo di Botero è un ormai un universo provvisto  persino dei suoi Adamo ed Eva (sono quadri del 1989). Un mondo sornione, intrigante, divertente anche ma soprattutto filosofico. Il mondo è forma, sembra gridare Botero, perché non ve n’accorgete?  Il mondo è carne, ma la carne cos’è?”.

Nello stesso anno Fabrizio D’Amico, riguardo ai nudi: “I loro amplessi saranno di fatto resi impossibili dall’ingombro del ventre sui minuscoli sessi, dai letti inadatti a contenerne la mole…”. E Dacia Maraini, con l’iperbole della scrittrice: “Sono curiosamente privati di sessualità, maschile o femminile, androgini perfetti nella sospensione attonita di quelle carni talmente simili fra di loro da apparire, più che fratelli, parti smembrate di una stessa grande persona divina in forma di globo”.

“Ballerina”, 2013

Noi vi troviamo tanta tenerezza, in un ritorno all’innocenza primigenia, concordiamo con la visione del curatore Chiappini che parla dei “volumi ammantati della straordinaria grazia muliebre, nonostante l’abbondanza rubensiana dei corpi, le storie sembrano immerse in una sorta di Eden primordiale che non contempla la malizia e il peccato”.

D’altra parte, se la sessualità dei nudi è bandita dalla loro innocenza, la sensualità in quelle forme morbide e offerte non manca, lo afferma l’artista collegandola con la peculiarità della propria arte: “In un’opera la forma, il colore, la composizione del tema e la sensualità devono coesistere, ma ogni artista privilegia sempre uno di questi aspetti”. Ancora più direttamente: “L’obiettivo del mio stile è esaltare i volumi, non solo perché questo amplia l’area dove posso applicare il colore, ma anche perché trasmette la sensualità, l’esuberanza, la profusione della forma che sto cercando”.

Le Sculture

Un discorso a parte va fatto per le  “Sculture” di bronzo, l’apposita sezione ne espone 5,  di cui 4 nella rampa interna di ingresso-uscita, una all’esterno, nel largo antistante.  Non  c’è il colore, che rende spettacolari i dipinti insieme ai caratteristici volumi dilatati dei quali l’artista diceva che “la plasticità tridimensionale e volumetrica delle forme è molto
importante”, quindi  metteva anche sulla tela il rilievo spaziale tipico della scultura. Ma anche senza colore spicca il suo timbro  inconfondibile: “Botero ha risolto il problema – commenta il curatore – rivolgendo una particolare attenzione al volume e alla tipologia delle immagini per ottenere una conquista armonica e suadente dello spazio che talora si impreziosisce di una affascinante solennità, di un intimo mistero”. La chiave risolutiva è nella materia, come dice l’artista: “Non potrei intervenire sulla pietra, il gesso mi dà l’idea della morte, la creta significa la vita, mentre il bronzo è sinonimo di resurrezione”.

“Donna a Cavallo”, 2015

Lo vediamo in “Ballerini”, 2012,  due figure nude erette e distanziate che ricordano più il dipinto “Adamo ed Eva”  prima citato che “Ballerini“, 1967, non in mostra, in cui erano allacciate e dinamicamente lanciate nella danza.  Ha rappresentato due figure affiancate ma distese nella scultura “Insonnia”, 1990, non in mostra.  Mentre “Ballerina”, 2013, con la mossa vezzosa alla Degas, è ben diversa dall’omonima scultura del 1998, nuda, in un passo di danza molto dinamico.

Torna il nudo in “Donna a cavallo”, 2015, fa parte di una serie di sculture su temi analoghi non in mostra, come “Donna in piedi”, 1981 e “Donna che fuma una sigaretta”, 1987, “Uomo e cavallo”, 1984 e “Uomo e donna”, 1988, “Il pensiero”, 1988 e “Il Cavaliere”, 1989.

Con “Leda e il cigno”, 2006, entriamo nel mito e nella classicità, cui ha dedicato una serie di sculture, quali “Venere”, 1988 e  “Ratto di Europa”, 1989, “Venere dormiente”, 1990,  e “Guerriero romano”, 1985; ha scolpito anche il “Torso”, 1983 e il busto “Omaggio a Canova”, 1989,  perfino “Natura morta con anguria”, 1976, tutte opere non in mostra.

Usciamo dal Vittoriano, nell’area antistante domina l’imponente  “Cavallo”, 1999, soggetto che ritroviamo in altre sculture, per lo più cavalcato o anche sellato, nel 1990, ma di dimensioni molto minori, altezza fino a poco più di un metro  rispetto ai 3 metri e 25 cm di quello esposto. Le zampe tozze e possenti non rimandano al cavalluccio per i giochi infantili come quello del dipinto “Pedro a cavallo”, 1971, non in mostra, mentre la dimensione gigantesca e la collocazione all’esterno ce lo fa associare istintivamente al Cavallo di Troia.

Ma Botero non ne ha bisogno per introdursi nel Vittoriano, vi è entrato ricevendo l’omaggio che merita la sua figura di grande artista nell’incontro con la stampa; e soprattutto lo ha conquistato con le sue opere così insolite e sorprendenti, e per questo inconfondibili e affascinanti, coinvolgenti nella tenerezza e nell’umanità che emanano, lasciando nella città eterna un segno incancellabile.

“Leda e il cigno”, 2006

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skira Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 2 e 4 giugno scorsi, con altre 13 immagini ciascuno. Per i riferimenti citati nel testo cfr.: in questo sito i nostri articoli “Botero, una straordinaria ‘Via Crucis’ al Palazzo Esposizioni”, 25 marzo 2016, “Larraz, la pittura della libertà al Vittoriano”, 15 ottobre 2012; in www. culturainabruzzo.it, “A Teramo De Chirico, Rosai, Campigli, De Pisis, Capogrossi, Baj, Fontana”, 23 settembre 2009 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito). 

Foto

Le immagini, relative alle ultime sezioni della mostra  commentate nel testo meno la sezione con la scultura le cui immagini sono riportate nell’articolo precedente, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Politica”: “Il presidente” 1987; segue, “Il presidente e i suoi ministri” 2011; poi, “Circo”: “Pagliaccio” 2007, “Numero da circo” 2007 e “Contorsionista” 2008; quindi, “Vita latino-americana”: “Le sorelle” 1969-2005 e“La strada” 2000; inoltre, “Nudi”, “Il bagno“ 1989, “Il bagno“ 2001, e “Donna seduta“ 1997; ancora, “Sculture”: “Ballerina” 2013, “Donna a Cavallo” 2015, “Leda e il cigno” 2006; in chiusura, “Cavallo” 1989.

“Cavallo”, 1989

Pubblicato dawp_3640431 Giugno 6, 2017 in Uncategorized

Botero, 2. Versione antichi maestri, Nature morte, Religione, nella mostra antologica al Vittoriano

Proseguiamo nel ripubblicare gli articoli sulla mostra antologica di Botero svoltasi a Roma nel 2017, per onorare l’artista scomparso due giorni fa. Dopo l’articolo di ieri sulla sua figura artistica e umana, oggi le prime sezioni della mostra: Le versioni di antichi maestri, Nature morte, Religione. Domani il terzo articolo sulle restanti sezioni, che completano il mondo artistico, e non solo, di Botero.

di Romano Maria Levante

Al  Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016, la mostra “Botero”  presenta – in 8 sezioni tematiche con 48 opere, di cui 43  grandi dipinti  e  5 imponenti  sculture – le caratteristiche raffigurazioni dell’artista colombiano prevalentemente realizzate dal 2000 in poi, che intrigano per la personalissima  conformazione dei volumi, gonfi e ridondanti in un figurativo deformato. La mostra, promossa da Roma Capitale con il patrocinio della Regione Lazio, è prodotta e organizzata da “Arthemisia” con “MondoMostreSkira”, e curata, insieme al Catalogo Skira, da  Rudy Chiappini.

La Fornarina”, 2008

Il mondo molto particolare di Botero

Abbiamo cercato di interpretare la matrice, i motivi e i risultati dell’opera di un artista così insolito e intrigante come Botero iniziando dalla sua formazione, marcata dalle immagini della civiltà e delle tradizioni  latino-americane su cui si sono innestati i valori della grande arte europea ed italiana, con l’immersione nel mondo statunitense scosso dalle avanguardie dell’espressionismo astratto e non solo. La quadratura del cerchio dell’attaccamento alla sua terra con la continua separazione è stata la “sintesi di regola e passione”, mentre i suoi corpi gonfi dalle forme stravolte sono una trasfigurazione favolistica della realtà che non suscita riso ma tenerezza e “la stessa disarmata fiducia con cui si guarda dentro una scatola magica”, per cui l’osservatore guarda “divertito, perplesso, incuriosito” e comunque sereno.

Verifichiamo ora queste considerazioni generali con la galleria delle opere esposte in un allestimento che ha posto le sculture in successione nella rampa di accesso, a parte il “Cavallo”, all’esterno nello spazio antistante, con le 7 sezioni pittoriche isolate nelle rispettive “enclave” e poste opportunamente in una successione che ne sottolinea la continuità e complessiva omogeneità.

Si vede che il suo è un mondo molto particolare, come  lo è il figurativo controcorrente rispetto alle avanguardie imperanti:. “Il passaggio dal mondo normale al mondo  di Botero non comporta nessuna metamorfosi – ha scritto Paolo Mauri nel 1991 – semplicemente per Botero il mondo è così”. In altre parole: “In Botero la grassitudine… è un approdo mentale: la diversità si rivela dunque soltanto ad un visitatore che venga da un altro mondo, da un diverso pianeta”. Con queste particolarità: “Dunque la grassitudine è una caratteristica che Botero regala ai suoi personaggi e non una loro caratteristica connaturata. Come dire che Botero inventa i soggetti e li vede in questo modo a prescindere dalla loro reale esistenza. La grassitudine è nella mente del pittore e diventa un tratto dell’anima dei soggetti”.  

“D’aprés Velasquez”, 1959

Percorrendo la galleria delle  48 opere esposte, i soggetti sembrano  accogliere il visitatore come ospite gradito:  “Se un quadro di Botero può spingere al sorriso, la visione di molte opere annulla l’effetto comico: c’è un che di malinconico, di perplesso,  di metafisico in questa grassitudine  esibita senza ostentazione, senza rumore, senza dramma”. 

Nel passare in rassegna le sezioni  si trova conferma all’enunciazione dell’artista: “Per me lo stile è un linguaggio che deve essere coerente… La mia opera è un tentativo che ho seguito durante tutta la vita  perché il volume è un pensiero che porto con me per sempre”. Commenta il curatore Rudy Chiappini: “Il linguaggio, dunque, è l’ossequio alla propria continuità sorretto da un ‘pensiero dominante’ , e quel pensiero determina lo stile”. Con questi contenuti: ” Tuttavia per quanto il linguaggio si perfezioni, e la forma si purifichi, i soggetti di vita civile, di vita privata, di corride, di circo, di bordello, di matrimonio, di violenza, di feste campestri, dell’apparato di religiosità cattolica  sono tenacemente persistenti e rappresentano l’universo di visioni cui Botero non può rinunciare”.

Sono le visioni offerte al visitatore  che cercheremo di raccontare, citando le parole stesse dell’artista efficacemente riportate nel Catalogo come originali schede alle singole opere, dopo una concisa introduzione del curatore alle singole tematiche. Nello stesso tempo faremo riferimento anche alle opere viste nella mostra del 1991-92 come logico completamento, in un’integrazione che valorizza l’attuale aggiornamento: una staffetta ideale di Botero a Roma.

“D’aprés Velasquez” 1964

Fabrizio D’Amico nel 1991 ha citato le parole di Soavi: “E’ impensabile che a un personaggio di Botero possa capitare un dramma”,  e di Sciascia:  “In loro è assente la gioia come è assente il dolore”, e ha concluso: “Perché il dramma è l’ultima precipitazione di una vita, l’insanabile contraddizione di due verità inconciliabili, è giusto e necessario che l’umanità di Botero, che allontana da sé la vita a prezzo della propria faticosa immensità, ne sia preservata”.

