Tintoretto, 2. Le opere profane e i ritratti, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

A un anno dall’apertura della mostra su Tintoretto, svoltasi alle Scuderie del Quirinale dal 25 febbraio al 10 giugno 2012, rievochiamo la visita iniziando dalle opere meno appariscenti perché di dimensioni più contenute, e meno celebrate ma molto significative per segnarne la caratura di artista innovativo in due settori particolari: le  opere profane e i ritratti. Temi su cui i pittori, peraltro, si sono cimentati,  “a latere” dell’impegno per lo più prevalente nelle committenze ecclesiastiche per le grandi pitture sacre, che in Tintoretto hanno l’aspetto di scenografie teatrali segnate dalla luce. La normale visita alla mostra iniziava dalla grande esposizione delle opere sacre nell’intero primo piano dello spazio espositivo, le cui sale erano introdotte dai commenti della scrittrice Melania Mazzucco, che nei suoi testi ha ricostruito l’ambiente e l’opera del Tintoretto. Un fondale rosso per scenografia, le grandi tele della pittura sacra riempivano di per se stesse gli ambienti. Ma il resoconto della nostra visita vogliamo iniziarlo dalla parte meno spettacolare, che si trovava al piano superiore, quella dei ritratti e delle opere profane, minori come dimensioni e notorietà.

“Susanna e i vecchioni”, 1555-56

Le ragioni della disposizione in mostra risiedono nelle caratteristiche degli spazi espositivi ai due livelli, perché la maggiore altezza del primo piano si presta alle grandi pale d’altare, e nel voler colpire subito con le opere di più forte impatto. Nella nostra scelta, le opere sacre sono il “clou” di un artista che predilige composizioni teatrali e cinematografiche, e le “star” a teatro entrano dopo i comprimari, va preparato il loro ingresso con l’ansia dell’attesa: qui le “star” sono le grandi tele.

Ma chiamare comprimari i ritratti e le opere profane  non va considerato riduttivo; anche in senso cronologico i vari generi coesistono: Tintoretto dipinse ritratti, opere  allegoriche e mitologiche per tutta la vita insieme alle pur prevalenti opere sacre. Stilisticamente in lui e negli altri artisti c’era comunicazione tra i diversi generi, le soluzioni stilistiche venivano trasferite dall’uno all’altro.

I ritratti

I ritratti a Venezia erano diffusi nelle categorie sociali elevate ma non solo nobiliari: i patrizi volevano celebrare i fasti familiari e le classi agiate il loro ruolo nella città pur se escluse dalla politica; i commercianti ne facevano un segno distintivo della crescita sociale e i forestieri della loro stessa identità. Tintoretto attribuiva molta importanza ai ritratti perché lo mettevano in contatto con personaggi influenti che gli potevano aprire la strada alle grandi committenze.

Nella fase iniziale cercò di differenziarsi, i ritratti dei primi anni ’40  non comprendevano  le mani per concentrare l’attenzione sul volto: così nell’“Autoritratto”, 1546-47, si vede solo il suo viso  rischiarato dalla luce, il resto è oscuro, a parte una sottile striscia bianca nel colletto.

Presto capì che nel presentarsi sul mercato della ritrattistica doveva fare tesoro dell’opera del grande Tiziano che lo dominava: dagli anni ’50 i suoi ritratti hanno anche le mani pur se concentra sempre l’attenzione sul volto servendosi della luce e non del colore, molto sobrio e scuro, in assenza dello spazio. Esclude elementi diversivi nell’abbigliamento, indistinguibile, e nello sfondo oscuro nel quale pone il personaggio a mezzo busto di tre quarti o di profilo. Di questo tipo sono “Ritratto di gentiluomo”, 1548-50  e “Ritratto di gentiluomo con la catena d’oro”, 1555-56, due posizioni diverse con le stesse tinte scure nel vestito e nello sfondo, a parte la striscia più chiara del colletto e dell’orlo dell’abito nel primo o della catena d’oro nel secondo. Invece nel “Ritratto di gentildonna”, 1550,  l’abbigliamento è ricercato e impreziosito da ornamenti, pur nella consueta sobrietà e oscurità cromatica, mentre la posizione frontale esprime determinazione.

 “Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80 

A parte questa eccezione – pochi sono i ritratti femminili pervenutici, ma tutti di grande intensità –  anche negli anni ’60 del XVI secolo prosegue nell’evidenziare i volti con la luce che li colpisce, e anche le mani, per indagarne carattere e sentimenti interiori, mentre tutto il resto è in ombra: il corpo è tutt’uno con lo sfondo nero in “Ritratto d’uomo con la barba bianca”, 1562-64 e “Ritratto di Alvise Cornaro”, 1562-65; mentre nel precedente “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561, per caratterizzare il  collezionista introduce in alto la base dei capitelli, in basso la testa di una statua su cui appoggia la mano sinistra. Anche nel “Ritratto di Jacopo Sansovino”, 1566, per caratterizzarlo gli fa tenere un compasso nella mano, appena percepibile, l’espressione del volto scolpita dalla luce è particolarmente intensa, viene ritenuto un capolavoro della ritrattistica.

Nel “Ritratto di giovane uomo”, 1565, la figura è pressoché intera, l’abito non solo è distinguibile, ma prevale sul viso, pur fermo e deciso. L’attenzione all’abito è ancora maggiore nei ritratti successivi degli anni ’70: lo stile è cambiato, non più l’oscurità consueta da cui emerge solo il volto con una mano, ma la figura in luce con ricco abbigliamento ed elementi di sfondo. Così nei due quadri intitolati entrambi “Ritratto di procuratore di San Marco”:  nel primo, 1570,  una figura dal viso in piena luce con un lussuoso abito di velluto, nel secondo, 1573-75, l’abito diventa dominante con il ricco tendaggio, la luce valorizza i segni della carica più che l’espressione del volto.

Fino al “Ritratto di Sebastiano Venier con un paggio”, 1577-78, dove  la mutazione nella sua  ritrattistica, morto Tiziano, raggiunge il culmine: è una composizione con le due figure  in piena luce, molto ricca sia nel mantello e nella corazza, sia nella scena sullo sfondo, la battaglia navale di cui il Venier fu protagonista, aiutato dall’arcangelo Michele con la spada e da Cristo dal cielo.

Con l'”Autoritratto” del 1588-89 c’è un ritorno alle origini, agli anni ’40: si vede solo il volto, le mani di nuovo scomparse, il vestito torna ad essere tutt’uno con lo sfondo nero, il volto è cascante, le palpebre appese, l’espressione stanca e sofferta, lo sguardo depresso  ben diverso da quello volitivo dell’età giovanile e non solo per ragioni anagrafiche, bensì per motivi psicologici.

Danae”, 1577-80

Le opere profane e  la bellezza femminile

Dopo la ritrattistica abbiamo trovato il “Tintoretto profano” nelle opere allegoriche e mitologiche, che non sono molto frequenti per lui almeno in forma di dipinti. Su questi temi fu più presente negli affreschi, perchè la sua prontezza nel dipingere lo rendeva molto adatto alle grandi superfici; inoltre la sua abilità negli scorci aderiva all’esigenza di procedere alle pitture murali in soffitti dalle speciali conformazioni e il dinamismo della sua pittura ben si prestava alla visione dal basso.

A parte questo, la sua scarsa propensione ai dipinti mitologici e allegorici derivava dalla lontananza dalla stile classicista, ritenuto più adatto a questo tipo di contenuti. All’inizio aderì alla tradizione locale e si avvicinò a Giulio Romano e Schiavone per l’approccio alla tematica classica: poi se ne allontanò per un approccio parodistico e ironico che banalizzava i miti classici  riducendoli ad episodi giocosi, in linea con la  tendenza dei “poligrafi” dell’epoca.

Ci fu un’interruzione di due decenni prima che tornasse ai temi mitologici dopo il 1576 per la morte di Tiziano che lasciava un grande spazio a lui e a Paolo Veronese, divenuti veri e propri  sostituti del Maestro scomparso in questo tipo di committenze di privati facoltosi, aristocratici, prelati e mercanti; perciò, come nei ritratti, se ne doveva seguire la linea stilistica.

Tintoretto, peraltro,  per la sua indipendenza, cercò temi diversi da quelli congeniali al grande Tiziano, in modo da non esserne condizionato, anche se nel colore ci fu un indubbio avvicinamento. Questo non va necessariamente riferito a periodi diversi, ma piuttosto  si deve parlare di una varietà di approcci anche in relazione alle diversità di committenze e di destinazioni delle opere profane.

La mostra presentava gli ottagoni del 1541-42, “Deucalione e Pirra” e  “Apollo e Dafne”,  parte di una serie di 14 tavole dipinte per il soffitto di Palazzo Pisani a Venezia: la conformazione delle figure viste dal retro è particolare, sembrano deformate dalle torsioni che danno loro un  dinamismo accentuato dall’angolo di visuale dal basso al quale erano destinate.

Quello che interessa sottolineare a questo punto è la sua visione della bellezza femminile – così si intitolava l’apposita sezione della mostra – evidente anche in “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, 1552-55, dove la donna tenta il santo in un nudo molto eloquente. I nudi dei quadri mitologici e allegorici venivano richiesti per allietare le stanze private dei committenti, sono accarezzati dalla luce, la figura morbida è sempre al centro della scena, carica di sensualità e di erotismo.

Un’opera molto significativa in questo senso è “Susanna e i vecchioni“, 1555, tema classico per i pittori dell’epoca, che lui declina dando una posizione dominante al corpo nudo di Susanna, accarezzato dalla luce, una vera corazza di carne che sembra proteggerla. Anche in “Danae”, di 25 anni dopo, il corpo nudo della donna concupita da Giove in forma di pioggia d’oro è al centro della scena, in una composizione rivolta allegoricamente anche alle cortigiane veneziane.

Tornando al 1555, in “Vulcano, Venere e Marte” la sensualità del corpo abbandonato di Venere  prevale sulla stessa bellezza; mentre sul dramma dell’irruzione di Vulcano che scopre il tradimento prevalgono elementi giocosi come la testa di Marte che spunta da sotto il letto, il cagnolino e  Cupido che dorme beato, una situazione da “cielo, mio marito!” in una lussuosa stanza veneziana. . In “Venere, Vulcano e Cupido“, 1560, cinque anni dopo, gli stessi nell’intimità familiare, lei è nuda, un ricco tendaggio e un paesaggio invece della misera grotta in una sorta di natività profana.

Con questa attenzione alla bellezza muliebre ci piace concludere il viaggio nel Tintoretto profano, prima di passare alle opere sacre dove alla bellezza del corpo si sostituisce quella dello spirito nelle immagini cariche di realismo ma insieme di un’elevata spiritualità con al culmine lo straordinario dipinto dalla doppia vita artistica “Incoronazione della Vergine o Paradiso”. Da qui, in senso cinematografico, parte il nostro “flash back” che ci riporta al suo massimo fulgore, alle pale e telere religiose. Ne parleremo presto, il “trailer” del prossimo “film” è nella presentazione da noi fatta dell’artista prima di entrare nel suo mondo dall’ingresso secondario dei ritratti e opere profane.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito,  il 25 febbraio, il terzo e ultimo articolo uscirà il 3 marzo 2013. 

Foto

Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Susanna e i vecchioni”, 1555-56; seguono”Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80, e “Danae”, 1577-80; in chiusura,  “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561.

“Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561

di Romano Maria Levante

A un anno dall’apertura della mostra su Tintoretto, svoltasi alle Scuderie del Quirinale dal 25 febbraio al 10 giugno 2012, rievochiamo la visita iniziando dalle opere meno appariscenti perché di dimensioni più contenute, e meno celebrate ma molto significative per segnarne la caratura di artista innovativo in due settori particolari: le  opere profane e i ritratti. Temi su cui i pittori, peraltro, si sono cimentati,  “a latere” dell’impegno per lo più prevalente nelle committenze ecclesiastiche per le grandi pitture sacre, che in Tintoretto hanno l’aspetto di scenografie teatrali segnate dalla luce. La normale visita alla mostra iniziava dalla grande esposizione delle opere sacre nell’intero primo piano dello spazio espositivo, le cui sale erano introdotte dai commenti della scrittrice Melania Mazzucco, che nei suoi testi ha ricostruito l’ambiente e l’opera del Tintoretto. Un fondale rosso per scenografia, le grandi tele della pittura sacra riempivano di per se stesse gli ambienti. Ma il resoconto della nostra visita vogliamo iniziarlo dalla parte meno spettacolare, che si trovava al piano superiore, quella dei ritratti e delle opere profane, minori come dimensioni e notorietà.

“Susanna e i vecchioni”, 1555-56

Le ragioni della disposizione in mostra risiedono nelle caratteristiche degli spazi espositivi ai due livelli, perché la maggiore altezza del primo piano si presta alle grandi pale d’altare, e nel voler colpire subito con le opere di più forte impatto. Nella nostra scelta, le opere sacre sono il “clou” di un artista che predilige composizioni teatrali e cinematografiche, e le “star” a teatro entrano dopo i comprimari, va preparato il loro ingresso con l’ansia dell’attesa: qui le “star” sono le grandi tele.

Ma chiamare comprimari i ritratti e le opere profane  non va considerato riduttivo; anche in senso cronologico i vari generi coesistono: Tintoretto dipinse ritratti, opere  allegoriche e mitologiche per tutta la vita insieme alle pur prevalenti opere sacre. Stilisticamente in lui e negli altri artisti c’era comunicazione tra i diversi generi, le soluzioni stilistiche venivano trasferite dall’uno all’altro.

I ritratti

I ritratti a Venezia erano diffusi nelle categorie sociali elevate ma non solo nobiliari: i patrizi volevano celebrare i fasti familiari e le classi agiate il loro ruolo nella città pur se escluse dalla politica; i commercianti ne facevano un segno distintivo della crescita sociale e i forestieri della loro stessa identità. Tintoretto attribuiva molta importanza ai ritratti perché lo mettevano in contatto con personaggi influenti che gli potevano aprire la strada alle grandi committenze.

Nella fase iniziale cercò di differenziarsi, i ritratti dei primi anni ’40  non comprendevano  le mani per concentrare l’attenzione sul volto: così nell’“Autoritratto”, 1546-47, si vede solo il suo viso  rischiarato dalla luce, il resto è oscuro, a parte una sottile striscia bianca nel colletto.

Presto capì che nel presentarsi sul mercato della ritrattistica doveva fare tesoro dell’opera del grande Tiziano che lo dominava: dagli anni ’50 i suoi ritratti hanno anche le mani pur se concentra sempre l’attenzione sul volto servendosi della luce e non del colore, molto sobrio e scuro, in assenza dello spazio. Esclude elementi diversivi nell’abbigliamento, indistinguibile, e nello sfondo oscuro nel quale pone il personaggio a mezzo busto di tre quarti o di profilo. Di questo tipo sono “Ritratto di gentiluomo”, 1548-50  e “Ritratto di gentiluomo con la catena d’oro”, 1555-56, due posizioni diverse con le stesse tinte scure nel vestito e nello sfondo, a parte la striscia più chiara del colletto e dell’orlo dell’abito nel primo o della catena d’oro nel secondo. Invece nel “Ritratto di gentildonna”, 1550,  l’abbigliamento è ricercato e impreziosito da ornamenti, pur nella consueta sobrietà e oscurità cromatica, mentre la posizione frontale esprime determinazione.

 “Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80 

A parte questa eccezione – pochi sono i ritratti femminili pervenutici, ma tutti di grande intensità –  anche negli anni ’60 del XVI secolo prosegue nell’evidenziare i volti con la luce che li colpisce, e anche le mani, per indagarne carattere e sentimenti interiori, mentre tutto il resto è in ombra: il corpo è tutt’uno con lo sfondo nero in “Ritratto d’uomo con la barba bianca”, 1562-64 e “Ritratto di Alvise Cornaro”, 1562-65; mentre nel precedente “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561, per caratterizzare il  collezionista introduce in alto la base dei capitelli, in basso la testa di una statua su cui appoggia la mano sinistra. Anche nel “Ritratto di Jacopo Sansovino”, 1566, per caratterizzarlo gli fa tenere un compasso nella mano, appena percepibile, l’espressione del volto scolpita dalla luce è particolarmente intensa, viene ritenuto un capolavoro della ritrattistica.

Nel “Ritratto di giovane uomo”, 1565, la figura è pressoché intera, l’abito non solo è distinguibile, ma prevale sul viso, pur fermo e deciso. L’attenzione all’abito è ancora maggiore nei ritratti successivi degli anni ’70: lo stile è cambiato, non più l’oscurità consueta da cui emerge solo il volto con una mano, ma la figura in luce con ricco abbigliamento ed elementi di sfondo. Così nei due quadri intitolati entrambi “Ritratto di procuratore di San Marco”:  nel primo, 1570,  una figura dal viso in piena luce con un lussuoso abito di velluto, nel secondo, 1573-75, l’abito diventa dominante con il ricco tendaggio, la luce valorizza i segni della carica più che l’espressione del volto.

Fino al “Ritratto di Sebastiano Venier con un paggio”, 1577-78, dove  la mutazione nella sua  ritrattistica, morto Tiziano, raggiunge il culmine: è una composizione con le due figure  in piena luce, molto ricca sia nel mantello e nella corazza, sia nella scena sullo sfondo, la battaglia navale di cui il Venier fu protagonista, aiutato dall’arcangelo Michele con la spada e da Cristo dal cielo.

Con l'”Autoritratto” del 1588-89 c’è un ritorno alle origini, agli anni ’40: si vede solo il volto, le mani di nuovo scomparse, il vestito torna ad essere tutt’uno con lo sfondo nero, il volto è cascante, le palpebre appese, l’espressione stanca e sofferta, lo sguardo depresso  ben diverso da quello volitivo dell’età giovanile e non solo per ragioni anagrafiche, bensì per motivi psicologici.

Danae”, 1577-80

Le opere profane e  la bellezza femminile

Dopo la ritrattistica abbiamo trovato il “Tintoretto profano” nelle opere allegoriche e mitologiche, che non sono molto frequenti per lui almeno in forma di dipinti. Su questi temi fu più presente negli affreschi, perchè la sua prontezza nel dipingere lo rendeva molto adatto alle grandi superfici; inoltre la sua abilità negli scorci aderiva all’esigenza di procedere alle pitture murali in soffitti dalle speciali conformazioni e il dinamismo della sua pittura ben si prestava alla visione dal basso.

A parte questo, la sua scarsa propensione ai dipinti mitologici e allegorici derivava dalla lontananza dalla stile classicista, ritenuto più adatto a questo tipo di contenuti. All’inizio aderì alla tradizione locale e si avvicinò a Giulio Romano e Schiavone per l’approccio alla tematica classica: poi se ne allontanò per un approccio parodistico e ironico che banalizzava i miti classici  riducendoli ad episodi giocosi, in linea con la  tendenza dei “poligrafi” dell’epoca.

Ci fu un’interruzione di due decenni prima che tornasse ai temi mitologici dopo il 1576 per la morte di Tiziano che lasciava un grande spazio a lui e a Paolo Veronese, divenuti veri e propri  sostituti del Maestro scomparso in questo tipo di committenze di privati facoltosi, aristocratici, prelati e mercanti; perciò, come nei ritratti, se ne doveva seguire la linea stilistica.

Tintoretto, peraltro,  per la sua indipendenza, cercò temi diversi da quelli congeniali al grande Tiziano, in modo da non esserne condizionato, anche se nel colore ci fu un indubbio avvicinamento. Questo non va necessariamente riferito a periodi diversi, ma piuttosto  si deve parlare di una varietà di approcci anche in relazione alle diversità di committenze e di destinazioni delle opere profane.

La mostra presentava gli ottagoni del 1541-42, “Deucalione e Pirra” e  “Apollo e Dafne”,  parte di una serie di 14 tavole dipinte per il soffitto di Palazzo Pisani a Venezia: la conformazione delle figure viste dal retro è particolare, sembrano deformate dalle torsioni che danno loro un  dinamismo accentuato dall’angolo di visuale dal basso al quale erano destinate.

Quello che interessa sottolineare a questo punto è la sua visione della bellezza femminile – così si intitolava l’apposita sezione della mostra – evidente anche in “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, 1552-55, dove la donna tenta il santo in un nudo molto eloquente. I nudi dei quadri mitologici e allegorici venivano richiesti per allietare le stanze private dei committenti, sono accarezzati dalla luce, la figura morbida è sempre al centro della scena, carica di sensualità e di erotismo.

Un’opera molto significativa in questo senso è “Susanna e i vecchioni“, 1555, tema classico per i pittori dell’epoca, che lui declina dando una posizione dominante al corpo nudo di Susanna, accarezzato dalla luce, una vera corazza di carne che sembra proteggerla. Anche in “Danae”, di 25 anni dopo, il corpo nudo della donna concupita da Giove in forma di pioggia d’oro è al centro della scena, in una composizione rivolta allegoricamente anche alle cortigiane veneziane.

Tornando al 1555, in “Vulcano, Venere e Marte” la sensualità del corpo abbandonato di Venere  prevale sulla stessa bellezza; mentre sul dramma dell’irruzione di Vulcano che scopre il tradimento prevalgono elementi giocosi come la testa di Marte che spunta da sotto il letto, il cagnolino e  Cupido che dorme beato, una situazione da “cielo, mio marito!” in una lussuosa stanza veneziana. . In “Venere, Vulcano e Cupido“, 1560, cinque anni dopo, gli stessi nell’intimità familiare, lei è nuda, un ricco tendaggio e un paesaggio invece della misera grotta in una sorta di natività profana.

Con questa attenzione alla bellezza muliebre ci piace concludere il viaggio nel Tintoretto profano, prima di passare alle opere sacre dove alla bellezza del corpo si sostituisce quella dello spirito nelle immagini cariche di realismo ma insieme di un’elevata spiritualità con al culmine lo straordinario dipinto dalla doppia vita artistica “Incoronazione della Vergine o Paradiso”. Da qui, in senso cinematografico, parte il nostro “flash back” che ci riporta al suo massimo fulgore, alle pale e telere religiose. Ne parleremo presto, il “trailer” del prossimo “film” è nella presentazione da noi fatta dell’artista prima di entrare nel suo mondo dall’ingresso secondario dei ritratti e opere profane.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito,  il 25 febbraio, il terzo e ultimo articolo uscirà il 3 marzo 2013. 

Foto

Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Susanna e i vecchioni”, 1555-56; seguono”Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80, e “Danae”, 1577-80; in chiusura,  “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561.

“Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561

Accessible Art, con City Life innovazione e continuità, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Quarto appuntamento in nove mesi negli spazi di “Accessible Art” di RvB Arts , in via delle Zoccolette 28, con un pertinenza in via Giulia 193, dov’è l’Antiquariato Valligiano. E’ nata una nuova mostra, che dal “vernissage” del 21 febbraio resterà aperta fino al 16 marzo 2013, questa volta con 3 artisti come nelle prime due esposizioni, di maggio-giugno e novembre-dicembre 2012, dopo i 12 artisti della mostra dicembre 2012- gennaio 2013. Il nuovo titolo è “City Life”, e suscita interesse per il modo con cui viene interpretata la vita cittadina da giovani artisti contemporanei.

Annalisa Fulvi, “Il cantiere di san Pietro oggi”, a sin.

E’ una mostra-mercato con le opere in vendita secondo la filosofia alla base di “Accessible Art”, insita nella stessa denominazione: avvicinare all’arte contemporanea la gente comune, che in genere diserta le gallerie, con una proposta basata sui due criteri utilizzati nella selezione: opere integrabili nell’arredamento domestico corrente e raggiungibili dalla più larga fascia sociale sotto il profilo economico. Così l’arte contemporanea diviene “accessibile”: non più riservata ad una cerchia ristretta e ad ambienti eccentrici, ma aperta a un pubblico più vasto e in grado di entrare nella vita familiare rompendo il diaframma che la tiene lontana dalla gente comune.

Come l’arte contemporanea è resa “accessibile”

Conoscendo l’arte contemporanea e il relativo mercato non è una selezione agevole né riguardo alla tipologia artistica né a quella economica. Sono escluse le installazioni ingombranti e le opere imbarazzanti per chi non ha la fantasiosa creatività di certa critica sofisticata, oltre che quelle troppo costose per il programma di diffusione a largo raggio che si propone.

Ma non per questo si va sul convenzionale,  la contemporaneità e il tocco dell’arte sono assicurati dall’attenta e sensibile selezionatrice, Michele Von Buren, che ricerca artisti con le formule e i mezzi espressivi più diversi e non si limita a questo, perché non li “lascia”, una volta presentati in mostra. Continua a seguirli, ad ospitarli nella galleria, per cui già nel giro di un anno o poco più è riuscita a creare una nutrita scuderia di artisti sempre presenti che fanno corona con le loro opere – mantenute visibili  e disponibili per i potenziali clienti – agli artisti presentati ex novo. 

Per questo parliamo di innovazione e continuità: l’innovazione è nella formula, ai suoi primi passi, oltre che nelle “nuove proposte”,  per usare un termine sanremese; la continuità nel persistere nella linea  d’azione innestando le “nuove proposte”  nella “scuderia”  creata dalla galleria.  Nel presentare per la prima volta Michele Von Buren abbiamo evocato la figura di Peggy Guggenheim, la cui attività ha contribuito non poco all’emergere di grandi artisti della contemporaneità statunitense del dopoguerra; lo fece con le mostre di giovani sconosciuti nei quali sentiva il tocco dell’arte in forme inusuali, e con un mecenatismo di acquisti per la propria collezione ed altro.

Qui c’è la selezione e la promozione di giovani artisti relativamente sconosciuti, anche se hanno all’attivo studi nelle Accademie d’arte e premi, mostre personali e collettive.  La Von Buren si prodiga per togliere loro la “s”, e ci scusiamo per l’ulteriore evocazione canora, ma evidentemente c’è qualcosa che suscita in noi questa ricorrente associazione di idee; e li promuove nella forma più promettente per loro e per l’arte contemporanea, cioè l’ampliamento della penetrazione nelle famiglie comuni.

 I due criteri di selezione sono fondamentali per il successo del progetto. Sull’accessibilità economica non serve aggiungere molto, tanto più in una fase di crisi economica e di ridotte disponibilità di spesa come quella attuale. L’orientamento che ci fu indicato all’atto della prima mostra dalla Von Buren fu di tenersi entro i 5.000 euro per le opere più impegnative, come le grandi statue, con un’offerta per lo più tendente a una media di 1.000-1.500 euro o meno per quelle corrent, fino a 200-400 euroi. In questi termini le opere sono “abbordabili”, e soprattutto diventano impieghi con promettenti potenzialità di crescita e rivalutazione venendo selezionate anche in base a questo aspetto. Con il “tetto di spesa” legato al potenziale di crescita l’accessibilità diventa convenienza, e la spesa, oltre ad inserirsi nei costi per l’arredo domestico, diventa un vero e proprio investimento.  

Rispetto alla compatibilità con l’arredo domestico di abitazioni comuni, requisito anch’esso fondamentale per l’allargamento della platea degli interessati, va precisato un elemento non trascurabile: il fatto che la galleria d’arte sia legata all’antiquariato è decisivo, e se ne ha la prova tangibile nella mostra dove le opere esposte sono inserite in arredamenti da abitazioni, come esempio di inserimento organico dell’arte contemporanea nell’ambiente  familiare.  

Per questo la galleria dell'”Accessible Art” non è pretenziosa, nel qual caso sarebbe asettica e fredda, ma calda e accogliente riproducendo il  clima domestico cui le opere sono destinate nella visione che non riteniamo utopistica, ma innovativa e meritevole di un crescente successo.

All’apertura della prima mostra la Von Buren ci disse che le opere di arte contemporanea da lei selezionate devono essere  “comprensibili con  la vocazione ad integrarsi come complemento scenografico d’arredo”; requisito questo per “far superare la diffidenza che l’arte contemporanea, attraverso un linguaggio enigmatico, può generare”. I termini “diffidenza” e “linguaggio enigmatico”  sono eufemismi per espressioni artistiche tanto lontane dalla sensibilità popolare da alimentare ironie  dissacranti: chi non ricorda il film con le “vacanze intelligenti” di Alberto Sordi e signora, scambiata per un’opera d’arte contemporanea perché  seduta a occhi chiusi per riposarsi?

Questo non vuol dire che tutta l’arte contemporanea deve essere comprensibile e neppure che va accettata soltanto se può entrare a far parte dell’arredamento domestico, ci mancherebbe! I grandi spazi espositivi del Maxxi e del Macro a Roma sono stati creati appositamente per accogliere le installazioni più invasive che sembrano stravaganti almeno nell’accezione comune, ma la critica è pronta a consacrarne il livello artistico creando essa stessa contenuti non percepibili nell’opera.

E’ un mondo diverso da quello di “Accessible Art”, del tutto separato,  come l’elite si è separata  storicamente dalla massa in ogni campo; ma nell’epoca contemporanea non ci sono più aree riservate, se non quelle del lusso smodato non invidiabile per la sua vacuità spesso becera. Per questo anche l’arte dei tempi nuovi  deve poter penetrare tra la gente, entrare nelle sue abitazioni.

La Von Buren non si è limitata a lanciare l’idea e provarne la fattibilità con una mostra dimostrativa. Continua a seguire questa strada con la quarta  mostra in nove  mesi e un’offerta la cui accessibilità è evidente:  le nuove opere esposte sono per lo più comprese nei 1.500 euro ciascuna.

Fabio Imperiale, “In assenza di titolo”, a sin.

Tre artisti sul tema “City Life”

L’accogliente galleria presenta le opere della mostra d’arte “City Life”, aperta alla visita incuriosita o culturale  come all’acquisto, in un ambiente reso familiare dai mobili  che indicano in pratica come possano inserirsi in una normale abitazione; l’accoppiata quadro-mobile conferma la bontà dell’idea di base che, ripetiamo, è l’integrazione dell’arte contemporanea nell’ambiente familiare.

Una certa atmosfera più che la vita nella città è resa da Nanni Mannolino con una serie di  stampe fotografiche in plastificazione lucida dal titolo “Apparizioni e Dissolvenze”, dove abbina il paesaggio urbano ad altri motivi come il nudo femminile. Sono immagini sovrapposte che perdono qualsiasi sembianza figurativa, anche se lo sfondo è dato da fotografie di antiche mura, in cui il tempo segna la storia cittadina, a cui si sovrappongono come delle impronte sottili visioni sensuali quanto sfuggenti: I  titoli sono  “La dama in grigio” e “Spalle nude”, “Abbandono” e “La ferita mel muro”, “Il drappo” e “Il tulle nero e la macchia azzurra”..

In quarant’anni di attività fotografica, iniziata da giovanissimo nel 1970, l’autore ha sperimentato e approfondito l’impiego di tutti i processi, dalle stampe in camera oscura alle nuove forme digitali. E’ giunto a un livello di astrazione che fa perdere ogni riferimento alla fotografia per un’arte senza classificazione, secondo una tendenza ormai inarrestabile: conta l’emozione che l’opera suscita.

Gli altri due espositori presentano la vita cittadina in una diecina di opere ciascuno cogliendone  i due aspetti compresenti: la presenza umana e le strutture materiali.

Per la presenza umana sono quanto mai espressive le forme sulla tela di Fabio Imperiale, dai titoli intriganti: da “In assenza di titolo” a “Strappo alla regola”, da “Periferia 18,40″ a ““Soldatino in Accorso”. Sono figure di persone, in vario numero e in diverse posizioni nei dipinti, viste di spalle ferme o in movimento, ciascuna rinchiusa in se stessa come una “monade”, pur essendo  in ordine sparso come folla o come gruppi. Uno specchio  dell’alienazione cittadina dove alla moltitudine che circola nelle strade non corrisponde una comunità ma individui isolati e sperduti nella loro solitudine. Sono figure dignitose, vestite di scuro, su sfondo chiaro, in una landa abbacinata che ricorda,  “mutatis mutandis”, alcune sceme del “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica: lì il gelo era nell’ambiente invernale,  mentre nelle immagini del nostro artista è nell’animo delle persone, senza vitalità né spinta interna. E’ il rovescio del “Quarto Stato” di Pellizza De Volpedo, non perché lì sono di fronte e qui sono visti dal di dietro, ma perché lì incedono come un tutt’uno  spinti da un’identità di classe e di lotta sociale  che qui manca, come se la città li avesse omologati in un’identità da automi o fantasmi di se stessi.

Alcuni elementi grafici e testuali vengono inseriti  dall’autore come sigillo a testimonianza della precedente attività pubblicitaria, ma il suo approdo alla  pittura è pieno e definitivo: partecipa a mostre collettive dal 2006, nel 2011  ha ricevuto un primo e un terzo premio, ha esposto in una mostra personale in una galleria romana seguita da un’altra mostra l’anno successivo.

Mentre la presenza umana è evocata da Imperiale nell’atmosfera rarefatta di un  ambiente completamente vuoto,  la visione di Annalisa Fulvi è speculare: riempie l’ambiente cittadino di strutture molto elaborate nella dominante delle linee che le segnano con forza insieme a macchie di colore discrete a sottolineare determinati componenti:  come il marrone dei tetti di “Strutture metamorfiche” o l’azzurro dell’acqua  di “L’incanto del lago” insieme a leggeri richiami figurativi come nel colonnato appena delineato sullo sfondo di“Il cantiere di san Pietro oggi”; ve ne sono altre senza riferimenti particolari, ma con un intreccio serrato di linee insieme a motivi delicati come un ricamo, così “Impalcatura in transito” e “Nuovi multipli”,  mentre “Visione frontale” e “Doppio tempo”  presentano la prima diversi piani prospettici molto ben integrati,  e la seconda due strutture separate, a destra l’impalcatura, a sinistra l’imponente edificio,  però  non sembrano in sequenza ma tali, comunque, da evocare l’altra dimensione oltre lo spazio, quella temporale.

E’ una giovane artista della quale abbiamo già ricordato, in occasione dell’ultima mostra, la formazione all’Accademia di Brera e una recente esperienza pittorica in Turchia. Dopo le prime espressioni  artistiche con questa impostazione, presentate nella mostra precedente,  ha sviluppato di molto le dimensioni dei suoi dipinti,  prima in formato-studi,  per affinare la tecnica veramente sopraffina:  avevano titoli come “Etude de la Ville”, “Composizioni” e soprattutto “Intersezioni”, denominazione che rivela la ricerca della linea nelle combinazioni con altre linee. Dei nuovi dipinti esposti, il più grande è lungo circa 2 metri per 1,25 di altezza, gli altri sono di poco più piccoli.

Nei quadri di Imperiale si è presi dall’alienazione umana, qui domina l’agilità delle strutture con le loro linee cartesiane e oblique. La pittrice ha colto questo elemento come nervatura della stessa struttura cittadina, fatta di edifici e di complessi urbani  dei quali oltre alla massa e al volume colpiscono le linee di forza. Abbiamo ripensato ad alcuni dipinti del grande artista russo Alecsandr Deineka,  le sue strutture metalliche esprimevano i contenuti riferiti di volta in volta alla guerra oppure al lavoro, con linee rettilinee e angolature senza arrotondamenti nè ornamenti; qui le linee segnano architetture che  riempiono non solo il vuoto materiale ma anche quello ideale. Ma nello stesso tempo possono esprimere un’altra alienazione, quella dell’urbanesimo selvaggio, congestionato e soffocante: due estremi che tendono a saldarsi nel degrado cittadino.

Nanni Manolino, “La Dama in grigio“, a dx 

La continuità con Zarattini, Thwaites , Deli

Si può parlare di continuità nell’innovazione   per rimarcare l’aspetto dell’attività di Michele Von Buren che ci ha fatto evocare Peggy Guggenheim: il fatto che continua a seguire e ad ospitare gli artisti che presenta via via nelle mostre. Così abbiamo visto di nuovo alcune loro opere  già esposte nella galleria, divenute una presenza familiare, e ne abbiamo trovato altre degli stessi artisti mai esposte prima che riguardano temi non contemplati dalla nuova mostra.

E’ stata una piacevole sorpresa vedere nuove opere di  Luca  Zarattini, appartenenti a una serie di espressioni molto intense,  in tecnica mista su tavola:  notiamo l’evoluzione verso lavori  diversificati nei temi dell’artista che utilizza un impasto di materiali grevi e pesanti in forme alle quali riesce a dare contorni classici e un che di misterioso. Le serie vanno da quelle con nomi, “Mohammed”” e “Carl”, “Pablo” e “Claude”, a “Flesso” e “Riflesso”, a quelle intitolate con semplici numeri in successione.:  

Ritroviamo le figure di Christina Thwaites che abbiamo imparato a conoscere, schierate frontalmente come nelle foto di famiglia cui si ispirano, le ricolleghiamo idealmente a quelle di Imperiale di cui ci sembra possano rappresentare l’equivalente domestico.  In realtà, considerate a sé stanti, queste trasposizioni dell’album di famiglia possono sembrare confuse nei contorni per la lontananza nel tempo, dato che i volti sono appena abbozzati; ma ci piace collegarle alle figure in piedi degli “esterni” di Imperiale immaginando che siano le stesse, prima isolate e sperdute negli spazi cittadini, poi altrettanto attonite e assenti nei “ritratti di famiglia in un interno”.  Questo, come il parallelo precedente, è una licenza del cronista  che ne chiede venia agli artisti: è una prova  ulteriore di come sia stimolante l’offerta visiva e culturale della mostra di Michele Von Buren.

Nessuno di questi paralleli interni alla galleria è possibile con “Summer” di Alessio Deli, una grande scultura alta 180 centimetri:  l’artista, al centro di una mostra precedente, riesce a dare un senso ieratico a un’opera realizzata con materiale metallico di risulta, preso nelle demolizioni; nella testa di “Summer” notiamo due grandi molle, forse di ammortizzatori o altro, e qui scatta un  collegamento con un artista di altra estrazione ma convergente nei materiali e nell’idea di base.

Intere figure scultoree- anch’esse a grandezza naturale come “Summer” – sono realizzate in tutto o in parte con molle dello stesso tipo e altro materiale metallico di recupero, questa volta da residuati bellici della guerra di Libia, dallo scultore libico Wak Wak  – le cui opere sono state esposte per la prima volta fuori dal suo paese al Vittoriano dal 16 gennaio al 28 febbraio 2013 – come risposta alla guerra distruttiva della vita che invece viene fatta risorgere utilizzando gli stessi strumenti di morte. Ricordiamo i due mitra “scolpiti” da Deli con materiale di demolizione,  la protesta veniva da materiali poveri come sono poveri i militari in tutto il mondo e in tutte le epoche, arruolati a forza, poi mandati ad uccidere e a morire per cause cui sono stati sempre estranei, essendo in genere proprio gli interessi inconfessabili delle stesse classi che in pace li hanno sempre sfruttati. Anche per Deli non abbiamo resistito al parallelo, questa volta con l’esterno, ma ci è venuto spontaneo.

Nel commentare le precedenti mostre della galleria “RvB Arts” dicevamo che avremmo seguito il progetto di Michele Von Buren, alla base di “Accessible Art”, per i suoi aspetti innovativi  sia nella diffusione della’arte contemporanea sia nello “scouting” e promozione degli artisti in una forma nuova.  Abbiamo potuto constatare come gli artisti della “scuderia” crescono di numero e moltiplicano l’impegno: sono quasi 20 pittori, 4 scultori e oltre 10 fotografi, una bella squadra!

Innovazione e continuità, dunque, lo ripetiamo, Non è un ossimoro. bensì  la migliore garanzia per l’ulteriore sviluppo del progetto.  Questo è anche il nostro augurio.

Info

“RvB Arts”, via delle Zoccolette 28, Roma, presso Ponte Garibaldi,  e “Antiquariato Valligiano”, via Giulia 193, dal martedì al sabato, orario negozio, domenica e lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505,  cell. 335.1633518; – info@ rvbarts.com.,  http://www.rvbarts.com/, con tutte le immagini e relativi prezzi delle opere esposte e delle altre disponibili dei 35 artisti circa che fanno capo alla galleria. I nostri 2 articoli sulle precedenti mostre di “Accessible Art” sono in questo sito alle date del  21 novembre e 10 dicembre 2012. Per la citazione di Peggy Guggenheim si rinvia ai nostri 3 articoli in questo sito il 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012; per Deineka ai nostri 3 articoli (in particolare al 1°) sulla sua mostra al Palazzo Esposizioni, in questo sito, il 26 novembre, 1 e 16  dicembre 2012; per  Wak Wak al nostroarticolo sulla sua mostra al Vittoriano, in questo sito, il 27 gennaio 2013.  Gli articoli sono illustrati con 4 immagini ciascuno.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra alla galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele Von Buren con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta.  Sono riportate due opere per ogni autore, inquadrate nell’arredamento in cui sono ionserite in mostra. In apertura,di Annalisa Fulvi, a sinistra “Il cantiere di san Pietro oggi”;  seguono, di Fabio Imperiale,  a sinistra “In assenza di titolo”, di Nanni Manolino, a destra  “La Dama in grigio;  in chiusura,  di Luca Zarattini. a sinistra “Mohammed”.  

 Luca Zarattini, “Mohammed”.a sin.  

Tintoretto, 1. “Il più terribile cervello” della pittura, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Un anno fa, esattamente il 25 febbraio 2012, veniva aperta, fino al 10 giugno, alle Scuderie del Quirinale, una grande mostra sul Tintoretto, con 50 opere esposte, molte di grandi dimensioni, tra cui 15 di altri grandi artisti del tempo:  una mostra biografica nella quale si è ripercorsa la vita artistica di un pittore che anticipando il Caravaggio introdusse un forte realismo in composizioni dalla tensione drammatica espressa in scorci e inquadrature architettoniche e scenografiche di tipo teatrale e cinematografico. Curata da Vittorio Sgarbi, il bel Catalogo Skirà  ne reca il ricco repertorio iconografico e critico. “Un mostra scientificamente ineccepibile e al contempo spettacolare per allestimento e percorso”,  così l’ha  presentata Emmanuele F. M. Emanuele, allora presidente dell’Azienda Expò, cioè “Scuderie del Quirinale” e Palazzo delle Esposizioni; in effetti ha fornito il filo d’Arianna per orientarsi nel labirinto compositivo di un artista poliedrico e fecondo, molto discusso nella sua epoca e dopo.

“Autoritratto”, 1546-47

L’anticonformismo caratteriale e artistico

Fu discusso nella sua epoca per l’anticonformismo caratteriale e stilistico che gli fece affibbiare una serie di epiteti, e non ci riferiamo al soprannome che proviene dall’attività di tintore del padre e dalla sua bassa statura; anche il cognome Robusti derivava dal soprannome del padre e dello zio, lo utilizzò prima da solo con il nome Jacopo, poi affiancandovi il proprio soprannome che ebbe infine il sopravvento. Ricordiamo che lo hanno definito “arrischiato” e “spericolato”, “ghiribizzoso”  e “il più terribile cervello che abbia avuto la pittura” – queste ultime sono parole di Pietro Aretino – per il carattere talentuoso e ribelle. Non ha lasciato lettere né appunti, ma ci sono state note biografiche  d’epoca che ne hanno tramandato i tratti salienti. Già a 18 anni, nel 1537  – era nato nel 1519 a Venezia – poté iscriversi come Maestro nella “Fraglia dei Pittori”, partecipava ai dibattiti artistici e teologici e frequentava gli ambienti della cultura e delle professioni: fu un uomo libero al punto di rifiutare l’onorificenza di Cavaliere per non inginocchiarsi davanti al Re di Francia Enrico III.

Nello stile si era allontanato da quello di Tiziano allora dominante, la sua pittura era ritenuta “sconveniente”, e così anche il suo modo di dipingere “con la solita prestezza”, come scrisse Giorgio Vasari sottolineando la rapidità che lo portava a finire l’opera quando gli altri “attendevano a fare con ogni diligenza i loro disegni”; fonte di attacchi ai quali  rispondeva  “che quello era il suo modo di disegnare, che non sapeva fare altrimenti, e che i disegni e i modelli dell’opera dovevano essere in quel modo per non ingannare nessuno; e finalmente che, se non volevano pagare l’opera per le sue fatiche, che la donava loro, e così dicendo”.

Si riferiva alla grande opera del 1564 per la Scuola Grande di San Rocco: partecipò al concorso con l’opera finita e non con il bozzetto richiesto, donando il dipinto alla scuola che per statuto non poteva rifiutarlo; fu uno sgarbo agli altri artisti che però gli procurò non solo l’incarico di dipingere il soffitto e una grandissima Crocifissione, ma anche l’accoglienza come “confratello”. Nella Scuola di San Marco, invece, dove presentò un bozzetto, la sua candidatura non venne accettata.

Lavorava gratis o solo con un rimborso spese se voleva fortemente eseguire delle opere, e questo non solo nei primi tempi ma anche tra il 1556 e il 1561, quando oltre ai quadri e le portelle per un organo dipinse due teleri alti 14 metri nella Madonna dell’Orto per il solo costo di tele e colori; strategia vincente per avere committenze prestigiose come quella di San Rocco appena ricordata.

