Atchugarry, 40 “eterni marmi” ai Mercati di Traiano

di Romano Maria Levante

Ai Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali,  dal 22 maggio 2015 al 7 febbraio 2016,  la mostra “Pablo Atchugarry. Città eterna, eterni marmi”, espone 40 opere in marmo, una diecina delle quali monumentali, nella cornice unica del complesso archeologico-museale dei Fori imperiali in cui le composizioni scultoree sono inserite organicamente, in esterni e anche in interni, tra ruderi e arcate in una simbiosi carica di richiami e di significati. Promossa dalla Fundaciòn Pablo Atchugarry con l‘ILA, IstitutoIitalo-Latino Americano, l‘Assessorato a Cultura  e Turismo e la Soprintendenza Capitolina ai beni Culturali, organizzata da Visiva, servizi museali di Zétema Progetto Cultura.

La cornice dei Mercati di Traiano  è straordinaria per gli “eterni marmi” di Atchugarry abbinati alla “città eterna”, abbiamo visto il Foro  romano teatro ideale per le “genesi” di Deredia,  la magia si  ripete.

Nel caso attuale l’abbinamento  va oltre l’aspetto coreografico per entrare in profondità nella concezione stessa di scultura dell’artista di grande livello internazionale, molto legato all’Italia.

Il  percorso artistico

Consideriamo intanto il suo percorso, iniziato precocemente  quando i genitori, appassionati d’arte, ne scoprirono il talento. Iniziò con la pittura, passando  poi a materiali quali legno, ferro e cemento, materiale quest’ultimo nel quale  a 17 anni crea la prima scultura, un cavallo, passando a 20 anni a “Maternitad” e “Metamorfosis  femenina”e  a temi che precorrono la sua visione futura,  come “Metamorfosis prehistòrica”, “Escritura simbòlica” ed “Estractura còsmica”,  tutte del 1974, è nato a Montevideo nel 1954.

Dopo quattro anni mostre in Uruguay e in altri paesi sudamericani, Argentina e Brasile, e viaggi in Europa:  Spagna, Francia e Italia. A Lecco a 24 anni  la sua prima personale  cui seguono mostre in varie città europee, da Milano a Parigi, Copenaghen, Stoccolma.

L’anno dopo, nel 1979, a 25 anni, la “scoperta” del marmo, che avviene nella patria di questo materiale, a Carrara, dove crea “La Lumière”, la sua prima scultura marmorea;  tre anni dopo elabora il primo progetto monumentale in quel marmo pregiato e crea su un blocco di marmo di 12 tonnellate, “La Pietà”.   Da quell’anno, 1982, si stabilisce a Lecco,  dove resterà sempre dividendosi con Manantiales dove ha sede la sua Fondazione instituita nel 2007 come luogo di incontro tra  artisti di tutte le discipline. Ma torniamo alla prima fase della sua “escalation” artistica, è del 1987 la sua prima mostra personale  di scultura, a Milano nella Cripta di Bramantino,   la presenta il grande critico Raffaele de Grada.

Meno di dieci anni dopo , nel 1996, la sua scultura “Semilla de la Esperanza” viene collocata nel parco del Palazzo del Governo uruguayano, e  la sua produzione ha raggiunto un livello tale che viene istituito il Museo Pablo Atchugarry, che raccoglie le opere e l’intera documentazione.

In Italia vengono celebrati i 20 anni  trascorsi dall’arrivo  nel nostro paese con una mostra a Milano intitolata “Le infinite evoluzioni del marmo”,   mentre l’artista dà l’avvio alla prima opera monumentale per una cittadina in provincia di Udine, Manzano: si tratta dell’ “Obelisco del Terzo Millennio”, in marmo di Carrara alto 6 metri. , e  gli viene commissionato, dopo un concorso in cui risulta vincitore, il monumento della stessa altezza di 30 tonnellate, , in marmo bianco Bernini, “Civiltà e cultura del lavoro lecchese”. Negli stessi anni, è il 2002, realizza l’opera “Ideali”  per Monaco, nel cinquantenario di Ranieri a Montecarlo.

E’ contemporaneo il premio “Michelangelo” a Carrara, la realizzazione di nuove opere ormai si alterna ai riconoscimenti e alla partecipazione a grandi mostre.

Opere, mostre, riconoscimenti

Con il complesso scultoreo “Sognando la Pace”, in 8 pezzi tra marmo di Carrara e marmo della Garfagnana, partecipa alla Biennale di Venezia del 2003, realizza  l’opera “Ascensione” per una fondazione di Barcellona, nel 2004  “Energia vitale” in marmo rosa del Portogallo per il Beilinson Center di Israele. Nel 2007, l’anno della Fondazione a lui intitolata, termina l’opera monumentale “Nella luce”, 8 metri in un blocco di 48 tonnellate per la raccolta Fontana, nel 2009 per il centenario della città realizza  “Lux y Energia de Punta del  Este”, un’opera alta 5 metri in marmo di Carrara. Ancora, nel 2011 il suo “Abbraccio cosmico” è terminato, un’opera alta 8,5 metri  da un blocco di 56 tonnellate. Stessa altezza “Movimento nel mondo” per  Kallo-Bergen in Belgio.

Per le grandi mostre abbiamo citato la Biennale di Venezia del 2003, poi nel 2005  la sua mostra al Museo delle Belle Arti di Buenos Aires e nel 2006 al Museum di Brugge in Belgio, viene acquistata l’opera “Camino Vital” dalla collezione Berardo, in Portogallo; nel 2007 in Brasile retrospettiva a Brasilia, poi a San Paolo e a Curitiba, dal titolo “Lo spazio plastico della luce” con nota critica di Luca Massimo Barbero, a San Paolo un’altra grande retrospettiva nel 2014, questa volta intitolata “A Viagem pela materia”. Nel 2008  a cura del Museo Nazionale di Arti Visive una retrospettiva delle opere realizzate negli ultimi quindici anni a Montevideo, la sua  città,

Nel 2011 prima personale a New York alle Hollis Taggart Galleries, l’anno successivo la sua opera “Dreaming New York” viene selezionata dalla Times Square Alliance ed esposta durante la manifestazione newyorkese The Armory Show Art Fair.

Con la mostra romana che si svolge per un periodo di ben otto mesi, questa intensa attività trova un momento di grande rilevanza pratica e simbolica: gli “eterni marmi” nella “città eterna”, tra ruderi antichi e di arcate, con la prospettiva dei Fori Imperiali in uno scenario unico al mondo, un set teatrale degno per opere molto particolari da interpretare con attenzione.

Nel 2013 è stato pubblicato il “Catalogo Generale della Scultura”, due volumi a cura di Carlo Pirovano, con tutte le sculture realizzate nell’intero percorso artistico lungo l’arco di un trentennio.

Le 40 sculture ai Mercati  di Traiano

Tratteggiato sommariamente questo percorso,  passaimo in rassegna le 40 sculture quasi tutte in marmo bianco di Carrara,con qualche marmo colorato e alcuni bronzi, esposte  nell’ampia superficie dei  Mercati Traianei con attenzione alle inquadrature e agli scorci; le più grandi tutte “en plein air”, alcune più piccole negli interni degli antichi mercati.

Diciamo subito che poche sono figurative, per così dire.  In particolare, “Le tre Grazie”, 1999, armonia, leggerezza, anzi lievità in un gruppo statuario di quasi 3 metri, con le tre figure che si protendono verso l’alto, stesse dimensioni e medesima sensazione in “Cariatide”, 1994, sebbene il titolo evochi qualcosa di schiacciato, l’opposto forse in omaggio a quelle del Partenone, cv’è anche una “Cariatide” in bronzo, 2006, alta più di 2 metri.

Sembrano scaturire dalla terra per protendersi in alto  “Fiore”, 1994, “Vita”, 1996, e “Natura in fiore”, 2002, quest’ultimo alto 3 metri e largo 2, come “Pomona”, 1994, e soprattutto “Vertunno”, 1997,  più ancorate al suolo anche per la loro maggiore larghezza con in Vertunnno supera i 2 metri, poco meno dell’altezza di 2,60, un’eccezione che conferma la regola della tensione verticale.

Tensione realizzata appieno in “Il grande angelo”, 2006, che vibra di forza ascensionale. Sono queste le opere di maggiori dimensioni, dei veri monumento marmorei che con le loro forme marmoree allungate proiettano lame di  luce nel loro  biancore abbagliante, uno spettacolo!

Oltre ad essere le più maestose,  sono le uniche con un titolo, tutte le altre sono “Senza titolo”, quindi l’interpretazione è lasciata all’osservatore, c’è da scoprire l’intendo recondito dell’artista che si è espresso nella forma marmorea. Le più grandi tra queste sono una composizione a forma di croce in marmo rosa del Portogallo, del 2003, alta quasi 3 metri, e alcune del 2015 di cui una in marmo di Carrara alta circa 2,5  metri, tre  in bronzo, marmo rosa del Portogallo e marmo di Carrara alte circa 2 metri. Segue una serie tra 1 metro e 1 metro e mezzo, di otto sculture. di cui 2 in bronzo, una in marmo rosa del Portogallo  e 5 in marmo di Carrara. Tutte protese verso l’alto con larghezza per lo più di 30 cm, poche di 50-60.

Infine le opere  più piccole, alte meno di un metro, le vediamo  negli spazi interni, sono una diecina,  di cui 4 in bronzo e una in marmo rosa del Portogallo, le altre in marmo di Carrara.

Significato e valore dell’opera di Atchugarry

L’impressione non cambia, la proiezione verso l’alto è evidente, e per approfondirne il significato ci affidiamo ai commenti colti di grandi esperti di un’arte come la scultura di cui ci sono giunte le maggiori testimonianze dalla notte dei tempi, per la sua resistenza all’usura del tempo. Reperti numerosissimi a Roma molto diversi dall’espressione contemporanea del nostro artista, nella quale comunque vengono trovati riferimenti storici proprio a quell’arte antichissima di trovare nella pietra “in nuce” ciò che si vuole esprimere e rivelarla lavorandola con la tecnica alimentata dalla passione.

“A quegli eterni marmi sembra ispirarsi Pablo Atchugarry – afferma Claudio Parisi Presicce –  a quelle icone riprese per linee essenziali e di cui basta un particolare minimo, un minimo frammento, un accenno di panneggio, per richiamare alla memoria un classico peplo greco o un abito romano Che ben si sposa e si ricongiunge all’aura mitica del Foro di Traiano.”. Le parole del Soprintendente capitolino ai beni culturali rendono l’atmosfera e aiutano a individuare i richiami delle opere “alla sua storia e alla bellezza eterna. Espressa nella materia. In forme nuove”.

Cerchiamo di capire come nascono queste “forme nuove” di un artista contemporaneo che va oltre la visione michelangiolesca dell’opera finita nel blocco di marmo per cui l’opera dello scultore consiste nel liberarla e rivelarla  traducendo  in una forma tangibile l’ispirazione fino a porre a confronto, ad opera compiuta, l’idea e la sua concretizzazione.

“Pablo Atchugarry fa molto di più, nell’inseguimento di tale utopia, dal punto di vista strettamente concettuale – scrive Luciano Caprile – parte da una ipotetica immagine mentale, la spoglia  di ogni identificazione concreta e ne ricerca le tracce nel marmo che sta scalpellando in quel momento. Non ha bisogno di un progetto: gli basta seguire la linea dell’ispirazione suggerita dalla materia  nel divenire del gesto, nel processo del togliere”.  Non ricerca, dunque, una figura concreta,  definita e stabile nel tempo,  ma un’impressione astratta e momentanea, che evolve con i “suggerimenti di una materia duttile” in un disvelamento progressivo che trova conferme nella stessa materia. A differenza del marmo di Carrara con altri marmi, come quello rosa del Portogallo,  le impurità e le vene cromatiche lungi dall’ostacolare tale processo,  imprimono svolte e percorsi inattesi, in tutti i casi, comunque, il rapporto con la materia è creativo e si conclude con “la felice liberazione da quell’involucro evocato dal concetto michelangiolesco”.

Questo avviene sia quanto l’artista è alle prese con opere monumentali e la materia è un blocco di marmo di diecine di tonnellate, quindi i livelli da seguire e interpretare sono molteplici, sia quando si tratta di piccole sculture nelle quali sembrerebbe  trattarsi soltanto di mera realizzazione pratica.

Il riferimento alla “città eterna” degli “eterni marmi” non è soltanto dovuto alla circostanza dell’esposizione nel set prestigioso dei Mercati Traianei.  Il marmo di Carrara della maggior parte delle opere è lo stesso che dalla statuaria classica dell’antica Roma attraversa il  Rinascimento fino al Barocco e approda ora ai giorni nostri con questo artista intriso di classicità se, come abbiamo potuto verificare, le tracce di panneggio e peplo romano sono come un sigillo nelle sue opere.

Se  poche opere sono propriamente figurative, l'”aggancio figurale”  resta come  punto di partenza ideale da cui l’artista si libra spinto dalla forza del proprio pensiero verso un sublime sempre più alto che per questo tende all’astrazione. L’altezza non va intesa sempre come verticalizzazione anche se, come abbiamo visto, è questa l’elevazione di gran lunga prevalente, nei già citati “Pomona” e “Vertunno” la forza si sprigiona in senso laterale per esprimere germoglio e fioritura. E non viene percepita solo nelle opere monumentali, ma anche nelle opere più piccole. “Come si può  constatare, conclude Caprile, il concetto di equilibrio e di armonia non viene condizionato dalle dimensioni, dagli argomenti trattati o dalla sostanza su cui viene sollecitata l’invenzione”. Sono tutti “eterni marmi” perché alimentano e insieme rappresentano “l’eternità creativa”.

Alle tante manifestazioni a Roma di questa forza potente che proviene dalla scultura classica e moderna  la mostra di Atchugarry ai Mercati di Traiano pone la sua scultura contemporanea su un livello di assoluta eccellenza nel coniugare le scelte innovative con il respiro classico dell’eternità.

Info 

Mercati di Traiano, Roma, via Quattro Novembre 94. Da martedì a domenica ore 9,30-19,30, lunedì chiuso, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso ai Mercati di Traiano – Museo Fori Imperiali e alla mostra:  intero euro 14,00, ridotto euro 12,00, residenti in Roma 2 euro in meno, gratuito per le categorie legittimate. Tel. 060608, http://www.mercatiditraiano/http://www.zetema.it/.  Per le altre mostre di scultura classica, cfr. i nostri articoli, in questo sito, ai Musei Capitolini  “L’Età dell’Angoscia” 31 luglio, 3 e 22 agosto 2015, e “L’Età dell’Equilibrio”  26 aprile 2013, “Augusto nel bimillenario alle Scuderie del Quirinale” 9 gennaio 2014, “Caligola al Vittoriano” 8 giugno 2014,“Le collezioni Zevi-Santarelli alla Fondazione Roma”  15 ottobre 2012; in www.antika.it , “L’Età dell’Equilibrio ai Musei Capitolini”  aprile 2013, “Nerone in mostra ai Fori Imperiali e al  Colosseo” 23 ottobre 2011; in  “cultura.inabruzzo.it”  “Deredia, genesi e simbolismo cosmico al Palazzo Esposizioni, Fori e Colosseo” 12 agosto 2009 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta. In apertura, una vista d’insieme con “Vertunno” e “Le tre Grazie”, sullo sfondo  l’angolo sinistro del Vittoriano; seguono, “Le tre grazie” , 1999, h 260, in primo piano, e “Cariatide”, 1994, h 230; poi, “Fiore” , 1994, h 200,  e “Vita”, 1996, h 250; quindi, “Natura in fiore”, 2002, h 300, e “Pomona”, 1994, h 260; inoltre “Vertunno”,  1997,h 260,in primo piano, e “Il grande Angelo“, 2006, h 325; infine, 4  “Senza titolo”, 2 in marmo di Carrara alternate a 2 in bronzo, alte circa 2 metri, l’ultima del 2015;  in chiusura, la vista panoramica dai Mercati di Traiano verso il Vittoriano, i Fori Imperiali sono sulla sinistra. 

Impressionisti e moderni, la Phillip Collection al Palazzo Esposizioni

 di Romano Maria Levante

La mostra “Impressionisti e moderni”, al Palazzo Esposizioni dal 16 ottobre 2015 al 14 febbraio 2016,  presenta i “Capolavori della Phillip Collection di Washington”. La collezione è una raccolta mirata di opere dell’800 e ‘900  che riunisce in una sequenza resa dalle sei sezioni della mostra le multiformi correnti artistiche rappresentate da 60 opere dal classicismo all’espressionismo astratto, selezionate tra le 3000 opere della collezione, di cui 2000 acquistate direttamente da Duncan Phillip, fondatore della Phillip Memorial Gallery di Washington. Organizzata dalla Phillip Collection con l’Azienda Speciale Palaexpo, a  cura di Susan Behrends Frank, curatrice della Collezione di Washington, Catalogo Silvana Editoriale con Palazzo delle Esposizioni.

Si  completa l’autentico  “triplete”, nel gergo calcistico,  realizzato dal commissario Innocenzo Cipolletta con le altre due grandi esposizioni aperte contemporaneamente il 16 ottobre 2015, “Russia on the Road”, con chiusura anticipata a dicembre per trasferirsi a Mosca, e “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano”.

Questo risultato straordinario è tanto più rimarchevole dopo i timori insorti con le  dimissioni del Consiglio di Amministrazione presieduto da Franco Bernabè per il mancato rispetto da parte delle istituzioni preposte degli impegni presi sui finanziamenti necessari alla gestione delle sedi espositive,  dato che non sono sufficienti le pur consistenti risorse che l’Azienda speciale Palaexpo riesce ad acquisire autonomamente. Va dato merito al Commissario di essere riuscito a realizzare quanto programmato nonostante le difficoltà determinate da tale critica situazione, finora risultate superabili. Del resto è noto che in Italia nell’emergenza si riesce a compiere autentici miracoli.

L’importanza della mostra va oltre il valore intrinseco dei capolavori presentati, per il notevole valore educativo che assume con la presentazione  di una “summa”  così qualificata dell’arte pittorica nell’800 e ‘900. Ne danno testimonianza le scolaresche che la affollano con i professori ai quali riesce agevole raccontare la storia dell’arte  con la parata spettacolare dei capolavori dei diversi movimenti artistici, e in più con l’esempio del giovane Phillip appassionato al punto di fondare un Museo e dedicarvi la propria vita con l’intento di avvicinare  il pubblico facendo del bene alla comunità in cui viveva  nella concezione che aveva della funzione sociale dell’arte.

La mostra si inserisce nel filone delle esposizioni legate alle collezioni, ricordiamo al Palazzo Esposizioni quella sull’arte americana del  Guggenheim esui capolavori dello Stadel Museum, alle Scuderie del Quirinale sulla civiltà islamica nella collezione di Al-Sabah Kuwait,  al Vittoriano sui capolavori del Museo d’Orsay, alla Fondazione Roma sulle collezioni Zeri e Santarelli.  Viene aggiunta la personalizzazione sulla figura del collezionista e sulla sua attività pionieristica nell’avvicinare il pubblico all’arte europea e americana contemporanea, quando i musei americani erano rimasti legati al figurativo e all’arte accademica. E dovevano trascorrere  dieci anni dopo la Phillip Memorial Gallery di Washington prima che si aprisse il Museum of Modern Art  di New York.

E’ un merito notevole perché seguendo la propria ispirazione e sensibilità artistica è riuscito a precorrere i tempi  aprendo il suo paese alle più avanzate forme d’arte europea e sostenendo i nuovi talenti dell’arte americana. In questo modo ha seguito la propria vocazione a creare, con il Museo,  “una forza benefica” per la propria comunità ritenendo che “l’arte ha una funzione benefica nel mondo”. Dall’apertura nel 1921,  alla sua scomparsa nel 1966,  è passato dalle 300 opere iniziali a 2000 opere, in tutte l’impronta della sua scelta personale; oggi il Museo ha raggiunto le 3000 opere.

Phillip con la Memorial Gallery antesignano dei musei moderni

Questo personaggio è Duncan Phillip, nato a Pittsburgh da famiglia benestante, trasferito da ragazzo a Washington, giovanissimo fu attratto dall’arte, voleva diventare critico e frequentava i musei con il fratello più grande  James facendo acquisti per uso personale e consigliando i genitori  che raccoglievano opere di artisti americani. La morte ravvicinata del fratello e del padre segnò la svolta, nel mettere ordine alla raccolta familiare pensò di onorare la memoria dei suoi cari creando la Phillip Memorial Gallery, un “museo intimo e raccolto”, nelle sue parole, con l’arte eternatrice anche dei sentimenti strettamente personali.

Modificò l’impronta conservatrice iniziale dopo il matrimonio del 1921 con un pittrice e la lettura di testi avanzati dei critici Bell e Fry, i suoi nuovi orientamenti si rafforzarono dopo l’incontro con Stieglitz, il fotografo gallerista che lanciò Georgia O’ Keeffe, la grande artista,  in un rapporto di vita tormentato.

Era molto personale il suo intento di promuovere  confronti tra i diversi artisti e le correnti rappresentate, un modo innovativo di stimolare l’interesse del pubblico verso una visione approfondita dell’arte. Questo risultato veniva perseguito con l’allestimento del Museo basato, sono sempre sue parole, “sul contrasto e l’analogia, in modo da riunire gli spiriti congeniali di artisti provenienti da diverse parti del mondo e da epoche diverse, rintracciando la loro comune discendenza da antichi maestri che anticiparono le idee della modernità”. Un’impostazione lontana mille miglia da quella mercantile, legata alla sua vocazione iniziale di critico e alla sua innata passione per l’arte, che lo portava a “costruire”  continui collegamenti e relazioni nel tempo e nello spazio e ad operare di conseguenza traducendo le intuizioni artistiche in acquisti mirati.

Oggi questa scelta sembra obbligata, dato che si trova nei musei attuali, ma Phillip fu innovatore e rivoluzionario allorché le esposizioni erano ordinate in base alla classificazione per autore, paese e cronologia , senza commistioni. Ecco la sua impostazione: “Epoche e nazionalità si mescolano nella nostra galleria in modo tale che i dipinti antichi e moderni acquistano rilevanza e significato grazie al loro accostamento in un contesto nuovo, in virtù di contrasti e analogie inedite”. Non è solo un aspetto classificatorio, mettendo insieme antichi e moderni, americani ed europei, ruppe le barriere che frenavano le opere contemporanee ponendole sullo stesso livello e valore delle altre rinomate.   

Phillip non mirava a costruire raccolte il più possibile complete di stili e correnti, ma  “fiumi di espressione artistica”, cioè opere con dei contenuti tali da diventare archetipi per i confronti. Cercava  “i prodigi della personalità, non ciò che può essere contenuto in un quadro, ma ciò che non può essere lasciato fuori”, proprio per il suo valore paradigmatico e personale; si impegnava nella scoperta dell'”eccellenza individuale”, scegliendo artisti che non seguivano le correnti ma si esprimevano  in modo personale.  Metteva insieme, così, “una raccolta di immagini diverse che ci dà l’impressione di incontrare e conoscere gli artisti come persone, di fare nuovi amici”.  A questo fine preferiva acquistare “numerosi esempi del lavoro di artisti che ammiro particolarmente e mi diletto a onorare, anziché un solo dipinto di una celebrità riconosciuta”. Ma la sua intuizione era tale che diventavano presto celebrità  anche loro.