Abbiamo già visto come questo si riscontri anche nel ciclo “Corrida”, ci limitiamo a riportare un’altra citazione del 1991 di Ana Maria Escallon: “Goya osserva, quasi sempre, i tori dall’interno, mentre Botero li guarda dall’esterno, per una necessità d’esprimersi in un mondo differente, dove il cuore non batte, la vita non si rischia, la fortuna non esiste. E’ un mondo dall’anima lasciva, colmo di poesia,di forme piene che lasciano spazio a colori armonici”. Il trionfo del colore, dunque, mentre “l’atmosfera ieratica nega il furore della ‘fiesta’, l’espressione è contratta in un gesto congelatore  di emozioni, perché ciò che interessa a Botero è l’espressione d’impassibilità”. Anche in “Muerte de Ramon Torres”, 1986, dove il torero a terra inanimato sembra addormentato piuttosto che ucciso dal toro sopra di lui cavalcato dallo scheletro di morte quasi in un gioco.

L’atmosfera muta nei tre cicli in cui il suo atteggiamento distaccato verso il dramma si trasforma in diretta partecipazione, con uno spirito umanitario che va oltre l’angoscia per la tragedia della sua terra lacerata dalla guerra civile. Nel 2000 dipinse il ciclo “Violencia in Colombia”, e  il ciclo “Abu Ghraib” accomunati dalla  ribellione contro le violazioni dei principi di umanità perpetrate nel suo paese con il sanguinoso conflitto intestino come nella grande democrazia degli Stati Uniti con le torture ai prigionieri nel famigerato carcere della guerra irachena.

“Piero della Francesca” (dittico, parte destra), 1998

Ha scritto Conrado Uribe Pereira nel 2016: “Come cittadino del mondo , qui l’artista assume una posizione globale e, per i quattordici mesi di lavoro che costituiscono, come Botero stesso ha dichiarato, una parentesi nella sua carriera, ha prodotto questa sorta di catalogo particolare nel quale raccoglie un frammento delle oscure cronache dell’attualità”.

E’ stata “una parentesi nella carriera”, sono “serie anomale nella carriera di Botero che ne attestano una coscienza politica che va dal locale al globale”, dunque; dieci anni dopo, nel 2010, per i suoi 80 anni, nel ciclo della “Via Crucis” torna la denuncia evocata nel “Crocifisso” avente per sfondo i grattacieli di New York con evidente riferimento ad “Abu Ghraib”. E torna il tema drammatico della violenza e dell’oltraggio all’umanità di Cristo, indifesa come quella dei perseguitati, espresso senza toni forti ma con un senso di pietà reso più struggente dalle forme ridondanti dell’essere indifeso che accentuano la tenerezza per lui in un’atmosfera di rassegnata contemplazione.

Così conclude Pereira sui tre cicli che lo hanno portato “a contravvenire in parte alle sue stesse norme, a rendere più impervio un sentiero faticosamente costruito nel corso della sua carriera artistica”: “Più che come un tradimento come qualcuno ha affermato, questa svolta, in cui fa incursione il dramma, dovrebbe essere considerata come un nuovo sviluppo, nel quale la continuità si accompagna alle trasformazioni che arricchiscono e potenziano l’opera”.  

Non potevamo non farne parola anche se i temi della mostra attuale non comprendono queste  “serie anomale” rispetto  alle sue espressioni consuete. Lo stesso artista le considera, come abbiamo visto, “una parentesi nella sua carriera”, di cui resta il segno incancellabile di natura morale e umana con tutto il suo valore civile e politico.

“L’infanta Margherita Teresa”, 2006

Le versioni di antichi maestri

Abbiamo ricordato come dai suoi primi viaggi in Europa quando aveva 20 anni, in particolare in Italia e Spagna,  l’artista fu profondamente colpito, e quindi influenzato,  dai grandi maestri italiani, da Giotto a Leonardo, da Paolo Uccello a Piero della Francesca soprattutto, e spagnoli, da Velasquez a Goya, poi conoscerà anche Durer e Rubens, Manet e Cèzanne, trovando delle ideali  “affinità elettive”.

Le esprime dedicandosi ai “d’aprés” che, a differenza di quelli di altri grandi artisti come De Chirico, non riproducono con variazioni modeste le opere ispiratrici, ma le re-interpretano radicalmente nel proprio personalissimo linguaggio; che non è soltanto una cifra stilistica diversa, ma comporta una dilatazione dei volumi tradotta in un gonfiamento dei corpi che determina la notevole deformazione, resa ancora più vistosa dall’inevitabile confronto con l’originale.

Ma proprio questa verifica conferma quanto si è premesso, nessun effetto caricaturale, non sembrano irriverenti né suscitano comicità, al massimo ironia, e fanno apprezzare lo sforzo di rendere omaggio ai grandi maestri “cercando, a secoli di distanza – commenta il curatore – di renderne lo spirito, attualizzato e fatto proprio attraverso la sua idea originale del volume e dello spazio, del segno e del colore”.

La 1^ sezione pittorica con 8  “Versioni degli antichi maestri” evidenzia come si sia dedicato ai “d’aprés” non solo nella fase iniziale, ma nell’intero percorso artistico, come  De Chirico che sull’orlo della vita ultimava l’ultimo dipinto, ripetendo un “d’après” realizzato in passato: la prima è del 1959, seguono 3 de 1984 e 1998, e 4  dal 2005 al 2008.

Iniziamo con i “d’aprés” di Velasquez, sono 3, il primo, “Nino de Vallecas”, 1959, ancora non rivela interamente la sua cifra stilistica che si manifesta invece in un “Busto femminile”, 1984, e ovviamente in “L’Infanta Margherita Teresa”, nel quale la deliziosa grazia infantile dell’originale si trasforma in una forma  imbarazzata più che goffa, che non suscita riso ma ispira tenerezza. Nel ricordare di essere stato “copista” al Prado, dove conobbe i dipinti del maestro spagnolo, l’artista rivela: “L’arte che ammiravo nelle grandi stanze del Museo del Prado era per me impenetrabile, una vera scoperta, e la tecnica con cui quei capolavori erano realizzati mi affascinava”.

“Maria Antonietta”, 2005

Dopo il “d’aprés” di Rubens, “Rubens e sua moglie”, 2005, in cui l’apparente  goffaggine delle due figure, con le mani simili a spatole che si uniscono, si traduce anch’essa in tenerezza, vediamo “Maria Antonietta”, 2005, figura dignitosa e accattivante, che serve all’artista per precisare come la scelta di questo come altri soggetti non significhi abbandono delle proprie radici: “Voglio che la mia pittura abbia radici, ma nello stesso tempo non voglio dipingere soltanto campesinos. Voglio essere capace di dipingere tutto, anche Maria Antonietta e Luigi XVI , ma sempre con la speranza che tutto ciò che faccio sia pervaso dall’anima latino-americana”.

Ed eccoci ai grandi maestri italiani, sono esposti i “d’aprés” di Piero della Francesca e Raffaello. Del primo parla così: “Di Piero della Francesca ho scoperto l’espressione più totale dell’arte: la pienezza del volume, delle forme composite, dei colori smaglianti, resi con tonalità difficilissime da creare. Il soggetto aveva una dignità straordinaria. Le figure emanavano un’impressione di monumentalità e di grande dignità”.  Possiamo dire che è proprio questa l’impressione che si ricava dal dittico esposto, “I duchi di Urbino”, la monumentalità non è resa dalla dilatazione dei volumi, appena percepibile, ma dalla severità dell’espressione, c’è rispetto per la dignità della figura.

Invece nel “d’aprés” di Raffaello, “La Fornarina”, 2008, la dilatazione è evidente e l’immagine ne viene coinvolta: dalla grazia pudica e seducente si va all’imbarazzo timido, per questo tenero. Torna il mente il “d’aprés” di Leonardo, “Monna Lisa”, 1977, visto alla mostra del 1991-92, realizzato 30 anni prima di quello della “Fornarina”, analogo coinvolgimento nel tradurre nel proprio linguaggio: all’intrigante mistero di un sorriso indefinibile si sostituisce un atteggiamento di placida attesa.

La reiterazione dei “d’aprés” anche in epoca recente indica che per l’artista questi capolavori non sono pezzi da museo, come le cosiddette “lingue morte”, gloriose ma inattuali.

“Natura morta davanti al balcone”, 2000

Nature morte

Così le “Nature morte”, di cui ne sono esposte 6 nella 2^ sezione pittorica, alle quali l’artista attribuisce un significato che va oltre la mera composizione di oggetti ma, come osserva il curatore, rivelano “un vero e proprio mondo a sé, ricco diversificato, regolato da regole precise”. Le enuncia lo stesso artista: “Quando dipingo una mela o un’arancia, so che si potrà riconoscere che è mia e che sono io che l’ho dipinta, perché quello che io cerco è dare a ogni elemento dipinto, anche al più semplice, una personalità che viene da una convinzione profonda”.

E’ come dare vita alle cosiddette nature morte, la cui definizione, pur in termini diversi, fu contestata da De Chirico che vi si dedicò chiamandole “nature silenti”. L’artista vi  imprime il proprio sigillo stilistico, ma proprio per renderle vive non le stravolge limitando la dilatazione, restano naturali pur se subito riconoscibili dall’osservatore come afferma di volere l’artista.

Lo vediamo nella “Natura morta dinanzi al balcone”, 2000, con una bottiglia e delle arance su un tavolo tondo coperto in parte da una tovaglia rosa shocking,  dinanzi a una ringhiera con sfondo di tetti. Tre arance sono intere, nella loro perfetta rotondità, la quarta è a metà, e questo dà vita alla composizione, rendendola dinamica. In “Arance”, un suo quadro del 1989, non in mostra, i frutti sono i soli protagonisti, poggiati su una cassapanca con una tovaglia di un giallo discreto, senza sfondo né altri oggetti; .anche qui tre arance intere, ma altre tre  a metà una delle quali anche sbucciata. Dieci anni dopo, dunque, torna lo stesso motivo, dare vita alla “natura morta”.

Analoghe considerazioni si possono fare per una “Natura morta” del 1970, in cui oltre a due arance tagliate  a metà e un grande  ananas anch’esso tagliato, ci sono delle bucce e delle posate, con una forchetta addirittura conficcata nell’ananas, quasi che l’artista avesse colto l’attimo fuggente di uno spuntino interrotto, sospensione accentuata dal cassetto del tavolino rimasto socchiuso.

“Natura morta con caffettiera blu”, 2002

Vediamo l’aggiunta di altri elementi compositivi nelle ultime due “Nature morte” di questo tipo, dove la frutta è ulteriormente diversificata, sempre con l’elemento vitale dello spuntino evocato.

In “Natura morta con frutta e bottiglia”, 2000, ci sono anche un cestino pieno di pomi, un piatto e una forchetta, oltre  alla bottiglia piena per metà, con una tovaglia verde chiaro su cui sono poggiate due banane intere e una tagliata a metà che, con lo spicchio d’arancia, dà vita alla natura morta.

Mentre “Natura morta con caffettiera”, 2002, mostra un cromatismo più intenso, di nuovo il mobiletto dal cassetto semiaperto con la tovaglia rosa shocking, una maggiore varietà di frutta, tre mele verdi, due banane e altro in una fruttiera bianca, una pera, una mela verde e due ciliegie sul tavolo dov’è anche un coltello e una fetta di cocomero rosso su un piatto blu, lo stesso colore della grande caffettiera e della parete di sfondo con uno specchio che riflette i frutti poggiati più in alto.

Questa la descrizione dell’artista: “Quando guardate una delle mie nature morte noterete che i coltelli e le forchette, la frutta, il tavolo, il tovagliolo, ogni cosa è resa nella stessa maniera, perciò l’intero lavoro irradia un senso di unità, armonia e coerenza. Questo è ciò che comunica la sua verità essenziale” della quale, aggiungiamo, fa parte anche la vita data alle “nature morte”.