E’ discusso anche dalla critica relativamente recente: Vittorio Sgarbi ricorda il contrasto tra  Roberto Longhi e Rodolfo Pallucchini che ha scritto un libro su “La giovinezza di Tintoretto” dopo che Longhi aveva ritenuto tale fase “il tempo più vivo del Tintoretto, proprio perché il meno furioso”; e dava un valore negativo al “titanismo tecnico” che faceva passare “l’Accademia sotto una specie di furia”, ma riconoscendogli “una natura geniale, colma in principio di idee bellissime per favole drammatiche da svolgersi entro la scenografia di luci e ombre rapidamente viranti”.

“Deucalione e Pirra”, 1541-42

Sgarbi polemizza aspramente con Longhi per il suo giudizio nel complesso negativo, ma le parole scritte dall’altro critico nel 1946, appena riportate, ci sembrano richiamare aspetti positivi del Tintoretto da lui stesso valorizzati: “E’ il teatro a dominare la sua mente e le mille e varie soluzioni scenografiche lo spingono, come nessun pittore, neppure Caravaggio, verso un linguaggio cinematografico”. E non c’è solo “teatro, grande scenografia”, l’artista a volte va anche oltre: “Tintoretto entra in uno spazio onirico, in una dimensione visionaria, e pur prospetticamente rigorosa”; la sua composizione “definisce non solo uno spazio fisico, ma uno spazio psichico”.

Entrano in campo le sue “luci striscianti”, e “contro la luce si stampano le ombre”, il suo impianto scenico è investito dai guizzi della luce che è protagonista della sua arte con il cromatismo plastico. Suoi i dipinti “di pura luce”, dalle forme indefinite. Così, ancora per Sgarbi, “Tintoretto ha trasfigurato la pittura in un sogno o in un incubo, trasferendo la realtà in un’altra dimensione”.

In definitiva, uno spirito libero nella vita e nella pittura, che lo fece affrancare dall’influsso di Tiziano fin dalle opere giovanili, del resto si dubita sia vera la “vulgata” che il pittore dominante lo allontanò dalla propria bottega geloso del suo talento, nel qual caso ci sarebbero state tracce nei dipinti agli esordi. Li troviamo in diretto contrasto nel 1556 allorché Tiziano escluse Tintoretto nella scelta degli artisti per decorare il soffitto della Libreria Marciana, e nel 1564  quando, dipinta l'”Allegoria della Sapienza”, premiò con una catena d’oro Paolo Veronese indicandolo suo erede.

Tutto questo è collegato alla diffusione del manierismo toscano unito al primato michelangiolesco anche a Venezia, nella fase della formazione pittorica del Tintoretto . Nel 1548 Paolo Pino scriveva  che chi fosse stato capace di coniugare “il disegno di  Michelangelo e il colore di Tiziano” sarebbe divenuto “il dio della pittura”; e Carlo Ridolfi ha affermato che nello studio di Tintoretto c’era un cartiglio con il motto “il disegno di Michelangelo e il colore di Giotto”. Ebbene, nonostante questo, trovò una strada molto personale nell’epoca del manierismo: “Nessuna soggezione nei confronti del Michelangelo e del Vasari – osserva sempre Sgarbi – Tintoretto è più mimetico, più etereo, e soprattutto meno ‘ingrippato’ di Tiziano”. Anche i suoi accostamenti alla scuola romana, a Giulio Romano e a Giorgio Vasari allora preminente, “sono una febbre passeggera. E quel gusto non è affar suo. Con Tintoretto, libero da questa soggezione, la pittura a Venezia riprenderà il suo corso, rallentato e deviato proprio da Tiziano”, è la lapidaria affermazione di Sgarbi. Che conclude: “Tintoretto non è solo; e per arrivare a questo risultato si guarderà intorno, misurandosi con artisti curiosi come Bonifacio de’ Pitati detto Veronese, Andrea Schiavone, Lambert Sustris”, sono esposte 15 opere loro e di Parmigianino ed El Greco, Jacopo Bassano e Domenico Tintoretto.

“San Giorgio uccide il drago”, 1553-54

La carrellata di artisti coevi

E’ una carrellata di grandi artisti che Vittorio Sgarbi ha proposto, in un’ottica simile a quella con cui aveva concepito la mostra “Gli occhi di Caravaggio” con i pittori che ebbero influenza nella formazione milanese del Merisi prima di esplodere a Roma, tra i quali si possono cogliere dei prodromi nei  tentativi di un uso diverso della luce e di una visione realistica nella composizione. Negli artisti presentati con Tintoretto interessano le dissomiglianze oltre alle somiglianze, perché Tintoretto se ne distaccò presto con il suo stile pittorico e le sue scelte compositive molto personali.

Di Tiziano era esposto il “Ritratto del comandante Gabriele Tadino”. 1538, per la sua influenza sulla ritrattistica di Tintoretto, ma oltre a questo la fantasia di Sgarbi proponeva delle sculture: due  busti di Alessandro Vittoria, tra cui quello in terracotta su “Sebastiano Venier”, ritratto anche da Tintoretto in un quadro esposto a figura intera con un paggio, “per l’uomo e per gli artisti – ecco il commento del curatore – il confronto in mostra sarà certamente utile”.

Sempre della fase formativa un nutrito gruppo di opere : del 1530-32 la “Madonna con Bambino  e santi”  del Parmigianino e la “Sacra conversazione” di  Giovanni De Mio,  del 1535-40 la “Sacra famiglia con un angelo e santi”  di Bonifacio Veronese. Della fase iniziale nel  1551 Il Buon Governo” di Paolo Veronese,  nel  1557 l’“Adorazione del Bambino e gli angeli con gli strumenti della passione”  enel 1558  di nuovo Tiziano con “Annunciazione”, immagini sfumate con cui “si rigenera dunque Tiziano, ma non nel senso della ricomposizione ma della decomposizione, della disgregazione di quei ‘bei contornoni’, di quelle ‘gran forme'”.  Le opere di Tintoretto in questo periodo sono diversissime, lo si vedrà nel nostro resoconto della visita.

Facevano parte di questa  sezione due opere di Lambert Sustris, olandese che è stato ad Augusta fino al 1553, “Mida e Bacco” e soprattutto “Salita di Cristo al Calvario”  che  riportano al Tintoretto per diversi aspetti: lo spazio prospettico e la luce, il dinamismo e le forme oblique. Mentre al periodo più avanzato, 1570-75, appartiene “La guarigione del cieco nato”,  anch’esso esposto, un piccolo quadro con la quale El Greco  cerca di conciliare il cromatismo manieristico di Tiziano con  la scenografia  teatrale del Tintoretto, quest’ultima addirittura su più piani prospettici.

Tale conclusione della  galleria coeva  al Tintoretto preparava alla visita delle sue opere, perché il livello e la complessità di un artista così creativo e originale possono essere apprezzati meglio avendone conosciuto i connotati salienti. Racconteremo la visita prossimamente partendo dai ritratti e dalle opere profane per poi raggiungere il culmine con le opere  sacre, grandi in tutti i sensi.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I prossimi due articoli sulla mostra usciranno, in questo sito, il 25 febbraio e il 3 marzo 2013. 

Foto

Le immagini, tutte di dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Autoritratto”, 1546-47; seguono “Deucalione e Pirra”, 1541-42,  e “San Giorgio uccide il drago”, 1553-54; in chiusura, “Il trafugamento del corpo di san Marco”,  1562-66.

lI trafugamento del corpo di san Marco”,  1562-66

Via della Seta, 3. Baghadad e Istanbul, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude il viaggio virtuale che fa compiere la mostra “La Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente ed Occidente”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre al 10 marzo 2013.  Dopo aver dato conto della genesi, anche attraverso le testimonianze dei viaggiatori veneziani e genovesi, e delle tre prime tappe di Xi’an, la città della pace, Turfan, l’oasi nel deserto, e Samarcanda, la città di mercanti, approdiamo a Baghdad, la città della sapienza e a Istanbul, la porta dell’Oriente, di cui ripercorreremo la storia  anche con i reperti di oggetti dell’artigianato e dell’arte, che ne rendono la grandezza. Viaggio che proseguirà prossimamente con la nostra visita effettiva e non più solo virtuale, a Istanbul, sulle tracce dei reperti dell’antica Costantinopoli di “in hoc signo vinces”.

Buddha Tejaprabha, ovvero della Luce splendente, 897, dipinto

Baghdad,  “città della sapienza”, non delle “mille e una notte”

La città che fa pensare alle “mille e una notte” viene presentata come “città di studiosi”, la rivale in Occidente della capitale imperiale Xi’an, situata strategicamente tra il fiume Tigri e l’Eufrate, quindi lungo le rotte commerciali fluviali, verso il mare e l’Asia. Viene rievocato il periodo d’oro, tra il 762 e il 1258, quando dopo essere stata fondata  dal califfo abbaside Al Mansur,  prosperò sotto di lui e i “califfi” seguenti, il cui mecenatismo fece sviluppare lettere e arti, scienza e filosofia.

Era chiamata “città circolare” per la sua forma ad anelli concentrici, ispirati alla sfericità della terra,  intorno alla moschea centrale e al Palazzo d’oro, sede del califfo, con gli insediamenti  residenziali, commerciali e militari all’interno delle mura; era una innovazione derivata da influssi persiani  rispetto all’urbanistica greca  e romana dell’epoca,  dalla struttura quadrata o rettangolare e strade ad angolo retto. I migliori costruttori dell’Asia furono mobilitati con migliaia di operai.

Il califfo abbaside costruì la “Casa della sapienza”, un centro culturale con un’enorme biblioteca, per unire la tradizione araba-islamica all’influsso persiano; nella nuova istituzione volle approfondire lo studio dei testi antichi e delle nuove discipline con le migliori menti dell’epoca.

La città divenne meta di letterati e studiosi da ogni parte, vi trasmisero la cultura indiana e greca. Nella fase di maggiore sviluppo raggiunse i 2 milioni di abitanti, oggi ne ha oltre 7 milioni.

Fu conquistata dai mongoli, precisamente da Haligu Khan, nipote di Gengis Khan, che regnò tra il 1217  e il 1265; l’evento, passato alla storia come la “presa di Baghdad”, portò  alla fine del califfato e di tante sue opere, come la struttura urbana e il sistema di irrigazione, oltre ai massacri.

Dopo un secolo e mezzo nuovo saccheggio e massacri con Tamerlano nel 1401; seguirà, nel 1534, la conquista dei turchi ottomani in guerra con la Persia, fino al 1917 allorché fu occupata dagli inglesi nella 1^ guerra mondiale, costituendo nel 1921 il Regno dell’Iraq sotto il loro protettorato.

L’indipendenza fu raggiunta tra il 1932 e il 1946  e la monarchia fu deposta nel 1958. Il resto è storia contemporanea e tragica attualità, l’antico splendore è solo un ricordo.

Tornando al ruolo che ebbe nell’epoca della Via della Seta, sul piano culturale, va sottolineato l’impegno negli studi di matematica e ingegneria, geografia e astronomia,  anche sui testi indiani più avanzati dai quali fu tratto, tra l’altro, il sistema dei numeri arabi con dieci simboli di Al-Khuwarizmi; mentre prima, anche a Roma oltre che a Baghdad, si utilizzavano lettere dell’alfabeto.

Nell’osservazione delle stelle veniva usato l’astrolabio che registrava spazio e tempo come una calcolatrice permettendo di determinare l’ora in base alla posizione del sole e delle stelle. “Il libro delle stelle e delle costellazioni” del persiano Ar Rahman, adottato per secoli come manuale di astronomia, descriveva nei particolari oltre un migliaio di stelle. Un apposito angolo della mostra è riservato a un vero astrolabio,  si può manovrare per cercare l’ora regolando il meccanismo rispetto alle costellazioni sullo sfondo. Di questo apparecchio ne sono esposti due esemplari, uno in metallo dell’Iran, 1730-75, l’altro in lega di rame dal Marocco, 1750. E’ esposta anche una sfera celeste in bronzo e argento del 1645 e un Trattato astronomico illustrato, del 1569,  da La Mecca.

Ma tanti furono gli strumenti ingegnosi escogitati, come una ruota misura del tempo e un orologio ad acqua: un esemplare in vetro, metallo e plastica è esposto in mostra.

Soprattutto il vetro ebbe molti impieghi, modellato a soffio fin dal 100 a. C. si sviluppò  nell’Islam da Baghdad verso la Cina trasportato con precauzioni particolari data la sua fragilità; venivano adottati svariati accorgimenti tecnici per modellarlo in decorazioni a rilievo o farvi incisioni artistiche. Venivano prodotti pure  semilavorati che poi gli artigiani plasmavano.

Sono esposti una pipa in ferro per soffiare il vetro e una serie di oggetti vitrei; un frammento semilavorato del 200 a. C. e uno stampo del 1000-1300,  una brocca piriforme dell’800-1000 e una bottiglia  con figura di animale, una coppa con “decorazione pizzicata” e una coppa “con punti di rilievo” dell’800-1000.  Inoltre oggetti a pasta vitrea, come una scodella turchese del IX-X secolo, e in terracotta invetriata, una piastrella  del 1000, una ciotola con decorazione dell’800-1000, e una piastrella in ceramica invetriata. Quindi un piatto decorato in terracotta smaltata e una coppa in ceramica decorata, fino al calamaio e coperchio del 1100-1200 in bronzo e argento.

L’argento ebbe un ruolo importante nella dinastia dei Sasanidi, innanzitutto per la coniazione  di monete in questo metallo per la circolazione generale, mentre il bronzo, rame e piombo erano destinati alla circolazione regionale; l’oro era riservato alle emissioni speciali. In argento le produzioni di alta qualità con le quali si celebravano i fasti della dinastia mediante piatti, coppe  e brocche decorate con immagini simboliche o allegoriche, e altri oggetti di valore artistico, esemplari pregiati sono stati reperiti in scavi archeologici in nell’Asia centrale, particolarmente in Iran,

Anche nella medicina erano all’avanguardia, con le pratiche di Al-Razi sui rapporti tra salute e pulizia, ben prima della scoperta di batteri e microbi: scrisse 200 manoscritti sui vari malanni e un  manuale medico le cui indicazioni  sono state adottate in Europa per secoli. Fu tradotto in arabo “De materia medica”, un manuale sulle piante officinali del medico greco Dioscoride, del 40-90 d. C.

Per la scrittura abbiamo citato Samarcanda, terra della carta su cui venivano creati documenti e libri.  A Baghdad la scrittura divenne arte con la calligrafia dell’alfabeto arabo utilizzato in copie artistiche del Corano. L’inchiostro era prodotto da varie fonti, si mescolava anche all’oro e alla polvere di vetro, venivano inserite iscrizioni con massime anche nei piatti e nei vasi islamici.

Abbiamo tanto parlato di mercanti e mercati, ebbene a Baghdad all’inizio del XIII secolo c’era un fiorente mercato di libri, con 100 librerie e 36 biblioteche pubbliche; in una delle più celebri appartenente all’Università Mustansiriya veniva fornita carta e penna per poter copiare i libri, oltre a un’assistenza completa. E’ ben giustificato chiamare la Baghdad di allora “città della sapienza”.

I mongoli invadono Baghdad nel 1258

Istanbul, la porta dell’Oriente, e il mare

La marcia verso l’Occidente sulla Via della Seta ha la sua tappa finale ad Istanbul, l’antica Costantinopoli,  definita “la porta dell’Oriente” con il suo Corno d’oro, che ne segna i confini.  Altri 1600 chilometri di percorso, dopo gli 8000 già percorsi nelle immensità asiatiche e mediorientali.

Entrò a far parte dell’Impero romano nel I secolo a. C., Costantino la eresse a capitale del suo impero nel 330  costruendo palazzi imponenti in stile romano e dandole il suo nome.  Dopo il 395, con Teodosio I, diventò capitale del più limitato impero romano d’Oriente, l’impero bizantino. Per la posizione di cerniera divenne un centro commerciale e culturale, distrutta nel 532 fu ricostruita con splendidi edifici culminati nella costruzione di Santa Sofia, la basilica della chiesa ortodossa.

Le vicissitudini di Santa Sofia riflettono quelle della città, al centro di scontri con persiani, arabi e Crociati, che nelle sorti alterne provocarono distruzioni delle architetture e saccheggi della città e delle opere d’arte, nonché il decadimento economico e la diminuzione della popolazione.

Dopo l’impero bizantino venne l’impero turco ottomano, con la conquista della città nel 1453 dopo due mesi di assedio, e la morte dell’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI: il sultano Maometto II ne fece la capitale dell’impero e le cambiò nome in Istanbul.  Secondo le barbare consuetudini dell’epoca furono dati tre giorni di libertà di saccheggio all’esercito ottomano, Santa Sofia fu saccheggiata e trasformata nella più grande moschea della regione;  la città divenne un centro culturale islamico.

Il sultano cercò di riportarla all’antico splendore: per questo fu incline alla tolleranza e al multiculturalismo e aprì la città al ritorno dei credenti di altre fedi, cristiani compresi. 

Fu creato il Gran Bazar, uno dei maggiori al mondo,  e fu costruito il palazzo di Topkapi come residenza del sovrano dove risedettero i sultani per quattro secoli. Con Solimano il Magnifico fu costruita la grande moschea con il suo nome e furono promosse altre realizzazioni di opere d’arte e di architettura: si diede impulso all’arte della ceramica, calligrafia e miniatura. Nel 1800 raggiunse un milione di abitanti, e successivamente si aprì all’Occidente anche con la costruzione dei ponti sul Corno d’oro che collegarono idealmente i due versanti per unirli fisicamente e culturalmente.

La storia moderna la vede nel crogiuolo della prima guerra mondiale e dei conflitti che portarono alla fine dell’impero ottomano e alla Repubblica turca, che assunse come capitale Ankara.

Istanbul, oltre che alla Via della Seta, di cui è il terminale, è legata strettamente alle comunicazioni marittime, che nel commercio furono un’alternativa ai traffici terrestri.  Spezie e sete cinesi, ma soprattutto ceramica, di difficile trasporto via terra per la sua fragilità, furono le merci  più diffuse. La ceramica più pregiata era la porcellana, proveniente dalla Cina e realizzata partendo dal caolino,  usata per oggetti ornamentali anche finemente decorati; veniva prodotta anche una ceramica ordinaria con la terracotta rivestita da uno strato bianco per farla somigliare alla porcellana.

Tre tipi di ceramica erano molto richiesti nel Medioevo con provenienza dalla Cina, e Istanbul era la porta dell’Oriente:  verde, policroma e bianca. E’ una produzione sviluppatasi tra la fine della dinastia Han e la fase iniziale del dominio mongolo, quindi tra il III e il XIII secolo d. C.  I primi vasi cinesi in ceramiche dure risalgono al primo millennio a. C., mentre nel III secolo d. C. compaiono le ceramiche Yue, colorate in verde; nel IV secolo  fu introdotta la decorazione in fiore di loto e nel VI secolo fu perfezionata la produzione di ceramiche Yue; dal VII secolo le ceramiche invetriate a vari colori. Segue la ricerca stilistica e decorativa anche per soddisfare la domanda esterna alimentata dallo sviluppo dei traffici marittimi.

Astrolabio,  funzionante in mostra

In Europa le ceramiche cinesi approdarono solo nel XIII secolo, con la “pax tartarica” seguita alle conquiste mongole; tra il XIII e il XVI secolo questi prodotti erano considerati un segno di distinzione per le classi elevate, e utilizzati nei “doni principeschi” di sovrani e diplomatici.

Di recente è stato recuperato il cargo di un bastimento arabo affondato in Indonesia nell’826, proveniente dalla Cina, che ha fornito un’idea di queste esportazioni del IX secolo: sulla nave erano caricate circa 60.000 ceramiche , soprattutto vasellame dipinto ma economico, oltre a prodotti  più pregiati di porcellana bianca, tra cui rari piatti decorati; erano stipate in grande giare di grès. 

Le rotte marittime dalla Cina erano lunghe oltre 8000 chilometri, percorsi in media in sei mesi, mentre per via di terra si impiegava anche un anno tra maggiori difficoltà, a parte il pericolo dei pirati , ma anche negli itinerari terrestri c’erano i banditi.

Venivano utilizzate imbarcazioni di teak o palma di cocco unite con filamenti e saldate con resine senza l’uso di chiodi, un portento!  Nell’Oceano indiano i monsoni soffiavano in inverno da nordest e in estate da sudovest, cosa conosciuta che rendeva le condizioni del mare sufficientemente prevedibili per avventurarsi nel viaggio scegliendo al rotta più adatta.

I “sambuchi”  erano imbarcazioni leggere  e veloci, con la vela latina, si faceva il “punto”  della posizione con uno strumento rudimentale ma efficace, il Kamal, piastra e cordino per allinearsi alla stella polare. Solo nel IX secolo il commercio marittimo divenne un’alternativa a quello terrestre sebbene la Cina avesse una lunga tradizione nei viaggi per mare che risale a due millenni fa; si dovette attendere l’XI secolo perché i transiti per mare superassero quelli per terra. Marco Polo fece i due percorsi, andò per terra nel 1200 sulla Via della Seta, tornò per mare a tappe.

Un’apposita sezione della mostra è dedicata alle rotte marittime, con esposta una carta nautica di Pietro Vesconte, 1311, e un modello di imbarcazione  recente ma che riproduce  le navi dell’epoca.  Vediamo anche una serie di oggetti a documentazione di ciò che veniva prodotto ed utilizzato anche nelle traversate marittime: maioliche e mattonelle, vasi e ciotole, piatti e coppe, bottiglie e brocche.

Con l’approdo via mare o l’arrivo via terra ad Istanbul si conclude la parte asiatica della Via della Seta, al tratto europeo abbiamo fatto riferimento all’inizio allorché abbiamo parlato dei rapporti tra Oriente ed Occidente e il ruolo di Venezia e Genova, citando anche i manufatti esposti in mostra.

Possiamo concludere quindi anche il nostro viaggio virtuale sulla Via della Seta condotto attraverso le suggestioni di una storia ricca e avvincente e le evidenze dei reperti esposti nelle sette gallerie corrispondenti ad altrettante sezioni nel Palazzo Esposizioni.  Siamo investiti da sensazioni e da immagini, il fascino dell’Oriente con i suoi misteri e le sue meraviglie si fa sentire, ed è il grande merito della mostra averlo saputo evocare con il dosaggio di notizie e di evidenze tangibili.