Da questa apertura personale nasce un altro aspetto della sua azione meritoria nel campo dell’arte. Oltre a raccogliere le opere delle avanguardie americane e ad avvicinarle a quelle dei maestri europei, sin dall’inizio si impegnò, anche queste sono sue parole, “a incoraggiare gli artisti contemporanei , stabilendo contatti personali e relazioni amichevoli, per conquistare la loro fiducia”. 

Fu così che il Museo divenne sin dall’inizio un “centro di sperimentazione” ,  con la ricerca dei talenti  che venivano  formati nel confronto con i grandi artisti della collezione e valorizzati: “Un protettore delle arti, diceva, ha il dovere di essere vigile e aperto, e di incoraggiare l’avventura creativa attraverso n’utile collaborazione con i suoi artefici”. A questo fine svolgevano un ruolo importante le mostre.

Il percorso di Phillip nelle acquisizioni per il suo museo

Dalla  scelte concrete nelle acquisizioni di opere emergono gli orientamenti maturati nel tempo. All’inizio Daumier con la sua “Rivolta” e le sue caricature,  Puvis de Chavennet con la sua rivolta, Monet con il suo impressionismo lontano dai luoghi consueti erano tra quelli che riteneva le fonti dell’arte moderna. Seguono Courbet e Sisley, Manet e Morisot, poi le opere simboliste di Redon, Vuillard e Bonnard, da lui prediletto in modo particolare.

Le sue idee si evolvono, dopo la metà degli anni ’20 all’impressionismo segue il post impressionismo con gli antesignani della modernità iniziando da  Cèzanne che si era distaccato dalla dipendenza sensoriale e Rousseau, poi  Braque e Picasso; la strada è aperta, entrano nella collezione del Museo Ingres e Delacroix, Gris e Corot.

Ha cercato finora di  mantenere l’equilibrio tra il classicismo della forma e il romanticismo del colore, ora si sposta verso il secondo:  con il passar del tempo acquista Dufy e Rouault, poi  Degas e  Van Gogh, Kokoschka e Soutine, Klee e Kandinskij, Matisse e Morandi, De Stael e Modigliani.  

Abbiamo citato finora artisti europei, e gli americani? Sono il cuore della raccolta, attraverso  Stieglitz che nella sua “Intimate Gallery”  promuoveva cinque artisti stabili, oltre se stesso,  e un settimo che cambiava di volta in volta, entra in contatto con Dove, di cui in vent’anni acquisterà 60 dipinti sostenendolo e valorizzandone l’attività artistica; sempre attraverso Stiglitz,  Marin, altro suo preferito, e Georgia O’ Keeffe. Con questi artisti, soprattutto Dove,  si avvicina all’astrazione, che entrerà con prepotenza nella sua collezione. Definiva Marin, con Bonnard, “i due temperamenti più affascinanti dell’arte contemporanea”, le loro opere erano esposte vicine, insieme a Matisse e Utrillo nell’accostamento di  temperamenti artistici che sentiva vicini superando tutte le barriere.  Entrano poi altri americani tra cui Avery e Graham, Hartley e Lawson, Prendergast e Pollock.

 Diebenkorn fu colpito nel Museo da un’opera di Matisse – oltre che da quelle di  Bonnard, Vuillard e Dove – al punto di dire che gli era “rimasto in mente fin da quando lo vidi lì per la prima volta”, e se ne nota l’influsso nelle sue opere acquistate da Phillip, creando così un circuito virtuoso tra l’aspetto formativo e quello realizzativo del suo “centro di sperimentazione”.  Mentre per Rotchko va fatto un discorso a parte, nella sua ricerca dell’astrazione attraverso forma e colore puro  vedeva la sintesi tra l’estetica occidentale e orientale espressa con spiritualismo e trascendenza, il suo ideale. Gli dedicò una mostra nel 1960 e le sue opere le espose in modo permanente in uno spazio  a lui dedicato, rinunciando per lui agli accostamenti e alle mescolanze ma dando corpo all’altra idea, di costituire sale riservate ai “geni” come momenti di approfondimento  dei maggiori artisti.

La mostra del Palazzo Esposizioni presenta una selezione delle opere della Collezione Phillip, 60 capolavori nelle sei sale del principale percorso espositivo, quello intorno alla grande rotonda, ciascuna dedicata a specifiche  correnti pittoriche: Classicismo, Romanticismo e Realismo;, Impressionismo e Postimpressionismo;Parigi e il cubismo; Intimismo e Modernismo; Espressionismo e la natura, Espressionismo astratto.  

Nella visita si passano in rassegna le correnti pittoriche dell’800 e ‘900, una carrellata, anzi una cavalcata tra capolavori  senza tempo visti nel percorso acquisitivo di Phillip, che accresce interesse a quello insito in una sintesi artistica di così alto livello. Un’occasione imperdibile.

Classicismo, romanticismo e realismo

Con la 1^ sezione si entra nel vivo dell’arte nell’800 tra “Classicismo, romanticismo e realismo”. La ricerca dell’ideale  senza tempo dei classici era volta all’equilibrio e all’armonia, con la chiarezza compositiva data dallo stile accademico che conciliava gli opposti seguendo regole precise. Il romanticismo, invece, rompeva l’equilibrio con l’irruzione dei sentimenti e della fantasia, rifiutando le regole e le certezze per esplorare le novità, senza curare forma né rifiniture. Con il realismo una visione diversa dalle due ora riassunte,  né l’equilibrio ideale dei classicisti né la trasgressione ostentata dei romantici, ma ancoraggio  alla realtà naturale da non idealizzare né trasgredire.

La visione moderna della pittura superava queste antinomie per la compresenza dei diversi elementi, ed è la scoperta delle loro modulazioni uno dei motivi di interesse di questa sezione.

Significativo al riguardo il “San Pietro penitente”, 1820-24,  di Francisco De Goya, non c’è classicismo ma forte  realismo nella figura di contadino con una tensione emotiva di tipo romantico. 

Lo troviamo accostato a un altro “San Pietro penitente”, 1605, quello di El Greco, di due secoli anteriore,  nel segno della ricerca degli antichi maestri, anche qui realismo e drammaticità, Phillip lo considerava “il primo grande espressionista”.

Anche   “La rivolta”, 1848, di Honoré Daumier, ha una  forte tensione drammatica in un movimento popolare reso con realismo. Phillip  lo poneva al livello di Michelangelo e considerava questo “il quadro più importante della collezione”; di Daumier vediamo anche “Tre avvocati”, in cui passa dal dramma alla satira restando nel realismo compositivo poco incline alle rifiniture.

La visione romantica in Eugéne Delacroix si discosta dal realismo, non temi di attualità o sacri, ma mitologici o letterari, quindi fuori del tempo; alla ricerca di equilibrio dei classici contrappone il movimento, non ci sono contorni ma pennellate dal forte cromatismo, lo vediamo nei “Cavalli che escono dal mare”, 1860 , tra loro un cavaliere dalla tunica rossa in posa quanto mai instabile.

Espressione massima della classicità “La piccola bagnante”, 1826, di Jean-Auguste-Dominique Ingres, un vero archetipo con la figura immobile  e levigata da sembrare una statua di marmo del Canova,  statica ed armoniosa: nulla di romantico, il realismo forse è nei contorni.

Altrettanta classicità in “La pigiatura dell’uva”  di Pierre Puvis de Chavannes, 1865, in una composizione con realismo da vita quotidiana tuttavia  ispirata a soggetti dell’antichità, l’artista si era formato sull’affresco classico, i corpi pur nella diversità richiamano l’incarnato di Ingres.

Il realismo prevale nel “Balletto spagnolo”, 1862, di Edouard Manet, i danzatori posarono nel suo studio, ci sono aspetti che lo collegano a stereotipi romantici nella sua personale modernità.

Gli altri dipinti della sezione sono nature morte e paesaggi, anche in questi si possono ricercare i segni delle tre espressioni artistiche cui è dedicata la sezione.

Nei paesaggi al classicismo dell’equilibrio ambientale si unisce il realismo della rappresentazione della natura com’è,  al di là delle idealizzazioni.  Lo vediamo nei paesaggi italiani di  Jean.Baptiste-Camille Corot, “Veduta degli Orti Farnesiani, Roma”, 1826, e “Genzano”, 1843, l’artista si è formato sui classici e in questi piccoli quadri  rende la natura con precisione come si presenta nei contorni e negli effetti luminosi  dipingendo già allora all’aria aperta e non nel chiuso dell’atelier.

Invece Gustave Courbet dipinge “Rocce a Mouthier”, 1855, e “Il Mediterraneo”, 1857,  senza la serenità aprica di Corot, la sua natura è aspra e tormentata, nelle  rocce del primo dipinto come nelle onde del secondo,  con colpi di spatola che accentuano drammaticamente i contrasti. Il suo realismo romantico piaceva molto a Phillip. 

Di Antoine-Felix Boisselier “Veduta del lago di Nemi”, 1811, con l’equilibrio immobile dei classici e il realismo della visione diretta.

Accostiamo a Courbet  “Sul fiume Stour”, 1834-37 dell’inglese John Constable, i colpi di spatola sono più accentuati, con macchie di bianco che accentuano i contrasti, nessuna idealizzazione bensì rappresentazione realistica della natura con gli agenti atmosferici, frutto dei suoi studi scientifici.

La sezione di chiude con “Pesche”, 1869,  di Henri-Fantin Latour e “Vaso di fiori”. 1875,  di Adolphe Monticelli, anche queste espressioni della natura viste con equilibrato realismo.

E’ solo l’inizio,  le sezioni seguenti vanno dagli Impressionisti ai cubisti, dall’intimità dei modernisti fino agli espressionisti astratti, racconteremo la nostra visita prossimamente.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Impressionisti e moderni”,   “La Dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, fino al 15 dicembre è stato possibile vedere anche “Russia on the Road” (cfr. i nostri articoli, in questo sito, su  “Una dolce vita?” 1°, 14 e 23 novembre, “Russia on the Road” 18 e 26 novembre 2015). Catalogo “Impressionisti e moderni. Capolavori dalla Phillip Collection di Washington”,  Silvana Editoriale, 2015, pp. 166, formato 24,5 x 28,5, .dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Gli altri due articoli usciranno in questo sito il 18 e 27 gennaio 2016, con 12 immagini ciascuno. Per le collezioni e artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli, in questo sito: per i musei “Orsay”, 11 maggio 2014,  “Guggenheim”  22 e 29 novembre 2012, eper “Al-Sabah  Kuwait “ 3 e 10 agosto 2015, “Zevi-Santarelli” 15 ottobre 2012:in “cultura.inabruzzo.it”  per “Stadel Museum” 3 articoli nel luglio 2011, inoltre per gli impressionisti “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura” 27 e 29 giugno 2010 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito). 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, la Phillip Collection e i singoli artisti,  per l’opportunità offerta. Sono riportate le immagini della 1^ sezione della mostra, commentata in questo articolo, e quelle della 2^ sezione, commentata nell’articolo successivo.  In apertura,   Honoré Daumier, “La rivolta”, 1848; seguono,  Pierre Puvis De Chavannes, “La pigiatura dell’uva”, 1865, e Gustave Courbet, “Rocce a Mouthier”;  1855,  poi, Francisco José Goya, “San Pietro penitente”, 1820-24, ed  Edouard Manet, “Balletto spagnolo”, 1862; quindi, Ferdinand-Victor-Eugène Delocroix, “Cavalli che escono dal mare”,  1860, e Claude Monet, “La strada per Vétheuil”, 1879; inoltre, Paul Cézanne,  “Autoritratto”, 1878-80,e “La montagna Sainte Victoire”, 1886-87; infine, Hilaire-Germain-Edgar Degas,  “Ballerine alla sbarra”,  1900, e Vincent Van Gogh, “Casa ad Auvers”, 1890; in chiusura, la presentazione delle tre mostre “2’015. Autunno al Palazzo delle Esposizioni”, al centro il Commissario Innocenzo Cipolletta e il Direttore generale Mario De Simoni.

Cina oggi, il crocevia di 12 artisti, al Vittoriano

Romano Maria Levante

 Al Vittoriano, Ala Brasini, lato Fori Imperiali, dal 18 dicembre 2015 al 12 gennaio 2016 la mostra “Crocevia – Arte cinese contemporanea” espone 70 opere di 12 artisti  d’avanguardia la cui impronta personale si innesta sulla tradizione artistica cinese. Con il patrocinio dell’Ambasciata di Cina, della Regione Lazio e di Roma Capitale, su un progetto di Maurizio Fallace, già Direttore generale del MiBact,  di Nicolina Bianchi per “Segni d’Arte”,  e Zhui Shouli (ZhuoShuango), che hanno curato la mostra e il Catalogo, e dell’artista Ma Lin; hanno collaborato istituzioni cinesi. Responsabile della mostra Cristina Bettini, Comitato scientifico con Claudio Strinati, Maurizio Fallace e Alessandro Nicosia.

E’ una mostra inconsueta per l’arte cinese, della quale vengono esposte in genere opere tradizionali, per non parlare dei reperti di una civiltà millenaria, dalla mostra “L’Aquila  e l’Impero”  alle “Tombe cinesi del 2° sec. a. C. di Awangdui”;       ;  al Vittoriano troviamo artisti contemporanei, dopo la precedente “Visual China” con artisti moderni diversi dai 12 odierni.

La mostra è molto istruttiva,  in quanto presenta un panorama significativo e poco conosciuto delle tendenze dell’arte cinese contemporanea. Sono 12 artisti, presenti all’inaugurazione, la cui creatività si esprime in forme e stili differenti lungo percorsi anche divergenti che si intrecciano come in un “crocevia”, di qui il titolo dato alla mostra e lo speciale allestimento, strutturato come un ponte tra personalità e forme artistiche così da costituire una sorta di “labirinto” creativo.

Gli artisti sono impegnati in quello che la curatrice della mostra, Nicolina Bianchi, definisce “un coraggioso processo di reinterpretazione della loro millenaria tradizione culturale visiva”. E lo fanno con “un atteggiamento di decostruzione e ricostruzione i cui esiti convergono in questo immaginario crossover, cioè in una concreta e reale sovrapposizione di segni, forme e colori, per armonizzarli in un completo e straordinario happening espositivo”.  Per questo la curatrice, nel presentare il “racconto-performance” di “percorsi diversificati, a volte trasversali”, paragona il “Crocevia”a “un’affollata hall di una grande stazione”, dove è bello trovarsi “per cercare, tutti insieme, d’incontrarsi là dove arrivano e partono idee e creazioni”.

Entriamo in questa virtuale hall ferroviaria, veramente affollata nella presentazione della mostra, e immergiamoci nei percorsi creativi che vi convergono,  espressivi delle tendenze più avanzate, anche per l’uso di supporti tecnologici.  “Esperienze diversissime – commenta Alessandro Riva – ma attraversate tutte da un comune sentire di sperimentazione e di grande interesse per l’innovazione linguistica, pur all’interno di una grande tradizione linguistica quale quella cinese”.

Il “labirinto” espositivo che divide le piccole “mostre personali”  dei 12 artisti presenta dei varchi   che consentono di gettare lo sguardo oltre il singolo espositore, sono i “ponti” visivi di un “crocevia” fonte di continue sorprese per la varietà di stili e forme, cromatismi e contenuti.

Per meglio cogliere le differenze e le innovazioni stilistiche dei diversi artisti ci siamo mossi nel “labirinto”  seguendo il filo d’Arianna dei contenuti  assimilabili,  espressi in modi diversi: in particolare il paesaggio e la figura umana, oltre a questi soggetti altri non definibili o astratti.

Il paesaggio dalla grigia astrazione al cromatismo acceso

Sono cinque gli artisti le cui opere si ispirano al paesaggio espresso in una gamma di forme e colori.

La mostra è introdotta dai grandi pannelli di  Liu Yiyuan,  docente di pittura cinese nell’Istituto Belle Arti di  Hubei,  che si è formato sugli antichi dipinti  per sviluppare una tecnica dell’uso dell’inchiostro su carta di riso che. pur  partendo dalla tradizione Tang,  è fortemente innovativa.  

Sono intrecci di linee  e di macchie, forme e segni,  ombre e luci, strati  chiaroscurali e passaggi cromatici,  in un misto di figurazione e di astrattismo, che fanno definire le sue rappresentazioni  “Paesaggi della mente”; e come nella mente ci sono angosce e sofferenze, così le sue superfici dipinte sono percorse da interruzioni e strappi, metafora delle angosce e  sofferenze della realtà.

Le opere sono tutte sul grigio tendenti all’astrazione. Tra le più recenti  “La Via lattea”, “Occhi nel cielo” e “Scena notturna”,  del 2015,  prima troviamo “La luce del sole al mattino” e “Surpass” del 2012, “Il fiume stellato” e  “Crak”, del 2011, e la serie “Vocabolario di Jie  Zi ” del 2009.

Un cromatismo intenso è invece nei paesaggi di  Ke Dou, che inizia come architetto, poi si dedica all’arte a tempo pieno. Viene definito “maestro del segno, che sulla tela diventa quasi magicamente un magico gesto del colore”,  in composizioni dove crea architetture naturali  viste nelle diverse ore del giorno e nelle più varie situazioni atmosferiche animate dall’energia dei colori. Riva scrive che “le pennellate sembrano lingue di fuoco e il colore sembra animarsi sotto l’effetto di un incantesimo”, è la sensazione che suscitano “Il sole del tramonto”, 2015,  e “Nella vasca di loto con Tipsy”, 2014,  “La vallata” e  “L’erba selvatica nella palude”, 2013; mentre “La notte di luna”  fa brillare i filamenti nel blu dello sfondo.

I colori diventano un vero incendio cromatico cui si aggiungono  i verdi e i blu ai rossi in Xuru Kui, in arte Charei. Mentre Ke Dou è architetto, la Charei è ingegnere senior e pratica anche l’arte fotografica. In “Montagna”   e “L’ombra dell’autunno”, 2014, . le forme possono richiamare in qualche modo, anche se alla lontana, il tema del dipinto, ma il vero soggetto è  il trionfo del colore.

Non solo paesaggio, la sua sensibilità emerge dalle altre due opere esposte, “Danza secondo lo stile della dinastia Tang” e “Dietro le quinte”, 2014, che riportano ad antichi archetipi femminili, divenute vere icone della tradizione, come il murale sulla danza cui si è ispirata.

Il quarto artista ispirato al paesaggio è Liu Shangying, nato in Mongolia, nella “città dell’eterna primavera” , dove la natura è rigogliosa, vive a Pechino e insegna presso il dipartimento di pittura ad olio.  La sua pittura è molto intensa nel cromatismo e molto particolare nella forma, espressione di una ricerca personale e di una ritualità che la rende unica nel panorama delle sperimentazioni.

L’artista dipinge dinanzi ai suoi soggetti, immerso nell’atmosfera ambientale; ma la sua non è la semplice pittura “en plein air” degli impressionisti, anche se l’atteggiamento è conforme, perché si reca nelle montagne del Tibet e monta il suo cavalletto con le grandi tele in luoghi battuti dal vento e dalle intemperie ricevendo dalla natura spesso inclemente, le ispirazioni e suggestioni più intense..

 “Il suo lavoro pittorico – commenta Riva – diventa così una ricerca non solo sulla materia, sul colore, sulla luce, sulla gestualità e sul difficile rapporto  tra astrazione e rappresentazione del reale, ma anche sul rito di passaggio rappresentato dal viaggio stesso, dalla difficoltà di dipingere en plein air tra le montagne del Tibet, dalla sfida continua che si erge tra l’uomo e la natura, e tra l’uomo e l’opera d’arte”.

Sono esposte 5 opere, tutte del 2014, intitolate al “Lago Manasarovar”,  di grandi dimensioni,  m. 2,5  x 1,5 circa,  contrassegnate da numeri d’ordine: l’immagine è inquadrata come in un video,   c’è molto nero ma rischiarato da sciabolate di colori in uno spettacolare  cromatismo di contrasto.

E’ un paesaggio molto particolare quello di Xu Dongsheng,  artista presente in importanti mostre e riviste specializzate, nonché docente  a Guangzhou. “La grande impresa artistica che il grande pittore cinese compie – scrive Riva – è permettere di ‘vedere’ i propri interiori paesaggi e di proiettarli nel fluire dell’esistenza”. 

L’uso di tonalità grigie che diventano scure fino al blu e al nero, con pochi elementi che vi galleggiano sopra, crea un’atmosfera onirica alle sue opere  nel confine tra visibile e invisibile, tra  visione personale ed evidenza oggettiva.  Sempre secondo Riva”il luogo dipinto perde pian piano qualsiasi connotazione verista e di similitudine con il paesaggio reale, per trasformarsi in qualcosa d’altro”.  Ed ecco dove ci porta e come si esprime l’artista: “In un nonluogo che sfiora a tratti l’astrazione, avvolto di una luce irreale, straordinariamente seducente, , fatta di bagliori improvvisi, di luci, di squarci nel buio, di lampi di folgoranti azzurri, rossi, o blu oltremare, luci e colori che si insinuano sottopelle, mescolati a misteriose figure che sembrano danzare nell’aria come se non ci fosse più differenza tra la realtà, il sogno e la loro rappresentazione pittorica”.

Non si potrebbero descrivere meglio le opere esposte,  tutte del 2015: “Il grido interiore” e “Le trasformazioni dell’atmosfera”, “Il rosso della manica non copre la luce” e “Doppio serpente dell’antica Cina”;  c’è anche “Omaggio a Klein“, una rete sospesa con in primo piano il blu oltremare o “blu Klein”.

Non  sono immagini di paesaggio, tanto meno interiore,  ma della fauna che lo popola le due opere di  Xiangbin Liang, “Scimmia che guarda la montagna”, n. 1 e 2, 2014, lo sguardo è così intenso da rivelare una profonda umanità, d’altra parte la scimmia  occupa nell’evoluzione il gradino prima  dell’uomo per cui lo riteniamo un passaggio appropriato alle opere con figure umane.  

L’artista è anche scrittore e la sua pittura è intimamente legata alla natura con cui vive a contatto e intende portare nelle sue opere: i due primi piani dei volti di scimmia, assorti nell’ammirare la meraviglia delle montagne che si riflettono chiaramente nei loro occhi si inseriscono in una produzione  in cui si trovano  foreste abitate da scimmie e paesaggi innevati, nella celebrazione della bellezza della natura. Il suo è un mondo primordiale incontaminato,  con un cromatismo brillante e luminoso  per esprimere i colori della vita, del resto mette in opera la propria  “teoria della pittura selvaggia”. Può  sembrare l’idealizzazione di un  mondo sparito, invece  è una realtà presente che va a scovare, fotografandola per  renderla in forma pittorica:  non è un “paradiso perduto” ma che si può perdere.  Aggiunge Riva: “La pittura di Xiangbin Liang, apparentemente semplice  e immediata, è allora anche un mezzo per farci ragionare su ciò che è  vero e ciò che non lo è più nell’era della comunicazione diffusa , sul valore del mezzo pittorico come medium illusionistico, capace di far librare l’immaginazione oltre il reale , pur restando con i piedi perfettamente piantati nella realtà”.  Non ci sono solo le montagne  negli occhi delle scimmie!

 Vediamo infine un paesaggio montano, di stile figurativo, opera di Meng Bin, ma questo artista espone soprattutto dipinti di figure umane, e sono questi che intendiamo commentare.