”Natura morta con strumenti musicali”, 2004

Non più frutti nella “Natura morta con lampada e fiori”, 1997, i fiori sono otto, sembrano rose non sbocciate di un colore sbiadito come la tovaglia, di un giallo più intenso il vaso con manico in cui sono raccolte in una composizione compatta. Al lato una lampada a olio grigia, grande come il vaso, con la fiammella accesa, il segno di vita come la forchetta all’angolo del tavolo con un pezzetto di cocomero, più piccolo della fetta nella “Natura morta con caffettiera”, ma evidente.

Ritroviamo la bottiglia piena a metà della “Natura morta con frutta e bottiglia” nella “Natura morta con strumenti musicali”, 2004, su un mobile questa volta dal cassetto chiuso, c’è un trombone con un mandolino sull’immancabile tovaglia, che diventa di colore arancio in sintonia con gli strumenti illuminati da una luce gialla. Danno vita alla composizione l’archetto dello strumento e i fogli dello spartito musicale, appoggiati come per una sospensione momentanea dell’esecuzione. Ci tornano  in mente tre dipinti non in mostra: la “Natura morta con Le Journal”, 1989, con il mandolino e, oltre agli oggetti dei quadri descritti, la caffettiera con uno sbuffo di liquido,  l’arancia intera e quella sbucciata fino a una fetta sottile sopra il giornale, la natura non è morta, è viva; la “Natura morta con violino”, 1965, dove  non c’erano ancora questi segni di vita; e “Interno con figure”, 1990,  dove i segni di vita erano  non solo nelle arance tagliate, ma nelle due persone, un uomo e una donna di spalle, sedute a tavola per lo spuntino che è solo evocato in tutti gli altri dipinti.

L’artista si lascia andare a una vera confessione, ricordando come un errore nel disegno del mandolino con il foro centrale troppo piccolo gli aveva fatto esclamare “Ma qui c’è una proporzione diversa, è straordinario”. Poi aggiunge: “E ho dipinto subito il quadro esagerando il volume del mandolino, dilatandolo, dando il massimo rilievo alla forma. Questa dilatazione, questa affermazione dell’oggetto nello spazio era ciò che avevo cercato anche nei classici”. E così si chiude armonicamente e coerentemente il cerchio con i suoi “d’aprés” che abbiamo già commentato.

“Seminario”, 2004

Religione 

La 3^ sezione pittorica ci porta nel  campo della “Religione” che ritroviamo nella sua prima formazione, quando le tradizioni colombiane e i riti religiosi, insieme alle immagini sacre, erano dominanti. “Io non sono religioso, afferma l’artista, ma nell’arte la religione è parte della tradizione”.  Poi si sono aggiunte le realizzazioni artistiche dei  maestri europei su temi sacri, una tradizione a livello universale. .

Il curatore osserva che nel suo mondo il “clima favolistico”  fa sì che “la realtà deve fare sempre i conti con lo sconfinamento in una fantasia che determina compiutamente i pensieri e i gesti della gente. In un simile contesto la religione si pone come un esempio di pratica del soprannaturale che permea la quotidianità da tradursi in sorpresa, in contemplazione estatica, in forma adattata a un pensiero pronto a plasmare uniformemente le cose e le persone”.

Ma a parte queste considerazioni, la selezione delle 5 opere sul tema è una escalation rituale: dai seminaristi al monsignore, dal nunzio al cardinale, dalla  Madonna col Bambino fino al Crocifisso.

Il “Seminario”, 2004, raffigura  in un ambiente spoglio quasi metafisico nelle arcate di sfondo, cinque seminaristi in quattro  posizioni: uno sulla sinistra in ginocchio mentre prega con lo sguardo verso l’alto e le mani giunte,  un altro in primo piano sdraiato mentre legge il breviario con la testa appoggiata alla mano destra, un terzo a destra seduto su una poltrona con il rosario nella mano sinistra, come un quarto in piedi al centro, al pari del quinto dallo sguardo attonito, più degli altri raffigurati. Sono come presi da un senso di arcano stupore, accomunati in un quieto raccoglimento dal quale sembra contagiato il gattino sulla destra, nero come le loro tonache, e come loro assorto.

Passeggiata sulla collina”, 1977

Saliamo di livello con il monsignore di “Passeggiata sulla collina”, 1977, ha il rosario che pende dalla mano sinistra e un curioso ombrellino nero nella destra aperto sebbene non vi sia il sole ma un cielo nuvoloso su un prato verde; le forme gonfie, ma non in modo debordante,  in una composizione semplice ed essenziale, danno un senso di leggerezza che non intacca la serena compostezza del prelato. Un ombrellino lo ricordiamo in altri due dipinti non in mostra. Nella“Passeggiata al lago”, 1989,  è di colore rosso porpora perché in mano a un cardinale in veste talare con strascico della stessa tinta, in una composizione molto diversa con la figura umana minuscola dinanzi al gigantismo degli alberi nel bosco, che si riflettono nelle acque.  In “La passeggiata”, 1978, è nero, tenuto in mano da una signora, che ha nell’altra un borsellino, intorno due grandi alberi su un prato verde sconfinato.

Cresce ancora il livello nella gerarchia ecclesiastica con i dipinti che raffigurano due alti prelati,  con le vesti rosse e la mitria sul capo, raffigurati nel 2004 in pose e atteggiamenti ben diversi.

“Il nunzio”  è in piedi con il pastorale nella mano destra e il rosario nella sinistra, mentre incede solenne davanti a dei banani lussureggianti con il piccolo chierico in cotta bianca che regge l’ombrello rosso dell’autorità vescovile. “E’ una variegata macchia di colore – commenta il curatore – che entra a far parte del paesaggio secondo la logica delle apparizioni capaci di trasformare l’evento, per noi inatteso, in marcata consuetudine”. Ricordiamo il “Vescovo in nero”, 1982, non in mostra, mentre benedice davanti a una nicchia, senza sfarzo.

Cardinale addormentato”, 2004

Mentre “Il cardinale addormentato” è  immerso nel sonno con indosso i paramenti, mitria compresa,  in un ambiente spoglio in cui c’è soltanto un piccolo Crocifisso nella parete, su un letto spartano circondato da sei candele accese, come se fosse una veglia mortuaria. Ironia dell’artista?

Le due immagini sacre riportano alla iconografia cristiana, ma con una particolarità per “Nostra Signora di Colombia”, 1992: con in braccio il Bambino, invero quasi un ometto con camicia, calzoni corti e scarpe ha in testa una corona inconsueta per la Madonna, quasi un triregno da papa, mentre due piccoli angeli sostengono un piccolo telo verde dietro di lei. Null’altro di particolare, la figura è nobile, anche se la corona sembra fuori luogo e il telo precario e inadeguato.

Siamo giunti al culmine delle raffigurazioni religiose con “Cristo crocifisso”, 2000, in cui la dilatazione del volume non toglie armonia alla forma che ispira raccoglimento e rispetto senza drammaticità; le gocce di sangue che si intravedono nel corpo e nella croce sono leggerissime, quasi invisibili.  

Ci ricorda “Ecce Homo” , 1967, anch’esso composto e senza segni visibili di torture e sofferenza, e il successivo “Trittico della Via Crucis”, 1969, quarant’anni prima del ciclo dipinto nel 2010-11 per il suo 80° anno, sulle 14 stazioni con tanti disegni preparatori, in cui  il  “Crocifisso”, come abbiamo ricordato, polemicamente ha come sfondo i grattacieli di New York.

Prossimamente descriveremo le altre 4 sezioni pittoriche, dedicate alla “Politica” e al “Circo”, alla “Vita latino-americana”  e ai  “Nudi”, e infine le” Sculture”, anch’esse molto personali e caratteristiche.

Nostra Signora di Colombia”, 1992

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skira Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 2 giugno scorso, il terzo e ultimo uscirà il 6 giugno, con altre 13 immagini ciascuno.  Per  le citazioni di De Chirico, i suoi  “d’après” e la “natura silente” cfr. i nostri articoli in  www. culturainabruzzo.it , 8. 10, 11 luglio 2010 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito),  e il nostro articolo “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, in “Metafisica”,  Quaderni della Fondazione  Giorgio e Isa De Chirico,  n. 11-13 del 2013, pp. 403-418.

Foto 

Le immagini, relative alle prime 3 sezioni della mostra e alla sezione con le sculture, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Versione da antichi maestri”: “La Fornarina” 2008; seguono, “D’aprés Velasquez” 1959 e “D’aprés Velasquez” 1964, poi, “Piero della Francesca” (dittico, parte destra) 1998, “L’infanta Margherita Teresa” 2006 e “Maria Antonietta”, 2005; quindi, “Nature morte”: “Natura morta davanti al balcone” 2000, “Natura morta con caffettiera blu” 2002 e “”Natura morta con strumenti musicali” 2004; inoltre, “Religione”: “Seminario” 2004 e “Passeggiata sulla collina” 1977, ancora, “Cardinale addormentato”2004; e“Nostra Signora di Colombia” 1992; in chiusura, “Il Presidente. La first lady” (dittico, le due parti) 1969, della sezione “Politica” di cui al prossimo articolo.

“Il Presidente. La first lady” (dittico, le due parti), 1969.

Pubblicato dawp_3640431

Botero, 1. 48 opere intriganti nello stile inconfondibile al Vittoriano

Ieri 15 settembre 2023 se n’è andato l’artista colombiano Botero, che tutti conoscono per lo stile inconfondibile fatto di forme ridondanti, tale da incuriosire per la sua originalità unita ad una elevata qualità artistica. Verrà sepolto a Pietrasanta – con l’Italia ha avuto fecondi rapporti nella sua vita artistica – e in Colombia sono stati decretati 3 giorni di lutto nazionale. Abbiano ritenuto di onorarne la memoria ripubblicando i 3 articoli del giugno 2017 sulla grande mostra antologica al Vittoriano, seguirà l’articolo sulla mostra antecedente al Palazzo delle Esposzioni deicata alla sua speciale “Via Crucis”. In questo primo articolo è inquadrata la sua figura artistica e umana, in quelli che usciranno nei giorni successivi saranno descritte le opere in mostra nel loro valore e significato.

La Copertina del Catalogo

di Romano Maria Levante

La mostra “Botero” al Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016, espone 48 opere, di cui 43   grandi dipinti  e  5 grandi  sculture, dell’artista colombiano dallo stile inconfondibile aperto  e  misterioso, solare ed enigmatico che stimola il visitatore oltre che il critico nella ricerca della chiave interpretativa della sua affascinante singolarità. Promossa da Roma Capitale con il patrocinio della Regione Lazio, prodotta e organizzata da “Arthemisia” con MondoMostreSkira, a cura di   Rudy Chiappini che ha curato anche il Catalogo Skira. Un progetto didattico è collegato alla mostra.

“Picnic”, 2001

A distanza di un anno, un nuovo evento artistico ha per protagonista Botero a Roma: dopo  la “ Via Crucis, la passione di Cristo” nella Pasqua 2016 al Palazzo Esposizioni, la mostra tematica al Vittoriano alla cui presentazione ha partecipato l’artista, con Iole Siena, presidente di “Arthemisia” –  il gruppo che ha affiancato ripetutamente le grandi sedi espositive romane nell’organizzare le mostre e dal 2016  ha la titolarità esclusiva dell’Ala Brasini del Vittoriano – e con  Rudy Chiappini, curatore della mostra, presente l’ambasciatore di Colombia. L’artista ha parlato delle radici stilistiche e di contenuto  delle sue figure dilatate dalle forme prorompenti, in una visione dell’arte e della vita aperta e popolare che lo porta alla condivisione di emozioni e sentimenti.

E’ questo un tema appassionante data la singolarità nel panorama artistico mondiale di un approccio così originale e per tanti versi azzardato perché rischia di cadere nella caricatura e nel grottesco. Ma non è così, anzi dinanzi alla sua galleria di dipinti si resta come soggiogati e colti da tenerezza,  per nulla portati al riso, bensì presi nell’intimo dalla percezione di un messaggio di profonda umanità.