Finisce qui il resoconto della mostra, ma non il nostro viaggio. Questa volta da virtuale diverrà reale, racconteremo prossimamente una nostra visita a Istanbul alla ricerca delle vestigia dell’antica Costantinopoli.  La rievocazione del viaggio effettivo sarà un immergersi direttamente e di persona nel mondo cosmopolita e intrigante dell’ultima tappa dell’itinerario asiatico sulla Via della Seta.

Info

Palazzo Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Martedì e mercoledì, giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso;  accesso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 10,50, ridotto 7,50, scuole 4 euro a studente, gruppi tra 10 e 25, martedì e venerdì- Con il biglietto si vedono tutte le mostre del Palazzo Esposizioni.  Tel . 06.39967500, mailto:info.pde@palaexpo.it.  Catalogo: “Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente”, Palazzo Esposizioni e Codice Edizioni, ottobre 2012, pp. 296, formato 20 x 24, euro 26; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti, in questo sito, il 19 e  21 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Palazzo Esposizioni, e in parte dal Catalogo, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, Dipinto dell’897 raffigurante il Buddha Tejaprabha, ovvero della Luce splendente;  seguono, I mongoli invadono Baghdad nel 1258, e Astrolabio funzionante in mostra;  in chiusura, una Mappa di Costantinopoli che ne mostra la posizione ideale (Corbis).

Mappa di Costantinopoli che ne mostra la posizione ideale (Corbis)

Anna Manna, il viaggio dell’anima di una scrittrice neoromantica

di Romano Maria Levante

A Roma, nella sede della Società Umanitaria in via Aldrovandi, la mattina del 3 febbraio 2013 si è concluso l’intenso week end letterario “Viaggio tra le Vie dell’Arte”, con il motto “Regala una parola”, di “amore, fiducia, tolleranza, empatia, rispetto”. Sabato 2 febbraio, interventi sul valore dei libri, come semina e bellezza, sfogo e verità, chiusura di Anna Manna su “Un viaggio nel mondo della poesia, dei sentimenti e della solidarietà”; domenica 3 febbraio, incontro con gli autori di Akkauria, presentati dal presidente dell’associazione Vera Ambra, e Reading poetico, Premiazione al Concorso nazionale Fantasy Way e conclusione con il libro appena uscito di Anna Manna, Una città, un racconto, presentato da Daniela Fabrizi e Gilberto Mazzoleni, un racconto è stato letto dall’attrice Maria Concetta Liotta. Poi Anna Manna e Daniela Fabrizi hanno lanciato il Manifesto dei Neoromantici per un Nuovo Umanesimo, ideato con Elio Pecora ed Elisa Manna. E’ intervenuta Neria Di Giovanni, Presidente dell’Associazione Internazionale di Critici Letterari.

Anna Manna presenta il Manifesto,sedute Vera Ambra e Daniela Fabrizi

Il fitto programma del week end ci limitiamo a ricordarlo, mentre intendiamo segnalare il Manifesto dei Neoromantici per un Nuovo Umanesimo lanciato al termine e parlare diffusamente del nuovo libro di Anna Manna cui è stata dedicata la parte conclusiva della manifestazione. La stessa Anna Manna ha rivelato che l’idea del Manifesto è nata da una sua intervista un anno fa ad Elio Pecora, che le parlava della “poesia come educazione  al sentimento”. Di lì considerazioni sconfortate sul divario tra “la freschezza delle sensazioni ed emozioni che poeti, artisti e studiosi possono comunicarsi con uno sguardo; e la tristezza per un mondo che scivola verso il basso, l’umanità senza emozioni umane, senza racconti dell’animo, solo numeri, solo sofferenza, solo ferite”.

Come comporre questo divario? Elio Pecora all’inizio era pessimista: “Anna, ma non puoi parlare di neoromanticismo in un mondo che va a rotoli. Non ti sentiranno, non hanno orecchie per sentire”. Poi l’idea è andata avanti negli incontri poetici e culturali con Daniela Fabrizi ed Elisa Manna, è trascorso un anno di maturazione in cui ha trovato conferme e incoraggiamenti da parte di “tutti i poeti che si sentono trapassati dal dolore per questa società che ha dimenticato l’anima”.

Anna Manna lo ha lanciato, Daniela Fabrizi lo ha illustrato, l’indomani  è stato annunciato che nel primo giorno il Manifesto ha avuto adesioni significative, oltre che di Elio Pecora, di Corrado Calabrò e Silvia Costa, Iole Chessa Olivares e il pittore Fabio Piscopo. L’ideatrice ha dichiarato:  “Quel movimento è stato compresso per circa un anno, poi è esploso domenica mattina”. Una  mattinata di sole con il clima propizio alla spinta decisiva, a coronamento dell’intenso week end culturale.

Una fase della Premiazione con Vera Ambra

“Una città, un racconto”, il libro di Anna Manna

Parliamo ora del libro che è stato presentato con un’ampia analisi di Daniela Fabrizi, entrata nei dettagli, diremmo nelle viscere dei racconti, e una sintesi colta di Gilberto Mazzoleni. Da parte nostra racconteremo le impressioni, o meglio le emozioni suscitate da una lettura particolare, nelle circostanze che diremo al termine e ci hanno fatto sentire in viaggio anche noi come l’autrice.

Anna Manna è poetessa, scrittrice e attivissima operatrice culturale: è presente in molte antologie poetiche, ha pubblicato  7 libri di poesia, un romanzo e un libro di racconti, libri di interviste e antologie, saggi ed articoli; ha fondato e presiede premi letterari, “Fiore di roccia” sin dal 1995, e “Rosse pergamene”. Premiata ripetutamente per le poesie e i racconti, le antologie e la saggistica.

Il libro appena uscito contiene 12  racconti, ambientati in altrettante città, di qui il titolo “Una città un racconto”. Formano una storia unica, il libro potrebbe intitolarsi “una donna, una storia” che si dispiega nei tanti luoghi dove manifesta la sua inquietudine, alla ricerca di se stessa in un fluire di sentimenti alimentati dagli stimoli suscitati dagli ambienti che ne sono lo sfondo. Tante sono le corde che fanno vibrare, ma tutte rimandano ad una sensibilità che si rivela a poco  a poco.

Sorpresa e “suspence” suscitano questi racconti. I bozzetti di vita e di ambiente si aprono a soluzioni inattese e inconsuete degli intrecci che nascono sul piano psicologico e nella realtà: di qui la sorpresa. C’è anche l’ansia di conoscere il finale delle storie, mai semplice né scontato: di qui la “suspence”. Per questo ci si trova avvinti dalla lettura senza potersi staccare prima di essere giunti all’ultima pagina. Eppure sono racconti distinti, ogni volta si apre uno scenario diverso con un nuovo protagonista, e questo dovrebbe dare un certo distacco. Sarebbe così se non ci fosse la sorpresa delle sorprese accennata all’inizio, tante città e tanti racconti per un’unica vera storia: l’anima errante alla ricerca di se stessa di città in città, di luogo in luogo, di scoperta in scoperta.

Nei luoghi più diversi incontra persone reali e spesso evoca figure immaginarie che entrano in sintonia con la sua sensibilità: dal pittoresco basso di Napoli all’austero Archivio di Stato, dal dolce litorale di Gaeta a quello  ardente di San Felice Circeo, dall’Urbino di Raffaello alla Spoleto teatrale, dalla silenziosa Mantova alla Varenna lacustre, fino alle colline serene di Spineto e alla tragica concitazione dell’Aquila, non manca il ritorno alla terra d’origine a Tocco Casauria.

Quessto “viaggio in Italia” è soprattutto un itinerario interiore del quale le sollecitazioni esteriori accrescono la profondità e l’autenticità. C’è identificazione e mimetismo, il reale e l’immaginario si sovrappongono confondendosi fino a diventare indistinguibili: ma non è questa la sostanza della vita quando il sogno arriva a sembrare realtà e la realtà delle volte è tale da non sembrare vera? Non è nella forza dei sentimenti una delle chiavi per interpretare eventi altrimenti inspiegabili quando i loro esiti risultano sovrumani? Su tutto questo si riflette durante la lettura, mentre scorrendo le righe fino a divorarle si è presi dalle storie narrate, ansiosi di passare alla successiva e gustarla fino in fondo, e poi ancora e ancora. L’ansia di andare avanti risiede nel fatto che la storia in definitiva è unica, e ci si immedesima nell’anima errante in cerca di un approdo.

Un’anima femminile, a stare alla protagonista che quasi sempre è una donna, nella quale spesso l’autrice appare in prima persona; e a stare al pulsare dei sentimenti con la dolcezza e insieme la forza incontenibile della femminilità. Ma la loro profondità è tale da superare i confini di genere, è l’umanità più autentica che si presenta senza veli e pudori nella sua intrinseca essenza.

Ci sono anche le città, scenario di un’Odissea sentimentale alla ricerca di se stessi che favorisce l’emergere delle pulsioni più riposte, con i valori sottesi dalla loro storia e dai loro ambienti.

Una spontamea osmosi con i sentimenti della protagonista, che resta se stessa anche quando si incarna in sembianze maschili, è un’altra peculiarità rimarchevole di un’opera che non cade nel folklore e nel pittoresco nel descrivere i luoghi, ma vi scava nello stesso modo in cui penetra nell’anima; e trova in ognuno di essi una corrispondenza con quel lato dell’anima più vulnerabile, che la apre a sbocchi imprevisti e inattesi. Sono queste le sorprese che tengono aperta la “suspence” in ogni storia.

La “suspence” resta tesa nell’intero percorso che si snoda tra i tanti “travestimenti”, apparenti e temporanei, della protagonista che sembra nascondersi dietro personaggi diversi, tutti alla ricerca di un qualcosa che è se stessa, la risposta alle inquietudini dell’anima, l’approdo alla sua Itaca. Per scoprire che forse quest’Itaca non c’è, la vita è inquietudine tra i tanti sussulti che le circostanze, e le tappe del viaggio regalano, neppure la bellezza può garantire l’amore se rimane chiusa l’anima.

Anna Manna con il suo libro, “Una città, un racconto”

Le singole tappe del viaggio dell’anima

Si può restare sconosciuti anche se non c’è stato il bisturi chirurgico dell’ultimo racconto, è sempre possibile una cesura nell’anima. “La sconosciuta” non è la protagonista, che la studia da lontano; ma in quel “come faccio ad amarti se io sono … nessuna” si sente anche la sua angoscia, l’angoscia di un’umanità esposta all’alienazione e allo straniamento. E’ la sensibilità femminile sollecitata dalla dolcezza delle colline senesi di Spineto a far emergere l’atavico timore che la bellezza del corpo soverchi la profondità dell’anima: “L’anima di una donna è uno scrigno”  dentro l’involucro del corpo, “che rimane chiuso”  tanto più quanto questo è attraente. “La mia bellezza? E’ un sortilegio… cosa ami di me?”. La Maga Circe aleggia in queste parole e per ora si ferma la ricerca di Itaca. Ma fino a quando? Il viaggio continua, altre città, altre pulsioni attendono di venire alla luce in una ricerca di se stessi che in ogni tappa riserva delle sorprese come avviene nella vita.

Quando la realtà è sospesa in un clima assorto irrompe il sogno e la fantasia, che è la valvola attraverso cui le pulsioni hanno modo di esprimersi liberamente, superando remore e tabù; e nel viaggio della protagonista vi sono tante occasioni di disvelare quanto l’inconscio protegge e non verrebbe fuori senza l’immersione in una dimensione irreale e magica.

“La Famelica di Napoli” – il racconto insignito del Premio Teramo con Michele Prisco presidente della giuria – dà inizio al viaggio abbinando due opposti, in una trasposizione di immagini e sensazioni così immediate da investire il tatto e l’olfatto e confondersi con i sapori e gli odori dei bassi napoletani. Ripugnanza e bellezza nella stessa persona, o meglio nella stessa immagine che tende a sdoppiarsi: “Enorme… In realtà era una bestia che occupava una stalla di olezzi, sudori, madidi affanni”; e poi “il corpo fresco sotto le lenzuola candide. Era bellissima. Ma come era possibile?” Enigmatico, pur nella sua natura schiettamente popolare, con la fuga nella fantasia così spontanea da confondere il sogno irrealizzabile con la realtà ossessionante, indica una via d’uscita dai labirinti impossibili. Ci è tornato in mente un vecchissimo film, “Sogno di prigioniero”, Gary Cooper nella fetida cella immaginava di incontrare la sua donna su un poggio fatato, vestiti da principi, e questo sogno ad occhi aperti si confondeva con la realtà, la superava fino a sublimarla.

Il sogno interviene anche nell’austero Archivio di Stato,“L’inquietante profumo della polvere”, o piuttosto degli effluvi culturali di vecchi manoscritti, stordisce con la scoperta di in un’antica storia che assume i contorni di un giallo con il finale a sorpresa, anzi con una successione di sorprese dalle quali l’anima femminile ne esce con un alone di eroismo. “Quando si legge un libro, una storia, si conoscono i fatti, ma la trama sottile del cuore dove si nasconde, come stanare la verità dell’animo dietro le carte e i certificati della vita?”. Vale per questo moderno libro di racconti come per l’antico manoscritto su “Donna Vittoria”. C’è la “suspence” del giallo,  in una complicità tutta femminile che coinvolge in un’atmosfera alla Dan Brown: “Era un fantasma, un’allucinazione, era la droga della ricerca. Era una sensazione bellissima e me la tenevo anche se fosse stato il sortilegio di un implacabile illusionista”. Il racconto ha meritato l’inserimento nel saggio di Di Rienzo-Marchi, dal titolo su misura “Olfatto e profumo tra storia, scienza ed arte”. Il finale è una delle tante sorprese che spuntano come dei funghi succulenti quanto improvvisi nei boschi delle storie narrate.

L’irrealtà assume contorni reali anche in “Ninetta”, la leggendaria figura che aleggia a Gaeta animando la fantasia con la sua immagine di bellezza e felicità; l’atmosfera del litorale, “dolce e morbido”, favorisce questa trasposizione delle speranze nell’evocare le proprie memorie. Perché nella fanciulla incontrata in treno che stravede per Ninetta si incarna la nonna nell’accogliere la protagonista che torna nei luoghi dell’infanzia, e nel darle lezioni di vita, fino a provocarne l’immersione nel lavacro del mare; per salire nella nave del re e poi di nuovo sulla spiaggia nell’incontro virtuale con la mitica figura ma in effetti con se stessa. Dove “niente diventa reale. Sarà per sempre quell’attimo meraviglioso dell’intuizione della felicità, quell’illusione che tutto possa avvenire senza cambiare nulla”. Ma anche l’illusione da gattopardesca può diventare “una cosa che non è più illusione o sogno ma una realtà indistruttibile”, diventare roccia. E’ l’Itaca della protagonista? No, “sembra di roccia ma potrebbe sciogliersi come un cuore di neve al sole”.

Abbiamo citato, oltre Itaca, la maga Circe, si incontra veramente nei “Miraggi estivi” a San Felice Circeo: la protagonista è turbata dalla sua storia, la vede povera e indifesa rispetto al re potente, preso dalle sue grazie e non dalle sue inesistenti magie, anche se sono l’arma usata contro chi come lei aveva solo una colpa: “Aver stordito Ulisse il re del mare”. Anche qui sogno e immaginazione sono confusi con la realtà, fatta della solitudine, il suo “uomo importante” è rimasto a Roma lasciandola sola, poi si materializza vicino a lei. O si tratta di Ulisse? E’ un’altra la sorpresa da lei non voluta, è stata svegliata in spiaggia da una persona e le si era appoggiata un attimo, ora c’è chi ne vuole approfittare come il re del mare con la maga, il tutto in sedicesimo. Non sveliamo il finale, diciamo solo che nella dura realtà l’uomo è cacciatore.

Gilberto Mazzoleni interviene sul libro di Anna MannaUn altro cacciatore con finale shock a Mantova, dove la storia mitica di Federico e Isabella dà anima e corpo, si direbbe, al dilemma tra le incomprensioni con Giovanni e il fascino del violino di Giancesare: nell’abbandono notturno finiscono per confondersi fino a non poter distinguere gli “occhi di allora di Giovanni” dagli “occhi nuovi di oggi” di Giancesare. Gli uni e gli altri sono “gli occhi di un cacciatore innamorato della sua preda”, come nella storia del Circeo. “Il lupo di Mantova” si materializza sulla porta della stanza, “senza nome, senza ruolo. Senza senso e senza motivo. Il desiderio è come un lupo nella notte incantata”. Anche qui la sorpresa ma anche la morale finale: “Dopo sei la preda del lupo. E nient’altro. E ne sei felice, almeno fino all’alba. Quando la luce ti riveste di domande, di dubbi, di storia”. Itaca si allontana ancora di più.

Ritroviamo un “Suonatore di violino” a Spoleto, dove l’incontro di una notte con la protagonista sembra preludere a una storia; intanto è l’occasione di un sfogo sulla vita familiare e le sue delusioni ma finisce tutto lì, non sa se fare “la ninna nanna o la serenata” a chi non vede ancora la vita ma “soltanto un incontro ieri sera, poi questa notte e poi cosa pretendi?”.  Passano i mesi nel silenzio, poi gli anni, la magia della musica tornerà con una serenata, questa volta vera, e non di un musicista errante e deluso: “La mia vita l’ho trovata… me l’ha insegnata intera il mio violino. Alla fine ho seguito lui, l’ho ascoltato e lui mi ha regalato l’armonia”.  Nella famiglia e nel ricordo sereno di una notte. Per trovare poi un nuovo inizio.

Dalla musica alla pittura, due quadri alimentano l’immaginazione e scuotono i sentimenti della protagonista. Il primo quadro è “La Muta”, al centro del viaggio a Urbino, iniziato con sentimenti alterni: “Nell’animo di Eleonora c’è come uno scollamento pericoloso tra la terra ed il cielo. Un momento di evanescente assenza che la gente chiama tristezza. Ma il giorno dopo, il mattino pieno di luce porta di nuovo l’allegria per tutti”. Per tutti la spensieratezza, mentre lei si isola, “cammina nel mondo sola ma in compagnia di un segreto. Custodisce quel silenzioso segreto nel cuore”.  Nella città ducale “lei sola e distante da tutti, vuole dialogare con l’arte. Un dialogo col silenzio dell’arte”. E’ catturata dalla “Muta”  di Raffaello, “un incredibile miraggio”, che si anima:  “La fanciulla non è più dipinta, sembra una presenza vera, il suo silenzio è fruscio di parole pensate, ma  non svelate”. Per Eleonora “la Muta vive”. E allora cade la “barriera insopportabile” del silenzio, che “demolisce ma ricostruisce anche”. Le parole tanto pensate vengono svelate, il “silenzioso segreto” esce dal cuore, lo grida dinanzi al ritratto che sente come un giudice muto quanto severo. Non lo riveliamo, diciamo solo che un poeta la fa riflettere, “se parli, se sveli, è forse un atto d’egoismo” che può rovinare più di una vita. L’arte come l’ha spinta a rompere il silenzio e confessare, le saprà “regalare la soluzione, un altro silenzio”. E’ la vocazione di Urbino, “silenziosa e sacra cristallizzata nell’eternità dell’arte a custodire inviolabili segreti messaggi, con le nuvole come vele verso il divino”.

Il secondo quadro raffigura una nobildonna o una madre superiora, “Dominia Reverenda Eleonora”, ha una capacità magnetica da sconvolgere il conte:”Ne era affascinato. Ore ed ore a contemplarla”, fino ad esserne ossessionato e a doversi rifugiare in un matrimonio forzato, con “una disgraziata senz’anima” e senza qualità, “altro che il rigore di Dominia Reverenda Eleonora”.  Poi la doppia vita, “un gioco squallido” dal quale cerca di uscire appellandosi ai ricordi, li trova nei libriccini della comunione in soffitta, divenuta “l’angolo del mondo che somigliava alla sua infanzia”, dove fa portare il quadro di Dominia, con cui torna a confidarsi “accarezzando i messalini”. Alla prima comunione di Giovannina, la figlia della domestica Manuela, trova la saldatura tra le memorie e il presente, “quando quel quadro divenne realtà la follia si cangiò in ammirazione”. Ed ecco la sorpresa, c’è un enigma risolto che non sveliamo, diciamo solo che riguarda Giovannina: “I miracoli dei messalini a volte avvengono”.

L’infanzia riemerge ancora più direttamente nel ricordo di Torre Casuria, nel ritorno al paese di origine si sente anche il “vento di Tremonti che raccontava favole e sortilegi”, c’è la “piazza della cultura” intitolata a Gennaro Manna – lo scrittore e poeta di cui l’autrice è figlia d’arte – c’è “un mondo sotterraneo” di ricordi. E poi c’è Pinuccio, “Il pastorello del vento”, con le  sue nuove pecore, le pale dell’eolico “che girano lucide, pulite, simpatiche. Sembrano girandole festose quando il cielo è azzurro e anche quando è nuvoloso”. A noi non sono mai sembrate così, quelle che abbiamo visto finora non sono a Tocco Casauria e feriscono l’ambiente come tante spine nel corpo vivo della natura. Ma chi non si intenerirebbe dinanzi al pastorello che “studia, prepara il suo futuro felice in mezzo alle pale che ama già come fossero il suo gregge”? Il racconto è dedicato al figlio Alessandro, che “da grande voleva fare il pastorello del presepe”. Non certo delle pale, ma questa licenza poetica ci può stare benissimo, di invettive contro l’eolico, motivate dai danni all’ambiente  per non parlare di abusi e peggio ancora, ce ne sono, e tante, ben venga anche questa visione liliale.

Anche perché l’Abruzzo è evocato dai toni drammatici di “Il bacio” che scuote l’anima con le immagini shock del terremoto dell’Aquila: due studenti reduci da una “duplice disfatta” nella loro ricerca di lavoro, il concorso andato male per entrambi, che somatizzano la delusione in incomprensioni e frustrazioni reciproche, fino al momento in cui l’improvvisa “agnitio” dei sentimenti li unisce in un bacio mentre si scatena l’inferno del terremoto. Prima di rileggerlo, lo avevamo ascoltato  nell’intensa lettura di Maria Concetta Liotta con la percussione onomatopeica delle parole divenute scosse telluriche e crolli, grida e trambusto nella sala della presentazione; l’attrice si è così immedesimata nella drammaturgia del racconto da riportare ai momenti tragici del 6 aprile 2009. Per i due giovani la riscoperta di se stessi e del mondo: “Possiamo ricominciare perché siamo diversi… indietro non si torna mai… Se la vita riprende è perché sono morti i nostri fantasmi, i nostri bagagli, le nostre corazze le ha portate via il terremoto”. Tutto è distrutto, anche “la vecchia quercia squarciata”.  Ma timida come il loro bacio, “una piccola inerme pratolina” torna a fiorire: “La natura aveva scelto l’angolo più buio e più stupido del prato per risorgere”.  E’ il solo finale che citiamo, come auspicio che i timidi fiori sbocciati possano dare frutti sempre più copiosi. 