La figura umana in pittura e scultura

Con Meng Bin, dunque, troviamo nell’esposizione la figura umana, soprattutto femminile ma anche maschile in  una serie di dipinti del 2014: sono 3 composizioni  con diverse figure intere e 2 dipinti con figure a mezzo busto. “Le studentesse”  sono 5 figure di donne in pantaloni e gonna,  “I coetanei” 2 figure,  “La famiglia” una coppia con un bambino. “Ritratto di Lao He” e “Ritratto di Lao Xe”  rappresentano i due soggetti, maschile e femminile, ripresi da soli.

Sono dipinti di notevole densità materica con le figure viste dall’alto, “come se il loro presentarsi dal basso – commenta Riva – fosse una spia della crisi di un’intera generazione. La sua pittura non riproduce, comunica”.  Le “studentesse” e i “coetanei”  esprimono le ansie e le attese della loto generazione, nella “famiglia” sembra di intravedere una maggiore serenità, come un approdo sicuro.  Questa  è solo una componente, si nota anche la cura nel soffermarsi su aspetti esteriori, come l’abbigliamento e la positura,  quali espressioni della personalità dei soggetti come singoli e come collettività generazionale. 

L’artista, laureato all’Accademia Belle Arti di Guangzhou, dove ha conseguito il Master, fa parte del Comitato di pittura a Olio dell’Associazione Artisti di Henan, ha viaggiato in Europa per studiare l’arte europea, e lo si vede da quello che viene definito “espressionismo estatico”.

Figure umane e allegoriche anche nelle opere di Xie Heng Qiang, ma in forma di piccole sculture in ceramica colorata, quasi icone rituali di archetipi primordiali ma con un tocco di modernità, in un connubio tradizione-innovazione  espressione della sua intensa creatività.

E’ come se l’artista volesse comunicare qualcosa che viene da lontano ma che tocca da vicino, in un’atmosfera di mistero con un senso quasi religioso: “I suoi piccoli antieroi – osserva Riva – che sembrano saltare fuori da un scavo archeologico di un paese a noi sconosciuto,  conservano l’intensità degli eroi tragici antichi, con le loro espressioni a volte dolenti, a volte felici, a volte perse in sogni che non conosciamo”.  E cita “gli occhi sproporzionati come quelli dei moderni personaggi dei cartoon”,  nei quali  aleggia “un aspetto inquieto e sarcastico”.

Lo si nota nella  opere  meno recenti, come “Gemello n. 2”, 2007 , “Il paese degli Angeli”, 2010, e “L’Angelo sulla nuvola”, 2011,  mentre le più recenti, “La canzone di Samaria”, 2014, e “L’illusione”, 2015, mostrano un ripiegamento interiore  intenso e sofferto.

Pure  questo artista  ha una formazione accademica, e insegna Arte della Ceramica nella locale Università, le sue opere in ceramica sono presenti nelle mostre e nelle riviste specializzate.

Sono sculture anche quelle di Huang Yong, che insegna all’Accademia delle Belle Arti della sua città nel cui museo, oltre che in molte collezioni private, sono esposte le sue opere.  Non sono in  ceramica, come per l’artista precedente, ma  in resina e legno, e rappresentano il corpo umano pur se con titoli psicanalitici, come le 2 intitolate “L’incubo del sogno”, 2015, e le 3 “La voce sul legno”, 2014: sono nudi  improntati alla classicità come antichi bassorilievi,  anche qui con un tocco di modernità.  “Il corpo stesso, è ancora Riva,  diviene così un inesausto labirinto  di segni e di linee che si rincorrono sulla superficie dell’opera , quasi a rappresentare, con il loro intrico di segni, un simbolo della complessità della stessa natura umana”.

Le altre  ispirazioni e forme espressive

E siamo giunti agli artisti la cui ispirazione e forma espressiva è lontana da quelle fin qui considerate: si va dai riferimenti tangibili a realtà presenti alle sperimentazioni più varie.

Sono reali e tangibili le immagini urbane di Fan Feng, come “Cavalcavia” e “Si affacciano sulla città”, 2014, in inchiostro su carta: addensamenti che evocano gli agglomerati cittadini in una visione scenografica, dall’alto, non priva di inquietudine per la loro invadenza senza freni  L’artista, infatti, non si pone come osservatore neutrale, ma si immerge nello spazio che rappresenta quasi fosse sull’ideale palcoscenico di una delle moderne megalopoli orientali, “vere e propri simboli del presente tecnologico e urbano iperaccelerato della Cina di oggi” che, nelle parole di Riva, “vanno a formare le silhouettes di grandi paesaggi urbani caotici e strabordanti, pieni di palazzi, di insegne, di strade, di pali, di fili e di sopraelevate che si intrecciano e si sovrappongono una sull’altra”.

Ha un “cursus honorum” prestigioso, oltre ai titoli accademici e alle cariche nelle istituzioni artistiche ha conseguito il livello più elevato della Certificazione nazionale per l’arte fino a ricevere un sussidio permanente speciale del governo  per il suo contributo al mondo dell’arte.

Colleghiamo all’alienazione urbana le opere di Li Xiangyang, “Il volo”, sono 4 dipinti del 2013-14   con delle automobili in fila con autista, in ogni dipinto una  delle vetture  è sollevata, mentre ancora più in alto è sospesa, in orizzontale, una persona,  una è nuda con le braccia aperte come un crocifisso; sopra, nel cielo azzurro, si staglia una struttura viaria, sotto c’è uno spaccato del sottosuolo con le radici. Come interpretare questa immagine ripetuta quattro volte con delle varianti? L’artista, che vive a Pechino dove insegna alla scuola del cinema, si è laureto al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, e indubbiamente c’è un chiaro taglio cinematografico nelle sue composizioni, sembrano sequenze di un film. La persona sospesa non riflette il volo onirico ed estatico alla Chagall, ma nella sua rigidità rende l’angoscia di una condanna; mentre i due livelli della composizione sembrano marcare il distacco tra le solide tradizioni espresse nelle radici in bianco e nero e la caotica realtà odierna resa con i colori intensi di un’invasione violenta.  Del resto,  è esposta un’altra opera, dal titolo eloquente “Il vuoto”, forse come seguito sconsolato del “volo”.

Vogliamo concludere con  Ma Lin,  la cui figura si distacca dalle altre:ha studiato  in Italia, frequentando la “Scuola libera di nudo” e diplomandosi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, vive e lavora nel nostro paese,  e ha collaborato attivamente alla mostra  attuale come ad altri eventi artistico-culturali tra Italia e Cina, ha esposto anche alla  mostra al Vittoriano “Virtual China”.

Infine 5 installazioni pittoriche realizzate inserendo i dipinti in supporti di ferro e legno asiatico, nelle quali una mano, dei corpi e dei volti, questi ultimi in miniatura, sono inseriti in composizioni  iconiche con l’aggiunta di piccole farfalle come metafora di libertà e rigenerazione dinanzi all’oppressione  dei frammenti di parvenza umana compressi e isolati nei suoi istogrammi scuri:  è l’alienazione della vita moderna che riduce le possibilità di dialogo e alimenta i conflitti, ma nonostante  ciò la spinta al dialogo tra identità culturali diverse è portata dalle  componenti antropologiche e spirituali che sono alla radice della storia dei popoli.  Per questo, “Dialogo” e “Voglio parlare” si intitolano  3 sue opere del 2014 e 2015;  dell’ultimo anno abbiamo anche 2 installazioni intitolate “Rivelazione e anti-rivelazione”.

Titoli che sembrano un sigillo della mostra, come occasione di dialogo tra diverse culture e forme espressive, e volontà di parlare nel senso di comunicare, esprimersi. La mostra è stata una rivelazione di  aspetti ignorati dell’arte cinese, dove la contemporaneità si salda alla tradizione in una  sperimentazione  che si nutre di apporti occidentali innestati sull’antico e affascinante linguaggio del lontano Oriente. 

Info

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali. Tutti i giorni, compresa la domenica, ore 7,30-19,30, entrata fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664, 06.69923801; fax 06.69200634. www.comunicareorganizzando.it.  Catalogo “Crocevia. Arte cinese contemporane”, dicembre 2015, pp. 122, formato 22 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre sull’arte e la tradizione cinese, cfr. i nostri articoli: in questo sito “Awangdui, tombe cinesi del 2° sec. a. C. a Palazzo Venezia” 17 gennaio 2015, “Visual China. Realismo figurativo contemporaneo”17 settembre 2013; “Oltre la tradizione. I Maestri della pittura moderna cinese”  15 giugno 2013;  lo scultore “Weishan” e l’abbinamento Qi Baishi -Leonardo 24 novembre 2012; la “Via della Seta” il 19,21 e 23 febbraio 2014; per l’arte e la cultura cinese in “notizie.antika.it” sulla mostra “L’Aquila e il Dragone”  4 e 7 febbraio 2011; in “cultura.inabruzzo.it  sull'”Anno culturale cinese”  26 ottobre 2010,  e  2 articoli sulla “Settimana del Tibet”  21 luglio 2011 (tale sito non è più accessibile  gli articoli saranno trasferiti in altro sito); infine in questo sito, “‘Incontro all’Ambasciata cinese”  1° aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state ripreseda Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare l’organizzazione cinese e i singoli artisti, per l’opportunità offerta. Viene riportata una immagine per ciascuno dei 12 artisti nell’ordine in cui sono citati nel testo. In apertura,  Liu Yiyuan, “Vocabolario di Jie Zi”, 2009; seguono, Ke Dou, “La notte di luna”, 2014, e Xuru Kui, “Montagna”, 2014; poi, Liu Shangying, “Il lago Manasarovar”, 2014, e Xu Dongsheng, “Doppio serpente dll’antica Cina”, 2015; quindi, Xiangbin Liang, “Scimmia che guarda la montagna”, 2014, e  Meng Bin, “La famiglia”, a sin, con una “Studentessa”, a dx; inoltre, Li  Xiangyang, “Il volo 3”, 2014, e Xie Heng Oiang, “L’illusione”; 2015; infine, Huang Yong, “L’incubo del sogno”, 2015, sulla parete “Occhi nel cielo”, 2015, di Liu Yiyuan, e Ma Lin, “Voglio parlare”, 2014; infine, Fan Feng,  “Si affacciano sulla città”,a sin., “Cavalcavua”, a dx, 2014;  in chiusura, la presentazione della mostra, con il rappresentante cinese  (al microfono  l’interprete) e  Alessandro Nicosia (dietro). 

Franchi, l’orma del cerchio, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, dal 20 novenbre 2015 al 7 febbraio 2016,  la mostra “L’Orma del Cerchio. Fausto Maria Franchi orafo artista”, espone  i suoi gioielli artistici, vere “sculture per il corpo” , gli argenti  con cui ha realizzato soprattutto vasellame pregiato, e le sculture vere e proprie in cui non ha mancato di cimentarsi. E’ una mostra antologica, le opere coprono un ampio arco temporale,  dall’inizio degli anni ’70 fino al 2015. La mostra è a cura di Mariastella Margozzi, come il Catalogo bilingue Gangemi Editore, curato con Lucia Sabatini Scalmati

Una mostra particolare, con i gioielli realizzati da un orefice che è anche scultore, quindi non sono assimilabili a quelli, ad esempio di Bulgari e neppure di Buccellati, perché le sue sono “sculture per il corpo”, quindi si differenziano nettamente dai preziosi ornamenti che hanno resi celebri i due gioiellieri.

Non solo gioielli, ma anche argenterie e sculture vere e proprie, però dai gioielli si deve partire per conoscere un artista che, a differenza degli scultori in senso stretto, attribuisce al materiale usato un valore primario: non cerca di estrarne la forma che vi vede imprigionata considerandoli un ostacolo da rimuovere, ma al contrario si propone di valorizzarne ulteriormente la nobiltà aggiungendoci la sua arte senza sottrarre nulla della preziosità del materiale, anzi accrescendola.

Il richiamo alla natura  e alla cultura

Un approccio materico, sembrerebbe il suo, anche se utilizzando un materiale nobile e prezioso. Tutt’altro, come sottolinea Mirella Cisotto Nalon nella sua attenta riflessione sul “gioiello come evento plastico”. Perché un evento e non un oggetto di abbigliamento per quanto prestigioso e di valore?  “Ogni opera di Fausto Maria Franchi sembra scaturire dalla relazione tra la sfera della natura e quella della cultura”, relazione che  va analizzata. 

Il richiamo alla natura viene dalle forme che rimandano a quelle primarie, curve e avvolgenti, di origine organica; la cultura è insita nei saperi sedimentati che sono alla base della sua maestria creativa oltre che nei continui riferimenti colti nelle intitolazioni, in particolare delle sculture.

La rotondità delle linee rimanda al barocco, in cui è stato immerso vivendo a Roma dove si è formato frequentando il Museo artistico, ramo oreficeria, con la guida dei professori Orlandini e Gerardi, e ampliando la sua visione con viaggi in diversi paesi europei e negli Stati Uniti. L’oreficeria di Mario Masenza in via del Corso era frequentata da artisti dell’informale, tra cui il grande Capogrossi, si trasferivano nei gioielli le suggestioni delle tendenze più avanzate.  Così nella forma sostanzialmente circolare, ma tendente ad aprirsi, entrano segni e filamenti, trame e intrecci per cui nel momento in cui sembra conchiusa, appare potenzialmente protesa all’infinito.

Natura e cultura, dunque, alla base delle sue forme in un rapporto costante con lo spazio soprattutto nelle sculture, oltre che con la luce, e non solo.  Perché, aggiunge la Cisotto Nalom, “è lecito vedere nel tempo la dimensione a cui esse in definitiva appartengono e nella quale, idealmente, si protende la loro forma”.

Il cerchio nell’arte di Franchi

Detto questo, ulteriori motivazioni di grande interesse sono fornite da Mariastella Margozzi, che chiarisce anche le origini del  titolo dato alla mostra. Abbiamo già parlato delle forme tendenzialmente circolari del richiamo primordiale, ma c’è di più. Il titolo lo ha voluto l’autore per la sua ricerca costante, fin dall’inizio della sua vita artistica, svolta intorno al cerchio, figura geometrica  e naturale generata dal vortice cosmico primordiale generatrice a sua volta delle forme più semplici come di quelle più complesse, in primis degli anelli, dal forte valore simbolico a livello cosmico con le orbite dei pianeti e a livello umano, come segno di decoro ornamentale e anche di valori ideali come il legame sentimentale fino a quello matrimoniale

In passato, in una mostra sempre alla Gnam, quella delle copertine di “Mass Media”, ci siamo appassionati alla genesi e al significato attribuito a un’altra figura geometrica basilare, il quadrato, e ne abbiamo esplorato le molteplici interpretazioni. La Margozzi ci aiuta ora a fare la stessa cosa con il cerchio. 

Oltre ai contenuti primordiali e ideali cui abbiamo accennato, si consideri che fin dall’uomo preistorico la visione della luna ha proiettato l’immagine del cerchio, poi divenuto ruota, la scoperta più rivoluzionaria dopo il fuoco, quindi il cerchio è stata la matrice dei vasi in cui si sono raccolti e custoditi gli elementi essenziali per la vita, dall’acqua agli oli, dalle derrate al grano;. I piatti della vita quotidiana sin dalla preistoria sono circolari, e sono rimasti tali, gli scudi erano circolari e così la campana, che propaga onde sonore circolari come sono circolari i cerchi che si formano quando si getta in acqua un sasso.

In senso figurato circolarità sta per apertura, nell’informazione e nelle relazioni umane in generale. Anche per questo l’attrazione che l’artista ha provato istintivamente per la forma circolare lo ha portato a “superare l’opportunità dell’oggetto e a spaziare nell’universo misterioso e misterico dei segni e dei simboli”.  Ha potuto farlo scegliendo la materia adatta ad esprimere questi contenuti e nobilitare la forma.

I materiali preziosi e i contenuti moderni

Nel suo approccio di orafo scultore non poteva che essere un materiale prezioso, oro e argento; nei contenuti che intendeva dare alla sua opera l’informale e le altre correnti avanguardia che crescevano intorno a lui nell’ambiente artistico romano degli anni ’50 e ’60, erano  la via naturale. E’ riuscito a conciliare e a valorizzare insieme queste due direttrici, apparentemente divergenti perché c’era anche l’arte povera tra le avanguardie mentre la sua era un’arte ricca, che cozzava con le concezioni correnti; tanto che si tendeva a sostituire il gioiello di materiali preziosi con il monile di acciaio, ferro e pietre dure, per rendere democratico l’ornamento mettendolo a disposizione di tutti e non solo del censo privilegiato.

L’artista si è rifiutato di degradare il gioiello a semplice “scultura per il corpo”  di  materiale povero, è stato sempre legato alla sua preziosità e purezza  per arricchirne la nobiltà con il valore aggiunto dell’arte. In lui è il materiale prezioso a suggerire il contenuto dell’opera, non l’inverso come avviene nella scultura.  Masenza, nella cui gioielleria nascevano i lavori di Franchi, riceveva anche l’apporto creativo di artisti come Afro e Mastroianni, Novelli e Consagra della vivace avanguardia romana, in una sinergia vincente tra le idee più avanzate e le realizzazioni più preziose.

I gioielli di Masenza in via del Corso assurgevano a vera arte, tanto che i “gioielli d’artista” furono esposti in un’apposita vetrina  allestita con l’opera e il contributo di Umberto Matroianni nella stessa Galleria Nazionale d’Arte Moderna dove ora si svolge la mostra dopo che  nel 1967  la direttrice Palma Bucarelli, li presentò nel padiglione italiano dell’Expo d Montreal insieme alle grandi sculture.  Un certo numero furono donati alla Bucarelli dagli autori e seguirono la direttrice al termine della sua attività nella Galleria nel 1975, ma una dozzina circa sono restati nel Museo.

“Questo passato di attenzione istituzionale al ‘gioiello’ d’artista e l’intenzione di rinnovare l’interesse sul genere – afferma la Margozzi – è il motivo che sta alla base della mostra  dedicata oggi a Fausto Maria Franchi, artista nobile come le opere che prendono vita dalle sue mani, dalla sua fantasia, dalla sua cultura, ed esecutore esemplare di oggetti che testimoniano la trasversalità delle forme così come della immutabile identità di gioiello e materia preziosa”.

Non c’è solo l’arte ad aggiungersi alla preziosità della materia,  ci sono le  “tecniche di trasformazione ‘amorevole’ del metallo” che vanno dallo sbalzo al cesello, dal niello alla doratura al mercurio. A queste “egli aggiunge anche la sapienza della smaltatura, altra tecnica antica, che spesso pone a coronamento di quel processo alchemico che è la motivazione prima di ogni sua scelta operativa”. E non è un aspetto secondario, anzi diventa qualificante: “L’alchimia, come necessità di trasformare la materia fino alla sua sublimazione e di renderla unica nella sua forma compiuta è sicuramente la scienza umanistica che più si adatta a descrivere il processo creativo dell’artista orafo”.

La Margozzi precisa: “Fausto Maria Franchi a questo processo di trasformazione aggiunge e ribadisce la necessità del recupero del significato e della simbologia dell’oggetto prezioso, il suo continuare a corrispondere a precise categorie espressive”. Conclude così: “E così il cerchio diventa anello, collana, campana, figura onnicomprensiva di forma e spazio, di materia e idea”.  Anche di luce e di tempo.

E’ proprio il caso di dire che il cerchio si chiude, si può passare a una rapida rassegna delle opere esposte cominciando dai gioielli, nei quali si concretizza quanto osservato fin qui. Ma prima qualche altro dato biografico con le sue benemerenze.

Nel 1964 ottiene il 1° premio al Concorso nazionale d’Oreficeria del Ministero Industria e Commercio, diviene presidente degli Orafi e membro della Presidenza Nazionale dell’Artistico alla Camera di Commercio, nel 1993 promuove, dirigendola fino al 2008, la mostra annuale “Desideri preziosi” indetta dalla Camera di Commercio di Roma al Tempio di Adriano”,  membro permanente della sua Commissione periti ed esperti. Nel 2003 riceve l’onorificenza “Maestro dell’artigianato”,  nel 2011 viene invitato a partecipare all'”Omaggio degli artisti a Benedetto XVI nel 60 esimo di sacerdozio, nel 2012 progetta il concorso internazionale “Gioielloinarte” a scadenza triennale.

Interminabile la serie delle esposizioni  a cui ha partecipato, 110 dal 1964 al 2015, di cui un terzo all’estero,  in vari paesi europei, nell’America del Nord e del Sud, in Giappone.

Dopo questi semplici accenni di un “cursus honorum” prestigioso, la parola alle opere esposte.

I gioielli, le “sculture per il corpo” 

La più recente è “Girotondo”, un bracciale in argento del 2015 con la tecnica delle coppette strozzate e cesellate, e varie da banchetto. Le tecniche da banchetto,  insieme al traforo,  sono anche alla base della realizzazione della serie  “Affinità elettive 2“, del 2014, il titolo si riallaccia al tema culturale, richiama la celebre opera di Goethe: è una parure di anello-collana-bracciale in oro-argento-argento ossidato nero, con un secondo anello e bracciale, a strati sovrapposti con la contrapposizione cromatico del giallo, bianco e nero in uno stile omogeneo dalle linee moderne. Nello stesso anno orecchini di forma diversa, molto frastagliati, come l’anello in argento del 2013 in argento e smalto, e le “Affinità elettive” del 2010, due spille una in oro  e l’altra in argento, e un anello d’argento con rame e acciaio acmonital; nel 2009 troviamo un anello d’oro, stesso titolo.

Gli altri titoli sono fantasiosi, nel 2014 il ciondolo “Strano concetto”, nel 2013 le collane “Stante” e “Dove vai”, gli anelli  “Allegro” e “Mare”, il pendente “Trasgressione” e il ciondolo “Positivo-negativo”, oltre ad oro e argento troviamo rame e corniola, acciaio e legno. Nel 2011 la spilla “Carrara” e nel 2010, oltre alle spille e all’anello delle “Affinità elettive” già citati, “L’ospite”  bracciale in oro con l’aggiunta di diamanti, che troviamo anche nel ciondolo “Ebla” del 2006, negli anelli “Elisabetta” del 2004, e  “Porta dei ricordi” del 2002; di quest’ultimo anno due anelli d’oro in fusione a cera persa, “Inizio”, “Inizio della storia”, e soprattutto “Omaggio a Fontana”, anello d’oro con una fessura centrale in metacrilato verde in omaggio al sigillo inconfondibile dell’artista.

la galleria di gioielli risale agli anni ’80, con la spilla “Moderato“, 1985, e il girocollo”Andante”, 1980,  e agli anni ’70, con gli anelli “Struttura”, 1975, “Scultura”, 1972, anno nel quale realizza anche il girocollo “Gioco antropomorfo”, in fusione  a cera persa con l’aggiunta di smeraldi e diamanti nelle punte frastagliate di una  composizione spettacolare.