La  prosecuzione ideale delle altre mostre di  Botero a Roma

Avevamo provato questa sensazione dinanzi alle stazioni della Via Crucis che dipinse per celebrare i suoi 80 anni,  il Cristo gonfio al posto di quello ischeletrito della tradizione suscitava un sentimento di pietà non minore, quasi fosse ancora più indifeso nella tenerezza che esprimeva, mentre nei suoi carnefici le forme prorompenti moltiplicavano la violenza cieca, insana e perversa.

 Ora  si prova sempre tenerezza dinanzi alle figure prorompenti delle 48 grandi opere esposte, ma premono anche altre sensazioni e  sentimenti ben diversi da quelli suscitati dal dramma della Passione. La suddivisione delle opere in 7 sezioni tematiche sembra fatta  per misurare queste sensazioni dinanzi a situazioni diverse anche se rappresentate con lo stesso stile inconfondibile: si va dalle Natura morte alla Religione, dalla Politica al Circo, dalla Vita latino-americana ai Nudi, fino alle Sculture, con la premessa delle Versioni da antichi maestri in cui Botero si è cimentato,  come De Chirico e altri artisti,  immagini per lo più serene. Non sono esposte opere di quattro cicli su vicende drammatiche, Corrida” e  “Violencia in Colombia”, “Abu Grahib” e “Via Crucis”..

“Piero della Francesca”, dittico, lato sinistro, 1998

Si può  essere tentati di cogliere l’evoluzione stilistica, tra il  d’aprés  “Velàsquez” del 1959 e la “Passeggiata sulla collina” del 1977,  tra le 4 opere della fine degli anni ’80 e le 7 della fine degli anni ’90 fino alle 32 dal 2000 in poi, di cui ben 20 dal 2005, l’ultima  “Carnevale” del 2016.  Ma si resterebbe delusi data la costanza della sua cifra stilistica che esprime una visione ferma e radicata.

Neppure nella precedente grande mostra di Botero a Roma, tra il dicembre 1991 e il febbraio 1992 al Palazzo Esposizioni, con 60 dipinti, 39 disegni, 16 sculture e in più la travolgente sezione di 37 opere sulla corrida, dalla vasta galleria antologica presentata in modo cronologico si avvertivano segni apprezzabili di mutamenti. La mostra attuale si pone come sua prosecuzione ideale, solo  “Il bagno”, del 1989,  fu presentato anche allora, le altre sono tutte inedite per Roma e c’è il meritorio aggiornamento dell’ultima serie degli anni ‘2000 dopo  la “Via Crucis” dipinta nel 2010-11 presentata, come abbiamo ricordato, un quarto di secolo dopo, nello stesso Palazzo Esposizioni.

Pertanto tutto l’interesse si concentra nell’interpretare questa cifra stilistica costante, applicata a diversi contenuti accomunati da una visione che cercheremo di decifrare, partendo dalla formazione riflessa nella sua biografia di artista sudamericano legato al proprio paese, che ha però frequentato a lungo l’Europa e gli Stati Uniti, e ne è stato  influenzato. In questa interpretazione ci aiuteranno le sue stesse parole riportate efficacemente nel Catalogo come originali schede delle opere esposte.

“Natura morta con frutta e bottiglia”, 2000

La formazione cosmopolita, fino all’escalation

Nato a Medellin, nella provincia colombiana di Antioqua, dove studiò dai Gesuiti, fu affascinato dalla corrida, la sua prima opera è un acquerello con un torero, anzi per due anni frequentò una scuola per toreri, aveva 12 anni, è di quarant’anni dopo il suo celebre ciclo pittorico sulla Corrida. E’  precoce, a 16 anni la prima esposizione a Medellin.  La sua formazione risente fortemente delle tradizioni locali, lo affascinano le figure dei santi e gli altari barocchi, con l’arte precolombiana e i muralisti messicani tra cui Diego Rivera;  di Picasso lo attira “il non conformismo nell’arte”, cui dedica un apposito articolo  a seguito del quale viene espulso dal collegio, ha ancora 16 anni. 

A 20 anni, lascia Medellin per  la capitale Bogotà dove fa subito la prima esposizione e conosce personaggi dell’avanguardia colombiana, impiega i primi guadagni per raggiungere l’Europa.Un anno in Spagna, pochi giorni a  Barcellona, poi Madrid; quindi  Parigi dove più che l’avanguardia lo attirano gli antichi maestri al Louvre. Ma è in Italia dal 1953 al 1955, che viene affascinato dagli artisti del Rinascimento, è conquistato dalle critiche d’arte di Berenson e Longhi;  si appassiona a Giotto e Piero della Francesca, Masaccio e Leonardo, e alla metafisica di De Chirico. Firenze è la sua base, percorre la Toscana in motocicletta e visita Arezzo e Siena, Venezia e Ravenna.

Torna a Bogotà ma i suoi quadri dipinti a Firenze non hanno successo, ben diversi dallo stile di moda delle avanguardie, finché nel 1956 l’illuminazione del volume, nascono le forme dilatate. Si sposa e si trasferisce  a Città del Messico dove vive con la vendita dei propri quadri. Ma non si ferma, l’anno dopo il salto negli Stati Uniti, una mostra a Washington e contatti diretti a New York con l’espressionismo astratto, la galleria Gres si offre di appoggiarlo.

“Il nunzio”, 2004

Nel 1958, ha soltanto 26 anni, si divide tra la Colombia, dove insegna pittura a Bogotà, diviene illustratore del quotidiano più importante, e partecipa al Salone d’arte tra accesi contrasti; e gli Stati Uniti dove  nel mese di ottobre nella mostra alla galleria Gres le opere esposte sono vendute il giorno dell’inaugurazione,  espone a una collettiva a New York e vince il “premio Guggenheim internazionale 1958”.

Di nuovo in Colombia nel 1959-60, e ancora a New York dove si stabilisce al Greenwich Village, ma arrivano i momenti difficili. Si separa dalla moglie, da cui ha avuto due figli, Fernando e Lina, la galleria Gres chiude, la sua prima mostra nella galleria newyorkese, “The Contemporaries”, riceverà molte critiche, l’opposto dell’esordio alla galleria Gres quattro anni prima.  Ma reagisce alle contrarietà della vita e dell’arte,  si sposa di nuovo nel 1964, dopo sei anni avrà il terzo figlio Pedro; intanto ha trasferito lo studio prima nell’East Side poi nella 14^ Strada sempre a New York, ma non trascura la sua terra,  vince il 2° premio al Salone di arte moderna di Bogotà.

E l’Europa? Non l’ha dimenticata, espone nel 1966 in tre città tedesche, ma nello stesso anno sfonda negli Stati Uniti con la mostra, in un celebre museo, intitolata “Opere di “Fernando Botero”, un successo meno effimero del precedente di pubblico e di critica, ne parla bene anche “Time”.

Nel 1967  di nuovo in Europa, Germania e Italia, oltre che a New York e in Colombia, un pendolarismo senza sosta, è il periodo in cui si rafforza la sua formazione cosmopolita. Dice che un artista latino-americano deve trovare un propria “autenticità”, che “l’arte deve essere indipendente”,  la pittura deve trovare radici, “perché esattamente queste radici danno significato e verità al creato”, ma aggiunge: “Nello stesso tempo, però, non voglio dipingere soltanto campesinos sudamericani. Voglio essere capace di dipingere di tutto, anche Maria Antonietta e Luigi XVI, ma sempre con la speranza che tutto ciò che faccio sia pervaso dall’anima latino-americana”.

,“L’ambasciatore inglese”, 1987

Parole che ci sembrano il sigillo della sua formazione, punto di arrivo e anche di partenza. Ha interiorizzato i potenti stimoli della sua terra, poi ha conosciuto la grande arte rinascimentale e non solo, che lo ha colpito e affascinato, è anche entrato in contatto con la modernità statunitense, le avanguardie dell’espressionismo astratto. Può superare l’angoscia che attanaglia l’artista fino a quando “non padroneggia il proprio mestiere e non sa esattamente quello che desidera esprimere”. Perché o ha delle idee ma non sa come esprimerle artisticamente, oppure sono confuse in quanto non le sente sue.  “Arriva poi il momento, sono sue parole, in cui il pittore riesce a dominare la tecnica e al tempo stesso tutte le sue idee diventano chiare: allora il suo desiderio di trasportarle fedelmente sulla tela diventa così preciso e impellente che il dipingere si trasforma in gioia”.

Ormai l’artista è lanciato, si divide tra New York, con un nuovo studio sulla 5^ strada, e Bogotà, ma affitta anche un appartamento a Parigi dove si trasferirà nel 1973 dopo 13 anni trascorsi a New York.  Tornano i momenti difficili nella vita familiare, nel 1974 la tragedia, il figlio Pedro muore a 4 anni in un incidente stradale, l’anno dopo si separa dalla moglie. Si immerge ancora di più nell’arte, è come se volesse far tornare in vita il figlio ritraendolo in dipinti, disegni e sculture, nel 1976-77 si dedica essenzialmente alla scultura, crea 25 opere su vari temi, anche animali e oggetti.  In memoria del figlio dona 16 opere per la sala a lui dedicata nel Museo di Medellin.

Le mostre in Sudamerica, negli Stati Uniti e in Europa si moltiplicano negli anni in un’escalation inarrestabile, ma ci fermiamo qui perché ci interessava la sua formazione per interpretarne l’opera.

“Il Presidente. La first lady”, dittico,  lato sinistro

La quadratura del cerchio della sua arte

Possiamo dire che la sua formazione è nella biografia, non tanto o non solo per gli artisti di cui ha conosciuto l’opera e lo hanno influenzato, ma soprattutto per il suo dividersi tra il Sudamerica, in Colombia e Messico, gli Stati Uniti a New York e l’Europa in Spagna e Italia. Tutto questo gli ha dato un formazione cosmopolita, ma anche una lacerazione tanto che così precisa l’apparente contraddizione tra il suo sentire di artista con una peculiare forma espressiva e la sua formazione, che gli ha attirato critiche come se avesse tradito le proprie origini allontanandosi dalla sua patria: “Si trova in tutta la mia pittura un mondo che ho conosciuto durante la giovinezza. E’ una specie di nostalgia e ne ho fatto il soggetto centrale del mio lavoro. Ho vissuto quindici anni a New York, ma questo non ha cambiato nulla della mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito di latino-americano. Il rapporto con il mio paese è totale”.  

Lo ha dimostrato innanzi tutto con il ciclo “Corrida”, di cui non vediamo opere nella mostra attuale, ma presente in quella del 1991-92 con 36 opere di cui 18 grandi dipinti, e 18 tra disegni, sanguigne e acquerelli, che ci hanno fatto conoscere il modo distaccato con cui ha raffigurato in tutti i suoi aspetti questo importante momento tradizionale e  ancora attuale della vita sudamericana. Ma,  come commentava Ana Maria Escallon, “Botero non condivide il denso e lacerante mondo di Goya; Botero omette il dramma”. E spiega che “tutto lo scenario della corrida implica tumulto, frastuono, tensione e morte; tutto ciò è assente nei quadri perché essi non vogliono essere la realizzazione di una cronaca taurina, né la rappresentazione psicologica di un duello tra la vita e la morte; il quadro esiste solo come bisogno d’espressione, colmo di una realtà lontana che non può ammettere le regole della logica quotidiana”. Quello di Botero “è un mondo dall’anima lasciva, colmo di poesia, di forme piene che lasciano spazio a colori armonici”. La morte, però, non è assente, ricordiamo lo scheletro che cavalca il toro in “Toro muriendo”, 1985 e in“Muerte de Ramon Torres”, 1986,  questa volta mentre l’animale calpesta il corpo inanimato del  toreador, opere non in mostra che citiamo, come faremo con molte altre, per opportuno riferimento.