La Copertina del libro di Anna Manna

L’ispirazione dello scrittore nell’autenticità del racconto

Sentimenti e ricordi, sogni e realtà, il “viaggio in Italia” si è dipanato di sorpresa in sorpresa, e non manca neppure un incontro, misterioso e suggestivo come tanti, ma dove più che in altri troviamo la fusione tra l’ambiente e i pensieri che suscita. Nell’“Inseguimento a Varenna” vediamo come “la baldanza del sogno cede il posto ad uno sguardo sulla realtà. Le mie prigioni di parole si spaccano all’improvviso alla dolcezza di questo tramonto sul lago”. E c’è l’apparizione: “Ma eccola… eccola… eccola! E’ lei!”.  Una visione bellissima, poi svanisce, resta il suo profumo, non si lascia raggiungere, eppure tra le immagini e i sogni se ne sente la presenza trasfigurata: “E’ una volpe bianchissima, argentata, che mi guarda di sbieco, no, ecco è una farfalla che mi svolazza intorno, oppure, mio dio, è una lupa famelica che mi scruta benigna ma è pronta a divorarmi”. Il lupo di Mantova riappare al femminile, ma qui non si tratta del desiderio. E’ il tormento e l’estasi dell’ispirazione dello scrittore: “E’ lei il mio personaggio”.

Un personaggio in cerca di autore che lo ha trovato, come gli altri, nella protagonista alla ricerca di se stessa per le vie d’Italia dove sente gli stimoli per rivelare pulsioni recondite. Abbiamo compiuto il suo percorso immersi in queste storie in un itinerario romano tutto particolare, andata e ritorno dalla Montagnola alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna per la mostra sulle “nature morte” apertasi il 18 febbraio. Dieci mezzi pubblici per una lettura avvincente che ci ha fatto apprezzare le attese di bus e metro, tanto più quanto sono state lunghe, perché ci hanno permesso di restare legati ai personaggi, alle loro vicende e soprattutto a quel sottile filo conduttore che è l’anima dell’autrice. In mezzo alle tante storie della natura umana, le “nature morte” pittoriche ci sono apparse ancora di più senza vita, del resto non c’erano quelle di De Chirico che le vedeva come espressione della “natura silente”, e Achille Bonito Oliva ha ribattezzato in “natura viva”,

Abbiamo letto il libro in movimento, accompagnando idealmente la protagonista nel suo viaggio appassionato, che riesce a far rivivere con una prosa suggestiva, nelle descrizioni degli ambienti come degli stati d’animo, ravvivate dal tocco del mistero e dalla “suspence” fino alla sorpresa finale. Pregi letterari che non sta a noi sottolineare nei racconti di una scrittrice superpremiata nei quali l’ispirazione raggiunge accenti così autentici da assurgere alla confessione personale.

Una confessione della scrittrice, ma forse più propriamente dell’animo umano che trova nella sua prosa le parole giuste e i toni appropriati per sprigionare il suo caleidoscopio di umori e sentimenti.-

Info

Anna Manna, Una città, un racconto, Prefazione di Neria De Giovanni, Edizioni Nemapress, novembre 2012, pp. 104, euro 18.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante presso la Società Umanitaria, in Via Aldrovandi 16 a Roma, alla presentazione del libro di Anna Manna e alle Premiazioni, si ringrazia l’organizzazione per l’opportunità offerta. In apertura Anna Manna presenta il Manifesto,sedute Vera Ambra e Daniela Fabrizi; seguono una fase della Premiazione con Vera Ambra, poi Anna Manna con il suo libro,  l”intervento di Gilberto Mazzoleni sullo stesso libroe la suacopertina; in chiusura i Premiati del Concorso nazionale Fantasy Way sulla terrazza della sede.

I Premiati del Concorso nazionale Fantasy Way sulla terrazza della sede

Via della Seta, 2. Le prime tappe, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Dopo aver fatto conoscere la Via della Seta nella sua genesi, anche attraverso le testimonianze dei viaggiatori veneziani e genovesi, con le merci che la attraversavano tra Oriente ed Occidente nei due sensi, la mostra “La Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente ed Occidente”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre al 10 marzo 2013, fa compiere un viaggio virtuale nelle principali località dell’Oriente dove approdavano gli occidentali in uno scambio fecondo di prodotti e tecniche, fedi e conoscenze: sono Xi’an e Turfan, Samarcanda e Baghdad fino ad Istambul.

Pittura d’epoca di Cavaliere

Il viaggio virtuale si svolge nelle gallerie che fanno corona alla grande rotonda centrale del Palazzo Esposizioni, è il cuore della mostra che all’inizio e alla fine presenta le testimonianze e le evidenze sui traffici tra Oriente ed Occidente di cui abbiamo già dato conto nella presentazione.

Xi’an, città della pace

La prima tappa è Xi’an, “la città della pace”, con il massimo splendore sotto la dinastia Tang, dal 618 al 907 d. C., meta di mercanti con un milione di abitanti, un’urbanistica di palazzi imperiali, templi e mercati. Risalgono all’XI secolo a. C. le prime notizie come centro culturale e politico, all’epoca della dinastia Zhou, 1045-256 a. C. Dalla dinastia Sui, dal 581 al 618 d. C., divenne la capitale, estesa su 84 chilometri quadrati circondati da mura. Alla fine della dinastia Tang fu distrutta e gli abitanti emigrarono, finché nel XIV secolo con la dinastia Ming fu ricostituito un abitato molto più ristretto, 12 chilometri quadrati, di cui ci sono pervenuti i resti. Oggi ha 8 milioni di abitanti, moderno centro di produzione di petrolio e carbone, oggetto di attenzione degli archeologi di tutto il mondo e di flussi turistici.

Vi è tuttora una fiorente sericoltura dall’epoca del fulgore della Via della Seta. La produzione di seta prende l’avvio dal ciclo vitale del baco che si conclude con l’intervento umano per interrompere il processo prima che si schiuda il bozzolo in modo da poter raccogliere i preziosi filamenti con i quali viene prodotto un tessuto dalle straordinarie caratteristiche: resistente  e robusto, nel contempo morbido ed elegante, fresco d’estate e caldo d’inverno, sembrava “magico”.

Ma, a parte l’importantissima seta, Xi’an con l’afflusso di viaggiatori e mercanti che influenzavano ogni aspetto della vita, era un crocevia di tradizioni e culture, e anche di fedi religiose. Vediamo un catino d’argento del ‘700 proveniente dalla Persia, una coppa a forma di corno, il “rhyton”, realizzata in Asia orientale e portata in Cina dai viaggiatori; facciamo la conoscenza anche del mercante di vino,  una figuretta ugualmente originaria dell’Asia centrale.

Di particolare interesse le religioni che si incrociavano nella  capitale, portate dai mercanti e viaggiatori insieme alle proprie merci e tradizioni; lungo la Via della Seta venivano costruiti templi religiosi oltre ai luoghi di sosta e ristoro che si trasformavano in vasti abitati. Erano rappresentate le principali fedi dell’epoca, favorite dalla tolleranza religiosa di alcune dinastie cinesi,  come quella dei Tang: buddhismo e  zoroastrismo, taoismo e  confucianesimo,  cristianesimo nestoriano ed ebraismo, islamismo e manicheismo. Il buddhismo, nato in India con Siddhartha  Gautama nel 450 a. C., all’insegna del raggiungimento del “nirvana”  con la libertà dalla sofferenza, si sviluppò attraverso il proselitismo dei suoi monaci che nella Via della Seta promettevano la protezione divina ai viaggiatori:  nel 500 d. C. in Cina vi erano 2 milioni di buddhisti.

Di Xi’an viene ricordato che era un approdo anche dal punto di vista musicale per chi percorreva la Via della Seta: la musica era utilizzata nelle cerimonie religiose e delle comunità, inoltre era un linguaggio comprensibile alle varie lingue ed etnie e uno strumento di diffusione della fede e dei valori della tradizione. I primi strumenti avevano fili di seta intrecciati con bacchette di  bambù.

Resta un’immagine cosmopolita in cui i commerci si intrecciano alle fedi, le merci alle culture, le melodie lamentose della tradizione ai profumi esotici. Da qui la Via della Seta attraversava il deserto di Taklimakan per giungere alla seconda tappa, l’oasi lussureggiante di Turfan.

Pannello di marmo che raffigura  danzatori sogdiani

L’oasi di Turfan

Per entrare nello spirito dei viaggiatori di allora basta considerare che l’oasi dista 2500 chilometri da Xi’an, un deserto arido tra dune altissime fino alle Montagne Fiammeggianti, chiamate così perché infuocate dal sole. Il viaggio a dorso di cammello richiedeva mesi e l’arrivo alla vegetazione e all’acqua dell’oasi, in un’area posta al centro del bacino montuoso, doveva essere una liberazione, Veniva coltivata frutta e verdura in grande varietà con sistemi di irrigazione che convogliano l’acqua raccolta dalle piogge e dai rilievi montuosi, attraverso i canali sotterranei del cosiddetto “karez”, portandola per chilometri sui campi, come avviene tuttora.  La mostra “fa entrare” nell’oasi con un pergolato che rende in modo tangibile quell’ambiente fresco e accogliente.

Queste caratteristiche veramente preziose nella terra desertica sono alla base della storia tormentata della località, presa di  mira dai popoli limitrofi e dalle tribù turche, fino alla riconquista da parte della dinastia Tang, tra il 618 e il 907 d. C.; poi tra il VII e il IX secolo ripresero gli scontri tra cinesi, tibetani e turchi per il dominio sull’oasi e la città di Turfan.  Anche i mongoli, dei quali abbiamo ricordato la forza espansionistica, dominarono su Turfan dal 1209 al 1389. Poi ci fu il dominio di piccoli stati  nei loro rapporti complessi e agitati con la dinastia cinesi dei Ming, dal 1384 al 1644, verso cui il sovrano locale Yunus Khan arrivò a dichiarare guerra, dopo il 1465,  allorché furono introdotti forti limiti all’invio di delegazioni, ma ne fu sconfitto. Seguì la dinastia dei  Qing, dal 1644 al 1912, con la quale ci avviciniamo ai giorni nostri. Oggi Turfan è una “città giardino” di mezzo milione di abitanti, meta di turisti,  per i suoi vigneti è detta  “valle dell’uva”.

Ma tornando ai traffici sulla Via della Seta, l’oasi oltre a luogo di sosta e ristoro diventava un mercato fiorente e affollato, anche con prodotti di lusso come pelli pregiate e pietre preziose.

Spiccavano le pellicce, e anche le code di animali e le piume d’uccello a scopo ornamentale, nelle cerimonie imperiali venivano usate centinaia di ventagli con penne di pavone. E c’erano i tessuti non solo di seta, ma anche di lana, presa da cammelli, yak e pecore; e cotone, che cominciò a essere prodotto a Turfan nel 700 d. C, con lino, canapa e altre fibre tessili.

Le pietre preziose venivano dall’Afghanistan e dal Vietnam, arrivavano in Cina e in Persia, spesso venivano donate dagli ambasciatori ai regnanti; tra loro i lapislazzuli, di cui anche oggi sono i maggiori fornitori, con il loro colore blu che evocava l’acqua così preziosa nel deserto.

A Turfan si produceva  soprattutto frutta, con particolare riguardo all’uva  che cominciò ad essere trasformata in vino con la dinastia di Tangn, che lo conobbe nel VII secolo espandendosi verso Occidente; prima c’erano bevande ottenute dalla fermentazione di orzo e riso.  Il primo assaggio di vino fu dell’imperatore Mu Zong, che regnò solo tre anni, tra l’821 e l’824, e definì la bevanda “principe della grande tranquillità”, fu profetico, doveva trovarla poco dopo con la morte.

Non solo piante per l’alimentazione, anche piante aromatiche, sostanze medicinali  e pigmenti a Turfan: si citano il “sale inglese” e l’incenso, precisando che vi era un confine molto sottile tra la cura del corpo e il godimento dei sensi, per cui la stessa sostanza veniva usata come farmaco o come fonte di sensazioni piacevoli indipendentemente dalla cura dei malanni.

Le sostanze di origine vegetale erano  la corteccia della cassia e le alghe marine, i semi di ricino e lo zafferano, la menta e il rabarbaro; quelle di altra origine i capelli umani e le corna di rinoceronte. C’erano poi sostanze come il “bezoario”, cibo non digerito di certi animali, usato per curare dei disturbi ma con proprietà descritte così da un medico cinese: “Rappacifica l’anima celeste e rafforza quella terrena. Libera dagli spiriti maligni e libera dal male interiore”. Le fragranze più in uso erano il legno di sandalo e la canfora, l’ambra e l’incenso, l'”agarwood” e la corteccia di storace.

Si lascia l’oasi con le sue fragranze per inoltrarsi nel deserto seguito dai monti del Tian, la meta è affascinante, addirittura la mitica Samarcanda.

Ciotola, ottone ageminato  in argento e oro, Fars (Iran), XIV sec.

La mitica Samarcanda

Si arriva a Samarcanda dopo altri 2500 chilometri, attraversando la catena del Tian e scendendo nella profonda valle di Fergana. E’ una città antichissima, con più di 2500 anni di vita, ora fa parte dell’Uzbekistan, il nome viene dall’unione della parola persiana “asmara” cioè pietra o roccia, e “quando”, città,  fu occupata da Alessandro Magno che  rimase impressionato dalla sua bellezza di capitale di una satrapia dell’impero persiano, Sogdiana,  chiamata Marakanda dai greci.

Era in una posizione strategica sulla Via della Seta, a metà strada tra Xi’an e l’allora Costantinopoli, a ovest della città c’è Baghdad. Nell’VIII secolo fu presa dagli arabi e nei due secoli successivi divenne un centro di civiltà islamica; nel Medioevo  era una metropoli che attirava i mercanti e quindi centro di  commerci, vi si produceva seta e carta di elevata qualità, oltre ai metalli.

Nel 1220  fu occupata e distrutta da Gengis Kahn, e nel 1270 subì una nuova distruzione dal sovrano mongolo Khan Baraq. Ma non finì così, al termine del XIII secolo tornò a fiorire, tanto che Marco Polo la descrisse come “una città enorme e splendida”.  A farla rinascere fu il conquistatore mussulmano Tamerlano, vissuto tra il 1336 e il 1405, fu la capitale del suo impero dall’India alla Turchia; fece costruire palazzi,  moschee e giardini, e la popolazione raggiunse 150.000 abitanti.ù

Ma con i successori, i Timuridi, ci fu la disgregazione dell’impero e la città decadde, finché cessata questa dinastia, fu annessa all’emirato di Bukhara; nel 1886, dopo essere entrata vent’anni prima nell’orbita della Russia, divenne la capitale del Turkestan, e due anni dopo dell’Uzbekistan, fino al 1930 quando le subentrò Tashkent.  La sua posizione sulla Via della Seta si riflette tuttora nella sua produzione serica  e cotoniera,  e in quella dei metalli secondo le antiche tradizioni, nonché nei prodotti alimentari dal grano al vino e al tè. Tra i metalli c’era anche oro e argento, che venivano plasmati per produrre oggetti ornamentali, anche combinandoli e decorandoli; l’argento di Samarcanda veniva usato per coniare monete dei regni arabi ne persiani, oltre che del sogdiano.

All’epoca della Via della Seta vi si trovavano tutte le merci con le quali i mercanti trafficavano sulle direttrici dei commerci che avevano come fulcro quell’itinerario, si pensi che nella zona intorno a Samarcanda ogni località aveva locande per i viaggiatori: il geografo arabo Ibn Hawqal parla di “duemila caravanserragli e locande dove chiunque arrivi può trovare cibo sufficiente per sé e foraggio per gli animali”. I  mercanti usavano tutti i mezzi, anche presentandosi come cammellieri e guide per le carovane, che erano composte di pellegrini, viaggiatori e mendicanti.  Come bestie da soma nella Via della Seta erano impiegati i cammelli, capaci di portare carichi fino a 350 chili, in grado di cibarsi di piante desertiche e di restare diversi giorni senza bere. Le abitazioni dei commercianti erano lussuose, perfino con dipinti murali all’esterno

A Samarcanda, in particolare, si sviluppò la produzione di carta: la leggenda tramanda che il segreto fu carpito alla Cina dagli islamici nel 751 dopo la vittoriosa battaglia di Talas, nell’Asia centrale, in cui furono fatti prigionieri molti artigiani cinesi.  “Di tutti i tesori che percorsero la Via della Seta nessuno fu più potente della carta”, scrivono nel Catalogo della mostra Norel, Leidy e Ross.

In effetti dalla carta alla scrittura con inchiostro il passo fu breve: fu utilizzata  subito per lettere di credito e simili in modo da non portare denaro, in documenti ufficiali e poi nella letteratura; favorì molto lo sviluppo della cultura e delle scienze. Gli islamici a lungo furono diffidenti, tanto che il Corano fu scritto su pergamena e non su carta fino al X secolo, allorché nel 971-72  fu copiato su  carta dal calligrafo Al Razi, e fu avviato un nuovo stile di scrittura, il corsivo dopo i caratteri cufici. Si fa osservare che sin dall’848 a. C. vi fossero libri completamente realizzati con la carta.

Per raggiungere Baghdad, la quarta tappa sulla Via della Seta, si attraversa il fiume Amu Darya, tra i più lunghi dell’Asia centrale, poi si costeggia il Grande deserto salato iraniano,  per passare nei valichi dei monti Zagros, fino a raggiungere le pianure irachene. L’avventura continua, racconteremo prossimamente le ultime due tappe: Baghdad, la città della sapienza,  e Istanbul,  la porta dell’Oriente.

Info

Palazzo Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Martedì e mercoledì, giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso;  accesso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 10,50, ridotto 7,50, scuole 4 euro a studente, gruppi tra 10 e 25, martedì e venerdì- Con il biglietto si vedono tutte le mostre del Palazzo Esposizioni.  Tel . 06.39967500, mailto:info.pde@palaexpo.it.  Catalogo: “Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente”, Palazzo Esposizioni e Codice Edizioni, ottobre 2012, pp. 296, formato 20 x 24, euro 26; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito, in questo sito, il 19 febbraio, il terzo e ultimo uscirà il 23 febbraio 2013. con 4 immagini ciascuno. 

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Palazzo Esposizioni, e in parte dal Catalogo, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura una pittura d’epoca di Cavaliere, seguono Pannello di marmo che raffigura  danzatori sogdiani e Ciotola, ottone ageminato  in argento e oro, Fars (Iran), XIV secolo; in chiusura Produzione del vetro rappresentata in un manoscritto d’epoca.

“Produzione del vetro” , in un manoscritto d’epoca

Inferno di Dante, Rodin all’Accademia di Spagna, Roberta Coni alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Una grande mostra su “L’Inferno di Dante”del celebre scultore Auguste Rodin alla Real Accademia di Spagna a Roma, che espone dal 29 gennaio al 10 marzo 2013 ben 129 “disegni neri”  dell’opera grafica “album Fenaille”, definita “monumento alla bibliofilia”, stampata dalla Casa Goupil, innovatrice nelle tecniche di riproduzione e diffusione delle opere artistiche. Presentiamo anche l’opera del tutto diversa sul tema “Inferno”, di Roberta Coni, alla Galleria Russo a Roma, dal 16 novembre al 7 dicembre 2012, 25 grandi pitture con il titolo “Tentar la carne – Inferno I”.

Stampa di disegno di Auguste Rodin

L’abbinamento non vuole accostare né i due “corpus” di opere, i cui generi sono diversissimi, dalla resa spettacolare non comparabile; né gli autori, ovviamente lontanissimi nel tempo e nella caratura artistica, che nel grande Rodin è incommensurabile. Intendiamo solo far seguire all’interpretazione di fine ‘800 di Auguste Rodin, che si dedicò per decenni al tema dell’Inferno dantesco, quella attuale della pittrice Roberta Comi che si è accostata al I canto con ammirevole slancio e costanza.

I disegni del grande Auguste Rodin

Le stampe dei disegni sono chiamate “album Fenaille”, dal nome del mecenate, oppure “album Goupil” dal nome dell’editore, la Casa Goupil fondata nel 1850 a Parigi da Adolphe Goupil, che si estese in Europa con sedi a Londra e Berlino, Bruxelles e Vienna, in America a New York e anche in Australia. Ora la “Collezione Goupil” – cioè le opere grafiche prodotte dalla casa – si trova nel Museo d’Aquitaine di Bordaux, al quale si deve la mostra.

Rodin realizzò i suoi disegni nel 1897, mentre era impegnato nella famosa opera scultorea ” Le Porte dell’Inferno”, alla quale lavorò senza concluderla tra il 1880 e il 1917, anno della morte; le vicissitudini della committenza – prima per le porte del Museo delle Arti Decorative, poi trasferita alle porte del Louvre quando tale museo non venne più realizzato e sembrava volessero insediarlo nella grande sede parigina, infine annullata – non dissuasero l’autore, che si impegnò per decenni  realizzando una vasta serie di singole sculture riunite in composizioni. Il calco in gesso fu esposto in una mostra francese dell’epoca, e solo dopo la sua morte ci furono alcune fusioni in bronzo.

Questo per l’opera scultorea, mentre i disegni furono regolarmente stampati e l’album che li raccoglieva divenne celebre. Le prove di stampa, “Bon a tirer” – cioè i suoi “Visto si stampi” – hanno il pregio aggiuntivo di recare le preziose annotazioni correttive per migliorarne la resa, apportate dall’artista che seguì personalmente la stampa. Il procedimento seguito era della “fotoincisione”, creato dal direttore artistico della stessa casa Goupil, impressa ad incavo su fogli di rame, il colore veniva dato “a tampone” con diversi inchiostri sulle singole tavole.

I disegni hanno la stessa ispirazione delle sculture sul tema, l’Inferno dantesco, ma vennero concepiti in assoluta autonomia, non sono studi preliminari; e come nei disegni di Michelangelo, le forme impresse hanno una plasticità scultorea impressionante.