Gli argenti e le sculture

Con gli argenti ha modo di esprimersi compiutamente la sua passione per il cerchio trattandosi di articoli di questa forma, ma alle forme arrotondate aggiunge dei terminali molto caratteristici. Lo vediamo nella serie “Pesce rosso”, del 2011, una caffettiera, zuccheriera  e tazzina la cui superficie è in sbalzo e cesello, con smalto a fuoco, Lo stesso nel vaso “Sto-colma“, 2009,e nella brocca “Fontanabianca 2”, 2008, titolo che troviamo anche in una brocca del 2002; sempre del 2008 anche i vasi “Birichinata” e “Sombrero” , del 2007  il vaso  “Gallo” , mentre nel 2004 troviamo la ciotola “Martello matto” e il piatto “La smorfia”, testimonial della mostra, che esprime la centralità del cerchio; mentre la teiera “La via del te”, del 2000, aggiunge alla sfera centrale un viluppo di tentacoli alla Laocoonte. Piatti molto lavorati sempre a sbalzo e cesello negli anni ’90, da “Occhi memori”, 1994, a “Dolci lacrime”, 1992, a  “Gioco primitivo”, 1990.

Orafo scultore in materiali preziosi abbiamo detto essere la sua attività artistica prevalente, ma vediamo esposte anche sculture in bronzo fino  a70 cm di altezza. I riferimenti culturali sono ancora più espliciti, le intitolazioni esprimono in modo diretto i contenuti e motivi ispiratori.

Vale per la serie del 2014, “Studio da Guernica”, 5 piccole sculture che richiamano le forme picassiane, mentre altrettanto evocativa la serie di 5 sculture più grandi  “Una campana per Erasmo da Rotterdam”, del 2009, anche con il cuoio,  entrambe richiamano alla memoria echi lontani. Tra queste due serie le 2 sculture del 2013, “Il trionfo di Adriano”,  che si dispiega anche in orizzontale, con un riferimento al passato altrettanto esplicito; andando più indietro, “Battaglia ungherese”, 1985, in bronzo patinato verde, le 2 in bronzo “Lettura dell’Angelo di S. Andrea della Valle”, 1980,  e le 3 “Forme” del 1977  con cui si conclude l’intera mostra. Con queste forme e rimandi, secondo la  Cinotto Nalon, “il suo scopo non sembra essere quello di recuperare un repertorio di pur seducenti archeologie formali, quanto piuttosto di portare in superficie memorie vive ed operanti”.

Il commento più appropriato a commento delle immagini che abbiamo sommariamente descritto ci è sembrato quello del figlio Enrico, che ricorda come il padre da bambino  gli scrisse queste parole dedicandogli una decorazione pittorica: “Sorridi, sorridi, sorridi sempre perché quando sorridi sei più vicino a me”.  Ecco come Enrico Franchi parla del padre artista: “Un turbine di idee tangibili, volanti, sorridenti, cupe, colorate, musicali, fantasiose; parole che bisogna saper ascoltare; reali e irreali, come il suo essere sempre giocoso, la sua giovinezza nell’anima, i suoi argenti tirati a martello; martello che sembra colpire   caso una lastra, ma con ritmo preciso, meditato, magico”. 

Ebbene, dopo aver visto le opere esposte, nella loro intrigante originalità,  sembra anche a noi di vedere l’artista  nel suo impeto creativo. Alle prese con metalli preziosi per aggiungervi qualcosa di ancora più prezioso, la sua arte scultorea. 

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma. Da martedì a domenica ore 8,30-19,30, entrata fino  a 45 minuti prima della chiusura; lunedì chiuso. Ingresso euro 8 (mostra + museo), ridotto 4 euro per i giovani UE 18-25 anni, gratuito per i minori di 18 anni e altre categorie previste. http://www.gnam.beniculturali.it/ Tel. 06.32298221. Catalogo “L’orma del cerchio. Fausto Maria Franchi orafo artista”,  a cura di Mariastella Margozzi e Lucia Sabatini Scalmati,  Gangeni Editore, novembre 2015,pp. 96, bilingue italiano-inglese, formato15 x 21, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per il “quadrato” cfr. il nostro articolo in questo sito “Mass media, 27 artisti sul quadrato alla Gnam”  23 marzo 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Gnam, che si ringrazia, con i titolari dei diritti. In apertura, la vetrina con i gioielli; seguono, “Affinità elettive n. 2”, collana oro-argento-acciio,  2014, e “Ironia della storia”, anello oro, 2002;  poi, “Carrara”, spilla  argento-acciaio, 2011, e “La via del te”, teiera argento, 2000; quindi,  “Fontanabianca”, brocca argento, 2002, a sin., con “La smorfia“, piatto argento, 2004, a dx, e “Sombrero”, vaso argento, 2008; inoltre, “Pesce rosso”, caffettiera argento, 2011, e “Battaglia ungherese”, scltura bronzo, 1985; infine, “Lettura dell’Angelo di S. Andrea della Valle“, scultura bronzo, 1980, e “Il trionfo di Adriano”, scultura bronzo 2013; in chiusura, “Studio di testa”, scultura bronzo, 1980.

Alice, le meraviglie della favola, nella galleria RvB Arts

di Romano Maria Levante

Un’altra “Christmas Collection”, questa volta tematica, è la sorpresa natalizia di Michele von Buren ai visitatori della galleria  RvB Arts, sempre più affezionati alla scuderia di artisti le cui opere su “Alice in Wonderland” sono esposte dal 6 dicembre 2015 al 9 gennaio 2016  nello spazio di Via delle Zoccolette con l’appendice della sede dell’Artigianato Valligiano nell’adiacente Via Giulia.  E’ un caleidoscopio di interpretazioni della celebre favola,  che lascia incantati  grandi e piccoli per la ricchezza figurativa e cromatica delle immagini evocative del mondo fiabesco. Il programma “Accessible Art”  aggiunge così una nuova tessera al mosaico di mostre con le quali cerca di far entrare  l’arte contemporanea nell’ambiente familiare  come complemento pregiato dell’arredo domestico a un costo moderato. Ecco gli 11 artisti espositori, i quali fanno parte della squadra di 20 pittori, 5 scultori e 13 fotografi che fa capo stabilmente alla galleria RvB Arts: Evita Andùjar, Tania Brassesco con Lazlo Passi Norberto, Lorenzo Bruschini e Lucianella Cafagna, Roberto Fantini e Clara Maffei, Maiti e Arianna Matta, Alvaro Petritoli, Giulio Rigoni  e Vera Rossi.

Anche quest’anno, come già avvenuto in passato, per le festività  Michele Von Buren ha regalato ai visitatori della galleria romana RvB Arts di via delle Zoccolette  una splendida mostra natalizia: in precedenza c’è stata la Christmas Collection, ora abbiamo “Alice in Wonderland”, con 4 opere donate dagli artisti messe in palio nell’annessa lotteria a libera contribuzione il cui ricavato è destinato ad AfrikaSi Onlus per l’istruzione dei bimbi della baraccopoli Deap Sea a Nairobi. 

La folla di visitatori presente all’inaugurazione ha dato ragione all’iniziativa della von Buren e  all’impegno degli artisti che hanno esposto le opere con cui interpretano il tema. Molti bambini hanno partecipato alla  festa d’avvio della mostra, allietata anche dai dolci personalizzati sulla figura di Alice preparati con maestria da  Caterina.  Non è mancato il libro di favole, che risale al 1885,  nell’originale inglese, “Alice’s Adventures  in Wonderland”,  tutto è stato curato alla perfezione.

Sono una diecina gli artisti che si sono cimentati nella rievocazione di “Alice nel paese delle meravigliee”, ognuno con la propria  cifra artistica e  forma interpretativa. Alcuni si  sono concentrati sulla figura della protagonista, vista leggiadra e spontanea nei suoi atteggiamenti infantili da Roberto Fantini, tenera e malinconica nelle immagini trasognate di Lucianella
Cafagna,
come una bambola nell’originale forma creativa di Maiti al centro della parete con le sue originali creazioni in filo di ferro, questa volta non in scultura;  il mondo degli animali intorno alla protagonista si trova nelle opere di Lorenzo Bruschini e Andrea Silicati; in altri l’ambiente, con l’atmosfera creata dall’azzurro  misterioso di Arianna Matta, dal verde intrigante  di Alvaro Pietritoli e dalle trasparenze di Vera Rossi; singoli personaggi sono stati evocati da Evita Andùjar e da Giulio Rigoni;fino all’accurata ricostruzione fotografica di una scena della vicenda di Tania Brassesco e Lazlo Passi Norberto, che ci ricorda le scenografie realizzate e fotografate da  David Lachapelle, viste nella recente mostra a Roma.

Ogni opera, come di consueto nelle mostre di RvB Arts, è contrassegnata dal relativo prezzo,   comunque molto contenuto secondo il programma “Accessible Art” che Michele Von Buren persegue da anni nella galleria impegnandosi nel meritorio intento di  rendere le opere d’arte accessibili alla gente comune  sotto l’aspetto economico e come componenti di prestigio dell’arredo domestico: quindi azione di “scouting” nella scelta degli autori, giovani emergenti ma anche artisti affermati, e nella selezione delle opere.  Vengono presentate nell’ambiente familiare creato dall’arredamento della galleria, ben curato per il binomio con l’Artigianato Valligiano della vicina via Giulia, lo spazio espositivo che si aggiunge al principale di via delle Zoccolette.

Non ci soffermiamo sul programma di “Accessible Art” avendone illustrato  ripetutamente obiettivi e modalità nel commentare le mostre organizzate negli ultimi anni da Michele von Buren nella galleria. Ricordiamo solo un elemento che concorre al clima  confidenziale dell’ambiente: la presenza  di opere di artisti che non partecipano alla mostra in atto ma hanno esposto in mostre precedenti, che  fa sentire in famiglia, come se si ritrovassero parenti o amici cui si è affezionati.

Più che interpretare e commentare le opere,  ci limitiamo a darne testimonianza visiva mostrandone alcune che ci hanno colpito maggiormente anche se non è possibile rendere l’atmosfera che tutte insieme creano nell’accogliente spazio espositivo di RvB Arts in via delle Zoccolette che prosegue in via Giulia.Vediamo rappresentata amorevolmente Alice, con ampio spazio anche agli ineffabili personaggi della favola e all’ambiente magico in cui si svolge. Per entrare nel clima e accompagnare la visione delle opere presentate,  rievochiamo per sommi capi la favola di Alice nel paese delle meraviglie.

Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie

Il fortunato capolavoro di Lewis Carrol inizia con una sorta di verifica ex ante – la storia narrata a tre bambine –  ed ecco come si dipanano le avventure,  nella favola nordica non mancano mai momenti di timore, anzi di incubo per l’intento pedagogico di mattere in guardia i piccoli dai pericoli, ma in un contesto quanto mai fantasioso.

La curiosità di Alice, che è quella di tutti i bambini, espone a  rischi inattesi, il suo è la caduta in un pozzo profondo per inseguire un Coniglio bianco, annoiata di stare con la sorella che legge un libro senza figure.  Dopo l’incubo della caduta la sorpresa delle molte porte  e della chiave minuscola con cui apre la serratura di una porticina, ma lei è troppo grande per potervi passare finché non beve il contenuto della bottiglia con scritto “drink me” dopo essersi accertata che non c’è scritta la parola “veleno”, anche qui l’intento pedagogico.  Ma essendo divenuta piccola non può più prendere la chiave rimasta sul tavolinetto troppo alto per lei, e allora l’altra magia, c’è la scatola di pasticcini con scritto “eat me” e ne mangia uno, che la fa crescere in modo che può prendere la chiave.

Però la porticina rimane piccola, è tornata al punto di partenza e non può raggiungere il giardino meraviglioso che si intravede al di là della porta. La delusione la fa piangere e riflettere, cosa è cambiato in lei, è diventata un’altra, ha perso la memoria? Nel mentre si dà la risposta confortante che  è sempre la stessa Alice,  passa il Coniglio bianco e, spaventato per la sua statura,  perde un guanto;  lei se lo infila inavvertitamente e inizia a rimpicciolirsi, se lo toglie al momento giusto, ora è su misura per passare nella porticina, ma la chiave è di nuovo irraggiungibile sopra al tavolino.

Il motivo delle dimensioni abnormi è ricorrente fino alla fine. Per le trasformazioni magiche ci torna in mente il vecchio film del 1940, “Dr. Cyclops”, con i ricercatori miniaturizzati e imprigionati dalla scienziato pazzo, è del regista che qualche hanno prima aveva diretto “King Kong”, dalle dimensioni gigantesche, come il ciclope Polifemo dell’Odissea; nei “Viaggi di Gulliver” si confrontano le dimensioni naturali del viaggiatore con quelle minuscole dei lillipuziani che lo immobilizzano con mille legami, la creazione di Jonathan Swift è del 1726, più di un secolo prima delle Avventure di Alice.

Torniamo alla favola. Non potendo raggiungere la chiave ecco di nuovo lo sconforto, e sorge un altro problema: le lacrime di quando era gigantesca hanno formato un laghetto in cui deve nuotare, lei così rimpicciolita, c’è anche un topo che le nuota vicino, con altri animaletti, lei fa una “gaffe” citando la sua gatta, insieme raggiungono la riva e cercano di asciugarsi. Per questo il Topo racconta una lunga storia e organizza una “corsa elettorale”, o corsa “confusa”, dove si ferma prima chi parte dopo, comunque tutti si asciugano; mentre una nuova “gaffe” di Alice  fa fuggire gli animali spaventati, così lei resta sola.

Passa di nuovo il Coniglio bianco che, scambiandola per la governante, la manda a casa sua a prendere guanti e ventaglio, lei esegue ma di nuovo la curiosità le fa bere il contenuto di una nuova bottiglietta con scritto “drink me”. E cosa avviene? Diventa di nuovo gigantesca e non può uscire dalla casa del Coniglio, si ripete il motivo delle dimensioni abnormi, quello alla base di una vecchia storia  a fumetti tradotta in film, su Mister Ciclops, per non parlare delle Avventure di Gulliver. Il Coniglio cerca di entrare nella propria casa ma lei blocca l’ingresso, la lucertola Bill scende dal  camino e ad Alice questo non piace e la respinge, gli animali radunatisi fuori vogliono appiccare l’incendio.  Non si perde d’animo, mangia un altro pasticcino portentoso e risolve la situazione, la fa rimpicciolire e lei può uscire dalla casa entrando nel bosco;  piccola com’è potrebbe essere mangiata da un cucciolo di cane, enorme rispetto a lei, ma lo distrae con un rametto e per evitare pericoli sale su un fungo con sopra un bruco azzurro che fuma il narghilè. Intrattengono una conversazione  sulle trasformazioni e il cambio di personalità, sui giovani e le mentalità dei vecchi (lei recita la poesia “Sei vecchio, papà Guglielmo”), ma quel che più conta per il prosieguo della storia è la preziosa indicazione del bruco: mangiando due parti diverse del fungo si può crescere e rimpicciolire nel modo voluto.  Alice ci prova e cresce come voleva ma con un collo così lungo che la fa sembrare un serpente e spaventa un piccione che teme di essere ingoiato,  altro problema presto superato.

Tornata alla sua statura normale può attraversare il bosco finché giunge alla casa della Duchessa quando due messaggeri, un pesce e un ranocchio, scambiano gli inviti con la Regina di cuori per una partita di croquet. L’inesauribile fantasia dell’autore, fin qui esercitatasi tra animali e statura, entra nella quotidianità, e la stravolge: la Duchessa culla uno strano neonato che urla e lancia starnuti, la cuoca mescola la zuppa e scaglia lontano pentole e stoviglie, il bimbo in fasce finisce ad Alice perché la duchessa deve andare a giocare, ma si trasforma in maialetto e scappa nel bosco.  Inseguendolo, Alice arriva alla casa della lepre marzolina intenta a prendere il tè con il Cappellaio matto, in compagnia del ghiro:  di nuovo la quotidianità unita alla fantasia  fa cambiare posto e tazza, con un orologio che non segna l’ora e un  indovinello da risolvere.

La fantasia si dispiega ancora quando Alice,  trovata  la via per raggiungere il castello della Regina, vede sei soldati dal corpo fatto di carte da ramino, con semi di picche,  i quali dipingono di rosso le rose che per sbaglio sono state piantate bianche. Del corteo della regina fanno parte le carte da ramino, in cui, nel significato inglese,  le picche sono le spade  e le vanghe dei giardinieri, i quadri sono i cortigiani, i fiori sono i bastoni impugnati dalle guardie, i cuori sono i  principi. 

Iniziano a giocare a croquet, era questo l’invito prima ricordato, ma si tratta di un  gioco impossibile.  La Regina, aggressiva come una furia, invita Alice a giocare a croquet, ma il campo è pieno di buche, si utilizzano le carte come porte, istrici come palle e fenicotteri come mazze. Vi è tanta confusione  con i giocatori che urlano e giocano nel disordine. Le porte, cioè le carte, decapitano chi capita a tiro alla Regina che ne sentenzia la morte. Riappare la Duchessa, uscita dalla prigione in cui la regina l’aveva rinchiusa, e presenta ad Alice il grifone, che con fare autoritario le fa conoscere la “finta tartaruga” la quale le mostra la quadriglia delle aragoste. 

E’ l’ultima eruzione fantasmagorica di sorprese stralunate e surreali, come il botto finale dei fuochi di artificio,  perchè il seguito e la fine tornano alla quotidianità anche se stravolta dalla fantasia con evidenti trasposizioni e allusioni simboliche.  

Viene processato il fante di cuori, per aver rubato le tartine pepate, l’araldo è il Coniglio  bianco dell’inizio della favola,  i giurati gli animali, i testimoni  i personaggi della favola tra cui  Alice. Una prova inconsistente, una lettera non firmata  e una poesia insensata, lo farebbero condannare,  “Sentenza prima, verdetto poi”  ordina la Regina, ma Alice dinanzi a tale decisione errata e ingiusta testimonia a favore smontando le accuse e con il movimento della gonna fa cadere tutti i giurati perché nel frattempo è diventata di nuovo gigantesca, e in modo smisurato, per poi rimetterli in piedi. 

In tal modo non teme più nessuno, “non siete altro che un mazzo di carte” dice rivolgendosi a tutti i personaggi, e soprattutto alle Regina che intanto aveva condannata a morte anche lei per punirla dell’opposizione. Acquisita piena consapevolezza di sé, e si risveglia. Era un sogno, si era addormentata  tra le braccia della sorella. Non le resta che andare verso casa per prendere il tè, senza altre sorprese, il viaggio avventuroso è terminato. In fondo, è la favola che racconterà ai propri figli.

I significati delle avventure di Alice

L’opera ha avuto un’enorme fortuna, sono innumerevoli le traduzioni in tutte le lingue e le trasposizioni in tutti i mezzi espressivi e in tutte le forme di spettacolo. Nel suo testo ci sono anche giochi di parole e giochi matematici, nonché messaggi subliminali e significati profondi.

Vi si può vedere riflesso il processo di formazione e di crescita nel quale le esperienze precedenti vengono superate e vanno in crisi tante certezze, compreso il concetto di normalità. Il viaggio di Alice è l’emancipazione in cui vi sono dubbi e timori, c’è una parte dell’essere che si oppone, ed è rappresentata dai personaggi che ostacolano la bambina nella sua avventura  alla base della quale c’è la ricerca della propria vera identità. Per questo viene dato rilievo alla curiosità che è spirito di ricerca, ansia di conoscere gli altri e se stessi, che fa aprire tutte le porte, anche quelle apparentemente inaccessibili, perché fa crescere con il cibo della conoscenza,  quei pasticcini della favola che alla mostra erano presenti come se potessero far rivivere veramente la favola di Alice. Anche l’incubo della caduta nel pozzo e il seguito movimentato, pur con la sua valenza di ammonimento alla prudenza nel muoversi e  nel parlare,  è un invito ad abbandonarsi alla fantasia, ci saranno sorprese, ma benefiche dopo il primo impatto e i conseguenti problemi  trovano subito le soluzioni.

Del resto, il giardino meraviglioso è nei desideri di tutti ed è bravo chi come Alice riesce a trovare le chiavi giuste per aprire tutte le porte adeguandosi con flessibilità alle situazioni senza mai perdere la propria identità e dirittura. Le dimensioni della statura  sono allegoriche, oltre ai significati personali stanno ad indicare che nulla è immutabile e nulla è insolubile,  anche se nella favola le soluzioni passano per la pozione e il pasticcino miracolosi, il guanto e il fungo portentosi.  

Non c’è solo esaltazione dello spirito di ricerca, anche crisi di identità che porta Alice a riflettere su sé ed il mondo; non tutto è liliale, anzi c’è aggressività e incubo, del resto la vita è anche questo. Vanno accettati i cambiamenti, da prendere come punti di forza per superare le proprie debolezze che vengono fuori nei momenti critici, sono le diverse stature, ma devono restare ferme le intenzioni positive. In questo modo si possono controllare le proprie emozioni, e non arrendersi dinanzi a situazioni apparentemente senza via d’uscita, né abbandonarsi allo sterile immobilismo.

Ci sono anche altri messaggi, che restano nella mente e nella memoria, come resta nella bocca il sapore dei pasticcini di Caterina, li abbiamo gustati senza temere le fantastiche metamorfosi nella statura che provocano nella storia di Alice.

Non fosse altro che per aver richiamato all’attenzione questa storia fantasiosa e insieme istruttiva l’iniziativa di Michele von Buren ci appare altamente meritoria, a parte l’altrettanto meritoria finalità benefica. Tanto più che è collegata alla trasposizione artistica che consente ai visitatori interessati – oltre ai quattro fortunati vincitori della lotteria – di accogliere nella propria casa, nel quadro del programma”Accessible Art”, le opere prescelte così da rivivere con i loro  familiari il viaggio fantastico di Alice che ha incantato generazioni su generazioni per più di un secolo.

Info

Galleria RvB Arts, via delle Zoccolette 28 e Antiquario Valligiano, via Giulia 193, Roma, orario di negozio, domenica e lunedì chiuso, ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518,  http://www.rvbarts.com/. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti 13 articoli sulle mostre di “Accessible Art” organizzate da Michele von Buren in RvB Arts: nel 2015 il 9 novembre, 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. Per la citazioni del testo cfr., in questo sito, il nostro articolo sulla  mostra di  David Lachapelle 12 luglio 2015.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, e in particolare Michele von Buren, con gli artisti titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Nelle due immagini iniziali e nelle due finali Alice vista da Roberto Fantini e da Lucianella Cafagna, tra queste quattro immagini, la favola nelle opere di Lorenzo Bruschini e Arianna Matta,  Evita Andùjar e Giulio Rigoni,  Tania Brassesco e Lazlo Passi Norberto.  

Giubilei nei secoli, tra Mappe e Medaglie, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, Ala  Brasini, lato Fori Imperiali,dal 4 dicembre 2015 al 17 gennaio 2016  la mostra “Roma tra Mappe e Medaglie, Memorie degli Anni Santi”  presenta   mappe urbane, coni per medaglie e monete che documentano l’evento giubilare  e la sua incidenza  sull’assetto cittadino nei  secoli, per celebrare all’insegna della memoria storica e religiosa il Giubileo della Misericordia  voluto da Papa Francesco.   Con il patrocinio del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione  e dell’Opera Romana Pellegrinaggi,  è stato promosso dall’Agenzia delle Entrate e dall’Istituto Poligrafico e  Zecca dello Stato, nonché dal Consiglio nazionale geometri e Geometri laureati e da “Modus”, in collaborazione con la Regione Lazio e con  enti e  istituzioni, tra i quali citiamo l’Istituto Luce e la Rai. Realizzata da Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, la mostra è a cura di Silvana Balbi de Caro, che ha curato anche il Catalogo, e di Flavio Celestino Ferrante, autori dei testi in catalogo, insieme ad Andre Cantile e Simone Boccardi.  