Musici“, 2008

Vicinanza alla sua terra  rafforzata  nel 2000 con il ciclo pittorico “Violencia in Colombia”, un impegno che lo ha fatto partecipare direttamente e intensamente alla tragedia del suo paese sconvolto dalla guerra civile, che lui fa risalire alla mancanza di giustizia sociale  e all’ignoranza. Impegno appassionato il suo, mosso non solo dal patriottismo ma anche dalla sensibilità umana, come archetipo di tutte le ingiustizie:  alle violenze sanguinose in Colombia si sono aggiunte le torture del carcere di  “Abu Ghraib”, due suoi cicli pittorici correlati.  Ai quali si sono aggiunte interviste coraggiose nel 2005, la sua arte come “accusa permanente”, mentre già nel 2004 quando fece donazioni al Museo colombiano era stato definito “Testimonio de la barbarie”.

Ma torneremo più avanti su questo aspetto altamente drammatico del suo impegno di artista e di persona dall’alta sensibilità umana, anche se è estraneo alla mostra  che, ripetiamo,  non espone opere di tali cicli né della “Via Crucis” del 2010-11, a  parte un “Cristo crocifisso” del  2000. 

“Pierrot“, 2007

Ora  vogliamo sottolineare che la nostalgia non si traduce in malinconia ma, come scrive il curatore Rudy Chiappini, è “corretta dal sorriso, da una diffusa, non sarcastica ironia in cui non trovano spazio gli stati d’animo estremi”.  E si esprime indirettamente nella presenza delle suggestioni della sua terra impresse in lui prima degli influssi cosmopoliti: l’arte precolombiana e l’artigianato popolare, le derivazioni creole e l’iconografia cristiana, con tutti gli altri stimoli delle realizzazioni  delle civiltà latino-americane, Colombia e Messico, che ha ricevuto dall’infanzia. Ma ha sentito anche come la dominazione spagnola, con l’arte barocca, abbia prodotto una deformazione negli artisti locali cui non si è assoggettato, avendo una visione più vasta.

Quindi, sempre nelle parole del curatore, “l’insopprimibile rapporto con la sua terra, testimoniato dalla fecondità e dalla purezza formale, non fa tuttavia di Botero un artista etnico, folcloristico, ma costituisce il presupposto obbligato di un transito, di una meditazione  del raggiungimento della consapevolezza di poter creare e dar vita a un’arte originale e autentica connaturata al temperamento latino-americano”. 

Come ha potuto realizzare  una simile quadratura del cerchio?  Mediante l’alchimia degli influssi cosmopoliti che ha saputo metabolizzare avendo recepito dalla cultura europea la curiosità e l’inquietudine intellettuale per raggiungere l’arte autentica come “interpretazione della realtà attraverso l’intelligenza e la sensibilità che portano alla consapevolezza stilistica”. Il tutto  in una “sintesi perfetta di regola  e di passione”.  Perché, prosegue Chiappini, “la sua è un’arte fedele alle proprie radici ma al tempo stesso alimentata dalla conoscenza, dal confronto con altre sensibilità e altri linguaggi, affascinata dall’incontro con le opere del Trecento e Quattrocento italiani”.

Lo abbiamo visto nella biografia, i grandi maestri spagnoli come Velasquez e Goya, e soprattutto italiani, da Giotto a Leonardo, con particolare riguardo a  Piero della Francesca, gli hanno rivelato, sono parole dell’artista, “l’essenza del classicismo per l’organizzazione dello spazio, la serenità della forma e l’armonia dei colori, trasmettendo un grande senso di quiete”.  Perché “la storia dell’arte è la storia della bellezza e della sua creazione” e in questo senso fa sua la definizione di Poussin: “La pittura è un’interpretazione della Natura, con forme e colori, su una superficie piana per dare piacere”. 

Non si poteva sintetizzare meglio la sua arte, l’inconfondibile effetto visivo che ne deriva, del quale comunque è intrigante esaminare le matrici e le componenti così insolite e singolari.

“Carnevale”, 2016

I corpi gonfi  dalle forme stravolte come trasfigurazione favolistica della realtàCon questa matrice insieme vasta e profonda, cerchiamo di decifrare il suo inconfondibile sigillo, le deformazioni dei corpi gonfiati che derivano dalla peculiare concezione del volume per lui fondamentale. Non sono caricaturali, non suscitano il riso, al massimo ironia  ma soprattutto  tenerezza, abbiamo detto:  “Tutto assomiglia ad un gioco da adulti su di un palcoscenico.  Forse ad un rito” – ha scritto Fabrizio D’Amico nel  presentare la mostra del 1991-92 –  Nulla nasce, cresce,  si consuma e si estingue secondo il ritmo delle ore e delle stagioni; nulla avviene per conseguente, prevedibile, normale concatenazione logica”.

Ed è qui una chiave interpretativa accessibile al visitatore, senza  visioni intellettualistiche estranee alla poetica di Botero, che porta alla favola dove troviamo le deformazioni e i gigantismi – si pensi ad “Alice nel paese delle meraviglie” – e, anche se non è una favola, ai “Viaggi di Gulliver” che rivelano un mondo illogico ma metaforico e fiabesco.

“Al riparo dei loro corpi inadatti all’azione – prosegue D’Amico –  i personaggi di Botero rifiutano di sottoporsi ad ogni legge conosciuta della fisica e della ragione. Della morale, perfino”. Nessuna proporzione della realtà viene rispettata, i corpi sono trasbordanti rispetto ai letti e alle sedie che dovrebbero contenerli, gli arti non potrebbero svolgere le azioni richieste, come nel paradosso dell’acrobata sospeso in un impossibile equilibrio della sua figura tozza ma insieme aggraziata. Perché questo è il risultato incredibile, un’armonia superiore, pur nell’inverosimile e impensabile.

“La vedova”, 1997

Così l’artista: “Nei miei dipinti mi muovo con una libertà che ho in un certo senso ereditato dall’arte antica italiana: quella di pensare che nessuna cosa corrisponda alla dimensione prospettica della composizione”. E  ancora: “Questo vuol dire che qualche volta lo spazio viene usato in modo soggettivo, al di là del rispetto delle proporzioni. La grandezza delle figure e degli elementi che compongono i miei quadri non segue le regole della prospettiva, ma mi serve semplicemente per creare un’armonia generale”.

Prevale  per lo più  la dimensione umana, venendo dilatate essenzialmente le persone, come per sottolineare la loro prevalenza rispetto alle cose molto più piccole, dagli oggetti  banali ai letti e ai bagni; sembrerebbe a prima vista  fare eccezione “Il ladro”, 1980, non in mostra, con la figura piccola al centro del dipinto che porta un grosso sacco pieno di roba rubata, ma i tanti tetti che occupano la scena sono ancora più piccoli, come le molte finestre che si intravvedono.

Nelle persone la dilatazione dei volumi riguarda la parte carnale dei corpi, mentre  le bocche,  i nasi e altri organi sono per lo più minuscoli, con gli occhi alquanto piccoli e fissi, spesso rivolti all’osservatore come per interrogarlo o trasmettergli la loro umanità.

Atelier di sartoria”, 2000

L’effetto non è solo visivo, è ben più profondo. Botero ci presenta un mondo che non ritroviamo nella realtà e non è neppure stravolto dall’espressionismo astratto o dall’astrattismo che ne fa perdere del tutto i contorni. E’ una realtà riconoscibile ma deformata senza divenire irriverente perché “monta, all’opposto, l’innocenza della favola”, e con essa “il sorriso, l’indulgenza, l’ironia accostante e quasi consolatoria di un mondo troppo smisurato per riguardare davvero la nostra esistenza, i nostri progetti o i nostri spaventi, un mondo che si può guardare con le stesse attese e lo stesso abbandono, la stessa disarmata fiducia con cui si guarda dentro una scatola magica o, al massimo, con la curiosità intensa e passeggera con cui da bambini spiavamo, dal pertugio di una serratura, le stanze e i gesti dei grandi”, così  ancora D’Amico.

Da parte sua, l’artista afferma: “Voglio che alla fine del quadro ci sia calma e che tutto trovi il suo posto. Non voglio dipinti inquietanti, nel senso che per me il dipinto è pronto quando niente si può muovere, quando regna la calma. Rembrandt ha detto una cosa bellissima: ‘Il quadro per me è finito quando smetto di pensare’”. La ritengo una definizione meravigliosa”.

Adamo ed Eva”, 2005

Dacia Maraini osservava, sempre nel 1991: “L’arcano che intrappola il nostro sguardo incuriosito sembra nascere dall’enigmaticità che accompagna la distillazione della bellezza. Una bellezza che non consiste soltanto nella poetica scoperta della equiparazione dei corpi, animati e inanimati, ridotti al grado zero della pittura nella dilatazione sistematica delle forme. L’elefantiasi biscottata dei fantocci che ingombrano le scene di questo teatro boteriano non racconta tutta la verità”.  E non si trova neppure nei contenuti evocati.  “Curiosamente, mentre osserviamo questi pesi massimi, rigorosamente fedeli alla loro estrema ‘lourdeur’, essi finiscono per diventare di una lieve e aurea leggerezza. Alla fine ci troviamo di fronte a un mondo di corpi goffi, soffici, in procinto di volare via. Come a dire che i segni si contraddicono e rivelano in ogni momento il rovescio di sé”.

Ci voleva la fantasia della scrittrice, lontana dalle elucubrazioni cerebrali della critica, per entrare in sintonia e fare sintonizzare anche noi con il mondo favolistico dell’artista. Ripensiamo alla scena finale del film “Miracolo a Milano”, con le figure che si alzano in volo sconfitta la forza di gravità, l’immagine della Maraini ci fa pensare anche a questi corpi in volo, liberati dal peso opprimente.

Usciamo dalla favola, torniamo alla realtà. Paolo Mauri commentava:“In queste storie l’antagonista vero non è mai dentro al quadro, ma è fuori: è colui che guarda divertito, perplesso, incuriosito. Dal personaggio, dalla sua grassitudine, dalla sua malinconia… E’ difficile non andare d’accordo con i personaggi dipinti da Botero e non desiderare alla fine di averne uno da guardare sempre”

Nella mostra ce ne sono  quasi 50 da guardare, quante sono le opere esposte, compreso  il grande “Cavallo”  in bronzo nel largo antistante l’ingresso, anch’esso un richiamo quasi favolistico, ripensiamo al cavallo di Troia  che ha popolato le fantasie di tutti negli anni scolastici. .

Racconteremo la visita prossimamente facendo conoscenza dei  personaggi del teatro di Botero, un mondo  che abbiamo cercato di interpretare nelle sue motivazioni profonde e nelle sue espressioni più vistose.  Un mondo affascinante con i contorni della favola nella trasfigurazione della realtà.    

“Ballerini”, 2012, scultura;

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skyra Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  Gli altri due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 4 e 6 giugno p. v. con altre 13 immagini ciascuno. Per i riferimenti del testo cfr. i nostri articoli in questo sito: “Accessible Art, 17 articoli sulle favole di Oscar Wilde” 3 gennaio 2017 e  “Alice, le meraviglie della favola nella galleria RVB Arts” 25 dicembre 2015.

Foto 

Le immagin, che rappresentano tutte le sezioni della mostra, i sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, La Copertina del Catalogo; seguono, “Picnic” 2001 e “Piero della Francesca”, dittico, lato sinistro, 1998; poi “Natura morta con frutta e bottiglia” 2000 e “Il nunzio” 2004; quindi, “L’ambasciatore inglese” 1987 e “Il Presidente. La first lady”, dittico,  lato sinistro; inoltre, “Musici“ 2008 e “Pierrot“ 2007; ancora, “Carnevale”, 2016 e “La vedova” 1997; continua, “Atelier di sartoria” 2000 e “Adamo ed Eva” 2005; infine, “Ballerini” 2012, scultura; e, in chiusura, la presentazione della mostra al Vittoriano il 5 maggio 2017, al centro Fernando Botero con a fianco l’interprete e alla sua sinistra la presidente di Arthemisia Jole Siena e il curatore della mostra Rudy Chiappini.

La presentazione della mostra al Vittoriano il 5 maggio 2017,
al centro Fernando Botero con a fianco l’interprete,
alla sua sin. la presidente di Arthemisia Jole Siena
e il curatore della mostra Rudy Chiappini.