La spiegazione si trova nelle parole di Octave Mirbeau, lo scrittore e critico morto nel 1917, pochi mesi prima di Rodin al quale dedicò l’appassionato omaggio da cui le abbiamo tratte: “Basterebbero questi disegni per la gloria di un artista, perché hanno tutto ciò che costituisce la  bellezza: l’invenzione e la forma. Eppure, la maggior parte sono soltanto il germe dell’opera futura, e il sogno dell’opera futura, che la mano riporta sulla carta, con la punta di una matita o di una penna, prima di fissarli nella materia dura dove s’incarneranno, rendendoli immortali”. E ancora più direttamente: “Con questi disegni, assistiamo giorno dopo giorno e per così dire, disegno dopo disegno, alla creazione di questi innumerevoli poemi che compongono la Porta dell’inferno”. Non si poteva esprimere meglio il rapporto tra disegno e scultura, tra ispirazione ed espressione artistica. 

Stampa di disegno di Auguste Rodin

Le 129 stampe esposte sono divise in tre gruppi: 82 sull’Inferno, 31 sul Limbo, e 16 su soggetti biblici e su opere di Michelangelo; alcune vengono collegate ad opere su temi analoghi di Goya e Rembrandt, come ai disegni di Victor Hugo, che Rodin conosceva dalla mostra di Parigi del 1888.

Nei cosiddetti “disegni neri” l’inchiostro è usato con abbondanza e intensità, per raffigurare una vasta serie di personaggi della cantica dantesca, con particolare attenzione per le furie, gli spettri, i demoni. Dell’Inferno ricordiamo la Barca di Caronte e Cerbero, Minosse e Maometto, Paolo e Francesca, il Conte Ugolino in più disegni, gli Eretici e i Gruppi di condannati; del Limbo Dante e Virgilio oltre a molti disegni di Bambini e di Anime in attesa; dei temi mitologici il Centauro che rapisce due donne, Castore e Polluce, Icaro e Fetonte, è ritratto anche Michelangelo.

Le prove di stampa dei disegni sono nette, di piccole dimensioni; riflettono inquietudini e speranze, passioni e sensualità, senso della vita e paura della morte nella visione di un sommo artista che, sempre nelle parole di Mirbeau, si esprime “meglio di un poeta, meglio che con le parole, con le forme. Con lui nasce uno stile, è stato il grande riformatore della statuaria che gli deve un certo modellato, un movimento, una passione, e cioè una comunione più intima dell’arte con la natura o, se preferiamo, con l’amore umano che possiede la natura in modo più completo, più virile”.

Proprio questo esprimono i suoi disegni, forme scultoree ispessite dal segno forte e dall’uso di un inchiostro pesante e invasivo, ma raffinato nelle linee, sono “un’opera gloriosa e rara e nel contempo toccante”.

E’ come una mostra teatrale – aggiungiamo noi – bozzetti di scenografie espressivi e coinvolgenti.

Stampa di disegno di Auguste Rodin


I dipinti di Roberta Coni

Nessun contemporaneo  si potrebbe accostare a un artista che lo stesso Mirbeau definisce “la più alta coscienza e la gloria più pura dei nostri tempi”, motivando così il suo giudizio: “L’anima, che dall’antico Egitto e dalla Grecia può attraversare i secoli per fecondarli, la ritrovo in lui, in tutta la giovinezza della sua eternità”. Perciò quello con Roberta Conti è un accostamento riferito essenzialmente al tema dantesco e all’impegno appassionato, esulando ogni parallelo artistico improponibile per quanto si è detto. Anche l’approccio all’opera è diverso e ne parleremo presto.

Prima, però, qualche notizia sulla pittrice, diplomata in pittura all’Accademia delle Belle Arti di Roma nel 1999, con un cursus honorum fitto di mostre personali e collettive e di riconoscimenti.  La sua ricerca pittorica – scrive Beatrice Buscaroli – è un’introspezione “raccontandosi nel profondo, mettendo a nudo le sue debolezze e le sue ossessioni, dichiarandosi allo specchio senza alcun filtro, senza alcuna protezione”. Lo abbiamo visto in altre sue opere dal 2009 al 2012, l’Autoritratto e intensi volti soprattutto femminili e di altre etnie, come La Vergine di ferro e Ragazza indiana con corona tradizionale, Ragazza dello Sri Lanka e la serie dedicata a Osas,un trittico e più di 20 ritratti alla ragazza con turbante. C’è tanta Intensità e introspezione.

Con le pitture sull’Inferno dantesco si ha un salto di qualità, ben più dell’apertura di un’altra pagina. Lei stessa ci ha detto di persona che intende continuare su questa strada, esplorando i singoli canti della Commedia, come ha fatto per il I Canto cui era dedicata la mostra. Alla Galleria Russo veniva distribuito ai visitatori un foglio recante le 45 terzine del canto , con i 136 versi complessivi.

I titoli delle singole pitture rimandano ai rispettivi versi, si va dai 7 dipinti  della serie Le disperate strida ai 3 con La perduta gente eai 2 di La seconda morte ciascun grida; dai dittici di La lonza, La lupa, Il leone alle opere singole, La caduta e Le genti dolorose, Eran dannati i peccator carnali e Le fangose genti, Le segrete cose e Dentro le segrete cose, fino al più tragico, La belletta negra.

Dipinto di Roberta Comi

Tutte le pitture esprimono una intensa carnalità, nella forma e nel colore, accentuata dalle grandi dimensioni, alcune anche lunghe 3 metri; i dittici sono 2 metri per 2 con figure corpose che nella “Lupa” diventano aggressive, in “Le tre fiere”, 2 metri per 1,40,  visi allucinati; nelle altre, in varie misure, masse di corpi avvinghiati o travolti dal turbine infernale con evidenti i  visi disperati.

L’osservatore ha la sensazione, nelle parole della Buscaroli, di essere “risucchiato all’interno della scena dipinta in tutte le sue sfumature, in tutta la sua forza evocatrice”. E più in particolare: “Le urla, gli stridii, gli arti contratti, le proporzioni enfiate come in scolpiti ruderi trecenteschi, le smorfie, i ghigni, le costole, il sangue, il sangue, il sangue”; e ancora: “Gorghi tondi di forme attorte e contratte, ritagliate spesso in forme tonde da anamorfosi allucinate , senz’aria e senza speranza”.

E’ una perfetta riproduzione a parole delle immagini dipinte, che la Buscaroli legge al femminile, ma che incarnano l’umanità senza distinzioni di genere: questa è stata la nostra sensazione.

Del resto l’artista interpreta la sua opera come “un viaggio di speranza e riaffermazione dell’umano e del divino”, rivolto all’oggi e al domani, allorché si ripropongono con forza crescente le paure per le incertezze e le precarietà del futuro, e con esse gli interrogativi sul “bene e il male, il giusto e l’ingiusto, la salvezza e la dannazione”. 

Commenta così la Buscaroli: “Quella che interessa l’artista è l’‘alta speranza’, il messaggio salvifico insito nel racconto della pittura e nella sua possibilità evocatrice, all’interno di una presa di coscienza della reale portata della pittura, in grado di accompagnare e redimere”. Mentre la poesia è stata vista come eternatrice, qui la pittura diventa un mezzo di conforto e salvezza. Tanto più se riferita alla Divina Commedia di Dante , che dopo l’Inferno ha il Purgatorio e il Paradiso.

Dipinto di Roberta Comi


Info

La mostra di Auguste Rodin è aperta fino al 4 marzo 2013 presso la Reale Accademia di Spagna al Gianicolo, piazza San Pietro in Montorio 3, tutti i giorni tranne il martedì dalle ore 10,30 alle 19,30,  ingresso gratuito. Tel. 06.5812806. Per la mostra di Roberta Coni, che si è chiusa il 7 dicembre 2012 alla Galleria Russo di Roma, via Alibert 20, il Catalogo: Roberta Coni, Tentar la carne, a cura di Beatrice Buscaroli, ottobre 2012, Palombi Editori, pp. 80, formato 22 x 22.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante, per la mostra di Rodin alla Reale Accademia di Spagna il giorno dell’inaugurazione; per la mostra della Coni alla Galleria Russo il giorno della chiusura. Si ringraziano gli organizzatori e i titolari dei diritti delle due mostre per l’opportunità offerta.

Dipinto di Roberta Comi
 

Via della Seta, 1. L’Oriente di Marco Polo, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposizioni, a Roma, dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2013 la mostra “La Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente ed Occidente” espone oltre 150 documenti e reperti, oggetti e prodotti sui traffici che fiorirono su un itinerario di migliaia di chilometri  con meta la Cina sviluppando i commerci ma anche la comunicazione tra tradizioni e tecniche, etnie e civiltà. Genova e Venezia sono le città italiane protagoniste, la mostra ne documenta il ruolo  e l’importanza.  In collaborazione con la Fondazione Roma Arte Musei, con Codice. Idee per la Cultura, e Civita.  

La prima galleria della mostra

Nella vasta rotonda intorno alla quale si aprono le 7 gallerie corrispondenti alle sezioni della mostra si è accolti dalle sagome imponenti di tre cammelli, poi si entra nell’atmosfera della Via della Seta a poco  a poco, iniziando con le prove  documentali e visive  fino ai prodotti dell’artigianato e dell’arte. Il tutto con la conoscenza delle principali località in cui lo sviluppo dei commerci ha accompagnato la crescita economica e gli scambi culturali: sono Xian e Turfan, Samarcando e Bagdhad,  fino a Istanbul. I nomi delle località evocano un mondo in cui è affascinante immergersi.

Ma prima la mostra ci fa conoscere la Via della Seta, nome con cui si identifica l’insieme di itinerari che attraversavano l’Asia e in particolare la Cina, verso l’Europa, non era quindi una strada, ma un percorso su cui transitavano viaggiatori e mercanti, e tra i primi i missionari, e con loro non solo merci e prodotti, ma anche conoscenze e credi religiosi. 

Questo avveniva in terre spesso tormentate da conflitti mentre dominavano l’Oriente e l’Occidente tra grandi imperi, gli Han in Cina, l’impero  Kusana in Afghanistan e l’impero romano; il periodo di massimo fulgore è stato sotto la dinastia cinese dei Tang, tra il 600 e il 900 d.C..

La Via della Seta

Innumerevoli le storie che si intrecciano nel periodo in cui comincia a prendere corpo la Via della Seta, e diversi i motivi che portarono ad andare sempre più avanti, inizialmente più  strategici e militari che commerciali e culturali; già prima della dinastia degli Han, tra il 206 a.C. e il  220 d. C., si cominciò a costruire la Muraglia cinese a scopi difensivi, mentre ci si spingeva verso ovest per fare nuove alleanze.  Gli emissari mandati  in avanscoperta riferivano sui mondi che avevano incontrato suscitando l’interesse a conoscerli direttamente, precursore fu il primo di loro, Zhang Qian considerato il “padre” della Via della Seta, il cui primo ritorno nella capitale cinese, Xi’an, avvenne nel 125 a. C.. Ma già prima di questa epoca remota piccole quantità di merce dall’Oriente raggiunsero le terre occidentali, portate da viaggiatori solitari e coraggiosi. Le terre attraversate erano inquiete e tormentate, non solo per i conflitti, ma anche per l’inaridirsi delle fonti d’acqua che costringevano le popolazioni a spostarsi abbandonando gli insediamenti.

Viene fatto rilevare che anche quando le merci si spostavano dall’Oriente all’Occidente non venivano portate direttamente a destinazione ma passavano di mano in mano, previo pagamento di dazi e provvigioni, spesso affidate alle tribù nomadi che si spostavano facilmente; nelle soste che avvenivano nelle locande e nei “caravanserragli” c’era anche lo scambio di notizie. Erano i missionari a percorrere l’intero itinerario, quindi le loro relazioni sono state una fonte preziosa.

Il nome della via, coniato nel 1877 da un barone esploratore tedesco, si riferisce al prodotto più appariscente che veniva dall’oriente. I romani lo conoscevano  dal I secolo a. C., avendolo trovato presso i Parti; ma non erano questi a produrlo bensì popoli molto più a Oriente, che i romani chiamarono “seres”, di qui il nome rimasto fino ad oggi.  Erano gli intermediari, oltre ai missionari, a rendere possibile il traffico verso Occidente  oltre alla seta, di pellicce e ceramiche , giade e legni laccati; e verso Oriente di oro e avorio, pietre preziose e vetro.

Le difficoltà di spostarsi in zone desertiche o montuose e impervie portavano a irradiarsi in un ampio ventaglio di percorsi, per cui il termine Via della Seta va considerato in senso lato, come una direttrice di marcia su migliaia di chilometri. Anche nelle oasi si potevano trovare temperature da 40 sotto zero d’inverno a 50 gradi all’ombra d’estate, con tanta polvere e pochissima acqua.

Quando i traffici si svilupparono,  la Via della Seta fu infestata dai banditi che depredavano  le carovane,  costrette ad avere scorte armate, pertanto sorsero lungo l’itinerario postazioni difensive.  Lungo il tragitto nacquero templi religiosi, soprattutto buddhisti, ma anche il cristianesimo, nella dottrina nestoriana,  e il manicheismo furono portati da missionari e viaggiatori; la prima chiesa nestoriana fu costruita nella capitale Xi’an nel 638.

Sotto la dinastia Tang vi fu un periodo di pace in Cina che, dopo secoli di guerre e occupazioni, favorì lo sviluppo:  la capitale raggiunse 2 milioni di abitanti  nel 740 con molti immigrati persiani e indiani, giapponesi e coreani, nell’integrazione tra culture e tradizioni diverse. Lo stesso avvenne per i popoli dei paesi attraversati dalla Via della Seta che non dovendo più combattere potettero comunicare. Terminata questa dinastia ripresero i conflitti con gli stati confinanti, nell’epoca delle Cinque Dinastie, tra il 900 e il 960, e il traffico sulla via della Seta diminuì, sia per i pericoli di attacchi, sia per lo sviluppo dei collegamenti marittimi più sicuri per le merci, soprattutto quelle fragili e deperibili. Anche gli scontri di matrice religiosa contribuirono a questo decadimento, le Crociate fecero scontrare i Cristiani e i Mussulmani fino alla conquista da parte dei primi di Gerusalemme con la Quinta Crociata nel 1202-04.

I conquistatori mongoli  e la “pax mongolica”

A questo punto entrano in scena i mongoli che con Gengis Khan invasero la Via della Seta dalla Cina al’Asia centrale fino al Mediterraneo; l’impero mongolo si estese anche dopo la morte di Khan fino a comprendere interamente la Cina con la dinastia Yuan, protrattasi per un secolo dal 1270 al 1370. Con i mongoli la Via della Seta riprese la sua funzione di collegamento  e integrazione di culture e religioni, per la tolleranza verso le diverse fedi, con la convivenza di taoismo e buddhismo, cristianesimo romano e nestoriano, ebraismo e islamismo. 

E’ il momento di Marco Polo, vissuto dal 1254 al 1324, che percorse la Via della Seta già con il padre a 17 anni fino alla corte di Kublai Khan, il discendente illuminato di Gengis Khan; tornò in Occidente nel 1295 e scrisse “Il Milione”, con la descrizione pittoresca dei luoghi visitati, degli usi e costumi dei popoli conosciuti.

La Via della Seta non torna agli splendori della dinastia Tang con lo sviluppo del trasporto marittimo rivelatosi più vantaggioso per determinate merci nelle rotte più lunghe. Il traffico addirittura si interrompe  con la dinastia Han che ostacolava il commercio con l’Occidente, al punto che scomparvero anche gli abitati sorti lungo il percorso, e rimasero le oasi per i viaggiatori isolati.

Tornò l’interesse alla fine del XIX secolo, nell’ottica coloniale rivolta soprattutto all’India da parte degli inglesi e soprattutto sotto il profilo storico e culturale: ai commercianti si sostituiscono archeologi, geografi e cartografi. Dopo l’esplorazione della Via della Seta da parte del cartografo svedese Sven Hedin, nel 1885, che attraversò la catena del Pamir  fino a Kashgar e giunse a Taklimakan, fu una gara di archeologi di ogni paese per recuperare e asportare gli antichi reperti.  Finché la Cina nel 1925 per ostilità verso gli stranieri bloccò le uscite di reperti archeologici.

Oggi la Via della Seta è meta di iniziative turistiche “sulle tracce di Marco Polo”,  mentre i cinesi hanno ripreso le campagne archeologiche portando alla luce reperti ben conservati.  Resta una direttrice di grande valore storico e culturale per l’incontro di civiltà che si è avuto su basi commerciali e religiose e per quanto ha lasciato nelle tradizioni e nell’arte: Lo vediamo nei reperti esposti nella mostra che fanno viaggiare nel tempo e nello spazio sulle tracce delle antiche civiltà.

“Marco Polo, Il Milione”, manoscritto del XIV sec.

Oriente e Occidente uniti dalla Via della Seta

In questo quadro, di grande interesse per noi sono i rapporti tra Oriente ed Occidente, e in particolare il ruolo che hanno avuto gli itinerari della Via della Seta sulla nostra civiltà, attraverso la comunicazione di saperi, tecniche e conoscenze, in un rapporto di arricchimento reciproco. 

Viene attribuito un ruolo fondamentale all’azione dei mongoli, inizialmente improntata a guerre di conquista particolarmente feroci che portarono al più grande impero nella storia dell’umanità; ma poi la loro apertura alle religioni e alle scienze, alle tecniche e alle arti, nell’epoca della “pax mongolica”, tra il XIII e il XIV secolo, diede luogo a un’era molto fruttuosa di scambi di conoscenze oltre che di prodotti, tra le varie aree del continente euroasiatico, compresa l’Italia.

I contatti cominciarono con i frati ei predicatori, poi dopo il Concilio di Lione del 1245 furono mandate delegazioni papali agli eserciti mongoli, per scongiurarne le scorrerie sanguinose e per avere maggiori notizie su questo popolo. Nello stesso tempo si ponevano le basi per l’evangelizzazione al punto che Montecorvino, un legato papale a Tabriz, nel 1294 costituì una comunità cristiana nella capitale, l’odierna Pechino, costruendovi anche una chiesa. Seguì l’istituzione di vescovi nella Cina, la cui cura pastorale fu affidata ai frati francescani, mentre ai domenicani quella dei territori occidentali, l’ikhanato e l’orda d’oro. 

La penetrazione religiosa proseguì con fasi alterne: nel 1318 un altro francescano, Odorico da Pordenone, partito da Venezia, in 12 anni arrivò a Pechino e nel nord e sud della Cina, in India , Tibet e Asia centrale, ma fece pochi proseliti; mentre dopo la morte di Montecorvino, nel 1328,  il popolo degli Alani chiese di avere un nuovo vescovo, però la comunità locale non si sviluppò.

I mercanti italiani, da Genova e Venezia, si aggiunsero ai religiosi, dalla metà del 1200 per tutto il 1300, con Marco Polo il più famoso, alimentando i traffici sulla Via della Seta e sviluppando  le vie di commercio marittime, utilizzando la bussola, le carte nautiche e i portolani.  La “pax mongolica” favorì gli uomini d’affari genovesi e veneziani, e in parte anche da Pisa, alla ricerca di prodotti esotici e di lusso da Cina, India e Persia per scambiarli con i propri prodotti.

Questa intensa attività commerciale portò anche allo scambio di tecniche e conoscenze, quindi ad una crescita culturale. Ma fu temporanea, perché la Via della Seta era destinata a richiudersi alla fine della dinastia Yuan e con l’instaurarsi della dinastia Ming, nel 1368: con la fine della “pax mongolica” l’ostilità verso gli europei coinvolse mercanti e missionari, e portò all’espulsione dei cristiani presenti in Cina, compromettendo scambi commerciali ed evangelizzazione dell’Asia. 

Ma non furono cancellate le acquisizioni derivate dalla lunga epoca di scambi e contatti, e dalle relazioni scritte di missionari e mercanti, rimaste a testimonianza di un mondo di enorme fascino perché ha fatto scoprire usi e tradizioni, costumi e civiltà tanto diverse quanto ricche di elementi di valore che sono stati assorbiti contribuendo all’avanzamento della nostra cultura.

Pratica di mercatura’ di Francesco Balducci Pegolotti”, XV sec., frontespizio

Veneziani e Genovesi sulla Via della Seta

I nomi dei mercanti veneziani e genovesi sono legati a storie affascinanti, nella mostra sono esposti documenti dell’epoca, pergamene, cartigli e altri scritti che ne fanno rivivere lepoca. Il primo con cui si fa la conoscenza è Pietro Viglioni, in un testamento a Tabriz del 1263, è il primo documento sulla presenza di mercanti italiani sulla Via della Seta, negli anni in cui Marco Polo compie il primo viaggio con il padre alla corte di Khubilai Khan a Pechino. E’ significativo che Venezia e Genova entrarono in contrasto e si ostacolarono nella ricerca del dominio commerciale.  

Un altro personaggio che si incontra nelle testimonianze sulla Via della Seta è il nobile veneziano Giovanni Loredan: nel 1338, superando la contrarietà dei familiari e i tanti ostacoli, dopo un viaggio in Cina, parte per l’India con altri cinque nobili della sua città, raggiunge l’Afghanistan tra vicissitudini inenarrabili, e muore per malattia.  Così altri viaggiatori, tra cui i fratelli genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi,  scomparsi in mare e diventati una leggenda per la loro fine misteriosa; seguì il loro esempio un altro membro della famiglia, Benedetto Vivaldi, partito nel 1315 e morto anche lui nel viaggio in Oriente. C’è anche una donna italiana in queste storie, Caterina del fu Domenico de Bonis, la prima di cui si ha notizia in Oriente, muore nel 1342. I genovesi sono maggiormente attivi in Cina, molto più dei veneziani, a parte Marco Polo; tra i veneziani andò in Cina, e ne tornò, Franceschino Loredan, rampollo del personaggio che abbiamo già incontrato.

Nei documenti disponibili su questi viaggi, che la mostra esibisce, sono indicate anche le merci che venivano portate in Oriente, nel testamento di Viglione su pergamena, del 1263, ce n’è un elenco, corredato dal prezzo e dal mittente: notiamo i cristalli di roccia e le pietre dure, le perle e i diaspri, tavole da gioco e cammei, coppe e candelieri; con gli oggetti preziosi in argento anche pelli di castoro  e zucchero, telerie lombarde e tedesche, forse di lino, e tessuti di lana, ricercati in Oriente.