Inconsueta e sorprendente questa mostra molto particolare, patrocinata da un Consiglio Pontificio e dall’Opera pellegrinaggi e promossa dall’Agenzia delle Entrate e  dall’Ordine dei Geometri,  Geometri, protagonisti inattesi di un’esposizione in cui spicca l’originalità e l’accuratezza.

Il miracolo, se così  lo possiamo chiamare per restare in tema, lo ha compiuto il Giubileo della Misericordia di Papa Francesco, in omaggio al quale è venuta l’idea di una testimonianza inconsueta dei precedenti Giubilei,  ripercorrendo la storia dei Papi  e del loro impegno giubilare unitamente alla storia urbanistica di Roma che ne è stata investita. Dall’idea brillante all’iniziativa coraggiosa:  non era scontata la resa spettacolare di una documentazione sulle trasformazioni che hanno accompagnato i 700 anni di eventi giubilari tradotta in testimonianze tangibili.

Quali testimonianze? viene di chiedersi a questo punto: sono di due tipi, le “Mappe e Medaglie” cui si intitola la mostra, le prime fanno mostra di sé sulle pareti, le seconde  in una serie di vetrinette che consentono di visionarle in successione cronologica in modo da apprezzarne l’evoluzione.

La sede non poteva che essere la sala “Giubileo” del Vittoriano che, come ricorda Alessandro Nicosia – il presidente di “Comunicare Organizzando” che gestisce lo spazio del Complesso monumentale con un’incessante attività espositiva animata da forti motivazioni artistiche e celebrative – ospitò nel 2000 uno spazio informativo dedicato al Giubileo di Papa Giovanni Paolo II che diede poi il nome definitivo alla sala. Questa volta, precisa Nicosia,  l’intento è di documentare “quanto i Giubilei nel corso dei secoli abbiano contribuito ai mutamenti e all’evoluzione della Città e quanto siano stati determinanti per l’assetto contemporaneo urbanistico e architettonico”. 

Viene  ripercorre la storia  di ieri della Capitale della cristianità per capire meglio la realtà di oggi.

Sono recenti le discussioni inerenti la mobilitazione delle autorità cittadine con il contributo del governo nazionale al fine di porre  Roma nelle migliori condizioni per accogliere i nuovi flussi di pellegrini, e rimediare a insufficienze e arretratezze a livello di servizi e decoro cittadino. Figurarsi cosa è avvenuto nei secoli per questi appuntamenti epocali,  quando i Pontefici che ne erano i protagonisti dominavano la città Eterna  e potevano compiere le trasformazioni per i Giubilei!

Tutto questo è sintetizzato visivamente nelle mappe urbanistiche con l’eleganza cartografica di livello calligrafico,  e nelle figure riprodotte sulle medaglie giubilari, volte a sottolineare  l’elemento dominante legato al Giubileo: le Porte sante innanzitutto, con scene delle loro aperture; ma anche le Basiliche  e le Piazze, i palazzi e, nturalmente, i Pontefici ripresi all’opera nei Giubilei o celebrati nelle medaglie.

La mostra ne è lo specchio fedele, nella sua estrema capacità di sintesi cui si accompagna una forza evocativa che va molto al di là delle evidenze esposte, dando luogo a una “total immersion” storica e religiosa insieme; nelle presentazioni dei titolari degli organismi promotori sono evidenti i due approcci,  scaro e profano, nella compresenza connaturata al ruolo e alla natura della Città eterna.

Il loro impegno non si è esaurito nella selezione e presentazione del materiale di documentazione, ma ha portato ad un’approfondita ricerca di cui viene dato conto nel prezioso catalogo.  Così è stata documentata la “La cartografia di Roma: dalle mappe urbane al disegno del mondo” da Andrea Cantile  e “La rappresentazione cartografica della città dei Giubilei” da Francesco Celestino Ferrante; è stata ricostruita “La storia metallica dei Romani Pontefici” da Silvana Balbi De Caro; inoltre è stato compilato un  “Atlante” su “Apertura e chiusura della Porta Santa” e “La grandi opere per i Giubilei’, “L’accoglienza ai pellegrini” e  “Le monete dei papi” da Simone Boccardi.

Sono analisi accurate e precisa di cui daremo soltanto qualche piccolo scampolo nel raccontare rapidamente le impressioni e le emozioni provate nel breve ma sostanzioso percorso espositivo.

Le mappe cartografiche di Roma nei sei secoli dei Giubilei

Vengono riportate le parole di mons. Frutaz, che dopo aver individuato oltre 500° piante di Roma, nel 1962  affermò: “Nessuna città può vantare di possedere una serie così ricca di fonti cartografiche antiche e di descrizioni moderne come Roma”,  a partire dalla monumentale “Forma Urbis Roma” realizzata dall’imperatore  Settimio Severo tra il 203 e il 2011,  nel Templum Pacis. .

Si può ben comprendere la difficoltà della selezione, nella quale sono state prescelte cartografie di insigni autori, vere e proprie realizzazioni artistiche che partono dal secolo XVI, con i primi Giubilei.  Già nel XV sec., Leon Battista Alberti con la sua “Descriptio Urbis Romae” aveva innovato radicalmente  in questo campo introducendo la forma  geometrica obiettiva al posto della precedente diagrammatica soggettiva, servendosi anche di tabelle numeriche e coordinate polari, senza giungere ancora alla rappresentazione planimetrica dettagliata di cui alla “Lettera a Leone X”.

Vediamo esposta la “Nova Urbis Romae Descriptio”, litografia in 4 fogli di E. Du Perac-A. Lafréry,  dedicata ad “Enrico III, Cristianissimo re di Gallia e di Polonia”,  siamo nel 1577, si distinguono chiaramente nella grafica minuta, il Vaticano e Città Sant’Angelo, San Giovanni in Laterano e il Colosseo.  Gli stessi autori  due anni prima avevano realizzato l’incisione su rame “Le sette chiese di Roma”, 1575, una suggestiva  immagine panoramica e non solo planimetrica, in cui oltre alle basiliche monumentali  sono visualizzate le colonne di pellegrini e i fedeli in ginocchio

Un secolo dopo la “Nuova pianta et alzata della città di Roma”, incisione all’acquaforte di  G. B. Falda, è il 1676,  la visione è “a volo d’uccello” con precisione  dei dettagli, l’intento più che documentario è celebrativo delle trasformazioni urbanistiche e dei pregi monumentali. Ecco bene in vista il colonnato di Piazza San Pietro, la basilica con la cupola michelangiolesca e i blocchi urbani tutt’intorno; c’è anche il particolare delle nove Basiliche in vista prospettica,  riprodotte al di fuori della planimetria  urbana ed espressamente citate nell’iscrizione:  “Con l’aggiunta delle nove fabriche di chiese et altri edifici fatti sin al’anno presente MDCCLVI”.

Dopo tre quarti di secolo abbiamo la “Nuova Topografia di Roma del 1748”,  acquaforte e bulino-incisione  di G. B. Nolli,  nota anche come “Pianta grande di Roma”, dedicata a Benedetto XIV, realizzata con la nuova tecnica del “rilevamento diretto con catena agrimensoria, canna e tavoletta pretoriana”, estesa anche al contado,  con maggiore precisione planimetrica  e ricchezza di dettagli nonché figure simboliche di Roma,  del Tevere e della Chiesa, di sfondo il Campidoglio.

Ancora un secolo ed ecco la “Pianta dell’antica città di Roma con i suoi boschi sacri ed i principali edifici restituiti nella loro integrità”, di G. B. Agretti, è il 1840, con i 44 boschi sacri, i maggiori monumenti, e con i rovesci delle medaglie aventi il rilievo dei maggiori palazzi e della Basilica di  San Pietro.  In tal modo, come sottolinea Andrea Cantile, la mappa prefigura in un certo senso l’impostazione della mostra che alle planimetrie unisce le medaglie  in un unico contesto.

Siamo agli inizi del ‘900, di Reina, Barbieri e Cassinis “Media pars Urbis – Rilievo planimetrico ed altimetrico”, 1903-10, fotozincografia in cromo, 14 fogli  curati dall’Istituto geografico militare per l’Accademia dei Lincei, definito da Flavio Celestino Ferrante “mirabile esempio di precisione geometrica”  che iniziò con la mappa del Palatino cui seguirono le zone monumentali adiacenti.

E’ la vigilia del terzo millennio,  il cartografo Tommasi Ferroni con gli incisori Di Sciullo e Greco realizza l’incisione su rame ad acquaforte e bulino e stampa cartografica “Forma Urbis Romae. Pianta monumentale di Roma per il grande Giubileo del 2000”  la tecnica calcografica è antica e il linguaggio tradizionale, ma la tecnica è moderna, la città entro le mura è stata ripresa sempre “a volo d’uccello”, ma  con rilevamento aerofotogrammetrico, si distinguono chiaramente gli insediamenti recenti, sia religiosi, come la Sinagoga e la Moschea, sia civili come l’Aeroporto di Fiumicino e lo Stadio Olimpico, di San Pietro abbiamo un suggestivo ingrandimento “anticato”.

La mappa più recente esposta è l’“Ortofoto digitale a colori ad alta risoluzione della città di Roma”, una “ripresa aerofotogrammetria e ortorettificazione”  effettuata nel 2014 dal Consorzio Rilevamento Agricoltura  che occupa la parete all’ingresso alla mostra. Viene utilizzata per i controlli in agricoltura e l’Agenzia delle Entrate se ne avvale per individuare i fabbricati sconosciuti al catasto; siamo fuori dall’ottica giubilare ma, lo abbiamo detto, il sacro è unito al profano e non c’è nulla di più profano di controlli antievasione fiscale, anche se certamente  sono sacrosanti.

Nei coni per medaglie del Museo della Zecca la storia metallica dei Pontefici

Mentre nelle pareti spiccano le planimetrie che abbiamo sommariamente illustrato, le vetrinette espongono in successione i coni utilizzati nei secoli per le monete celebrative dei Giubilei. C’è una storia intrigante dietro questa preziosa raccolta del Museo della Zecca il cui primo nucleo si formò  nel 1796  con l’acquisto dai possessori Hamerari, da parte della Camera Apostolica,  della serie di coni realizzata fino ad allora con l’intento di realizzare una “storia metallica” dei Pontefici attraverso la serie di medaglie da coniare e vendere ad amatori e collezionisti per trarne utili. 

Il progetto non fu realizzato subito per le difficoltà insorte nel periodo napoleonico, finché intorno al 1920 il direttore della Zecca  di Roma Francesco Mazio sollecitò la creazione di un Gabinetto delle Medaglie a questo fine, e riuscì ad integrare la raccolta con  l’acquisto nel 1823 della collezione di altri 200 coni della Biblioteca Barberini operata dal proprio figlio  Giuseppe.  Nel 1824 le prima serie di medaglie, ciascuna di 572 pezzi,venivano immesse sul mercato accompagnate  da un Catalogo di 162 pagine con l’introduzione del direttore Francesco Mazio; era papa Leone XII succeduto l’anno prima a Pio VII che aveva favorito la realizzazione del progetto.

Dopo 25 anni, nel 1849 Giuseppe Mazio,  divenuto Direttore delle Zecche pontificie, nella relazione per il pro-ministro delle Finanze  poteva affermare che il Gabinetto numismatico era molto attivo e la vendita delle medaglie “era divenuta gradatamente un oggetto di grande entrata”.

Silvana Barbi De Caro ricorda i problemi generati dalle lacune nella successione di monete, spesso colmate in modi che rendevano sospettosi gli antiquari, già perplessi per i materiali diversi dagli originali utilizzati per i nuovo coni. Ma sottolinea giustamente quello che spesso  sfuggiva agli antiquari  alla ricerca del pezzo unico rigorosamente originale: “La valenza storica di un documento che, con le sue 572 medaglie iniziali e con i suoi successivi aggiornamenti fino al 1870, rappresentava una sintesi  straordinaria di cinquecento anni di vita della Chiesa di Roma”.

Questa sintesi straordinaria è sotto i nostri occhi, nella successione cronologica delle vetrinette che contengono non le medaglie ma proprio i coni originari. Vediamo così, da un Giubileo all’altro,  le raffigurazioni delle Porte Sante  chiuse e aperte, e  anche le scene del rito dell’apertura ,  “iusti intrabunt per eam”, con i Pontefici,  lo stuolo di dignitari e di fedeli inginocchiati dinanzi alle immagini sacre. L’apertura  avveniva con l’abbattimento del muro di mattoni, considerati  preziose reliquie dai fedeli  che si accalcavano per prenderli fino  a creare problemi di ordine pubblico.

E’ una galleria di grande significato storico e  valore religioso che riveste, con  la testimonianza tangibile,  per così dire, di dodici Anni Santi, da quello di Sisto V nel 1450, ai tre del XVI secolo, di Sisto IV, Alessandro VI, Giulio III,  ai quattro del XVII secolo, di Urbano VIII,  Innocenzo XII, e due volte Clemente X, ai tre del XVIII secolo, di Benedetto XIII, Benedetto XIV e Pio VI, fino all’Anno Santo del 1900 di Leone XIII.

Ma la “storia metallica” non si ferma qui, dalle Porte Sante e le scene liturgiche alle medaglie con le grandi opere per i Giubilei con le quali, osserva la Barbi de Caro, “la Roma dei papi cambia volto”.

La carrellata inizia con la medaglia di Innocenzo XII raffigurante San Pietro mentre guarda dall’alto Roma sullo sfondo con bene in vista la  Basilica a lui dedicata.  Una veduta di Roma quasi come una “guida tascabile” per i pellegrini è nella medaglia di Paolo III nella prima metà del XVI secolo., mentre di Sisto V vediamo una medaglia con la Vergine e quattro strade verso le basiliche. Un  secolo prima,  una medaglia di Callisto III con le mura di Roma fortificate

Del XVII secolo vediamo medaglie di Paolo V con la nuova porta vaticana “dell’Orologio” e   di  Alessandro VII  con Piazza del Popolo all’ingresso della regina Cristina di Svezia;  di Clemente IX con Ponte Sant’Angelo, in vista  le statue dei Santi del Bernini,  e  di Innocenzo X con la Fontana dei Quattro Fiumi, sempre del Bernini.

Prosegue la “storia metallica” attraverso medaglie con l’effigie dei Papi  sul recto e quella  di luoghi e monumenti sul verso, vediamo i busti di Pio IV con la chiesa di Santa Caterina de’ Funari e di  Innocenzo X con la chiesa di Sant’Agnese;  di Alessandro VI con la chiesa di Santa Maria della Pace di Pietro da Cortona, e  di Giulio II con Via Giulia;  di Innocenzo XII con il Palazzo della Dogana di Terra e  di Clemente X con lo scorcio di Palazzo Altieri;  di Clemente XI con la basilica di san Clemente e di Pio IX con la basilica di San Lorenzo fuori le mura. 

E poi i rovesci realizzati con i coni  raffiguranti le basiliche,   Santa Maria Maggiore nella medaglia di Leone XIII,  San Pietro in quella di Pio X, San Paolo nella medaglia di Pio IX, San Giovanni in Laterano in quella di Leone XIII.

Da ultimo le medaglie che raffigurano  le provvidenze predisposte per l’accoglienza dei pellegrini negli Anni Santi: con Urbano VIII il Palazzo dell’Annona e con Clemente XI i Granai di Termini; con Innocenzo XII e Clemente XI l’ospizio di San Michele a Ripa e l’Aula Clementina per il carcere minorile; l’Ospedale Santo Spirito con Alessandro VII, Leone XII,  Pio IX, e il San Gallicano con Benedetto XIII; l’ospedale San Giacomo degli incurabili  con Gregorio XVI.

L’attualità del Giubileo della Misericordia

Un panorama vasto ed articolato che dalla “storia metallica” ci riporta all’attualità del Giubileo della Misericordia che ha costituito l’occasione per questa inusitata rassegna retrospettiva.

Mons. Libero Andreatta, vis presidente e Amministratore Delegato dell’Opera Romana Pellegrinaggi,  nel presentare la mostra sottolinea l’unicità  del  presente Giubileo, “straordinario  perché indetto per richiamare la Chiesa alla sua missione prioritaria di essere esempio e testimone della Misericordia del Padre”.   E’ questo “un sentimento da vivere per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre”, e se verrà tradotto in azioni concrete “riuscirà a travolgere , come lava incandescente, la percezione che ogni uomo ha dell’altro da sé”.

Il prelato  concludere così: “Il Giubileo che ci apprestiamo a vivere, diversamente da quelli precedentemente indetti e magistralmente raccontati da questa mostra, forse non trasformerà il tessuto urbano di questa eterna città, ma darà muova forma a quella pregiata stoffa che è l’umanità. In ciò risiede la forza pervasiva che sarà capace di segnare la nostra storia”. 

Nell’Enciclica “Evangelii gaudiun” si legge: “La Chiesa vive un desiderio inesauribile di offrire Misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’inesauribile Misericordia  del Padre e la sua forza diffusiva”. Il Giubileo straordinario è l’occasione di metterlo in pratica per contrastare la “globalizzazione dell’indifferenza” in un mondo sempre più chiuso, tormentato e smarrito.

Info

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali. Tutti i giorni, compresa la domenica, ore 7,30-19,30, entrata fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664, 06.69923801; fax 06.69200634.. www.comunicareorganizzando.it. Catalogo “Roma tra Mappe e Medaglie. Memorie degli Anni Santi”, a cura di Silvana Balbi de Caro, novembre 2015, pp. 128, formato 21 x 29,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni  del testo. 

Foto

Le immagini sono state ripreseda Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, una veduta d’insieme delle vetrine con i coni per le medaglie; seguono,  le prime tre vetrine con i coni per le medaglie, e di E. Du Pétrac-A Lafréry, “Le sette chiese di Roma”, 1975, incisione su rame; poi, la vetrina con i coni per le medaglie sulle Basiliche papali, e la speciale Mappa all’ingresso della mostra; quindi, la vetrina con i coni per le medaglie sulle chiese di Roma, e  una serie di immagini e Mappe di Roma; inoltre, la vetrina con i coni per le medaglie sui palazzi del potere, e una vetrina con le monete dell”800 “; in chiusura, una veduta finale delle vetrine con i coni per le medaglie

Bagliori di Hanji, capolavori di carta tra le luci, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano dal 22 novembre 2015 al 17 gennaio 2016, lato Ara Coeli,  la mostra “Bagliori di Hanji – installazioni luminose e altri capolavori in carta tradizionale coreana Hanji”.  E’promossa dall’Ambasciata della Repubblica della Corea del Sud a Roma, con il patrocinio della Provincia coreana di Gyeonggi, il contributo della Yewon Arts University, dove si tengono corsi sulla fabbricazione a mano della carta, e del Laboratorio artigiano Jangjibang.  Realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con un allestimento nella Sala Zanardelli. All’inaugurazione una performance  di musica tradizionale coreana con strumenti caratteristici. Dopo la sfilata di 20 paesi per “Roma verso Expo” con questa mostra ci viene presentato un altro paese, la Corea del Sud, attraverso la sua carta tradizionale che diventa arte.   

Confessiamo di aver letto il titolo in un primo momento come “bagliori di Hanoi”,  e di essere stati sopraffatti da altre immagini impresse nella memoria della nostra generazione:  quelle della sanguinosa guerra tra le due Coree con l’intervento degli Stati Uniti, i Vietcong contro i Vietminh, oltre il 38° parallelo, il sentiero di Ho Chi Min, il  comandante il cui nome è stato dato a Saigon, conquistata dopo  un conflitto epocale.

Nulla di tutto ciò nella mostra il cui titolo è assonante, peraltro si tratta della Corea del Sud,  si riferisce alla pregiata carta “Hanaj”, che evoca proprio l’opposto:  la delicatezza invece della violenza, l’eleganza invece della brutalità, la cultura invece delle armi, la pace invece della guerra.

E non possiamo negare di essere rimasti colpiti da una immagine della Corea così diversa da quella sedimentata nella memoria, diffusa anche da film crudi e coinvolgenti come “Il cacciatore”. La violenza inumana contro i prigionieri di guerra e la drammatica fine di Saigon sono impressi  nella memoria  e nell’inconscio dello spettatore e questa mostra ha il merito di diffondere un’altra immagine, che è quella della tradizione coreana, laboriosa e pacifica, senza i bagliori di guerra, anche se l’atomica della Corea del Nord, fino alla bomba all’idrogeno alimenta nuovi timori.

Con questo spirito partecipiamo alla serata coreana nella quale l’inaugurazione della mostra viene accompagnata da un programma musicale di melodie tradizionali e danza che fa entrare nell’atmosfera. Con il “Sanjo”  la combinazione di melodia e ritmo avviene nelle modulazioni  dettate dal maestro Han Gapduk che ne rappresentano la reinterpretazione creativa .

La performance di musiche tradizionali coreane

Il  “Cheon-nyun Manse”  viene presentato come “tradizionalmente eseguito dagli Aristocratici della dinastia Chosun sperando nella longevità di centinaia e migliaia di anni”, una speranza che accomuna qualsiasi civiltà  nello sguardo verso il futuro.

Dal  suono degli aristocratici alle tre canzoni popolari, Jindo Arirang, SeonjjuPulyi e Namwon Sanseong che esprimono  sentimenti nei quali si riflettono le emozioni della gente comune.

Le modulazioni e i suoni sono diversi da quelli che siamo soliti ascoltare, perché vengono da strumenti speciali portati dalla tradizione.

C’è lo strumento a corda ritenuto il più adatto a rendere i costumi tradizionali coreani,  inusuale nell’altezza dei  ponti che reggono le corde e nella forma del peltro, si tratta del  “Geomungo”; a corda anche l’Haegeum, utilizzato per i riti regali ancestrali, con due sole corde ha una vasta gamma di tonalità, dal malinconico e triste all’armonioso e  allegro.

A fiato il. Dageum, un flauto traverso di bambù marini dell’Est, che ha un tono unico chiaro e un timbro dinamico, la leggenda vuole che al suono si ritirasse il nemico e si arrestassero le calamità.

Completa l’orchestra il tamburo, lo Janggo, a forma di clessidra, il più utilizzato per la musica tradizionale con la caratteristica che i due lati danno suoni diversi nella tonalità e nel timbro; la raffinatezza orientale li fa suonare insieme per riprodurre l’armonia tra l’uomo e la donna.

Nella sala del Vittoriano sono risuonate queste melodie preparando a  un’esposizione molto particolare, anche rispetto alle tante mostre etniche viste nel  programma  “Roma verso Expo”.

Le opere con la carta Hanji nel corridoio di luci

Protagonista assoluta è la carta coreana Hanji, fabbricata a  mano secondo i dettami di una tradizione millenaria, lavorando la corteccia del dak, detto il “gelso della carta”; una carta morbida e resistente, malleabile e permeabile, igroscopica e resistente alle tarme.

Le sue caratteristiche  la rendono molto adatta ai delicati lavori di restauro di antichi testi, ai quali era destinata nell’antichità per lavori riservati alla  classe nobile e ai monaci dei templi buddisti.  Gli scarti di carta non venivano dispersi essendo materiale pregiato,  le strisce erano utilizzate per i manufatti definiti Jiseung, dal metodo di lavoro considerato anche una disciplina mentale perché richiedeva concentrazione per un periodo prolungato.. Con l’estensione dell’impiego alla gente comune e i procedimenti di laccatura che rinforzavano  la carta furono realizzati oggetti di uso quotidiano: oggetti e piccoli manufatti artigianali, articoli di abbigliamento ed elementi di arredo,.