Pubblicato dawp_3640431 Giugno 2, 2017 Pubblicato in Uncategorized Modifica Botero, lo stile inconfondibile nella mostra al Vittoriano

Il Tricolore, ne parlano i “quattro amici al bar” su FB

di Romano Maria Levante

I “quattro amici al bar”, tra cui noi, di cui abbiamo riportato ieri la discussione svoltasi su Facebook intorno al 25 luglio 1943, hanno discusso anche, nello stesso periodo, precisamente dal 30 luglio al 4 agosto 2023, del Tricolore, con 31 Post. Trasferiamo sul nostro sito questa discussione anche per riumirci tutti nel simbolo amato della nostra Bandiera dopo aver ricordato ieri le divisioni evocate dal 25 luglio.. L’occasione è stata fornita dalla risposta della Presidente del consiglio Giorgia Meloni nella sua visita ufficiale negli Stati Uniti gli ultimi giorni di luglio a una domanda del Presidente del Congresso americano, il democratico sen. Schumer, sul significato dei tre colori. Si confrontano valutazioni divergenti su tale risposta – soprattutto tra due amici – con argomentazioni di segno diverso, sempre con il Tricolore al centro della discussione. Abbiamo pubblicato alcuni anni fa due articoli sulla mostra al Sacrario della Bandiere al Vittoriano, in cui furono presentate le interpretazioni della Bandiera italiana di 90 artisti; e un articolo più in generale sul carattere evocativo delle Bandiere, sono in questo sito, perciò ci è sembrato dovervi ospitarvi anche la discussione tra i “quattro amici al bar” svoltasi su Facebook. Aggiungiamo, a mero scopo illustrativo, immagini evocative della nostra Bandiera tricolore delle diverse Forze armate: marina militare ed esercito, alpini e aeronautica militare, bersaglieri, carabinieri e polizia, anche con il Capo dello Stato; e, in chiusura, il saluto alla bandiera e le “Frecce tricolori” che la disegnano nel cielo con le loro acrobazie. .

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è bandiere.it_.jpg

& Friends·

·  Romano Maria Levante

Il caro conterraneo ed ex collega Tonino Bonavita ha “postato” la seguente domanda ad una mia risposta sulla squalifica della schermitrice ucraina: ” Qualcuno speghi alla Meloni cosa rappresentano i colori della nostra bandiera e le dica che non si tratta della bandiera nera con teschio al centro”. Tale domanda – collocata in modo inappropriato per una evidente svista – si riferisce al video in cui la Meloni sembra eludere la domanda del presidente del Congresso americano sul significato dei colori della bandiera italiana. Perchè non resti inosservata, ho ripetuto sopra la domanda, e di seguito ecco la risposta che mi sono sentito di dare.

Caro Tonino, una modesta spiegazione personale posso darla con i miei ricordi delle scuole elementari, che risalgono agli ultimi anni del regime fascista. Mi insegnarono che il verde rappresenta le nostre valli, il bianco le nevi delle nostre montagne, il rosso il colore del sangue dei nostri martiri. Mistica fascista? Forse, e il fatto che la Meloni ha mostrato di non conoscerla la rende forse un po meno … nostalgica, per usare un eufemismo, almeno agli occhi degli americani. Aver risposto che quei colori “rappresentano tante cose” forse è stato un modo elegante per non dire che, come molti sostengono, fu frettolosamente imitata la bandiera francese cambiando il blu nel verde per distinguerla. A meno che non si pensi al verde della speranza, al bianco della fede, al rosso della carità, ma queste sono le virtù teologali, e si trattava della bandiera dell’Italia e non dello Stato Pontificio.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è facebook-3.jpg

Commenti

·  Gianni Di Marzio

Ti leggo piuttosto indulgente con Giorgia, caro Romano. Non saranno i colori della bandiera che la rendono meno nostalgica, ma forse la ridotta consapevolezza del significato storico del passato fascista di questo Paese, e degli aspetti morali che ancora emergono nella nostra cultura. Chi scelse il tricolore italiano, mi pare, volle affermare le comuni origini e le comuni aspirazioni dei popoli francese e italiano, una fratellanza cioè, rispetto ai valori affermati davanti all’umanità dalla Grande Rivoluzione.

·  Tonino Bonavita

Dai miei ricordi di storia scolastici

A Reggio Emilia nel 1797 nasce la bandiera tricolore per rappresentare la nazionalità degli italiani di uno Stato sovrano: la Repubblica cisalpina

Al momento della creazione non c’erano altri particolari significati rimasti nel tempo a venire:

– Il verde della speranza ( per un futuro migliore

– il bianco della Fede ( in Dio creatore che unisce tutti i popoli)

– il rosso ( dell’amore per il prossimo)

Sono per queste interpretazioni

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è la-voce-del-paterazzo.jpg
Marina militare

·  Romano Maria Levante

Ho solo citato i miei ricordi d’infanzia del significato dei colori della bandiera che mi veniva insegnato alle elementari, aggiungendo che la Meloni per la sua età mostra di ignorarlo, pur trattandosi di mistica fascista legata ai valori nazionali che potrebbe conoscere. Tutto qui, una constatazione la mia da semplice testimone, nessuna indulgenza ma anche nessun accanimento, caro Gianni… Concordo sull’adesione ai comuni valori civili e rivoluzionari della Rivoluzione francese espressi dai colori della loro bandiera, “liberté, fraternité, egalité”, ma a quale dei tre valori si è rinunciato cambiando un colore? La mia è poco più di una battuta, invece è fondato il problema che pone Tonino evocando l’interpretazione riferita a “speranza, fede e amore”, quest’ultimo per il prossimo che corrisponde alla carità da me citata, le tre virtù teologali, quindi, in una visione religiosa e non certo rivoluzionaria. E allora, non c’è molta chiarezza, se due cari amici riferiscono interpretazioni così diverse. Mi sembra venga così validata indirettamente la risposta della Meloni, “rappresentano tante cose…”. E lo dico da cronista anche questa volta senza indulgenza….cito

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è esercitoitaliano.jpg
Esercito

Gelasio Giardetti

Debbo dire che sia Romano sia Tonino Bonavita hanno dato ambedue una spiegazione giusta di carattere strettamente personale sul significato dei colori della Bandiera italiana. Infatti la versione di Romano è quella adottata da intellettuali e politici dell’epoca risorgimentale e non solo: Il verde richiama i prati verdi e la macchia mediterranea, il bianco rappresenta le nevi delle Alpi e degli Appennini, il rosso simboleggia il sangue versato dai soldati italiani. l’interpretazione di Tonino Bonavita si riferisce ad una versione cattolica dei colori della bandiera: il verde la speranza per un’Italia libera e unita, il bianco si richiama alla fede in un unico Dio, il rosso i colore della carità e dell’amore per il prossimo. In realtà, con la nascita della Repubblica italiana nel 1946, venne inserito nella nostra Costituzione l’articolo 12 che così recita. “La bandiera della repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso a bande verticali di uguali dimensioni” senza soffermarsi sul significato dei colori che la compongono. Il Presidente Meloni, giustamente, non ha risposto alla domanda del Presidente del Congresso americano poiché non esiste una versione ufficiale repubblicana del significato dei colori della nostra bandiera. Una risposta evasiva, ma intelligente che, al di la dei suoi negativi comportamenti politici in patria, non ha accreditato nessuna delle due versioni sopraelencate sallevandola da un mare di critiche delle opposizioni. Aggiungo che la nostra bandiera è una versione derivante dal vessillo francese in cui la banda blu venne semplicemente cambiata in verde in omaggio al colore verde delle uniformi delle guardie civiche milanesi.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è emiliaromagna-news-24.jpg
Alpini

·  Tonino Bonavita

Vorrei precisare di non aver detto [.. il rosso il colore della carità e dell’amore per il prossimo] trattandosi di sentimenti diversi , un verbo e un sostantivo che convergono entrambi su un unico punto : l’amore per il prossimo

Sulla Meloni non condivido perchè la domanda specifica fatta a un capo di governo era ed è obbligatorio dare un minimo di interpretazione della più comune per gli italiani

Risposta vaga da chi non ha la minima idea di cosa dire e in mente ha solo bandiera nera con il teschio.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è format-rieti.jpg
Aeronautica militare

·  Romano Maria Levante

Condivido ogni parola della spiegazione data da Gelasio, ì’amico Gero, più completa e seria della mia inframezzata da battute, e chi lo conosce sa che non è di certo ….. indulgente con la Meloni, ma semplicemente non è fazioso.

· Tonino Bonavita

Gelasio con la sua saggezza ha interpretato la mia e di Romano lettura della bandiera di carattere personale . Mi sono permesso alcune mie precisazioni storiche non solo scolastiche

Resto con quanto precisato con la interpretazione non solo cattolica sulla nascita della bandiera a Reggio Emilia nel 1797

Condivido che con la nascita della Repubblica italiana del 1946 dove nessuno cercò di modificare la interpretazione iniziale.

Dare dell’intelligente alla Meloni non sono d’accordo ma furba e ben pilotata da esperti della comunicazione che la pilotano nei comportamenti e nelle dichiarazioni ( salvo qualche reazione – labiale) SI

L’intelligente ha cultura ed esperienze: ascolta, medita e poi agisce con autocontrollo

Sono interpretazioni personali naturalmente di chi, come me, non è mai stato fazioso ma che si documenta e interpreta con pareri personali

Un caro saluto al conterraneo Gelasio.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è difesa-online.jpg
Bersaglieri

Gelasio Giardetti

La discussione si sta facendo molto interessante poiché arriva a coinvolgere anche la lingua italiana. Concordo con Bonavita che l’aggettivo “intelligente”, che ho usato per qualificare l’attuale Presidente del consiglio, è un tantino troppo sbilanciato verso una “saggezza” che la Meloni non possiede dal momento che fa tutto il contrario di provvedimenti che dovrebbero tendere verso una maggiore uguaglianza sociale e la dignità nel poter vivere di tutti. Infatti toglie il necessario per vivere ai poveri (reddito di cittadinanza) per dare ai ricchi (Impunità verso gli evasori fiscali) etc. etc. etc.. Convengo quindi che è più appropriato l’aggettivo “furba” in quanto alla domanda del presidente del Congresso americano è stata molto evasiva e furba nel trarsi d’impaccio con scaltrezza da un’insidia che avrebbe avuto notevoli ripercussioni in patria da parte delle opposizioni. Sicuramente Romano, che è un maestro nell’interpretazione della lingua italiana, ci fornirà una sua versione sulle capacità gestionali, più o meno furbe o intelligenti, dell’attuale Presidente del consiglio.

·  Tonino Bonavita

Gelasio sono molto contento di essere riuscito a farti comprendere la mia lettura tra intelligenza e furbizia nella Meloni che, ripeto, e mentalmente guidata da esperti della comunicazione ( lo sono anch’io scuola avuta dai migliori prof. universitari fine anni ‘80 per lavoro in ENI come Romano)

La Meloni viene dalla scuola politica nella sezione fascista della garbatella e da 30 anni di politica con ministro governo Berlusconi, ha sempre fatto parlare di se dai media ( fai parlare male di te ma fai parlare , sei donna e ci sarà sempre qualche credulone che ti difendera-“pubblicità gratuita”-

Questa nel linguaggio della comunicazione si chiama “furbizia” non intelligenza

Con Romano ne abbiamo gia parlato più volte

Gelasio grazie e anche al nostro amico Romano che ci ha dato la possibilità di questo contatto.