Si vendevano i tessuti lungo il tragitto e in Cina l’argento si scambiava con la moneta per fare gli acquisti e non i baratti. Naturalmente l’acquisto obbligato era la seta, grezza o i filati, inoltre c’erano le spezie per uso alimentare, considerando che avevano anche poteri curativi.  Ci sono il testamento di Maffeo (Matteo) Polo del 1310, e il testamento di Marco Polo, del 1324, entrambi su pergamena. Di Marco Polo è esposto anche il manoscritto cartaceo di “Il Milione”, oltre a un incunabolo rilegato in pergamena del 1496. Altri documenti la “pratica di mercatura” di Francesco Pegolotti, un manoscritto del XV secolo cartaceo, e delle carte del Codice Cocarelli, stessa epoca.

Sui rapporti tra l’Italia  e l’Oriente sono esposte opere d’arte e articoli ecclesiastici dove si trovano spunti orientali: così le Madonne a tempera su fondo oro di Paolo Veneziano, Taddeo Gaddi, Jacopo di Cione, fra il 1335 e il 1365; la Mitria del vescovo Oddone da Colonna, il manto di San Secondo e i calzari in panno tartarico  e diaspro di Benedetto XI della fine del secolo XIV;  è esposto anche un paliotto d’altare in velluto con il motivo dei “camini” della metà del secolo XV.

Spettacolari alcuni grandi tessuti e teli, insieme ai quali è presentato un vasto assortimento di frammenti di tessuti con motivi ornamentali diversi sempre di foggia e ispirazione orientale.

Dopo questo primo contatto che ci ha fatto ambientare nella Via della Seta, la visita alla mostra continua, in un viaggio attraverso le celebri località di Xi’an, l’antica capitale e la grande oasi di Turfan, la mitica Samarcanda e Baghdad città della sapienza fino a Istanbul, la porta dell’Oriente. Racconteremo prossimamente le scoperte fatte e le emozioni provate in tale affascinante percorso. 

Info

Palazzo Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Martedì e mercoledì, giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso;  accesso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 10,50, ridotto 7,50, scuole 4 euro a studente, gruppi tra 10 e 25, martedì e venerdì; con il biglietto si visitano tutte le mostre del Palazzo Esposizioni.  Tel . 06.39967500, mailto:info.pde@palaexpo.it.  Catalogo: “Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente”, Palazzo Esposizioni e Codice Edizioni, ottobre 2012, pp. 296, formato 20 x 24, euro 26; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due articoli successivi sulla mostrra usciranno, in questo sito, il 21 e 23 febbraio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Palazzo Esposizioni, e in parte dal Catalogo, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura uno scorcio della prima galleria della mostra; seguono ” Marco Polo, Il Milione”, manoscritto del XIV secolo, e il frontespizio della “Pratica di mercatura’ di Francesco Balducci Pegolotti”, XV secolo; in chiusura, l’immagine delle  sagome di tre cammelli bardati, a grandezza naturale, che accolgono i visitatori all’ingresso della mostra.

 Le sagome di tre cammelli bardati, a grandezza naturale, all’ingresso della mostra

Mario Praz, Primoli e Gendel con 17 foto, al Museo Praz

di Romano Maria Levante

A cura della Galleria Nazionale d’Arte Moderna la mostra di 17 scatti fotografici di Milton Gendel, dal23 novembre 2012 al 24 marzo 2013, nellacasa-museo di Mario Praz a Palazzo Primoli a Roma. Un appuntamento del destino ne è alla base: il fotografo vi si è trasferito nel 2011, e ha donato l’Archivio alla Fondazione Primoli, Mario Praz vi era andato nel 1968  donando alla Fondazione la Biblioteca. La selezione fra le innumerevoli foto disponibili,è  accompagnata da lettere, articoli ed altre testimonianze di un’epoca e di uno studioso. La mostra e il Catalogo edito da Peliti Associati sono stati curati da Barbara Drudi e Patrizia Rosazza-Ferraris.

Gendel, “Ritratto di Mario Praz!, Roma, Palazzo Primoli, casa Praz, 17 febbraio 1983, l’ultimo

Mario Praz e Giuseppe Primoli sono i “padroni di casa” virtuali, protagonisti di quella sorta di set teatrale di alta qualità intellettuale che è la residenza i cui “visitors” sono stati ripresi dall’obiettivo di Milton Gendel, l’altro protagonista di una sorta di podio d’eccellenza creato dalle circostanze.

Su questo set sono sfilati personaggi che hanno firmato il celebre “visitors book”, un piccolo volume con il titolo in oro su fondo colorato, azzurro dal 1949 al 1953, rosso dal 1954 al 1965, verde dal 1965 al 1982: sono tre album successivi fino al 17 febbraio 1982, quando il terzo si chiude con la firma di Milton Gendel, che scattò l’ultima fotografia a Mario Praz, il quale si spegnerà poco più di un mese dopo, il 23 marzo. Il “visitors book” dai bordi dorati fu acquistato in Inghilterra e rientrava nell’abitudine delle dimore inglesi adottata da un anglicista come Praz.

La mostra con le 17 fotografie– il numero celebra il giorno dell’ultima firma con l’ultimo scatto di Gendel a Praz, ci siamo associati pubblicando il 17 febbraio, nel 31°anniversario – si svolge nella storica residenza in cui la storia culturale e umana dei protagonisti è connaturata all’edificio e ai suoi arredi che fanno da cornice alle dotazioni d’epoca, in primo luogo la Biblioteca e l’Archivio.

Sono le fonti a cui si è attinto per l’esposizione di lettere, minute e dediche, biglietti da visita e cartoline, con altra documentazione di vario tipo, come libri e recensioni giornalistiche, selezionata tra quella relativa ai personaggi fotografati, in modo da far emergere il loro rapporto con Mario Praz, autore di scritti riguardanti proprio loro opportunamente presentati in mostra.

I protagonisti, Praz e Gendel con Giuseppe Primoli

L’edificio dov’è il Museo Mario Praz che ospita la mostra non ha un ruolo secondario, perché riconduce al conte Giuseppe Primoli, nato nel 1850, creatore della preziosa Biblioteca in cui, nelle parole di Pietro Paolo Trompeo, c’è il “sacrario stendhaliano”, con edizioni originali recanti autografi dell’autore di “Il rosso e nero” per annotazioni e correzioni e con libri di altri autori con postille di Stendhal; inoltre c’è un’ampia presenza di libri sul primo e secondo impero di Napoleone, nel suo palazzo al lungotevere oltre alla Fondazione Primoli c’è il Museo Napoleonico.

Giuseppe Primoli – a lungo in Francia dove si formò da adolescente e divenne frequentatore di circoli letterari – ebbe rapporti di amicizia con i più celebri scrittori francesi dell’epoca, come Thèofile Gautier e Dumas figlio, Flaubert e Anatole France, Daudet e Zola, Maupassant e i Goncourt, Bourget e Valery; e italiani come De Amicis e Matilde Serao, Fogazzaro e Verga, fino a Gabriele d’Annunzio, che lo chiamava “delizioso e adorabile amico”, “ottimo Italiano e Romano” e “custode di tesori occulti”. Lo esortava a istituire nella residenza un’accademia come quella dei Goncourt, fino a definirsi “futuro Academico dell’Academia dell’Orso”, la via adiacente, e “Academico della Primola”; l’accademia non nacque, ma la Fondazione Primoli con il Museo Napoleonico sì.

La Fondazione, Ente morale nel 1928, ha lo scopo di “promuovere relazioni di cultura letteraria fra l’Italia e la Francia, con speciale riguardo agli studi moderni”, dall’inizio fu proiettata verso il futuro; nel 1957 aveva”circa ventottomila volumi, tra cui cinquanta incunaboli, centocinquanta elzeviri, libri con dedica autografa e una bella collezione di rilegature romantiche”. Lo scrisse Trompeo, che descriveva così Giuseppe Primoli: “Eminenza grigia di un cenacolo letterario che accademia ufficialmente non nera e che per parecchi decenni visse di una sua vita sempre fedele all’impronta datagli da chi ne era stato l’iniziatore, ma rinnovantesi via via secondo lo svolgersi della letteratura in Italia e in Francia, letterato e scrittore, sia pure occasionalmente, non poteva non essere egli stesso. Lo stile del conte Primoli rende bene il colore di un’età e di una società”. 

Non si può apprezzare appieno il set della cultura che costituisce il fondale teatrale della mostra senza immedesimarsi in questo stile, come premessa alla conoscenza di Mario Praz.

Praz è stato un intellettuale e uomo di cultura, critico d’arte e studioso di letteratura di vari paesi, oltre all’Italia, in particolare Francia e Spagna, Germania e Russia, ma soprattutto Inghilterra. Vi si recò nel 1923, dopo aver avuto nel 1920, a 24 anni, la rubrica “Letters from Italy” su un periodico inglese; gli fu dato subito un incarico all’Università fino al 1931 quando pubblicherà saggi sulla letteratura inglese, apprezzati tra gli altri da T. S. Eliot, con cui ebbe intensi rapporti; nel 1932 divenne docente di letteratura italiana a Manchester. Era stato pubblicato nel 1930 “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”, criticato in Italia ma apprezzato nella traduzione del 1933 in Inghilterra e Usa, un testo veramente suggestivo per forma e contenuto.

Tornò in Italia nel 1934 e fino al 1966 insegnò lingua e letteratura inglese all’Università, e istituì la prima scuola di anglistica in Italia; pubblicò nello stesso 1934 gli “Studi sul concettismo”, e nel 1936 la “Storia della letteratura inglese”, che aggiornò nel 1960 e nel 1979. Il suo impegno culturale lo portò a fondare nel 1949 la rivista “English Miscellany. A Symposium of History, Literature and the Arts”, poi dal 1952 veniva chiamato per conferenze nelle università degli USA. Ebbe la passione per il collezionismo di antiquariato che coltivò con assiduità e costanza, ed ereditò una parte dei mobili stile impero del patrigno. Scrisse il racconto autobiografico “La casa della vita” nel quale descriveva il “cimitero di memorie” costituito dagli arredi e dagli oggetti della sua abitazione in via Giulia che trasferì, con la fornitissima biblioteca, a Palazzo Primoli dove spostò la sua residenza, come inquilino della Fondazione. Cessato l’insegnamento, si ritirò nella sua casa-museo ispirando la figura del protagonista del “Gruppo di famiglia in un interno” di Luchino Visconti, cosa che sembra non gradisse; non viveva da isolato, ma continuavano i contatti per gli studi.

Dopo la sua morte, nel 1986 lo Stato acquistò il tutto dagli eredi e dopo il restauro e la sistemazione da parte della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, ne fece il Museo Mario Praz al 3° piano del Palazzo Primoli, dov’era l’abitazione conservata con tutti i libri, le suppellettili, gli oggetti.

La sua casa divenuta museo sale dunque alla ribalta, e così i suoi visitatori, i “visitors” del nostro protagonista legato all’Inghilterra come l’altro personaggio, Giuseppe Primoli, era legato alla Francia: entrambi tramiti attivi delle rispettive culture letterarie poi celebrate nello stesso edificio.

Il destino fa incontrare l’anglicista Praz con il fotografo americano Milton Gendel nella residenza dell’ambasciatore britannico a Roma Ashley Clark, a Villa Wolkonsky, nel 1958: una sede ottocentesca come piaceva a Praz, ma che univa classicismo a modernità, come piaceva a Gendel. Insieme fecero parte del Byron Committee per la collocazione della statua del poeta romantico inglese a Villa Borghese; decisero di abbinarle una borsa di studio per una giovane poetessa.

Gendel –  con cui abbiamo parlato all’inaugurazione della mostra dei suoi scatti e ci ha autografato il Catalogo – è una persona colta, scrittore e fotografo, di vent’anni più giovane di Praz, essendo del 1918 mentre Praz era del 1896. I suoi interessi culturali vanno dall’antichità all’arte contemporanea, come si vede nei saggi che ha scritto per “Art News”, in particolare sull’arte astratta.

Dall’arte è passato alla fotografia naturalmente, seguendo il percorso che portò a far inserire effetti pittorici dai fotografi definiti per questo pittorialisti. Il nostro sembra appartenere alla “straight photography”, la fotografia documentaria alla Cartier Bresson attenta ai dettagli, ma il suo occhio è rivolto a taluni effetti pittorici e richiami all’arte; anche con il ricorso all’ironia.

Il suo modello di vita dinamico, tra continui cambiamenti, è molto diverso da quello di Praz, che dopo il soggiorno londinese si stabilì a Roma cambiando abitazione solo una volta mentre Gendel è stato nomade anche in questo. In comune la passione per le residenze storiche, oltre all’approdo a Palazzo Primoli, per Praz avvenuto nel lontano 1969, per il fotografo americano solo nel 2011, dopo altri luoghi prestigiosi: vi andò da Villa Doria-Pamphili, prima era stato a palazzo Costaguti in piazza Mattei, prima ancora in Palazzo Pierloni Caetani all’Isola Tiberina; a New York aveva avuto l’abitazione a Washington Square, in una tipica casa inglese in mattoni rossi del 1835.

Milton Gendel, “Mario Praz con Margaret d’Inghilterra” , Roma, Palazzo Primoli, casa Praz, 10 giugno 1973

La casa-museo di Mario Praz

Trovarsi nello stesso palazzo non è l’unico abbinamento, la sede ospita in altra ubicazione l’esaltazione dell’impero napoleonico, amato da Primoli e da entrambi aborrito. Inoltre avevano in comune il gusto del collezionismo, anche se con un diverso atteggiamento, così descritto da Barbara Drudi, curatrice della mostra e del Catalogo con Patrizia Rosazza-Ferraris: “Mentre Gendel non ha un particolare attaccamento agli oggetti che acquista, anzi delle volte li rivende per acquistarne di nuovi, magari più adatti per gli spazi di un nuovo appartamento, per Praz ogni oggetto ha una sua storia, e trova la sua idonea collocazione all’interno della grande ‘mise en scène’ della sua casa”. Inoltre Gendel ha dimenticato luoghi e tempi degli acquisti di mobili e oggetti, e si definisce “accumulatore”, segnando un certo distacco anche con elementi grotteschi in linea con la sua origine surrealista; mentre Praz ne ha descritto la genesi ricordando nomi di antiquari, prezzi e circostanze, l’opposto della “casualità” di Gendel, comportandosi da autentico collezionista.

Per quanto riguarda l’arredamento nel suo insieme, le differenze sono altrettanto marcate pur nella  comune attenzione per l’interno delle rispettive abitazioni. In Gendel c’è un’eterogeneità che lo fa definire “a tutti gli effetti un uomo del suo tempo”, affianca reperti etruschi ad opere di astrattisti, i quadri, le sculture, gli oggetti presi dagli antiquari e a Porta Portese sono delle più diverse epoche.

Mentre, sempre secondola Drudi, “nell’arredare il suo appartamento, Praz sembra voler creare una grande scenografia ‘neoclassica’. La casa si trasforma in un palcoscenico, nel quale gli spazi dei dipinti ottocenteschi, gli interni borghesi o aristocratici, si animano e diventano praticabili, proprio come a teatro”. E ancora: “Mobili, oggetti, dipinti e stoffe prendono vita e ricostruiscono perfettamente le opere sei.-settecentesche appese alle pareti. Un vero e proprio tentativo di dare corpo e luogo a uno spazio immaginario, o immaginato, perché forse, quella purezza dello stile Impero, inseguita da Praz, non è mai esistita”.

C’è “una tale quantità di mobili, dipinti, sculture e oggetti da far girare la testa”, la stessa constatazione che viene fatta, pur con le radicali differenze di contenuto, rispetto al Vittoriale: due “case degli Italiani”  che sono lo specchio dei personaggi che le hanno create a loro immagine. Mario Praz, poco benevolo con D’Annunzio, lo fu invece nel giudicare la sua residenza, che chiamò “Pantheon enorme del Vittoriale”, scrivendo: “Il D’Annunzio, si direbbe, ha cercato di dar corpo e forma precisa ai suoi ricordi e alle sue nostalgie, col secernere intorno a sé un vero e proprio museo di cimeli e di oggetti preziosi, col cristallizzare in emblemi, imprese e geroglifici quella diversità del mondo che egli un tempo possedeva in parole sonanti”. E’ l’insieme di reperti che costituiva il suo “poema di pietre, di metalli, di stoffe, onde Narciso potesse vedere la sua immagine esaltata e moltiplicata, e s’illudesse di sentir nei suoi polsi il calor della vita, come ne’ suoi giovani anni”.

Nel visitare gli ambienti di casa Praz, abbiamo ripensato a queste parole, come se ci trovassimo in un altro Pantheon, molto diverso come lo sono stati i due personaggi, ma ugualmente evocativo.

 Milton Gendel, “Mario Praz con Viviana della Porta”, Lucca, Villa Torrigiani, settembre 1974

Le 17 fotografie della mostra

E così siamo arrivati alle 17 fotografie della mostra dopo aver fatto la conoscenza del padrone di casa Praz, del primo proprietario del palazzo, Primoli, e del fotografo scrittore Gendel, e averne percepito le differenze anche rispetto alle collezioni e agli arredamenti degli ambienti. Sappiamo che mobili e quadri, oggetti e cere sono stati ricollocati nello stesso posto dalla direttrice del museo, che è una delle due curatrici della mostra, Patrizia Rosazza-Ferraris. Lei stessa spiega i criteri in base ai quali è stata allestita la mostra: sono stati selezionati i testi delle recensioni scritte da Praz o di lettere e altri cimeli relativi ai personaggi ritratti nelle fotografie di Gendel, pescando in modo coordinato nei due vastissimi archivi, per la corrispondenza ci sono oltre un migliaio di nomi.  Ricordiamo che la sua Bibliografia è sconfinata, oltre 2300 voci allorchè aveva 80 anni, a fine ’76, e oltre 300 in più  alla sua morte nell”82, nei sei anni si erano aggiunti  anche due nuovi libri “Perseo e la Medusa”  e “Voce dietro la scena”. 

Sulle 17 fotografie si regge quello che la curatrice definisce un “castello di carte”, aggiungendo che è “solo un assaggio di quel vastissimo patrimonio di carte e immagini che i nostri comuni archivi conservano e vogliono proporre a quanti – coraggiosamente – vi si vogliano inoltrare”. Un assaggio che poteva essere più consistente, ma l’esiguità delle fotografie e dei documenti esposti in mostra accresce l’interesse ad approfondire. E’ un invito allettante che gli studiosi potranno raccogliere.

Nelle immagini di Gendel emerge lo spirito documentario unito alla ricerca pittorica favorita dagli interni con le loro ombre e le sapienti angolazioni. E, nota Peter Benson Miller, si avverte “la sua inclinazione a sottolineare le interazioni casuali tra amici. Sono l’equivalente fotografico delle ‘Conversation Pieces’ che Praz aveva studiato come storico dell’arte e acquisito come collezionista”: si tratta di gruppi ritratti nell’Inghilterra del ‘700, mentre conversano familiari, amici o soci, spesso all’aperto in momenti di svago o mentre contemplano opere d’arte.

A questa categoria appartengono le fotografie alla Biennale di Venezia del 1962, con Soavi, Musatti e Betty di Robilant, davanti a una scultura di Giacometti, e con Palma Bucarelli e Argan che commentano le opere; poi due foto “storiche” che ritraggono la visita di Margaret d’Inghilterra il 10 giugno 1973 con Praz ed altri; nello stesso giorno altra immagine romana di Margaret con Desideria Pasolini dall’Onda ed Enrico d’Assia a Villa Polissena. Intima e distensiva, dagli effetti pittorici, la fotografia di Praz con Viviana della Porta nel settembre 1974, seduti su un’antica cassapanca con un fondale di riflessi luminosi. Un primo piano di Alberto Arbasino con Camilla Pecci Blunt dell’ottobre 1980, ultima foto con più soggetti.

Le altre immagini riprendono un solo soggetto, iniziando dall’autoritratto allo specchio di Gendel del 1965, con effetti sfumati di luce e ombra; pittorica anche la foto a Iris Origo, del settembre 1979, un altro interno dall’effetto chiaroscurale più forte, la lampada proietta la luce sullo scaffale di libri, rischiara la figura al centro e lascia in ombra il resto.

Una vera istantanea, forse l’unica, ci è sembrata la foto ad Harold Acton, ripreso nel settembre 1978 mentre colloca un libro sulla scrivania, nelle altre i soggetti sono in posa, per questo sono definiti “ritratti fotografici”. E’ seduto davanti a un tavolino con dei fiori André Chastel nel settembre 1972, e in poltrona Gore Vidal sotto un quadro con a lato una pianta nell’agosto 1977,  in piedi impettito in un giardino con fontana e pergolato Giulio Carlo Argan nel 1974, davanti a una scalinata liberty Luigi Magnani nel marzo 1977. Un primo piano di Hugh Honour in maniche di camicia nell’agosto 1977 e un mezzo busto di John Pope Hennessy nel maggio 1983 davanti a una Madonna col Bambino completano la galleria di personaggi cui corrispondono i documenti esposti.

Così vediamo un testo di Soavi sul “professore di inglese” e tre lettere di Praz a Magnani sull’antiquariato, una sua recensione ai libri di Acton e della Origo, di Vidal, Arbasino e Palma Bucarelli, un articolo in “Le Monde” di Chastel su Praz, poi lettere a Praz di Honour e di Hennessy, nonché scritti di Argan, un fior da fiore che dà un’idea del collegamento tra fotografie e documenti.

Le foto esposte sono state scattate nei luoghi più diversi, da Venezia a Lucca, da Firenze a Roma. Solo due foto a Margaret d’Inghilterra, tra quelle che abbiamo citato, sono a casa Praz nel Palazzo Primoli, perché fu Gendel ad accompagnarvi la principessa di cui era amico; ed è esposta la pagina del “Visitors book” firmata con gli speciali fregi reali studiati per l’occasione. Ma c’è l’ultima foto, che corrisponde alla firma di chiusura del terzo “Visitors book”, di cui abbiamo parlato all’inizio: è quella del 17 febbraio 1982, scattata a Mario Praz seduto su un divano, poco più di un mese prima della morte. Negli ultimi anni, ricorda Antonella Barina, la sua è “una solitudine che si contrasta con continui invaghimenti”, e cita la giovane commessa di un negozio, una bella sconosciuta, la segretaria di un giornale, che lui definisce “amori senili grotteschi e tragici”. “Ma ormai l’anima di Praz è stanca. E lo grida in versi”.

Così Gendel descrive l’ultima sua visita a Mario Praz: “Rispetto al nostro ultimo incontro, era in sfacelo. Vecchio, smunto e, in una vestaglia trasandata, tutt’altro che al suo meglio, con il collo nudo cadente e gli occhi che vagavano qua e là. Si sono acquietati quando ci siamo sistemati anche lui ed io, nel cuore del salone Impero. Non sono più venuto qui dal giorno della mia visita con la principessa Margaret, ho detto. Firmerebbe il Visitors Book? Ha chiesto lui. Quindi mi ha offerto un bicchiere di Cento Erbe. Io non bevo, ha aggiunto. Con la vecchiaia devo stare attento ai reni”. In effetti Gendel firmò il “Visitors Book”, e fu l’ultimo, erano passati 9 anni dalla precedente visita.