Nel lungo salone del primo livello vediamo  oggetti molto particolari  al centro,  mentre nelle pareti ci sono le carte finemente elaborate  tra installazioni luminose che creano un corridoio di luci. La formula è “convergenza e coesistenza”, carta tradizionale in forma contemporanea.

Gli oggetti rappresentano soprattutto cavalli per lo più bianchi di diverse dimensioni e in varie pose, bambole di cui è autrice Ryu Kwi Hwa. La  “parete artistica”  è formata da elaborazioni geometriche ispirate a motivi tradizionali e a decorazioni moderne sulla carta Hanij,  intervallate dalle colonne di luce, l’artista è Cha Jong Son, che intende  trasmettere il bisogno di comunicazione tra la natura e l’essere umano, per questo ha dato alla parete-installazione il titolo “riposo”.  

Così  anche la  serie di piccole sculture dalla superficie dorata è  all’insegna della “convivenza-unità”, sono dell’artista coreano tradizionale  Lee Choul Gyu il quale afferma: “Nelle mie opere risulta evidente che la scelta dell’oro come materia prima è principalmente dovuta  alla capacità di tale materiale di conferire un senso di luminosità che simboleggia la relazione di ‘coesistenza’ e ‘coabitazione’ tra l’artista  e la gente comune, i soggetti e gli oggetti, l’uomo e la natura”.  Infatti nelle sue opere si trovano esseri umani e animali, fiori e uccelli, le montagne e il sole.  

In fondo al salone l’area degli Hanaji-soban, recipienti circolari con disegni geometrici sul coperchio che sono considerati tavolini portatili da pranzo simili ai vassoi. E’ una tradizione di 5000 anni, sono utilizzati per ricevere ospiti importanti come manifestazione della  posizione sociale.

Dagli oggetti di uso comune al clou della dimostrazione visiva

Al  livello superiore del percorso espositivo colpisce subito la lunga tavolata coperta di sacchetti sospesi anche in alto, una sorta di installazione virtuale molto spettacolare.

Nelle vetrine sono esposti sciarpe e casacche traforate,  otri e vassoi, mentre a terra vediamo deipezzi di  mobilio realizzati con strati sovrapposti di carta, anche dieci, e cerniere di ferro,  ornati da linee tradizionali  che riportano alla storia del paese: in particolare due cassettiere, a due e tre  cassetti, decorate con motivi di rami e piante rampicanti, con sportelli a cerniera, e una cassapanca rossa: sono indicati i nomi delle artiste artigiane, Kim Mi-jin, e Song Mi Ryong.

La mostra non finisce nel lungo corridoio del livello superiore, che da un lato termina con una sorta di installazione luminosa. Perché dall’altro lato si intravvede un telaio in legno nel quale un artigiano coreano è impegnato nel produrre carta Hanaji, processo spiegato nel pannello illustrativo ma che  abbiamo il privilegio di vedere messo in atto dal figlio d’arte di un protagonista.

Si tratta di Jang Seong, il cui padre lasciò la terra natale per Gapyong, nel Gyeoggi , ideale per coltivare l’albero da cui si trae la materia prima, dove aprì un laboratorio chiamato Jangibang, nel quale produceva  carta utilizzata inizialmente per riparare antichi libri, poi per realizzare oggetti di uso comune nell’estensione dell’impiego  cui abbiamo già accennato.

Lo vediamo compiere sotto i nostri occhi gesti antichi di una tradizione millenaria sul telaio d’epoca senza supporti elettrici o ergonomici di alcun tipo; la carta Hanaji si ottiene partendo da una soluzione alcalina stabilizzata per alcune ore, passando attraverso il coagulo cellulosico cui segue la compressione in strati fino alla distesa su un piano ligneo e l’essiccazione finale.

E’  una bella dimostrazione dell’antica produzione di questa carta speciale che mantiene ancora oggi un proprio spazio come corollario di un’altrettanto bella esposizione dei prodotti che si ottengono, dalle fini decorazioni, ai recipienti e sacchetti, fino ai sorprendenti pezzi di mobilio. La Cina è vicina, si diceva una volta;  oggi, al Vittoriano, è la Corea ad essere vicina: non le ombre inquietanti dell’atomica della Corea del nord,  ma le luci e i decori delicati della carta della Corea del sud.

Info

Complesso del Vittoriano, sala Zanardelli, piazza Ara Coeli.  Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 18,30, da venerdì a domenica ore 19,30, entrata fino  a 45 minuti dalla chiusra. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664, www.comunicareorganizzando.it   Per le mostre citate di presentazioni dei 20 paesi nel programma “Roma verso Expo”  cfr., in questo sito,  i nostri articoli: nel 2015, 16  ottobre, 22 settembre, 3 e 7 luglio, 28 aprile, 25 marzo, 7 e 22 febbraio, 14 gennaio;  2014, 9 dicembre e 8 novembre.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il laboratorio Jangjibang e  Jang Seong che ha accettato di farsi ritrarre.  In apertura, di  Ryu Kwi Hwa, cavallini neri di carta hanji; seguono, la prima galleria con al centro le bambole e i cavallini di Ryu Kwi Hwa incarta hanji, e un particolare della “parete artistica”  di Cha Jong Son in carta hanji; poi, Lee Choul Gyw, statuette dorate in carta hanji, e “Hanaji-soban”,  vassoi tradizionaliin carta hanji; quindi, la galleria  al piano superiore, con i caratteristici sacchetti in carta hanji, e, di Kim Mi-jin e Song Mi Ryong, due cassettiere a 2 e 3 cassetti in carta hanji a più strati; infine, Jang Seong al telaio mentre mostra come nasce la carta hanji; in chiusura, la galleria  iniziale con le “colonne luminose”  nelle “pareti artistiche” con i decori in carta hanji.

Russia on the Road, il lavoro e la vita quotidiana, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Termina il racconto della nostra visita alla mostra “Russia on the Road- 1920-1990”,  che presenta  nel Palazzo Esposizioni a Roma dal 15 ottobre al 15 dicembre 2015 circa 60 opere di artisti russi espressive della spinta creativa del loro talento artistico tra i vincoli e i messaggi propagandistici del “Realismo socialista”. E’ stata realizzata in collaborazione  soprattutto con l’Istituto d’Arte Realista di Mosca, su un’idea di Aleksej Ananjev,  a cura di Nadeshda Stepanova e Matteo Lanfranconi.  Il Catalogo curato dall’Istituto contiene saggi di Lanfranconi, Leonid Lerner e Gian Piero Piretto.

Abbiamo commentato in precedenza il contenuto generale della mostra soffermandoci poi, in particolare, sulla prima sezione, quella relativa all’irruzione dei mezzi di trasporto nella realtà di un territorio sterminato dove le comunicazioni sono vitali. La velocità e rapidità delle nuove linee ferroviarie e degli aerei, insieme all’introduzione dell’automobile nel primo ‘900, sono stati eventi epocali che gli artisti hanno celebrato con le loro opere. Sia perché ne hanno tratto ispirazione, sia per la spinta del regime che ne ha fatto uno strumento di propaganda sul progresso nella nuova Russia.

Nei dipinti che abbiamo già commentato prevalgono le macchine e, anche quando vi sono figure umane, spesso sono degli addetti e comunque sono sovrastate dall’imponenza e dall’mportanza prevalente dei mezzi raffigurati. Le persone, quando riprese,  in genere sono viste da lontano, come nei due quadri di Labas del treno “in corsa” con i passeggeri nel vagone o nella “Metro”, allineati sui gradini della scala mobile, senza poterne osservare atteggiamenti ed espressioni; anche la figura ravvicinata di donna emancipata al volante del quadro di Pimenov “La nuova Mosca” è vista di spalle, strumentale rispetto alla circolazione moderna nell’arteria cittadina in un contesto di accelerata crescita urbana.

Le tre sezioni successive,“Road movie sovietico”, “Amore e macchine” e “Russia selvaggia”,  entrano, invece, nella vita delle persone, consentono di valutarne atteggiamenti ed espressioni, a livello individuale e collettivo, delineando un affresco quanto mai colorato e colorito di una realtà nella quale il regime ha imposto regole rigide condizionando fortemente anche l’attività degli artisti per sottoporla alle esigenze della propaganda.

Le limitazioni e l’impronta dell’arte nel “Realismo socialista”

Nonostante tali vincoli, tuttavia, non si può negare validità a un periodo che troppo sommariamente è stato ritenuto non illuminato dall’arte intesa come espressione di una libera ispirazione unita al talento; anche il “Realismo socialista” ha prodotto veri capolavori e sarebbe semplicistico liquidare la produzione artistica di mezzo secolo nel ‘900  come manifestazione di mera propaganda asservita agli interessi del regime. Per cui vi sarebbe stato un nuovo Medioevo, il realismo celebrativo imposto negli interminabili anni bui compresi tra le avanguardie degli anni ’10 e  il ritorno alla libera manifestazione artistica iniziato a fine anni ’60 ma espresso a livello internazionale solo a partire dagli anni ’90.  Niente di più sbagliato, e la rivalutazione in atto di questo periodo, dovuta anche alla presenza di grandi artisti – citiamo per tutti Alecsandr Dejneka – risponde all’esigenza di “sdoganamento” che ha riguardato in genere gli artisti ritenuti compromessi con i regimi imperanti, anche di segno opposto al comunismo: si pensi a Mario Sironi e a Gabriele d’Annunzio.

In questo contesto, Matteo Lanfranconi sottolinea i motivi autentici alla base dell’ispirazione degli artisti di maggiore talento, che mantenevano la loro spinta spontanea pur venendo a coincidere con la mistica di regime. Perché era autentica l’enfasi sulla moltiplicazione delle possibilità di azione e  movimento in un territorio sconfinato e in una megalopoli come Mosca, al punto di configurare l’Uomo nuovo la cui accresciuta potenza ben si coniugava con quella del regime sovietico.

Alla base dell’impostazione del regime c’era la visione che l’arte doveva contribuire alla creazione di un mondo nuovo, un “realismo idealista” divenuto “realismo socialista”, e anche per questo doveva essere “comprensibile alle masse”, secondo il pensiero di Lenin  che voleva arrivare al popolo.  Questo criterio non si affermò subito dopo la Rivoluzione di ottobre:  nel primo decennio,  pur ponendo l’arte al servizio dello stato proletario, rimase un pluralismo in cui trovò spazio la sperimentazione  sia pure entro la conciliazione tra realismo ottocentesco e linguaggio moderno;  e convissero l’Associazione dei pittori della Russia Rivoluzionaria , legata al realismo celebrativo,  e l’Associazione dei pittori del cavalletto, che cercava di rispondere alle nuove esigenze senza sacrificare lo slancio modernista, alla quale era vicina l’Ost che prediligeva lo “stile del presente”.

Poi l’Associazione rivoluzionaria  ebbe il sopravvento sulle altre due che sparirono,  e anche la sua linea realista e documentarista degradò nel “più spiccato asservimento dell’arte alle funzioni educative e formative del popolo – osserva Lanfranconi –  con un progressivo abbandono del piccolo formato in favore della scala monumentale meglio accessibile alle grandi masse popolari”.  Così nacque e si sviluppò il “Realismo socialista”, “incardinato sui principi della lealtà al partito e del contenuto ideologico  e radicato in una matrice intrinsecamente romantica, orientato a un ideale, il  ‘ radioso avvenire’ come sorta di succedaneo del “paradiso in terra”.

Dopo gli anni ’20,  le forme espressive  della nuova realtà dinamica lasciarono  il modernismo retrocedendo all’accademismo ottocentesco.  Anzi, dopo il 1936,  furono aspramente combattute le nuove tendenze impressioniste e il formalismo e venne bandito tutto quanto era al di fuori del “Realismo socialista”, anche di artisti importanti. Si affermò la “Teoria del riflesso”  per cui l’arte doveva essere lo specchio della realtà, anche se rifletteva l’utopia idealista della fede nel “radioso avvenire”.   Doveva essere “a prova di popolo” come evidenza narrativa e contenere i valori  del regime, essere cioè “socialista nel  contenuto e realista nella forma”, senza possibili alternative.

Con la fine della seconda guerra mondiale alla “Teoria del riflesso” si aggiunse quella del “Non conflitto”,  assumendo che la società sovietica aveva cancellato ogni contrasto sociale; ciò diede il via ad immagini improntate all’ottimismo con il popolo appagato della condizione sociale e lavorativa in una natura essa stessa metafora della felicità goduta dalle persone; il tutto  in uno stile sempre più precisionista quasi per fotografare una realtà, nel momento in cui si evocava l’utopia.

Alla morte di Stalin nel 1953 la destalinizzazione determinò il “disgelo” anche nell’arte, gli artisti a poco a poco si liberarono dai rigidi schemi celebrativi dell’utopia collettivista per rappresentare la realtà partendo dai valori semplici dell’esistenza: ci fu al riguardo quello che Lanfranconi definisce una “sorta di revival impressionista”. Si afferma la corrente dello “Stile severo”- che riuniva elementi di varia provenienza tra cui il realismo politico di Guttuso – e senza ripudiare il “Realismo socialista”  introduce “una dimensione morale ed etica rispetto alla rappresentazione della condizione umana via via più lontana dalla radiosità trionfalista della pittura staliniana”.

Dieci anni dopo Khruscev cerca di chiudere le aperture  che con il pluralismo avevano portato al distacco dell’arte dalle esigenze dello stato sovietico,  e così farà il successore Breznev, ma gli artisti non tornarono nell’alveo celebrativo, molti restarono lontani dalla visione rassicurante del regime e mantennero lo spirito anticonformista e  libertario  proprio dell’arte.

Convissero quindi, nel panorama artistico russo,  nei trentacinque anni dopo la morte di Stalin. “tendenze progressiste, una serie di ‘ritorni all’ordine’ più o meno acconciati alle aggiornate esigenze, proposte non allineate e, infine, movimenti sotterranei o clandestini di  rottura”.

La fine degli anni ’80 segna la dissoluzione del regime, e con essa termina ogni limitazione e ogni condizionamento alla libertà espressiva degli artisti. Per cui il periodo precedente, dopo la fase di oscuramento e declassamento,  diventa un terreno di studio e di analisi per scoprire il valore artistico che nessuna imposizione esterna ha potuto cancellare.

Proseguiamo, quindi, la visita commentando le opere che, esprimendo gli atteggiamenti e i volti della  gente comune colta nella quotidianità, rendono a seconda delle fasi in cui sono state realizzate, dagli anni ’20 agli anni ’80, le diverse  situazioni  degli artisti sovietici  rispetto ai vincoli alla loro creatività e i modi con cui  hanno potuto manifestare il proprio talento.

Dai mezzi di trasporto alle persone nella loro umanità

Anche nella sezione “Road movie sovietico”  come nella precedente, ci si riferisce ai  mezzi di trasporto ma ripresi non più da  protagonisti dell’irrefrenabile sviluppo, bensì  come veicoli sui quali  le persone sono viste nei volti e nelle espressioni, protagoniste assolute della nuova vita.

“Assistente di volo”, 1973, di Jurij Pimenov rende la personalità della hostess che percorre con le sue borse una via di Mosca con le cupole del Cremlino sullo sfondo, gli aerei non ci sono affatto, è una scena di vita urbana  con l’elegante silhouette della giovane donna, moderna e determinata come quella al volante nel suo celebre quadro  “La nuova Mosca”   della sezione precedente che abbiamo citato ricordando la donna sportiva  di Tamara de Lempicka sulla Bugatti verde.  

La gente della Metropolitana è un tema prediletto dagli artisti, considerando il significato che veniva dato dal regime alla monumentale realizzazione con la quale si intendeva  fare del luogo più frequentato dalla popolazione moscovita  una “dimora”  per il popolo lussuosa  come la reggia degli Zar. Ma non viene celebrato il lusso quanto l’umanità dei frequentatori. “Sulla scala mobile. Metropolitana di Mosca”, 1941-43, di Grigorij Segal,  dà una immagine ravvicinata  rispetto a quella da lontano di Labas di “Metro” nel 1935, vediamo persone dei più diversi ceti, professioni ed età, anche un neonato in braccio e l’intellettuale che sbircia il giornale.  “Due donne di città. Bozzetto per il quadro ‘In metro'”, 1962,  sono viste ancora più da vicino, sedute in attesa con lo sguardo assente. Invece sono molto vigili “Le impiegate della metropolitana Nadezda Alekseeva e Faina Tjaguseva”, 1971-72, di Semen Rotnitskij, efficienti e pronte nella loro divisa blu con il basco rosso.  Il quadro più recente, “Città. Ora di punta”, 1982, di Marija Dreznina, mostra l’uscita dalla stazione sulle scale della Metro di un gruppo di persone riprese nell’oscurità per sottolinearne la solitudine, l’atmosfera è mutata, non c’è più l’enfasi modernista, tutt’altro.

Naturalmente non mancano i due mezzi urbani per eccellenza, tram e autobus, anche se a Mosca è la Metro il fiore all’occhiello. “In tram”, anni ’30, di Julija Razumovskaja, fa vivere il clima delle ore di punta, con  in primo piano due donne dentro il veicolo che guardano la gente affollarsi all’esterno per salire.  Mentre “Autobus di provincia”,  1970-71, di Boris Rjanzov, è una ripresa da lontano della fila di gente alla fermata che sale sul pullman in uno scenario  nevoso.

Della fine degli anni ’70 il trittico “Il mattino”, 1978,  formato di tre parti che, come in una sequenza cinematografica, presentano  la fabbrica,  la casa e al centro il filobus con una persona stretta nel suo soprabito in fila per salirvi, lo stesso pittore Andrej Volkov, l’atmosfera è quanto mai triste,  è un quartiere dormitorio con l’aria stagnante, sono gli anni grigi di Breznev senza slanci. Anche qui la persona si vede da lontano, la psicologia è resa di riflesso dallo squallore ambientale.

In primo piano, invece, la persona ripresa in “Mikad, Raccordo anulare di Mosca (parte del ciclo Autobus di linea”), di Semen Fajbisovic:  siamo nel 1984, è vista da dietro mentre guarda fuori dal finestrino ma, a differenza del quadro con le due donne  “In tram”, fuori non c’è gente in fila per salire, l’autobus corre nella campagna che si vede in una inquadratura  il cui precisionismo richiama il “fotorealismo” americano, basato su appositi  scatti fotografici. Ci ricorda, per la vista posteriore e la sua ampiezza,  il quadro di Pimenov, con il bus invece dell’auto.

Un’inquadratura per molti versi analoga è quella  ferroviaria di Eduard Bragovskij, “In viaggio”, 1961,  due persone sono viste di profilo sedute l’una di fronte all’altra davanti al finestrino che dà su un paesaggio innevato,  i colori  dei loro abiti contrastano con il biancore della neve, sono vicine ma estranee,  diverse nell’atteggiamento e forse nella destinazione, rendono  lo spirito del viaggio.

C’è un altro tipo di viaggio con uno scopo e una destinazione comune, quello degli studenti, il clima è molto vivace. E’ gioioso in “Andando a studiare”, 1953, di Anatolij Papjan, in piedi guardano con interesse fuori dal finestrino dello scompartimento, indicando qualcosa. Altrettanto vivace in “I versi di Majakpovskij”, 1955, del grande Alecsandr Deineka,  anche qui studenti , maschi e femmine, che li declamano, altre persone li ascoltano con il paesaggio che scorre dal finestrino. Scena idilliaca, come i versi del Poema di ottobre ” e la vita è proprio bella, e si vive proprio bene”.

Gioiosa anche “La brigata della locomotiva”, 1957, di Andrej Kurnakov, questa volta sono i macchinisti  a essere ripresi sorridenti; mentre in Tajset”, 1959, di Viktor  Popkov,  due lavoratrici del cantiere ferroviario con alle loro spalle un treno in corsa,  sono viste nella dura quotidianità.

Nella “Stazione Kazanskij”, 1081, di Alecsandr Petrov, domina la vista degli scambi dei binari, sembra che manchi la presenza umana, invece si intravede nello specchio retrovisore della locomotiva appena delineata il viso del macchinista, modello  è stato il padre dell’artista.

Ci sono anche due visioni marine molto diverse: “Sulla zattera”, 1949, di Jakov Romas, riprende la tranquilla discesa del fiume  di una famiglia di lavoratori fluviali con una tavola apparecchiata; “Porto di Leningrado”, 1964, di Petr Korostelev,  mostra una grande nave, le automobili sul molo e i passeggeri, particolari resi con un precisionismo fotografico.

I lavoratori con le macchine  e nell’ambiente

Ancora più  espressive della psicologia individuale le immagini dei quadri esposti nella sezione “Amore e macchine”,  che riguardano non gli utilizzatori dei mezzi ma i lavoratori, spesso donne a porre in rilievo l’emancipazione femminile e il ruolo paritario attribuito dal regime. Vediamo così due lavoratrici nelle ferrovie, in “Viaggi-strade”, 1954, di Mikhail Anikeev e “Sulla tratta. Addetta allo scambio dei binari”, 1959, di Gennadij Dar’in,  l’atmosfera ferroviaria è resa dal vapore e dal vento del treno in arrivo, l’atteggiamento di entrambe è fermo e deciso; e  “Mar’jam Vasil’kova, camionista della fabbrica Kamaz”, 1970, di Viktor Kudel’kin,  dall’espressione ancora più determinata nel reggere il volante in abiti da lavoro ma con un fazzoletto rosso sgargiante che ne mette in rilievo la femminilità in un’occupazione considerata fino ad allora maschile.

La sua posizione di profilo con le braccia tese la accostiamo a quella  di “L’escavatorista”, 1969, di Michail Anikeev di cui abbiamo citato “Viaggi-strade”, anche se la figura maschile esprime tensione e potenza, come la statua di un atleta greco.

C’è anche l’abbinamento uomo-donna in due situazioni molto diverse. “Nelle steppe del pre-Volga”, 1934, di Alecsandr  Samokhvalov, mostra  la donna sul cingolo del trattore con le braccia larghe che sembra volare verso le conquiste dell’emancipazione, mentre l’uomo più in basso le tende il braccio in un movimento  che è “al tempo stesso attrazione e opposizione”. Invece in “Camion in panne. Studio per il quadro ‘In viaggio'”, anni ’50-’60, di Gelij Korzev, mentre il camionista è disteso sotto il veicolo impegnato nella riparazione, la donna con il bambino in  braccio è seduta in attesa sul parafango interiore, non è la donna emancipata e lavoratrice ma la mamma. Viene ricordato che questo abbinamento ricorda la scultura simbolica “L’operaio e la colcosiana” di Vera Mukhina , e anche la falce e martello univa il lavoro femminile in agricoltura a quello maschile nelle fabbriche. E’ stato accostato addirittura  alla celebre composizione di Caravaggio “Il riposo durante la fuga in Egitto”, considerandolo un’anticipazione del successivo ciclo biblico in cui si impegnò l’artista.

Biblica pure nel titolo, oltre che nella composizione, “La creazione del mondo”, 1973, di Jurij Pimenon, l’autore del citato “La nuova Mosca”, con la donna emancipata al volante della decappotatbile; qui le due figure nude evocano Adamo ed Eva, tra l’acqua e il verde di un giardino terrestre con una grande ruota di camion. Mentre riporta agli atleti dell’antica Grecia “Azovstal'”, anni ’70, di Anatollij Sipov, l’aitante lavoratore novello Atlante davanti alla locomotiva sbuffante.