Carabinieri

·  Romano Maria Levante

Non sarei intervenuto di nuovo dopo l’adesione alle parole di Gero se l’amico non mi avesse tirato di nuovo in ballo attribuendomi capacità interpretative che non ho, ma cercherò di rispondere. La definizione di “intelligente” non nobilita di per sé, a stare al gustosissimo “la gallina è un animale intelligente” di Cochi e Renato, e giustamente Gero con quell’aggettivo non aveva definito la persona quanto la risposta, “evasiva ma intelligente”, quindi già attenuando il giudizio , che poi derubrica in “furba” seguendo quanto dice Tonino che la vede “pilotata da esperti della comunicazione che la pilotano nei comportamenti e nelle dichiarazioni”. Io rispetto alla risposta agli americani la definirei “brava” se è stata consapevole, fortunata se inconsapevole, perché era una domanda insidiosa. La bandiera americana è nata fortemente simbolica nei colori, il rosso la durezza e il valore, il bianco l’innocenza e la purezza, il blu la giustizia e la perseveranza, con l’aggiunta delle stelle che corrispondono agli Stati, attualmente 50, e delle 13 strisce, il numero degli Stati iniziali. Mentre la nostra bandiera è nata molto più modestamente… con i colori della coccarda comunale milanese o cisalpina bianco e rosso, e l’aggiunta del colore della divisa delle guardie civiche, nulla di simbolico; ma anche la bandiera francese aveva il rosso e il blu della coccarda parigina e il bianco addirittura della Casa reale dei Borboni ancora non detronizzati, altro che colori a simboleggiare “liberté, egalité, fraternità” come da me evocato per fare una battuta… Comunque la bandiera francese divenne simbolo rivoluzionario e per questo la prendemmo a modello adattandola come molti altri Stati europei. Poteva dire che i colori del tricolore sono della coccarda e della divisa milanese…. ? Mi sarebbe piaciuto avesse citato la definizione “nazionalista” insegnatami alle elementari, ma chissà cosa avrebbero risposto gli americani se ben documentati! Il “brava” alla Meloni lo manterrei per come “non l’abbiamo vista arrivare” – per citare l’espressione autobiografica di Elly Schlein, che però è venuta dai quartieri alti e non dalla borgata e si è fermata prima, almeno per ora – da novella Cenerentola, ma senza principi azzurri e magie, passando dalla Garbatella a Palazzo Chigi, accolta non nei salotti ma nelle cancellerie fino alla Casa Bianca. E mi sembra che sappia esprimersi con convinzione, semplicità e buon senso, se + pilotata da esperti la definizione di brava calza almeno come attrice. Questo sul piano umano, il giudizio politico invece è diverso, a partire dal mio europeismo convinto contro anacronistici sovranismi per fortuna attenuati; da liberale sono stato sempre dalla parte opposta della “destra sociale”, per ciò stesso incline all’assistenzialismo, e la “carta sociale” ne è un pessimo esempio con la dispersione di ingenti risorse in un intervento a pioggia del tutto inefficace al posto di interventi mirati. Per questo mi ha stupito positivamente la decisione con cui è stato smontato il “reddito di cittadinanza” che per il nome stesso attribuisce una pretesa assistenziale generalizzata cui sono contrario, ripeto, da liberale convinto. Non vuol dire “togliere ai poveri”, come dice Gero, a meno di istituire questa categoria dai 18 anni in poi, cui ci si iscrive per un vitalizio perenne, quando l’età pensionabile è stata portata da 60 a 67 anni perché non sarebbe sostenibile pur con i contributi pagati da una vita. Quelli che manifestano, anche giovani, hanno questa convinzione, che ha tolto loro ogni voglia di lavorare – tanto che sfuggono le occasioni di lavoro pur presenti – ed è questo il danno più grave che l’assistenzialismo diffuso può produrre. La dignità di cui parla giustamente Gero la dà il lavoro e non l’assistenza a chi può lavorare e deve essere aiutato a inserirsi nel mondo del lavoro con un indirizzo efficace e un sostegno solo temporaneo, senza rifiutare lavori non graditi, Rockfeller iniziò da garzone. Mi fermo qui, ho scritto anche troppo e me ne scuso.

Polizia di Stato

· Tonino Bonavita

La risposta “ evasiva ma intelligente “ è stata data dalla persona (Meloni) a un capo di stato e non dalla gallina di Cochi e Renato

Vaga da chi non ha la minima idea di cosa dire….. è stata da Gero condivida perché esprime furbizia e non intelligenza

La vedo pilotata da esperto della comunicazione, tecnica acquisita da prof.universitari per motivi di lavoro come ben evidenziato con esempi.

Non vedo l’insidia né vantaggi da parte del senatore Schumer ma semplice curiosità con la domanda sul significato dei colori della nostra bandiera alla quale come presidente di un governo ha dato coscientemente una risposta NON risposta per scarsa cultura storica nella nostra Italia, parere condiviso da milioni di italiani

Quindi non BRAVA ma furba come ho già espresso e distinto tra furbizia e intelligenza

Ricordo che la Meloni nata in una borgata centrale romana e non in una baraccopoli dove si e formata culturalmente e politicamente in una sezione politica fascista e che Fini la portò al governo Berlusconi come ministro, che da oltre 30 anni fa politica stipendiata con le nostre tasse mentre la Schlein, anche se viene dai quartieri alti ( non siamo noi a decidere di nascere, da chi nascere, quando e dove), ha scelto di fare politica e le idee, non è mai stato al governo, non ha scuola politica ormai sparite e soprattutto non si è occupa e fa politica dall’etá giovanile come invece Giorgina

La loro storia è pubblica con qualche ritocchino

Anche farsi ricevere dai capi di molte nazioni fa parte della pubblicità gratuita. Secondo me cerca di copiare Berlusconi con qualche distinguo: è donna anche se cerca di apparire ad ogni costo!

Il problema non è giorgina ma i creduloni che la votano per consentirle di governare con condannati e con un pugno di preferenze, uniti dimostrano solo che sono assetati di potere con leggi ad persona coma già successe con i governi di destra.

Con il capo dello Stato

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, sulla risposta della Meloni ho riportato l’espressione di Gero “evasiva ma intelligente” e poiché l’amico mi aveva chiesto di interpretare se lei opera in politica come “intelligente” o “furba” , ho citato la battuta di Cochi e Renato, non mi sono permesso di giudicare com’è ma come mi appare, “brava”, tra l’altro non ha risposto a un capo di Stato ma al presidente del Congresso. L”insidia della domanda sui colori della bandiera sta “in re ipsa”, nel diverso contenuto di valori su cui è sorta la bandiera americana rispetto alla nostra e a quella francese, e dire che erano i colori della coccarda milanese sarebbe stato imbarazzante, come anche citare le virtù teologali che le sono state attribuite in chiave cattolica. Mentre il nostro inno nazionale, come quello francese, è quanto mai combattivo e si addice al significato dei colori insegnatomi alle elementari ma non originario. “Tanti significati”, quindi, a very correct answer, I think! La Shlein l’ho citata per equiparazione femminile aggiungendo solo la provenienza, non la milizia politica, per lei da principiante rispetto alla lunga traversata della Meloni, alla quale va riconosciuto che qualche merito sembra lo abbia acquisito in questo percorso, anche se si hanno idee opposte alle sue. E credo che possiamo fermarci qui, ognuno resta ovviamente della propria rispettabile opinione.

·  Tonino Bonavita

Non ho scritto capo di stato ma senatore Schumer dove non interpreto circostanze necessarie per porre una domanda sulla bandiera italiana, francese o americana ad un capo di stato beccata ignorante e non BRAVA

Non intravedo bravure ma colpo di culo a causa di una legge elettorale da schifo e di accordo con la destra con ladroni condannati e nostalgini fascisti anticostituzionali e complici[ chi prende più voto governa: un pugno di voti di creduloni]

Comunque

Obbedisco !

Marina militare

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, nel primo rigo del tuo “post” cui mi sono riferito si legge “la risposta evasiva ma intelligente è stata data dalla persona (Meloni) a un capo di stato e non dalla gallina di Cochi e Renato”, di qui la mia precisazione solo incidentale, “tra l’altro non ha risposto a un capo di Stato ma al presidente del Congresso”, il senatore Schumer lo nomini al 7° rigo senza qualificarlo. Se sia stata “ignorante e non BRAVA” , come tu dici, è una tua rispettabile opinione come il resto. Compreso il tuo giudizio sulla “legge elettorale da schifo” per una quota maggioritaria al 25%, quando il “Mattarellum” con il maggioritario al 75% avrebbe consentito di cambiare la Costituzione con i due terzi senza referendum confermativo, allora come lo definiresti? Bello il tuo finale garibaldino dopo lo sfogo poco elegante precedente…

·  Tonino Bonavita

Renato caro, la frase “ evasiva ma intelligente” riportata da me nel post l’ha dichiarato l’amico Gerasio e precisamente: Una risposta evasiva, ma intelligente che……! e non mia che assolutamente rifiuto di definite Giorgina intelligente né ho definito il senatore Schumer capo di stato e non ho ritenuto di qualificarlo ma soffermarmi alla domanda.

Non credo di commettere un reato esprimendo e condiviso da milioni di cittadini che il Presidente di un governo del suo paese NON È BRAVA: me ne assumo tutte le responsabilità senza remore se questo ti tranquillizza .

Il mattarellum definito dal politologo Giovanno Sartori primo bisogna contestualizzarlo nel tempo 1993 e dopo chi ci dice che con il mattarelum gli italiani che non sono andati a votare avrebbero cambiato idea con risultati completamente diversi a livello locale?

Non ho la sfera di cristallo e non ho mai creduto ai sondaggi fatti nei cimiteri ma la storia la conosciamo

Chiedo scusa se non sono stato raffinato esprimendo delle considerazioni sui soggetti che governano il nostro paese sentimento condiviso da milioni di italiani

Il Pronipote di Garibaldi Giuseppe nostro collega e mio amico da suo nonno aveva saputo che la parola “ obbedisco” era sconosciuta al padre e che gli storici l’avevano attribuità forse per motivi politici

Comunque con te la uso volentieri

Obbedisco con serena notte.

Esercito

·  Romano Maria Levante

Caro Tonino, il cenno al tuo lapsus della prima riga sul capo di Stato l’ho fatto soltanto per inciso, non vale la pena insistervi, capita… .come non devi giustificarti per i tuoi giudizi non solo rispettabili ma espressione della tua autentica passione civile. Le leggi elettorali devono essere neutrali rispetto al quadro politico tanto che non dovrebbero venire mutate entro i due anni dalle elezioni per non adattarle alle temporanee convenienze della maggioranza. Il Mattarellum rispondeva all’esigenza di garantire la governabilità della forza politica prevalente, esigenza che non sembra sia venuta meno, l’attuale legge elettorale ne ha di molto attenuato l’effetto maggioritario; invece di un quarto i collegi uninominali sarebbero stati i 3 quarti, non credo che questo avrebbe mutato l’orientamento degli elettori, ma sei libero di pensarla diversamente. Il tuo “obbedisco” ovviamente si riferisce alla tua coscienza, che è tranquilla come la notte serena da te evocata.

·  Tonino Bonavita

Renato caro leggendo in fretta il mio post ti è sfuggito che ho scritto: …. NÉ HO DEFINITO il SENATORE Schume CAPO di STATO…. quindi nessuna matita (lapsus) né mi sono giustificato delle mie considerazioni ( i giudizi lasciamoli ai giudici unici preposti ad assolvere o condannare) ma ho confermato la mia piena responsabilità come cittadino in democrazia ancora libero nell’esprimere le proprie considerazioni

Le leggi elettorali vengono fatte dai governanti in carica ( mattarellum, porcellum, rosatellum) e sono serviti ad allontanare gli elettori dalle urne dando la possibilità con un pugno di voti a gestire quanto ottenuto dai precedenti ( PNRR)

Buon pranzo.