Di quest’ultimo incontro è rimasta la fotografia che scattò, così commentata dalla Barina: “Un volto così cereo da spiccare perfino nella pellicola in bianco e nero. Uno sguardo inerme, tra disperazione e sgomento. Attonito come lo può essere, di fronte al gran passo, un uomo profondamente laico, senza appigli di fede. Un’ombra colta nell’attimo in cui prende le distanze, esausta, da quello che era stato il suo coraggio di pioniere, la sua voracità di studioso, il prestigio di anglicista, la bizzarria di storico del gusto, l’eccentricità di collezionista, il rigore di filologo, l’incanto di erudito, la curiosità di viaggiatore, la genialità di moderno umanista. Nonché il fascino di un’inossidabile ironia”.

Non si potevano evocare meglio le luci della vita mentre si avvicina il buio della morte, avvenuta il 23 marzo, la foto è del 17 febbraio. Si spense in clinica mentre un allievo di un tempo, Vittorio Gabrielli, gli leggeva un suo articolo appena uscito, lo ha raccontato il suo successore alla cattedra universitaria a La Sapienza, Agostino Lombardo, anch’egli vicino a lui. Il seme della cultura, da Praz largamente diffuso, riempiva il vuoto degli affetti familiari. Anche questo è stato un bell’insegnamento.

Guardiamo ancora l’ultima fotografia, “l’immagine straziante di un crepuscolo”, nelle parole della Barina,  e lasciamo la sala della mostra. Attraversiamo la grande biblioteca, lo studio e le altre sale della residenza divenuta museo, dalle finestre si vedono le loggette dello storico edificio. La vita, anche di Praz, continua.

Info

Museo Mario Praz, Via Zanardelli, 1, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-14,00 e 14,30-19,30, chiuso il lunedì. Ingresso gratuito, ultima entrata 45 minuti prima della chiusura. Ogni ora visite accompagnate di 45 minuti, max 10 persone. Tel./fax 06.6861089. museopraz@museopraz191.it, http://www.museomariopraz.beniculturali.it/. Catalogo: “Visitor Book. Ospiti a casa Praz”- Ritratti fotografici di Milton Gendel, lettere, dediche e recensioni”, a cura di Barbara Drudi e Patrizia Rosazza-Ferraris, Peliti Associati, 2012, pp. 88, formato 25 x 23.Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese all’inaugurazione della mostra da Romano Maria Levante al Museo Mario Praz, si ringrazia l’organizzazione, il Museo e la Galleria Nazionale di Arte Moderna, con i titolari dei diritti, in particolare Milton Gendel, per l’opportunità offerta. In apertura, l’ultima foto di Gendel a Mario Praz, Roma, Palazzo Primoli, casa Praz, 17 febbraio 1983; seguono le sue foto a Mario Praz con Margaret d’Inghilterra, Roma, Palazzo Primoli, casa Praz, 10 giugno 1973, e a Mario Praz con Viviana della Porta, Lucca, Villa Torrigiani, settembre 1974. In chiusura una sala del Museo Mario Praz fotografata da Romano Maria Levante.

 Una sala del Museo Mario Praz 

Rinascimento, 3. A Roma da Michelangelo ai manieristi, a Palazzo Sciarra

di Romano Maria Levante

La rievocazione, a un anno dalla visita, della mostra “Il Rinascimento a Roma, nel segno di Michelangelo e Raffaello”, aperta dal 25 ottobre 2011 al 12 febbraio 2012, organizzata  dalla Fondazione Roma Arte-Musei con Arthemisia al Palazzo Sciarra al Corso, si conclude con le ultime 3 sezioni delle 7 per le 200 opere esposte: dopo le sezioni sui papi Giulio II e Leone X nel 1° articolo e quelle sul Rinascimento e il rapporto con l’antico, la Riforma di Lutero e il Sacco di Roma fino ai fasti farnesiani nel 2°, terminiamo con San Pietro,i manieristi e gli arredi. Nell’avvicinarci alla quinta sezione della mostra dedicata alla Basilica di san Pietro, completiamo il racconto dei “fasti farnesiani” con la parte della galleria espositiva dove l’intreccio tra vicende della vita ed espressione artistica si incentra in Vittoria Colonna, e nelle opere pittoriche  create per lei da Michelangelo su temi sacri come la “Pietà” e il “Crocifisso”, collocate in modo suggestivo.

Marcello Venusti, “Copia del Giudizio Universale di Michelangelo”, 1549

Le pitture di Michelangelo

Prima di parlarne vogliamo ricordare la presenza virtuale in mostra della volta della “Cappella Sistina” attraverso l’avanzato sistema multimediale che ne consentiva la visione ravvicinata ad altissima risoluzione e in tre dimensioni. Ma c’era anche una presenza reale, pur se traslata, con la tempera su tavola di due metri per uno e mezzo circa, “Copia del Giudizio Universale di Michelangelo”, 1649, di Marcello Venusi, che ne documenta l’aspetto originale prima degli interventi sulle nudità. Ne fa un’accurata ricostruzione Marco Bussagli,  curatore della mostra con Maria Grazia Bernardini, riportando il passo di Vasari nel quale si afferma come coprire con i “panni sottili” disegnati da Daniele da Volterra fu la soluzione provvidenziale che evitò la distruzione “per gli ignudi che li pareva mostrassero le parti vergognose troppo disonestamente”; e così “rifar la santa Caterina et il san Biagio, pensando che non istessero con onestà”, quindi anche atteggiamenti, non solo nudità.  Daniele da Volterra fu chiamato dai romani in modo irridente il “braghettone, per questo suo intervento censorio;  era un valido pittore che sentì molto l’influenza di Michelangelo, come si vede dalle due opere esposte con figure plastiche e monumentali di un rosso intenso: “Madonna col Bambino e i santi Giovannino e Barbara”, 1548, ed “Elia profeta”.

Bussagli va ancora oltre sostenendo che l’ostilità verso quest’opera  fu dovuta  soprattutto ad elementi simbolici, di cui quelli ricordati erano soltanto una parte. Aretino scriveva che “quel Michelagnolo stupendo in fama, quel Michelagnolo notabile in la prudentia, quel Michelagnolo ammirando, ha voluto mostrare a le genti non meno empietà di irreligione che perfezzion di pittura”, e lo studioso  vi vede “il riflesso di un’insofferenza strettamente legata alla sfera religiosa e teologica che, esaminando l’affresco, non accusa disagio solo nella figura del Cristo glabro. Altri punti ugualmente fastidiosi, in senso iconografico e teologico, riguardano i diffusi atteggiamenti d’amorosi abbracci  e, soprattutto, l’immagine degli angeli senza ali”. 

Ma non si tratta di una manifestazione irriverente del suo spirito libero, aveva una base teologica  condivisa da Paolo III, il “Iudicium Dei Supremunm de vivs et mortuis” di  Giovanni Supplizio, detto il Verolano, un poema composto da due libri di 700 versi ognuno che, secondo lo studioso, “per le coincidenze teologiche e descrittive, nonché per  ragioni storiche di amicizia e discepolato fra il Sulpizio e Paolo III Farnese, va considerato la principale fonte letteraria del Giudizio Universale di Michelangelo, a parte le Sacre Scritture e la Divina Commedia”. Il primo libro parla di Cristo mandato da Dio che raduna gli angeli nella via Lattea, il secondo del giorno del Giudizio  con la Vergine e Cristo attorniati dagli angeli e santi  che dividono i beati dai reprobi. Con una certa emozione, conoscendone il valore, guardammo le due paginette esposte in mostra di un’opera di così alto valore che è stata restaurata per ripristinarne le funzioni legate alla “lettura di sicurezza”.

Dopo aver ricordato il grande affresco presente in modo virtuale ma in una forma ugualmente incisiva, passiamo ai due dipinti di grande livello esposti, per entrambi c’è anche una pregevole copia di Marcello Venusti, che ritroveremo presto.  Ebbene, dietro questi dipinti c’è una storia tutta particolare, che attiene all’abitudine di Michelangelo di fare disegni e dipinti per farne omaggio, ed entra in scena un nuovo personaggio, Vittoria Colonna: 3 delle 7 lettere rimaste scritte a lei da Michelangelo  parlano di un “Crocifisso” e questo, insieme agli aspetti stilistici, ha incoraggiato l’attribuzione a lui della “Crocifissione”, anteriore al 1547,  superando le incertezze dovute alla presenza anche di disegni. Lo stesso  per la “Pietà di Ragusa”, 1545, nella cui composizione – scrive  Antonio Forcellino – si può riconoscere la Pietà di proprietà di Reginald Pole menzionata in una lettera ” del maggio 1546, dipinto “evocato anche da un carteggio Colonna-Michelangelo databile agli stessi anni oltre che nel sonetto CCV delle Rime spirituali di Vittoria”; e a parte i ripensamenti tipici del Maestro, ritiene indiscutibile la “scrittura pittorica come una grafia che non può essere contraffatta”.  In effetti “la grafia pittorica di Michelangelo consiste in una tessitura perfettamente regolare di pennellate che rendono le sue superfici cromatiche quasi una versione colorata delle sue superfici scultoree gradinate”, come si riscontra in questo dipinto.

Vittoria Colonna e Reginald Pole avevano costituito un circolo nel quale Michelangelo si era inserito: abbiamo visto le fisionomie dei due personaggi nei due dipinti di metà del XVI secolo esposti,  “Ritratto di Vittoria Colonna”, di Anonimo, con copricapo giallo e “Ritratto del cardinale Reginald Pole”,  di Sebastiano del Piombo, seduto con una lunga barba scura; a quest’ultimo viene attribuito anche il “Ritratto di Michelangelo che indica i suoi disegni”.  La fisionomia del grande papa che ha segnato il “nuovo inizio” dopo il Sacco di Roma era data, oltre che dalla scultura in marmo di Guglielmo Della Porta”, “Ritratto di Paolo III“, 1546,  dal dipinto “Ritratto di Paolo III Farnese con il cardinale Ercole Gonzaga”, 1545, una figura  bonaria  ripresa seduta, pensiamo alla gratitudine a lui dovuta per aver rilanciato Roma dopo la distruzione.

Francesco Salviati, “Annunciazione della Vergine Maria”, 1533-34 

La Basilica di San Pietro

Dalla pittura all’architettura di Michelangelo la mostra passava presentando una sua scultura, alta quasi un metro e mezzo, “Apollo-Davide”, 1930, che spiccava nel biancore del marmo: Christoph Frommel  ha scritto al riguardo che “nessun’altra immagine è così enigmatica come l’Apollo che sembra riflettere lo stato disperato e chiuso dello stesso Michelangelo” con la testa reclinata.

Il grande tempio della cristianità era presentato innanzitutto da una “Pianta in pergamena della Basilica di san Pietro”, e  dal “Progetto per il presbiterio”, 1505, del Bramante, seguiti dalla “Medaglia per la posa della prima pietra di San Pietro in Vaticano”, .1506, del Caradosso, al secolo Cristoforo Foppa, che reca il busto di Giulio II e nell’altra facciata il prospetto del tempio secondo il progetto del Bramante non realizzato. C’era anche un’incisione con l’“Alzato della facciata del modello ligneo di Antonio di Sangallo il giovane per San Pietro”, 1549, di Antonio da Salamanca,  un esterno su quattro ordini con una cupola a due tamburi, e la “Medaglia di Paolo III con il modello della nuova Basilica di San Pietro di Antonio da Sangallo“, 1547, di Alessandro Cesati eGian Giacomo Bonzagni con il busto di Paolo III e il prospetto di Sangallo.

E Michelangelo? Nel 1547 riceve l’incarico di primo architetto di San Pietro e modifica radicalmente il progetto di Sangallo intervenendo anche sulla parte già realizzata. L’incisione di Etienne Dupérac con la “Sezione del progetto di Michelangelo per San Pietro”, 1569, dà una visione frontale dalla quale si vede come oltre alla grande cupola centrale di Michelangelo ne sono disegnate due laterali molto più piccole del Vignola.  Per l’interno era esposto anche il disegno a inchiostro di un Anonimo, “Veduta della crociera di San Pietro  dalla parte occidentale della navata”, 1570, una bella inquadratura laterale e della volta con la sagoma  di una persona che ne fa risaltare le dimensioni vastissime. Era in mostra anche una “Medaglia di Gregorio XIII con prospetto orientale di San Pietro, 1584, la  facciata e la cupola secondo il progetto di Michelangelo

Oltre ai documenti sul piano progettuale, anche quelli sull’impegno realizzativo,  precisamente due  lettere, una di Michelangelo e Giovanni Battista Casnedo, 1561, l’altra del solo Casnedo: la prima riguardava gli scalpellini “per il modello a tamburo della cupola”, l’altra l'”intaglio di cinque gruppi di capitelli degli speroni del tamburo di San Pietro”. E finalmente, su disegno di Michelangelo, il “Modello ligneo della calotta dell’abside meridionale della basilica di San Pietro”, 1556-57, versione peraltro non realizzata, modello citato in un lettera al Vasari.

La storia della basilica in un grande volume di 32 tavole in stampa a inchiostro, “Architettura della basilica di San Pietro in Vaticano. Opera di Bramante, Lazzari Michel Angelo Bonaroti ed altri celebri architetti”.  di Martino Ferrabosco, anche con incisioni che mostrano l’antica costruzione.

Michelangelo Buonarroti, “Pietà di Ragusa”, 1545

La “maniera romana” alla metà del ‘500 e gli arredi

Torniamo alla pittura per ricollegarci all’influenza esercitata dai due “numi tutelari” sul mondo artistico della città eterna, di cui abbiamo parlato all’inizio. Ritenendoli irraggiungibili, i giovani artisti si ispirano all’uno o all’altro, o ad entrambi, nello stile e nei temi raffigurati, aggiungendo i modelli dell’arte classica: nasce così la “maniera romana”, di cui la sesta sezione della mostra  presentava  opere di particolare interesse per la ricerca dei rispettivi influssi.

La Bernardini descrive “la ‘bella maniera’ nella sua declinazione romana ricca di ricordi del lessici michelangioleschi e raffaelleschi, sostanziata di riferimenti classici, ma inseriti in un contesto di elementi decorativi di grande ed eccentrica fantasia, in uno stile elegante e ricercato”.  Nascono i “manieristi”, di quali  indica come esponente particolarmente significativo e prestigioso Francesco Salviati, che abbiamo già incontrato come primo artista rientrato a Roma dopo il “Sacco” nel 1531, ma anche pronto a lasciarla nel 1539, due anni dopo l’arrivo di Perin del Vaga, sentendosi spiazzato dal rilievo preminente che questo aveva assunto come pittore ufficiale del Papa. Ebbene, alla morte di Perin, nel 1548, torna a Roma e sostituisce il rivale presso i Farnese che gli diedero importanti commissioni, in particolare il cardinale Alessandro.

“Così diventa presto – scrive la Bernardini ricostruendone con cura l'”escalation” –  l’artista più ricercato e realizza, nel giro di pochissimi anni, dal 1548 al 1563 (anno della sua morte) una serie veramente considerevole di cicli ad affresco per i personaggi più influenti di Roma”. La curatrice riporta questo  giudizio del Vasari  sugli affreschi  di palazzo Ricci-Sacchetti: “E per dirlo brevemente, l’opera di questa sala è tutta piena di grazia, di bellissime fantasie, e di molte e capricciose ed ingegnose invenzioni. Lo spartimento è fatto con molte considerazioni, e il contenuto è vaghissimo”. L’esperienza fatta nelle città in cui si era fermato a dipingere – Venezia, Bologna  e soprattutto Firenze, dove aveva lavorato nel Salone di Palazzo Vecchio – concorre a formare la sua “maniera romana”: “Aveva arricchito il proprio bagaglio culturale  con nuovi contatti con l’arte emiliana e in particolare con il Parmigianino e l’arte toscana. A Roma  rimeditò sull’arte dei grandi maestri e anche su Perin del Vaga”.

L’artista va visto come esempio eloquente di quanto stiamo indicando sulla “maniera romana” che recepiva gli influssi per rielaborarli con altri elementi frutto della propria inventiva e fantasia: “Al di là delle evidenti citazioni – è sempre la Bernardini –  Salviati aveva assimilato dai due grandi artisti la monumentalità e la maestosità della composizione, la libertà di ‘invenzione'”. Era esposto in questa sezione “Il Peccato originale (Adamo ed Eva)”, 1564, anno in cui muore Michelangelo;  si vede chiaramente come la composizione sia arricchita da  elementi decorativi  di fantasia.

Per tutto il decennio e nel successivo, la “maniera” continua a riferirsi ai due sommi artisti. Di Girolamo da Sermoneta, al secolo Girolamo Siciolante, era esposto il trittico “Madonna col Bambino e San Giovannino Sant’Andrea Santa Caterina d’Alessandria”, 1565;  Patrizia Piergiovanni scrive che “l’artista è partito da una matrice raffaellesca e michelangiolesca, mutuandola attraverso le influenze manieriste, fino a giungere  a uno stile del tutto personale, dal gusto conservatore, ‘senza tempo’”.

Sono di chiara derivazione michelangiolesca le due “Pietà” di Jacopino del Conte e Taddeo Zuccari, stesso periodo del precedente, il secondo con la monumentalità di un gruppo scultoreo. Questo artista è stato raffigurato da Federico Zuccari  in due dipinti su cuoio, “Taddeo disegna alla luce della luna” e “Taddeo copia il Giudizio Universale di Michelangelo”, tonalità pastello sfumate, che fanno parte di 7 su episodi della vita giovanile ai quali era collegata  una terzina dello stesso autore come didascalia poetica. Anche Girolamo Muziano, di cui era esposto un austero ed essenziale “San Francesco in adorazione davanti al Crocifisso”, 1575, sente molto l’influenza di Michelangelo, e mostra inventiva nella propria “maniera” romana: nel dipinto spicca l’originale inquadratura che inserisce la vita del paesaggio di sfondo da uno squarcio della parete rocciosa.

Altrettanto originale, pur in una composizione spettacolare di tipo fortemente celebrativo, il dipinto di Marco Pino, “Cristo in gloria e il torchio mistico”, si badi bene “torchio”, non corpo mistico. Si trova nella parte inferiore del dipinto soverchiata dal Cristo trionfante sulla nuvola scortato da due file di angeli: effettivamente è un torchio con la grande vite e la pressa lignea perché –  ricorda Andrea Donati – secondo Sant’Agostino “il primo grappolo d’uva schiacciato nel torchio è Cristo”.

Citati i due dipinti “Annunciazione”, 1550,  e “Il Silenzio”, 1560, attribuiti a Marcello Venusti, di cui ricordiamo il “Ritratto di Michelangelo”,  ci piace chiudere la parte sulla “maniera romana” con i due pannelli di Federico Zuccari, “Ritratto di Raffaello come Isaia”, e “Ritratto di Michelangelo come Mosè”, 1593, che oltre ad essere gli ultimi in senso cronologico, rappresentavano con fantasia manieristica i due numi tutelari: è bello che chiudano il XVI secolo.

La rievocazione della visita alla mostra sta per terminare;  l’allestimento, lo ricordiamo ancora, era suggestivo, aveva valorizzato le possibilità offerte da spazi molto particolari che, ben utilizzati, disegnavano un percorso con corridoi, angoli raccolti e vaste sale, idoneo ai variegati contenuti espositivi. E le 7 sezioni  trovavano collocazioni adatte per le quasi 200 opere esposte, che disegnavano un secolo cruciale come il ‘500 romano, per le incalzanti vicende storiche e artistiche.

Ma non è finita, la settima sezione regalava sprazzi di una vita quotidiana all’altezza della temperie artistica vissuta, a parte il cataclisma del “Sacco” della città, al quale dopo qualche anno è seguita la travolgente ripresa con il recupero del decoro perduto. Erano esposte delle “Mattonelle con mosaico a treccia”, 1518, tipico disegno mediceo, rese preziose dagli autori,  Raffaello Sanzioche le aveva disegnate e Luca della Robbia che le aveva realizzate; negli anni del “Sacco”  un “Centro di piatto con Enea e Anchise che fuggono da Troia”, 1525-30, maiolica dipinta con le due figure intrecciate chiare sul verde dell’ambiente; poi, nel 1565-70, dei “Piatti” di maiolica,  con “Scena di “Trionfi”  al centro e  grottesche su fondo bianco intorno, “Scena allegorica” per l’intera superficie e “Passaggio del Mar Rosso” al centro con scene intorno. La serie di preziosi oggetti domestici si concludeva con il “Calamaio con Pietà”, della Bottega dei Patanazzi, il sacro unito al profano.

Tra le opere d’argento cesellato e inciso, c’erano la “Grande coppa da parata su alto piede”,con figure a sbalzo di imperatori, e quattro “Reliquari” dedicati due a “Santa Cecilia”,  uno al “Sudario del Salvatore”  e l’ultimo alla “Sacra spina”contenuta al centro di una cuspide.

All’uscita dalla mostra il “Tavolo ottogonale” di Porfirio da Leccio, 1550, in ebano intarsiato di avorio e pietre dure, ne rappresentava quasi un sigillo. Ed è bene che fosse così, perché è su disegno di Giorgio Vasari, le cui cronache dell’epoca ci hanno accompagnato lungo il nostro viaggio affascinante nel Rinascimento romano. Nella rievocazione speriamo di essere riusciti a trasmettere in parte il godimento per gli occhi e la mente; e soprattutto l’emozione regalataci dalla visita.

Info

Catalogo:“Il Rinascimento a Roma nel segno di Michelangelo e Raffaello”, a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli, Electa, 2011, pp.360, formato 24 x 28, euro 45; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  I due articoli precedenti sono usciti, in questo sito,  il 12 e il 14 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno.  

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente da “Arthemisia” che si ringrazia, con la Fondazione Roma Arte-Musei e i titolari dei diritti. In apertura  Marcello Venusti, “Copia del Giudizio Universale di Michelangelo”, 1549: seguono Francesco Salviati, “Annunciazione della Vergine Maria”, 1533-34,  e Michelangelo Buonarroti, “Pietà di Ragusa”, 1545; in chiusura Girolamo Muziano, “San Francesco in orazione davanti al Crocifisso”, 1575.

Girolamo Muziano, “San Francesco in orazione davanti al Crocifisso”; 1575