Oltre a queste immagini individuali o con due persone vi sono anche scene collettive: “Di ritorno dal turno in mare”, 1957, di Tair Salakhov, mostra un gruppo di lavoratori, uomini e donne, su una passerella in cui resistono alle folate di vento contrario, forse una metafora; nessuna spinta  contraria; mentre nel  “Ritratto di gruppo della brigata dei tagliatori di metallo Nakipov della fabbrica Kamaz”, 1978-80, cinque lavoratori in una pausa di lavorio visti in diversi atteggiamenti.

Lavoratori anche nella sezione “Russia selvaggia” in  varie situazioni.  Anatolij Sipov presenta  due opere in sequenza logica, anche se non cronologica: “Gabbiani”, 1971,  con tre uomini sulla barca impegnati nel tirare le reti mentre gli uccelli marini volteggiano intorno, in un celeste e blu dominante di tipo impressionistico; “La stagione della pesca”, 1969 , con tre donne in primo piano che portano ceste colme di pesce scaricato dalle barche per mano dei pescatori dietro di loro.

Mentre “Pionieri”, 1975,  di Oleg Ponomarenko,  e “La Brigata Zakharov. Fabbrica Kirovskij”, 1984-85,di Nicolaj Baskalov mostrano  due  scene molto diverse, che tuttavia possono considerarsi anch’esse in sequenza logica: la prima ritrae tre uomini al bivacco con gli stivali stesi ad asciugare al fuoco, nell’ambiente inclemente e sconosciuto; la seconda cinque operai  davanti a trattori monumentali, tra la neve nella quotidianità del lavoro, in una scena teatrale. In fondo,  si deve al coraggio dei “pionieri”  nel territorio sconfinato se il lavoro può dispiegarsi in modo così spettacolare.

In questo contesto si collocano “Le notti bianche”, 1966-67, di Aleksei Michajlov e “Il villaggio di Polascel. Addio”, 1996, di Evgenij Kravtsovisa, che concludono la nostra rassegna:  l’ambiente polare si riflette nel primo dipinto nell’uomo  che torna a casa tra la neve e il gelo con in mano la pagnotta di pane; nel secondo  nella scena dei saluti in partenza su una barca nella pittoresca campagna russa del nord, ci sono amici ospitati dall’artista, la moglie e lui stesso ripreso di spalle. Due immagini che rendono la profonda umanità e il duro sacrificio nel resistere alle difficoltà  della vita e del lavoro.

In fondo, sono i motivi profondamente umani che si  innestano su quelli di esaltazione celebrativa. L’insieme, con i relativi  contrasti e sinergie,  rappresenta i contenuti e la cifra artistica dell’importante stagione pittorica  del ‘900 artistico russo. E’ un arco temporale di 70 anni, in larga parte dominato dal “Realismo socialista”, in cui le forme espressive hanno  il grande merito di descrivere una società e un periodo storico così tormentato con il linguaggio universale e coinvolgente  dell’arte.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Russia on the Road” anche “Impressionisti e Moderni” e “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, per quest’ultima cfr., in questo sito, i nostri articoli il 1°, 14 e 23 novembre 2015. Catalogo “Russia on the Road 1920-1990”, Istituto dell’Arte Realista Russa, 2015, pp. 192, formato  20 x 25,5, note e 3introduttive di  Matteo Lanfranconi, Leonid Lerner, Gian Piero Piretto, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 18  novembre scorso, con 13 immagini sulla 1^ sezione  e sulla 2^ sezione, “Road movie sovietico” qui commentata. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli, in questo sito su Deineka 1°e 16 dicembre 2012, su  Guttuso  25, 30 gennaio 2013 ; in “cultura.inabruzzo.it” ,su  Tamara  de Lempicka 3 articolinelgiugno 2011,  Realismi socialisti 3 nel dicembre 2011 in “fotografia.guidaconsumatore.it”  su Rodcenko 2 articoli  nel dicembre 2011 e su Tamara de  Lempicka 5 luglio 2011  (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare l’Istituto dell’Arte Realista Russa, per l’opportunità offerta. Le 13 immagini sono di opere della 2^ sezione, “Road movie sovietico”,  3^ sezione, “Amore e macchine”, 4^ sezione, “Russia selvaggia”.  In apertura,   Jurij Pimenov, “Assistente di volo“, 1973; seguono,  Semen Fajbisovic, “Raccordo anulare di Mosca”, 1984, e Mikhail Anikeev, “Viaggi-strade”, 1954; poi, Anikeev, “L’escavatorista”, 1935, e Tair Salakhov, “Di ritorno dal turno di mare, 1957; quindi, Aleksandr Dejneka,  “In aria”, 1932, e Victor Kudel’kin,  “Mar’jam Vasil’kova, camionista della fabbrica Kamaz”, 1979; inoltre, Kudel’kin, “Ritratto di gruppo della brigata dei tagliatori di metallo Nakipov della fabbrica Kamaz”, 1978-80, e  Anatolij Sipov, “Azovstal“, anni ’70; ancora, Aleksej Mikhajlov, “Le notti bianche”, 1066-67, e  Anatolij Sipov, “La stagione della pesca”, 1969; infine,  Sopov, “Gabbiani”, 1971, e Oleg Ponomarenko, “Pionieri”,  1975; in chiusura, Evgenij Kravtsov, “Il villaggio di Polascel’e. Addio”, 1996.

Dolce vita? Classicismo e modernismo nel design del ‘900, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude  la nostra visita alla mostra “La dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”  che presenta  al Palazzo Esposizioni dal 16 ottobre 2015 al 17 gennaio 2016,  soprattutto oggetti di uso quotidiano  realizzati con la cosiddetta arte applicata usufruendo di maggiore libertà rispetto all’arte maggiore che il fascismo sottopose  ai vincoli del regime. Si succedono diversi stili in una galleria espositiva che mostra anche capolavori pittorici del periodo, dal futurismo alla metafisica. E’ stata realizzata in collaborazione con il Museo Museo d’Orsay e de l’Orangerie, e curata, come il Catalogo Skirà, da Guy Cogeval, presidente delmuseo parigino, con Beatrice Avanzi.

In precedenza ci siamo soffermati in primo luogo sui contenuti della mostra, con un excursus sull’evoluzione artistica del periodo considerato, i primi quarant’anni del secolo scorso,  nel campo delle arti applicate al vivere quotidiano, inquadrandola nel contesto politico e sociale che ha reso questo periodo particolarmente inquieto, per usare un eufemismo: c’è stata la Grande Guerra, poi l’avvento del fascismo, ci sarà la Seconda guerra mondiale.

Abbiamo quindi raccontato le prime sezioni della mostra descrivendo gli oggetti e le opere  rientranti nelle correnti del Liberty e del Futurismo, delle quali abbiamo ricordato i motivi fondamentali: dal richiamo all’armonia della natura nelle volute e negli elementi ornamentali del primo, alla velocità e movimento, essenzialità e dissacrazione del secondo. E’ stata ricordata anche la metafisica, con la sua atmosfera di sospensione e di mistero resa dalle piazze assolate con le piccole figure umane, le lunghe ombre degli edifici a più arcate, i monumenti e il treno sbuffante; e la metafisica degli archeologi con l’omaggio alla classicità reso visivamente dagli antichi monumenti e ruderi, dopo le teste ad uovo e le altre creazioni.

Con il ritorno alla classicità, o per meglio dire con la rifondazione di un nuovo classicismo, entriamo nella sezione del percorso espositivo che segue immediatamente e logicamente la Metafisica. Il neoclassicismo è seguito a sua volta dal razionalismo e dall’astrattismo, nella corsa alla modernità che trova compiuta manifestazione nel processo formativo del mderno “design” del quale cercheremo di dare le coordinate stilistiche e produttive con le  espressioni concrete nel descrivere gli oggetti esposti di autori tra i quali troviamo anche artisti divenuti protagonisti del mondo dell’industria .

Il nuovo classicismo di “Novecento”

Le diverse forme del nuovo Classicismo convergono nel movimento  “Novecento”, guidato da Margherita Sarfatti,  con Malerba e Marussig, Oppi e Sironi,  che nel 1929 contava oltre un centinaio di artisti. Si voleva riportare la pittura, nelle parole della Sarfatti, “al concreto, al semplice, al definitivo”, in particolare “alla “limpidità nelle forma e compostezza nella concezione, nulla di alambiccato e nulla di eccentrico, esclusione sempre maggiore dell’arbitario e dell’oscuro”.  I temi sono quelli classici,  natura morta e allegoria, maternità e nudo, in varie interpretazioni.  

Mario Sironi dalle desolate “Periferie” andrà alle decorazioni sui fasti del regime, in mostra è esposto “Paesaggio urbano con taxi”,  1920, con il motivo futurista dell’automobile in un ambiente metafisico immobile, senza velocità nè movimento.

Di Felice Casorati  tre dipinti molto espressivi, “L’attesa”, 1918-19, e “Silvana Cenni”, 1922,  due intense figure femminili, “Ritratto di Renato Gualino”, 1923-24, un giovane assorto con due donne in piedi sullo sfondo. Figure femminili anche nei dipinti di Ubaldo Oppi, “Ritratto della moglie sullo sfondo di Venezia”, 1921, e   Achille Funi, “Saffo”,  1924, di   Massimo Campigli, “Ritratto di signora  (Donna con le braccia conserte)”, 1924,  e Antonio Donghi, “Cocottina”, 1927, suo anche “Giocoliere”, 1936, scelto come “testimonial” della mostra per la forma compositiva essenziale in un soggetto inusitato. 

Ma le opere pittoriche sono una parentesi nel contesto espositivo dedicato soprattutto agli oggetti del vivere quotidiano. Così vediamo, dopo le tre figure dei suoi dipinti appena ricordati, tavolo e sedie della “Sala da pranzo di casa Casorati a Torino”,  disegno di Casorati, ebanista Cometti. 

Il classicismo e il formarsi del “design” nella prima metà del ‘900

Un interesse particolare presenta la storia della nascita del “Design”  moderno in Italia, che passa per la crisi della grande industria  su cui si erano concentrati gli investimenti anche bellici, e lo sviluppo su base artigiana nei settori dei beni di consumo corrente, dove con l’inventiva si sopperiva alla carenza di risorse.

Le condizioni del paese facevano mancare le spinte del mercato che avvenivano nei paesi più ricchi, quindi si potevano sperimentare forme nuove, archetipi industriali veri “oggetti primi”  con la creatività individuale libera da vincoli alimentata dalla cultura scientifico-tecnica diffusa dai nostri Politecnici, soprattutto di Milano e Torino.

Così si affermano progettisti che diventano imprenditori e si pongono dinanzi all’oggetto da creare – scrive Gianpiero Bosoni  – “con l’atteggiamento di un artista che si avvale spregiudicatamente delle tecniche più diverse per la realizzazione di un’idea”, atteggiamento che “non era sostanzialmente diverso nel settore delle arti applicate o, come allora venivano chiamate, delle industrie artistiche”.

Il clima dell’epoca era tale che la presenza dei vincoli del regime portava a classificare i risultati secondo le posizioni culturali sottese, dal conservatorismo al  razionalismo fino alle avanguardie.  Il ritorno al classicismo era generale, nelle due forme di “classicismo modernizzato”  o di “modernità classicista”, a seconda della prevalenza dell’uno o dell’altro dei due caratteri compresenti; come era comune il recupero dell’italianità, intesa anche qui in due accezioni, come rivalutazione delle tradizioni locali o come stile nazionale. 

 Sotto “il grande ombrello della classicità” si raccolse una nuova generazione di artisti che formarono il movimento del “Novecento”, ed esposero a Monza nella Biennale del 1927 e nella Triennale del 1930. 

Tra loro  viene ricordato Gio Ponti, che fondò la rivista “Domus” con cui vennero diffuse le nuove idee e, scrive Bosoni, “prima e più di ogni altro in Italia, inventò e interpretò la figura del designer, almeno quindici o venti anni prima che questa parola comparisse nel linguaggio degli addetti ai lavori”. E lo fece nella pratica, con le realizzazioni,  da direttore artistico alla Richard Ginori inaugurò la figura del progettista non ristretto nella cultura della fabbrica di porcellane, ma con capacità progettuali fino alle posate e ai mobili, agli aerei e alle ville.

Vediamo esposte una serie di queste realizzazioni di Gio Ponti per la Richard Ginori, in cui è evidente l’ispirazione classicista, a partire dal piatto “Le attività gentili. I progenitori”, siamo intorno al 1925.  Così la  coppa “Emerenziana”, il piatto “Fabrizia” e l’orcio “Le mie donne sui fiori” della serie “Le mie donne”, raffigurate in immagini mitologiche con volute liberty e tratti moderni. Il classicismo è esplicito nelle tre urne “La passeggiata archeologica”, “La conversazione classica”,  “Grottesca”, e nella cista “La conversazione classica”, con piccole figure sulla superficie; fino  al “Trionfo da tavola per le ambasciate d’Italia”, con lo scultore Tomaso Buzzi,  una serie di pezzi  del 1927 di prorompente classicismo.

Classicista, ma in forma stilizzata,  anche lo specchio “Il ratto d’Europa”,  realizzato da Ponti per FontanaArte  nel 1933, tema al quale è intitolata anche la scultura di Alfredo Biagini, 1930,  un nudo femminile sul toro con la morbidezza classica delle forme. L’eclettismo stilistico e progettuale di Ponti è  evocato dal vaso “Prospettica”, 1925,  non il classicismo mitologico ma impostazione geometrica, tante piccole finestre quadrate nere con dentro ciascuna dei piccoli solidi, e dalla lampada “Billia”, 1930, per FontanaArte, una sfera su un cono,  da tre porcellane dipinte  “Mano fiorita”, 1935, e  dalla “Panca”, 1930,  ebanista Magnoni. Un piccola  mostra personale!

Dalla ceramica al vetro, in vetro semplice  “Due vasi blu azzurro”  e il vaso “Libellula” di un blu intenso, entrambi di Vittorio Zecchin; in “vetro soffiato” i “Due vasi sferici con piede tronco-conico”,   1926,  di Carlo Scarpa, in “vetro pulegoso”  l’“Anfora”, 1925-27   di Napoleone Martinuzzi, di un verde intenso, seguita da  tre “Piante grasse” blu, 1929-33; anche in color verde intenso il “Vaso” e il “Vaso dei cavalli marini”, 1932-33, di Tomaso Buzzi, in “vetro alga”. Infine il vaso “Marcia su Roma” 1930-31, di Corrardo Cagli e Dante Baldelli, con immagini epiche, e il “Vaso con arcieri”, 1933.34,  del solo Baldelli , anch’esso evocativo nella sua linearità.

Infine delle vere e proprie sculture ceramiche e in altri materiali: in ceramica il “Vaso con colonna”, 1927-28, di Guido Andlovitz, in legno, metallo e cristallo  la “Lampada da terra ‘Eva’”, 1929, di Giacomo Manzù e Giuseppe Pizzigoni,  in terracotta la  “Donna alla finestra”, 1930,  e in bronzo il “Bozzetto per Athena”, 1934, entrambe di Arturo Martini, in terracotta smaltata la “Coppa sorretta da Pegaso”, di Ercole Drei e Pietro Melandri con cui si arriva al 1940.

Dopo le ceramiche e gli oggetti scultorei, ecco i mobili di uso domestico creati in unico esemplare per destinazioni specifiche come la casa dell’autore o per personalità e ambienti particolari. Vediamo,  realizzati tra il 1927  e il 1931,  il “Mobile-vetrina per la ‘Sala del gabinetto di prova di una sartoria moderna”, 1930, di Pietro Lingeri,  e una serie di poltrone. “Poltrona” e “Dormeuse di casa Pizzigoni a Bergamo, di Giuseppe Pizzigoni, e le “Poltrone del palazzo uffici Gualino”, di Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini, le “Poltrone”  di Franco Albini, insieme a un originalissimo “Mobile bar con tavolini a nido per la casa Ferrarin a Milano”,  e di Marcello Piascentini, del quale sono esposti anche il “Mobile con inserti scultorei per lo studio del presidente Casa madre dei mutilati e invalidi di guerra”, destinazione anche della poltrona precedente, e “Mobile e due sedie per la casa di Margherita Sarfatti a Milano” in un rosso intenso;infine la “Consolle e panca per casa Corbellini-Wasserman a Milano”, di Piero Portaluppi, cui si deve pure una “Applique”; e la “Panca per la sala d’aspetto del Palazzo uffici dell’E 42”, di Guglielmo Ulrich,siamo al 1939.

Tra razionalismo e astrazione

L’evoluzione artistica non finisce qui, il ritorno all’antico sia pure con intenti moderni  provoca una nuova reazione, che porta alla rivoluzione  dell’astrattismo, e fa piazza pulita delle evocazioni classiche come delle suggestioni futuriste.  Il modernismo ebbe forme geometriche con un razionalismo basato su “metodo, calcolo e disciplina”; era contro “ogni arbitrario sconfinamento nella fantasia creativa”, che poi ebbe il sopravvento liberandosi di qualunque vincolo e riferimento.

E’ esposta una serie di opere, tra razionalismo ed astrazione, per esemplificare anche queste tendenze sempre più evidenti con l’avvicinarsi della fine del quarantennio considerato.

Vediamo quattro dipinti che evidenziano l’impronta geometrica in una prospettiva  astratta, sono “Ritratto di uno stato d’animo”, di Manlio Rho,  1938-39, due “Composizioni”, di Manlio Radice, 1932-36, e “Pittura” di Atanasio Soldati, 1935. Poi tre “Sedie”, tra il 1932 e il 1940,   di Marcello Piacentini, Giuseppe Terragni, e Carlo Mollino, e la singolare “Poltroncina a dondolo detta ‘Seggiovia’”, sospesa,tutte con struttura in tubolari metallici, utilizzati in altre realizzazioni per uso domestico,  la “Lampada da terra ‘Lunimator'” di Luciano Baldassarri, 1929, e il “Portaoggetti” di Giuseppe Pagano e Gono Levi Montalcini, 1930.

La nostra rassegna dell’esposizione termina con  il “Mobile radio” in cristallo di Franco Albini,   il “Vaso e coppa in vetro rosso e nero”,  e tre vasi ‘Tessuto'” con rigature verticali colore verde pastello, di Carlo Scarpa, 1940.

Considerazioni conclusive

Alcune riflessioni  finali per meglio interpretare l’evoluzione nel primo quarantennio del ‘900, di cui abbiamo citato una serie di opere dei generi più diversi, rappresentative dell’eclettismo degli autori e della varietà delle tendenze emerse.

I vncoli crescenti verso la celebrazione dei fasti dell’impero in forme retoriche e monumentali, fortissimi per Roma,  erano meno stringenti per il triangolo industriale Milano-Torino-Genova dove i rapporti  tra la cultura artistica, che andava evolvendo rapidamente verso forme nuove,  e il mondo produttivo restarono aperti agli influssi innovatori nordeuropei.

La “tradizione del moderno” di Gropius e Le Corbusier potè fare strada, anche se in un compromesso con lo “spirito delle tradizioni” italiane, fattore non del tutto limitativo in quanto espressione della “volontà di ricerca autonoma rispetto alle varie ortodossie, nella speranza progettuale di andare oltre il principio degli schemi contrapposti, come quello di antico e moderno”, afferma Bosoni: “Una chiave di lettura, complessa e sperimentale, che sarà alla base delle più interessanti ricerche dell’architettura e del design italiano”.

Del “Gruppo 7” che nel 1926 pubblicò il manifesto culturale della scuola milanese del razionalismo, facevano parte Giuseppe Terragni, Luigi Figini e Luigi Pollini, che con Baldassarri e Pagano, Persico e Lingeri, furono precursori dei “designer” milanesi, di alcuni di loro abbiamo visto le opere.

Vengono individuate tre fasi nel progresso verso la modernità, la prima con l’inserimento nella corrente del razionalismo internazionale; la seconda con la rinuncia ad alcune posizioni avanzate sotto la pressione crescente del regime ma nel mantenimento della tensione creativa verso una via italiana; la terza con il ripensamento dello stesso razionalismo.

Il crogiolo dal quale ha tratto alimento il design italiano è fatto di tutto questo, con le correnti che abbiamo citato, il classicismo di “Novecento” e, ancora prima, il Futurismo e la Metafisica.. Ricordiamo alcuni nomi, il razionalista Terragni e il neoclassico Muzio, i futuristi Depero e Prampolini  non dimenticando le ricerche di Balla sui rapporti tra arte, arredo e ambiente sin dagli anni ’20, e poi Fillia e Pannaggi, Munari e Mosso, Dulgheroff e D’Albissola. Oltre a queste personalità milanesi, il veneziano Scarpa e il torinese Molino, il fiorentino Michelucci e i romani Moretti, Ridolfi e Quaroni.  Di  qui una miriade di spunti in un fecondo confronto dialettico, il confronto visivo si può fare  tra le opere che abbiamo commentato di alcuni tra questi autori.

Era un confronto tra la cultura di artisti e architetti protesa verso la modernità e la cultura industriale in senso stretto, rimaste separate nella gran parte delle imprese produttive, tranne esempi positivi come in Olivetti, che per la razionalizzazione produttiva chiamò artisti ed architetti.  Due mondi diversi che non si comprendevano perché la cultura di fabbrica considerava il razionalismo solo un modo di minimizzare i costi, la cultura architettonica lo vedeva come uno stile di vita.

“La nozione di ‘design’ – conclude Bosoni – .compare verso la fine degli anni trenta nel dibattito culturale, proprio perché fu in quegli anni che in Italia si rese manifesta la separatezza tra le due diverse culture, a cui il disegno industriale avrebbe voluto porre rimedio. La VII Triennale (1940) fu il palcoscenico di questa aspirazione alla riconciliazione tra arte e industria”.

E’ la giusta conclusione del nostro racconto, il 1940  chiude il primo quarantennio del ‘900 che la mostra fa rivivere con la spettacolare  esposizione di ambienti e oggetti dell’arte applicata, ‘”arte minore” ma pur sempre arte, oltre che di dipinti che portano nell’olimpo artistico senza limitazioni.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Dolce vita?”” anche “Russia on the Road” e “Impressionisti e Moderni”. Catalogo “Dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, a cura di Guy Cogeval e Beatrice Avanzi, con Irene de Guttry,  Maria Paola Maino, Skira,  ottobre 2015, pp. 252, formato 22 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo e il secondo articolo sono usciti in questo sito il 1° e  il 14 novermbre, con altre 12 immagini ciascuno.  Per gli artisti e movimenti citati nel testo, cfr. in questo sito i nostri articoli su Sironi  1°, 14, 29 dicembre 2014, 7 gennaio 2015 e, per le vignette satiriche, 2 novembre 2015;  su “Astrattismo”, 5, 6 novembre 2012. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, dal Museo d’Orsay ai singoli artisti,  per l’opportunità offerta. In questo secondo articolo sono riportate le immagini della 4^ e 5^  Sezione della mostra.  In apertura,   Gio Ponti (e Tommaso Buzzi), “Trionfo da tavola per le ambasciate d’Italia”, 1926-27; seguono,  Felice Casorati, “Silvana Cenni”, 1922, e Achille Funi, “Saffo”, 1924, con  “Poltrona e tavolino da salotto”, 1930, di Franco Albini; poi, Gio Ponti,  “Coppa ‘Emerenziana’”, a sin., “Piatto ‘Fabrizia’”, a dx,1925, della serie “Le mie donne”, e 32; e Alfredo Biagini, “Ratto d’Europa”, 1930;  quindi,  Ubaldo Oppi, “Ritratto della moglie sullo sfondo di Venezia”, 1921, con “Panca“, 1930, di Gio Ponti (e Angelo Magnoni, ebanista), e Marcello Piacentini (e Publio Morbiducci), “Mobile con inserti scultorei per lo studio del presidente, Casa madre dei mutilati e invalidi di guerra, Roma”,  con “Poltroncina”  stesso autore e destinazione, 1927-28; inoltre, Marcello Piacentini, “Mobile e sedie per la casa di Fiammetta Sarfatti”,  1933, a sin., con Antonio Donghi, ““Piccoli saltimbanchi”, 1938,  a dx, e Antonio Donghi, “Cocottina”, 1927, con   “Panca per la sala d’apertura del  Palazzo degli Uffici dell’E42”, 1939; infine,  Corrado Cagli e Dante Baldelli, “Vaso ‘Marcia su Roma’”, 1930-31, a sin., Dante Baldelli, “Vaso con arcieri“, 1933-34, a dx, e Mario Radice, “Composizione R1”, 1932, a sin., e “Composizione CFA”, 1935-36, a dx; in chiusura, Antonio Donghi, “Giocoliere”, 1936.