Alpini

·  Gelasio Giardetti

Nei campionati del mondo di scherma, svoltisi a Milano dal 22 al 30 luglio del 2023 ho seguito, con molta attenzione, le performances di Tommaso Marini che ha poi conquistato la medaglia d’oro diventando campione del mondo di fioretto. Ebbene, in questo post sto assistendo ad un interessante incontro di fioretto tra Tonino Bonavita e Romano Maria Levante combattuto a base di stoccate sulla lingua italiana, di precisazioni capillari e di politica, Stoccate portate comunque sempre in termini rigorosi di lealtà e rispetto reciproco. A mio parere il risultato conseguito è stato di una parità sostanziale non solo rispetto alle considerazioni sulla bandiera italiana ma anche sui giudizi espressi sulla Presidente Meloni che rientrano nei canoni sia della legittimità che della libertà di pensiero. Sul piano politico l’incontro tra i due protagonisti rivela una maggiore radicalità in senso negativo di Tonino Bonavita, che mi onoro di aver conosciuto in questa discussione, nei confronti della Presidente Meloni e del suo governo. Romano!!! Che dire di Romano? la sua posizione sembra indulgere sulle politiche meloniane ritenendo positivo l’eliminazione parziale del Reddito di cittadinanza, poiché a suo avviso la dignità nella vita si ottiene non con l’assistenzialismo, ma con il lavoro… già ma si trova questo benedetto lavoro? E quello che si trova è un lavoro dignitoso o è sottopagato a livello di quasi schiavitù e quindi giustamente rifiutato? L’indulgenza di Romano si sofferma anche sull’attenuazione, da donna giunta al potere, del sovranismo radicale adottato dalla Meloni prima che vincesse le elezioni politiche. Nessuno dei due protagonisti entra però nel merito del sistema politico adottato dall’attuale governo che a mio avviso è il governo più di destra che abbiamo avuto dall’inizio dell’era repubblicana che si va a porre sul gradino più alto di un pieno e incondizionato appoggio al sistema capitalistico mondiale che tanti dolori sta creando a genere umano, non ultimo la guerra in Ucraina o il colpo di stato in Niger dove vige ancora un colonialismo latente non più accettabile. P.S. Non posso omettere però di aver notato, pero, segni di nervosismo da parte di Tonino Bonavita, manifestatosi durante la discussione, nel momento in cui appella Romano come “Renato”..

Aeronautica militre

·  Romano Maria Levante

Dopo gli ultimi due post di Tonino potrei cavarmela come Totò quando schiaffeggiato da un tizio che lo chiamava Pasquale, rideva e agli amici che gli chiedevano il motivo delle risate rispondeva “Ma io non sono Pasquale! ”. Così io non sono Renato – non è sfuggito a Gelasio – e potrei evitare di replicare a Tonino, ma non mi ha certo schiaffeggiato, tutt’altro, i lapsus sono evidenti quanto innocui e capitano a tutti. Come a Tonino è capitato anche l’altro lapsus e non capisco l’insistenza nel negare nei suoi ultimi tre post di aver definito il senatore Schumer capo di stato, cosa che non mi sono mai sognato di attribuirgli, ho soltanto incidentalmente (“tra l’altro”) precisato che non era esatta la sua affermazione al primo rigo di quello divenuto il suo quart’ultimo post “la risposta ‘ evasiva ma intelligente’ è stata data dalla persona (Meloni) a un capo di stato e non dalla gallina di Cochi e Renato”, tutto qui, un accenno scherzoso nella mia battuta da lui ripresa. Come, sempre per la precisione, ho preso per una giustificazione non dovuta le sue parole “non credo di commettere un reato esprimendo e condiviso da milioni di cittadini che il Presidente di un governo del suo paese NON È BRAVA: me ne assumo tutte le responsabilità senza remore se questo ti tranquillizza”. Dinanzi a questa mia risposta ” i tuoi giudizi non solo sono rispettabili ma espressione della tua autentica passione civile” mi ha sorpreso la sua reazione “non mi sono giustificato delle mie considerazioni ( i giudizi lasciamoli ai giudici unici preposti ad assolvere o condannare) ma ho confermato la mia piena responsabilità come cittadino in democrazia ancora libero nell’esprimere le proprie considerazioni”. E ci mancherebbe non fosse così! Ho dato atto a Tonino che i suoi giudizi non solo sono rispettabili ma espressione della autentica passione civile, ma se può sembrare che in questo modo mi sono eretto indebitamente a giudice ritiro l’affermazione che voleva essere un riconoscimento positivo. Tutto questo solo per togliere ogni ombra alle mie parole, che non credevo dovessero moltiplicarsi in tanti post, come è avvenuto, e me ne scuso, avevo soltanto risposto alla domanda iniziale di Tonino ” Qualcuno speghi alla Meloni cosa rappresentano i colori della nostra bandiera e le dica che non si tratta della bandiera nera con teschio al centro”. Ho cercato di farlo con dei ricordi d’infanzia e con altre notizie, peraltro senza parlare della bandiera nera con teschio al centro che mi ricorda solo Sandokan e il Corsaro nero. Tutto qui. Nessun duello con Tonino, e così rispondo pure all’amico Gelasio, anzi Gero, dico solo che un corso di fioretto l’ho frequentato per un anno in Confindustria nei primi anni della mia attività professionale, dove il Segretario generale amante della scherma aveva fatto predisporre una palestra con tanto di maestro e, per giustificarla, l’aveva aperta ai dipendenti. Ma nessun duello neppure con Gero sul Reddito di cittadinanza, anche se confermo di ritenere il lavoro sempre più dignitoso dell’assistenza per chi è giovane e forte dai 18 anni in su e non può pretendere un vitalizio di 800 euro al mese, come un padre di famiglia con moglie e uno-due figli a carico non può pretendere un vitalizio di 1200 euro al mese come illudeva il Reddito di cittadinanza – nel quale il sussidio provvisorio e temporaneo è divenuto nella percezione dei beneficiari definitivo e permanente come si vede dalle proteste – per il semplice motivo che non ci sono le possibilità economiche per una simile assistenza in un paese dal debito pubblico alle stelle. Ma ho semplificato molto, non si può entrare nei meandri di un sistema complicato che tutti ritengono doveroso riformare per togliere tale illusione diseducativa e aiutare concretamente con la formazione e con l’incontro domanda-offerta di lavoro il corretto inserimento o reinserimento nella vita attiva. Ma temo che la “destra sociale” possa cedere alla propria vocazione assistenzialista anche se per ora sembra resistere. La mia è una visione liberale, rispettabile come le visioni diverse e opposte, questa è la democrazia, bellezza. The End! Almeno lo spero.

Bersaglieri

·  Tonino Bonavita

Chiamare Renato l’amico Romano è un solo errore di sbaglio causato dalla necessità di evidenziare l’errore di lettura del mio posto in lettere maiuscole

Con Romano da tempo ci scambiamo anche su WhatsApp pareri e considerazioni non solo sulla politica e sui politici sempre con molto rispetto delle proprie idee e tu Gelasio sei riuscito a centrare anche i nostri caratteri: bravo e grazie!

Caratteri che si sono formati con esperienze, conoscenze e frequentazioni sia nel mondo politici che sociale tra noi molto diverse

Ho portato per alcuni anni una mia nipote alla scuola di scherma nella palestra dei Parioli frequentata dalla Vezzani e ne conosco trucchi e regole

Io e Romano ( e non Renato) usiamo gli “ stuzzicadenti” al posto del fioretto

·  Romano Maria Levante

Ben detto, caro Peppino…. pardon Tonino – anche a me scappava il lapsus – con gli stuzzicadenti al posto del fioretto hai perfettamente ridimensionato le apparenti spigolosità dei nostri scambi, sinceri e più che rispettosi, da abruzzesi forti e gentili, come ha ricordato Gero in un suo recente post…

Tonino Bonavita

Virgilio Rienzo con la sua simpatica mimica: gli abruzzesi sono forti e GINTILIiii

Carabinieri

 · Gelasio Giardetti

Grazie ad ambedue i protagonisti, Romano e Tonino, di questa bella e garbata discussione. Il mio ruolo è stato quello di stuzzicare il dibattito non con appuntiti stuzzicadenti, ma con visioni alternative sulla politica, sulla storia, sul sociale. Un abbraccio.

·  Tonino Bonavita

Grandeeeeee colto, prezioso e simpaticissimo

Un abbraccio grande anche al Romano di nome e non di nascita ma di adozione come il sottoscritto

·  Romano Maria Levante

E Gero sarà d’accordo se Tonino, montoriese, lo considerassimo pretarolo d’adozione, d’altra parte Montorio è “la vetrina del Parco” e Pietracamela è nella parte più pregiata della zona integrale…

Polizia di Stato

· Tonino Bonavita

Un’altra pretarola nostra amica romanizzata Dott.ssa Gilda Giancola

·  Gelasio Giardetti

Caro Tonino, conosco molto bene Gilda essendo la cugina di mia moglie, ma anche colei che ha fatto nascere il mio primo figlio Marco all’ospedale Fatebenefratelli di Roma quarant’anni or sono.

·  Tonino Bonavita

Gilda la migliore anestesista di Roma e moglie di un mio fraterno amico chirurgo superbravissimo e richiestissimo che daFatebenefratelli fu portato all 0spedale San Carlo di Nency – bellissimi e bravi entrambi. Si separarono e Franco non c’è più da qualche anno

·  Romano Maria Levante

La  ricordo per la sua bellezza, il nome e non solo mi faceva pensare alla Rita Hayworth del film “Gilda”…

·  Tonino Bonavita

Anche suo marito Franco era bellissimo e molto, molto gettonato,

Con il Capo dello Stato, e il Ministro della Difesa

Info

Testi tratti da Facebook, pagina “Romano Maria Levante”, nei post pubblicati dal 30 luglio al 4 agosto 2023 su questo tema in risposta al primo post del 30 luglio: integrali anche nelle spaziature dei capoversi. Sono state aggiunte invece le immagini. Gli articoli citati sulla Bandiera italiana e in generale sulle interpretazioni delle Bandiere, in questo sito, sono i seguenti, di Romano Maria Levante: “Bandiera, 1. 90 artiisti italiani interpretano la nostra bandiera” 14 gennaio 2014, “Bandiera, 2. Le opere di 90 artisti, nel Sacrario delle Bandiere, al Vittoriano” 15 gennaio 2014; “Identità e bandiere, alla galleria Mucciaccia”, 1°aprile 2018, tutti e 3 sono stati ripubblicati il 4 luglio 2020 in occasione dell'”Independence day” americano con dedica al prof. Steven Ostrow del MIT di Boston innamorato dell’arte e della cultura italiane.

Il saluto alla Bandiera

Photo

Dopo le due immagini iniziali – la Bandiera tricolore che garrisce al vento seguita da quella storica con lo stemma sabaudo – due blocchi di immagini, ciascuno con la Bandiera delle singole Forze armate in successione: Marina militare, Esercito, Alpini, Aeronautica militare, Bersaglieri, Carabinieri, Polizia di Stato, alla fine di ogni blocco la Bandiera con il Capo dello Stato Sergio Mattarella, l’ultima anche con il ministro della Difesa Guido Crosetto; in conclusione, il saluto alla Bandiera e le Frecce tricolori che disegnano la Bandiera in cielo con le loro spettacolari acrobazie. Le immagini sono state tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per averci fornito l’occazione di illustrare la conversazione dei “quattro amici al bar” apparsa su Facebook senza immagini, in modo da ravvivarla con il Tricolore in varie manifestazioni delle diverse Forze armate. Nessun intento economico nè commerciale o pubblicitario, ma solo illustrativo, e qualora qualche titolare dei siti citati non gradisca la pubblicazione dell’immagine che ne è stata tratta, si provvederà subito a rimuoverla su semplice richiesta. I siti sono, nell’ordine di inserimento delle immagini nel testo: apertura: bandiere.it, facebook3; 1° blocco: lavocedelpaterazzo.jpg, esercitoitaliano.jpg, emiliaromagna.news24.jpg, format.rieti.jpg, difesa.online.jpg, siti-libero.jpg, twitter2.jpg, difesa.servizijpg; 2° blocco: nautica.report.jpg, stretto.web.jpg, gruppoalpinsangiorgiodi nogaro.jpg, centenario.jpg, spaziotorino.tubo4.jpg, facebook.4.jpg, larepubblica.it, tag24.jpg, depositphoto.jpg, aviation.report.jpg. . Grazie a tutti di nuovo.

Le Frecce tricolori