Russia on the Road, il progresso nel ‘900, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La  mostra “Russia on the Road, 1920-90” presenta  al Palazzo Esposizioni dal 16 ottobre al 15 dicembre 2015 circa 60 dipinti di notevole valore artistico e anche storico in quanto documentano l’irruzione del progresso nella vita sovietica che ha scosso una società tradizionale con la spinta aggiuntiva della propaganda di regime sul miracolistico “balzo in avanti”. Realizzata in collaborazione con l’Istituto d’Arte Realista Russa di Mosca, la fondazione internazionale “Accademia Arco” e la compagnia assicurativa “Ingosstrahk”, dopo Roma la mostra andrà a Mosca dove le opere saranno esposte nell’Istituto promotore dal 22 gennaio al 22 maggio 2016,  questo spiega la durata dell’esposizione romana, troppo breve rispetto alla elevata caratura artistica,  all’ampiezza della mostra e all’interesse delle sue opere di grandi dimensioni, spettacolari e coinvolgenti.  Ideata da Aleksej Ananjev, che ha partecipato alla presentazione, e curata da Nadeshda Stepanova e Matteo LanfranconiCatalogo dell’Istituto d’Arte Realista Russa, con note introduttive di Lanfranconi, Lerner e Piretto.

Delle tre mostre aperte contemporaneamente al Palazzo delle Esposizioni in un impressionante impegno espositivo – le altre sono “Una dolce vita?  Dal Liberty al design italiano nel 1900-1940”  e “Impressionisti e moderni. I capolavori della Phillip Collection di Washington” – questa prosegue il discorso sull”’arte russa del ‘900 avviato con gli artisti del “Realismo socialista“, proseguito con  Aleksandr Deineka, e con il fotografo d’arte  Rodcenko.  Si aggiunge alla trilogia l’attuale mostra nella quale viene approfondito ulteriormente il tema con opere che nell’arco di un secolo documentano la visione di un paese illuso di poter  trasformare “l’utopia in realtà e la realtà in mito”, come  è scritto efficacemente nella Presentazione.

Significato e contenuto della mostra

Le 60 opere esposte provengono dai principali musei russi, da collezioni private   e dall’Istituto dell’Arte Realista Russa, un organismo privato creato dieci anni fa per promuovere l’arte e la conoscenza con il collezionismo: dal 2011, su 4500 mq di una vecchia fabbrica di tessuti  di Mosca modernamente attrezzati, sono conservate e in parte esposte circa 500 opere dalla fine del periodo zarista ai giorni nostri.

Si tratta di una fase storica nella quale dalla tradizione ottocentesca si è passati alle prime avanguardie fino alle sperimentazioni contemporanee attraversando il lungo periodo seguito alla Rivoluzione d’ottobre nel quale l’arte veniva sottomessa alla politica nel diffondere le immagini di regime. Lo abbiamo visto con le opere del “Realismo socialista”, con particolare riguardo a Deineka, nel quale la considerazione della forza dell’uomo, del quale esaltava anche la fisicità nello sport oltre che l’impegno nel lavoro,  era autentica e spontanea, anche se veniva a coincidere con la propaganda di regime.

A differenza delle altre mostre citate, di tipo antologico, questa è tematica:  la potente spinta al  progresso viene evocata attraverso i suoi simboli, in particolare i  mezzi di trasporto, automobili e treni, aeroplani e navi , che consentivano di dominare l’immenso territorio e acquistavano un ruolo crescente nella vita della popolazione.  Alle opere con valenza simbolica del progresso si aggiungono quelle più intime e personali.

D’altra parte, come ha detto l’Ambasciatore della Federazione russa Sergej Razov, citando Romain Roland, “l’arte non può staccarsi dalle aspirazioni dei suoi tempi”, per questo “osservando i lavori dei maestri del Rinascimento sentiamo l’attrazione insuperabile al bello, alla bellezza fisica e spirituale, alla perfezione celeste di tutto quello che appartiene alla terra”, la reazione al Medioevo in un nuovo “approccio all’uomo come al centro dell’universo, alla sublime creatura di Dio, fatta a sua immagine”.  Pertanto, “le opere del periodo sovietico ci possono raccontare molto del periodo, della società e del paese in cui sono state realizzate”. E questo proprio per i loro contenuti, quanto mai espressivi di quel periodo, società e paese.

Al riguardo bastano i titoli delle sezioni della mostra per evidenziarne il contenuto e l’interesse che suscita: “Treni, aeroplani, automobili” e  “Road movie sovietico”, “Amore e macchine” e “Russia selvaggia”, fino alla conclusione con la “Corsa allo spazio”.  Le immagini, rutilanti di colori e di entusiasmo,  non recano traccia dell’ombra oppressiva del regime, ma questo è un altro intrigante motivo di interesse per il visitatore che vuol leggere tra le righe, o meglio le pennellate, nel mentre ripercorre mentalmente le diverse fasi della storia del periodo sovietico.  Ma il ‘900 russo non è solo regime, si arriva ai giorni nostri con l’arte finalmente libera da vincoli.

Il saggio di Lanfranconi istituisce colte correlazioni tra le singole opere e tali fasi, considerando il mondo artistico e quello politico,  è un excursus appassionante ma lo è altrettanto la semplice visione delle opere perché sono quanto mai eloquenti nei loro significati espliciti e anche reconditi.

L’irruzione dei moderni mezzi di trasporto nel mondo sovietica  

E’ un tema che si inserisce nella cosiddetta “paesaggistica industriale”,  ricorda Leonid Lerner, che con la tematica sportiva, dalla forte valenza ideologica,   consentiva agli artisti, “sotto la maschera della ‘linea ufficiale’, di introdurre alcune novità plastiche”. Così vennero a formarsi due tendenze, un “filone dinamico-realistico”  con la potenza delle macchine che cambia la vita delle persone, e uno “in buona parte lirico, fantastico, a volte ideologico  ma non propagandistico e sempre umano”.

L’indirizzo era di  esprimere “l’unità della vita e del lavoro, della vita e dell’arte, il rapporto e l’interdipendenza tra l’uomo e la macchina”, portati anche dall’entusiasmo per il progresso e dagli slanci utopistici dell’ideologia; anche i voli lirici dovevano spingere a compiere imprese e combattere le ingiustizie, in una sorta di chiamata dell’arte alla mobilitazione nazionale.  La simbiosi tra l’uomo e la macchina diventava vitale e fonte di eroismo negli anni della guerra.

Diversi sono i mezzi di trasporto e la loro funzione nella società russa, tuttavia comune alle interpretazioni artistiche è l’intento di rendere insieme alle macchine l’atmosfera che le circondava, l’impegno nel lavoro degli addetti, lo stato d’animo degli utilizzatori, il clima generale.

Gian Piero Piretto ne fa un’analisi precisa partendo dalla fase immediatamente successiva alla Rivoluzione di ottobre del 1917,  allorché veniva privilegiata l’attenzione al particolare delle macchine che avrebbero rivoluzionato la  vita russa;  ingranaggi e dadi, bulloni e ruote dentate prevalevano sulla macchina, come nelle celebri fotografie di Rodcenko: “Il ‘come’ aveva la meglio sul ‘cosa’. Si tendeva ad indagare il sistema di funzionamento, sia in senso reale che metaforico”.

Era un radicale mutamento, in senso volitivo,  rispetto alla visione precedente in cui prevaleva l’inquietudine rispetto al rapporto con un ambiente inclemente, difficile da gestire nel territorio sconfinato; la civiltà delle macchine, con la scienza e la tecnica, dava una risposta positiva.  A ciò si aggiungeva l’entusiasmo per la ventata di dinamismo data dalle nuove possibilità  che si aprivano.

Poi, aggiunge Piretto, “con gli anni successivi proprio  al 1928, inizio del primo piano quinquennale staliniano, il risultato avrebbe prevalso sul procedimento. Nessuno si sarebbe più soffermato  a interrogarsi su ‘come’ certi esiti si fossero potuti ottenere. Avrebbe vinto il ‘cosa’, l’idea di miracolo realizzato senza supporti religiosi, di costante e fremente sviluppo del paese, nonostante la realtà effettuale segnalasse carestie, difficoltà di sostentamento e, soprattutto, il famigerato terrore in crescita”. Il  “paradiso dei lavoratori” veniva propagandato all’estero e generava proseliti nei partiti comunisti  degli altri paesi, prima che si conoscesse la vera realtà del comunismo reale.

In più, dopo  il rigore spartano della Rivoluzione d’Ottobre, irrompe nella società russa la visione  staliniana della “vita felice” proclamata nel discorso del 1935 in cui disse: “Vivere  è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro”. Le opere esposte, nella  successione cronologica e nella  comparazione dei contenuti rendono visivamente tale evoluzione e l’illusoria apertura.  

Si passa, da una sezione all’altra della mostra, dalle macchine  all’uomo, prima nell’enfasi dell’artefice-conduttore e dell’eroe del lavoro, poi con attenzione crescente all’aspetto umano.

Con il “disgelo” del periodo  krusheviano e l’ambizioso programma di dissodamento delle terre vergini i mezzi di trasporto divennero parte di un’epopea collettiva,  in cui tornò con prepotenza il mito del treno abbinato a quello della natura selvaggia nello sterminato territorio russo.  La quotidianità operosa ma personale, quindi umana,  si sostituiva alle visioni simboliche stereotipate.

E’ emozionante, nei saloni della mostra, vedersi circondati da spettacolari riproduzioni dei mezzi di trasporto che fanno parte della vita di ognuno, come apparivano nella visione utopica venata di propaganda ma animata da sincera condivisione di un’esaltazione collettiva; del resto il Futurismo in Italia è stato frutto della stessa esaltazione applicata alle macchine e alla velocità.

I mezzi di trasporto nei dipinti esposti

I quadri esposti nella mostra testimoniano questo insieme di motivi per i diversi mezzi di trasporto, “Treni, aeroplani, automobili”, come si intitola la 1^ sezione, insieme a tram, autobus e alla metropolitana monumentale.  

Alecsandr Labas ci mostra due visioni quasi parallele di un vagone del treno con i viaggiatori in movimento (“In corsa”, 1928)  e di una scala mobile della metropolitana  che porta i viaggiatori in alto, quasi nella metafora del progresso in corso nel paese o, più in generale nella vita dell’uomo (“Metro”, 1935). Entrambe le immagini sono sfumate, quasi un’atmosfera onirica o un miraggio.

Sul primo viaggio in treno ricordiamo le impressioni del pittore Il’ya Repin: “… Balenarono rapidamente chiese, case, villaggi di campagna, strade,  da qualche parte gente che camminava o se ne andava su qualche mezzo di tarsporto. Sicuramente anche qui tutto cambia molto velocemente, a mala pena riesci a dare un’occhiata e il treno vola, vola…”.

Di Konstantin Vjalov abbiamo due immagini molto diverse: la prima statica,  (“Il vigile”, 1923), presenta l’imponente figura del piantone  che occupa l’intero dipinto rispetto alla minuscola automobile, siamo ancora nel periodo spartano dove il rigore prevale sull’evasione; nella seconda (“Baku. Ferrovia”, 1933)  non c’è il treno ma un nodo ferroviario reso dai fasci di binari con sullo sfondo  serbatoi e opifici, è la rapida industrializzazione il soggetto, le piccole sagome umane tra le rotaie sono insignificanti rispetto al fervore del lavoro, ancora non irrompe la “felicità della vita”.

Il terzo artista del quale sono esposte opere su due mezzi di trasporto è Georgij Nisskij: all’aereosono dedicate due sue opere in paesaggio nordico: “Aerei sulle montagne”, 1934,  del periodo più duro del “Realismo socialista”, che esprime l’ardimento dei piloti  in condizioni estreme con gli aerei a terra, “Sopra le nevi“, 1964,  dal quale emerge la perfezione tecnologica dell’aereo affusolato che sfreccia sopra la superficie innevata con  la manifestazione concreta della conquista da parte dell’uomo non solo dello spazio ma anche del tempo con la velocità.

Al treno e dedicato “In viaggio”, una composizione di linee convergenti, i binari e le diagonali del palazzo della stazione. L’artista si ispira ai ricordi della stazione ferroviaria del suo paese natio e scrive: “Ancora oggi con lo stesso amore dell’infanzia amo il mio paesaggio, il semaforo, i binari, il bosco dagli alti pini che scompare dietro la curva e  l’infinità della campagna bielorussia cosparsa di brina…”. E aggiunge: “La prima e più vivida impressione che ho avuto è legata alla vista del treno. Cin trepidazione osservavo le locomotive nere e fischianti. Correvano in qualche direzione, lontano. Mi hanno letteralmente rapito, riempiendomi di un entusiasmo mai provato prima”. Sono le prime emozioni che tutti hanno provato all’inizio con questo mezzo di trasporto collettivo;  poi l’emozione  si è estesa guardando lo scorrere dei viaggiatori nei vagoni e ai finestrini, ciascuno con la sua provenienza e destinazione, con la sua storia personale e la sua psicologia. 

Di tutti gli altri artisti è esposta un’opera su un solo mezzo di trasporto. Sempre sul treno, vediamo una locomotiva in arrivo con un  traliccio, è “L’ultima tappa”, 1961, di Mikhail Anikeev.

Sull’automobile  vediamo una delle opere più rappresentative  della mostra, è di Jutij Pimekov, il celebre dipinto “La nuova Mosca”, 1937. Siamo nell’anno successivo alla dichiarazione di Stalin  sulla “vita felice” che,  sia detto per inciso, richiama quasi come una beffa considerando le abissali differenze dei sistemi, il “diritto alla felicità” della Costituzione americana, e il dipinto vuol essere  la fotografia di quanto di più evoluto sia entrato nella vita dei moscoviti:  una grande strada popolata di automobili e di persone, nell’originale visione dal sedile posteriore dell’autovettura decapottabile con al volante dinanzi a un cruscotto sofisticato  una giovane bionda  dalla pettinatura moderna e l’aria emancipata, sullo sfondo il nuovo albergo Moskva e il teatro Bolscioi. Il massimo! Nel 1925 Tamara de Lempicka aveva dipinto “La ragazza sulla Bugatti verde”,  vista di profilo con atteggiamento disinvolto,  la giovane di Pimekov forse è meno sportiva ma altrettanto emancipata.

Sempre di ambiente cittadino  il dipinto di Boris Rybeenkov, “Viale Leningrado”,  1935, una serie di filobus, appena introdotti a Mosca, tra filari di alberi e la gente che affolla la strada, una composizione dal suggestivo contrasto cromatico.

Ma sono gli aeroplani il mezzo di trasporto a cui è dedicato  il maggior numero di opere esposte, oltre alle due già citate.  Vediamo innanzitutto “In aria”, 1932, di Aleksandr Deineka, di cui ricordiamo altre opere su questo soggetto della sua mostra precedente, con il piccolo aereo vicino alla grande montagna,  e “Idroviazione”, 1933, di Boris Tsvetkov,  che invece mostra la visione da un altro aereo, una ripresa dall’alto quindi, della formazione di velivoli , con la terra in basso, in una inquadratura che ricorda l’aerofuturismo, la fase evoluta in cui il pittore ha già provato l’emozione del volo, ci torna in mente la mostra dello scorso anno alla Galleria Russo su Tato,  con una ricca serie di immagini aerofuturiste. 

Deineka ha raccontato così le prime impressioni di volo su “un vecchio aereo che mi è apparso davvero meraviglioso”; “Ho visto la  mia città e i campi illuminati dal sole. E’ stata una sensazione nuova e difficile da  trasmettere, la prima volta che una persona si alza in aria e osserva la sua città in modo assolutamente nuovo… Solo alcuni anni dopo ho visto un nesso tra la mia opera e questo primo volo”.

Vediamo anche “Idrovolanti“, di Vladislav Levant, sebbene sia del 1970 celebra il coraggio e il sacrificio, il velivolo è a terra tra le rocce innevate con le punte delle ali congelate, mentre i piloti  a terra si allontanano nella tormenta di neve.

Gli altri dipinti sono anch’essi celebrativi ma non presentano i velivoli, bensì il “Ritratto di pilota“, 1933, di Aleksandr Samokhvalov, di cui vediamo esposto anche “Bambino con l’aeroplano”, e “L’aviatrice. Ritratto di Katja Mel’nikova”,  1934, di Samuil Adlivankin.

Lo spazio, dall’aerostato alla navicella spaziale

E’ del 1935  il  grande dipinto di Georgij Bibikov, “L’aerostato stratosferico Osoaviakhim”,  con i navigatori in piedi sulla capsula sopra al pallone mentre i soldati trattengono le funi.  Ma già nel 1928  Georgij Ktutilov aveva progettato, nella tesi di laurea “La città volante“,  cabine per gli spostamenti  in superficie,  aria, acqua e abitazioni avveniristiche  in un’ottica spaziale, nella mostra vediamo alcune grafiche.  

Il dipinto-simbolo della “Corsa allo spazio” –  così si intitola l’apposita sezione della mostra – è “Gloria agli eroi della cosmonautica!”, di Mikhail Kuznetov-Volzskij, del 1964, che riproduce il monumento elevato a Mosca nello stesso anno, a celebrazione del primato allora acquisito, è nel vasto piazzale dinanzi all’Hotel Cosmos. Al culmine dell’alta installazione c’è il razzo in volo verso l’infinito lasciandosi dietro la scia che ne costituisce il supporto, il dipinto lo ritrae in atmosfera notturna con la luna che si profila dietro al razzo.

Nel 1982  abbiamo “Vostok 1 si prepara al lancio”,  del tandem  Aleksej Leonov e Andrej Sokolov, Leonov è stato il primo uomo a compiere la “passeggiata nello spazio”, alla passione per la cosmonautica univa quella per l’arte e ha realizzato centinaia di dipinti in tema spaziale;  questo con Sokolov oltre all’imponente struttura della navicella rappresenta gli uomini che ne sono artefici. Il solo Sokolov, il maggiore artista impegnato su temi spaziali,  con “Attraversando un cratere“, dieci anni prima, nel 1972, aveva rappresentato un robot  lunare esplorativo con sullo sfondo il pianeta terra come veniva descritto nei racconti dei cosmonauti e nelle fotografie dallo spazio.

Dopo la navicella, ecco  la base spaziale in  “Un giorno di sole a Bajkonur”, di Aleksandr Petrov, siamo nel 1986-87,  è imminente il lancio del razzo che si vede in fondo, in primo piano dei fitti pilastri “dispersori” in caso di incidenti,  l’ambiente è asettico, l’atmosfera di ansiosa attesa. 

Molta attenzione viene prestata all’elemento umano, come evidenziano due dipinti, “La terra in ascolto”, 1965, di Vladimir Nesterov, e “Costruttori“, 1967, di Ivan Stepanov.  Nel primo si vedono i tecnici in camice bianco assorti nel captare i messaggi con una ragazza davanti a loro che non riesce a trattenere l’emozione, l’artista si era documentato accuratamente; nel secondo dipinto c’è la progettazione per modificare l’ambiente dove si vive e costruire anche così un futuro migliore.

La conclusione non può che essere il dipinto di  Andrej Plotnov,  “Arrivederci, terrestri!”, del 1979, l’artista  celebra  il primo astronauta andato in orbita  con un ritratto fatto a  Yuri Gagarin nel proprio  studio riprendendolo nel gesto di saluto dentro lo scafandro, con il volto illuminato dal sorriso per il  successo ottenuto.

Termina così la prima parte del nostro racconto della mostra, quella dedicata alle opere sui mezzi di trasporto che avevano modificato profondamente la vita dell’immenso territorio sovietico facilitando la mobilità e gli spostamenti, fino alle imprese spaziali viste come sfida al futuro.

Sono opere nelle quali solo indirettamente si percepiscono gli effetti sulla società e sugli individui, anche se non mancano alcuni importanti riferimenti che rientrano nella mistica del regime basata sull’uomo come creatore di progresso. Le opere che commenteremo prossimamente sono invece dedicate essenzialmente all’aspetto umano e sociale di queste trasformazioni.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Russia on the Road” anche “Impressionisti e Moderni” e “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”. Catalogo “Russia on the Road 1920-1990”, Istituto dell’Arte Realista Russa, 2015, pp. 192, formato  20 x 25,5, note introduttive di  Matteo Lanfranconi, Leonid Lerner, Gian Piero Piretto, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo uscirà in questo sito il 26 novembre p.v., con 13 immagini sulle altre sezioni. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli, in questo sito su Dejneka 1°e 16 dicembre 2012,  su Tato 19 febbraio 2015; in “cultura.inabruzzo.it”, su  Tamara de Lempicka 3 articolinelgiugno 2011,  Realismi socialisti 3 articoli nel dicembre 2011 in “fotografia.guidaconsumatore.it”  su Rodcenko 2 articoli  nel dicembre 2011 e su Tamara de  Lempicka 5 luglio 2011  (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare l’Istituto dell’Arte Realista Russa, per l’opportunità offerta. Dopo le prime 6 immagini, relative ad opere della 1^ sezione “Treni, aeroplani, automobili” citate nell’articolo, 6 immagini della 2^ sezione “Road movie sovietico” che saranno citate nel prossimo articolo e l’ultima immagine della sezione finale  “Corsa allo spazio”. In apertura,   Jurij Pimenov, La nuova Mosca, 1937; seguono,  Boris Rybcenko, “Viale Lenigrado”, 1935, e Aleksandr Labas, “Metro”, 1935; poi Georgij Nisskij,  “In viaggio”, 1958-64, e Aleksandr Deineka,  “In aria”, 1932; quindi, Aleksandr Samokhvalov, “Ritratto di pilota”, 1933, e Julija Razumovskaja, “In tram”, anni ’30; inoltre, Grigorij Segal, “Sulla scala mobile“, 1941-43, e Anatolij Papjan, “Andando a studiare”, 1053;  infine, Aleksandr Deineka, “I versi di Majakovskij”, 1955,  Eduard Bragovskij, “In viaggio, Kotlas”, 1961, e Aleksandr Petrov, “Stazione Kazanskij”, 1981; in chiusura, Mikhail Kuznetsov Volzskij, “Gloria agli eroi della cosmonautica!”,  1964.