Ritratti di Poesia, la maratona poetica di Emanuele, al Tempio di Adriano

di Romano Maria Levante

“Ritratti di Poesia”, un’intera giornata, dalle 9,30 alle 21,30, dedicata alla poesia con gli incontri e confronti, idee e versi, letture e voci, preannunciati dalla locandina. E’ stata promossa dalla Fondazione Roma che, con la “total immersion” nella cultura, ha presentato un volto delle Fondazioni bancarie ben diverso da quello sfregiato dalle azioni dissennate, e altro ancora, venute alla luce in questo periodo. Il Presidente Emmanuele F. M. Emanuele lo ha rivendicato con legittimo orgoglio parlando alla sala al completo a fine giornata e l’istituto delle Fondazioni deve essergliene grato: “La Fondazione Roma, a differenza di come fanno altri, non si occupa di banche – ha affermato –  non si occupa di consigli di amministrazione, non si occupa di potere, ma di poesia, di cultura, si occupa di voi!”.

Il  presidente Emmanuele F. M. Emanuele nell’intervento iniziale

All’inizio della giornata dedicata alla poesia aveva ricordato come il sostegno della Fondazione alla cultura si aggiunge al sostegno nei settori legati all’economia e alla società: ricerca scientifica e istruzione, sanità e solidarietà, meridione in ottica mediterranea, e si estende nei diversi campi, con l’arte al centro di una promozione diretta attraverso gli spazi espositivi romani di Palazzo Sciarra e Palazzo Cipolla con grandi mostre dedicate alla storia artistica che fa capo a Roma e al multiculturalismo dell’arte senza confini geografici e continentali;  poi con la musica e il teatro, anche aperto ad emarginati e disabili.  Sulla poesia ha sottolineato che “è rasserenatrice e se ne ha molto bisogno in periodi tormentati come quello attuale”.

L’arte non ammette steccati, e ben ha fatto a ribadirlo Vincenzo Mascolo, curatore da sempre della manifestazione giunta al settimo anno senza la crisi fatidica, tutt’altro, citando le parole di Pasolini:  “Il vero pittore è anche un poeta”. Concetto ribadito dall’allestimento del palco con leggere installazioni tra musica, pittura e poesia. Non solo nell’allestimento aleggiava la leggerezza, ma nell’intera giornata, in cui pure la solennità della poesia era evidenziata dalle imponenti colonne all’interno e all’esterno del Tempio di Adriano e dai versi che si rincorrevano in un ambiente così austero ed evocativo. Mascolo è stato un regista magistrale, brevi le interviste, più ampie le letture, pause appropriate nei momenti giusti: la giornata si è dipanata come una rappresentazione teatrale con un ritmo incalzante e un equilibrio tra i diversi “quadri”.

Dieci minuti per ogni poeta italiano, tra presentazione, breve intervista e lettura di poesie, quindici per gli stranieri, il tutto scandito da un preciso temporizzatore visibile ma discreto. Breve la pausa a metà giornata, frequenti quanto brevissime le soste intervallate ad alleggerire l’ascolto, le letture poetiche hanno dato ragione a quanto dirà al termine Fiorella Mannoia, la “star” del concerto di chiusura che ha completato il poker d’assi degli ultimi anni in cui si sono succeduti Roberto Vecchioni, Lucio Dalla e Francesco De Gregori: “E’ difficile per chiunque recitare le poesie di altri, devono leggerle gli autori per rileggersi dentro”, ed è stato così con le loro letture ispirate  e partecipate, i poeti stranieri nella loro lingua mentre sullo schermo scorreva la versione italiana.

Pier Paolo Pascali, nipote della premiata Giovanna Bemporad, ricorda la poetessa  scomparsa (seduti, da sin., Mascolo, Emanuele, Diamanti)

Il premio “Ritratti di poesia”, il prologo e l’intermezzo

Al centro della mattinata la poetessa – anzi “il poeta” come ha voluto precisare il presidente Emanuele –  Giovanna Bemporad, cui è stato conferito il premio “Ritratti di poesia”, al quarto anno dopo Andrea Zanotto, Maria Luisa Spaziani e Pier Luigi Bacchini; è scomparsa il 6 gennaio scorso, in tempo per sapere di essere la premiata, lo ha confidato il presidente parlando della “grande gioia” che la notizia le aveva arrecato; gli ultimi momenti di vita della poetessa – lo ha rivelato il nipote Pier Paolo Pascali  nel ricevere  il premio insieme a Maria Pia Diamanti, definita il suo’ “angelo custode” – sono stati segnati dalla lettura dinanzi al capezzale di alcune sue poesie. Al Tempio di Adriano  le ha lette Cosimo  Cinieri, con intensità e trasporto.

Alla  Bemporad  si devono anche versioni poetiche di grandi classici, dal Cantico dei cantici all’Eneide e all’Odissea, di cui è stato letto il brano in cui Penelope riconosce Ulisse. Noi siamo stati  colpiti in modo particolare dalla poesia “Alla Primavera”, da una raccolta del 2011: un equilibrio delicato tra “il dolore  già considerato incurabile” di chi “non vuole più se non amare la cecità del pianto” e la “dolcezza di memorie” che “distende il mio dolore in un riso”.  Ed è il “risveglio di primavera” che “accende il sentimento”, finché la notte “accoglie e fonde l’anima  curva sotto il suo destino questo fluire in lei di tante vite”. Solo una delle sue vite si è spenta il 6 gennaio 2013, viene fatto di pensare, le altre vite sono presenti, illuminate dalla poesia.

Un bel prologo alle vette poetiche della premiata sono state le poesie dei primi a salire sul palco e rispondere all’interrogativo  “A che serve la poesia?” Una risposta si trova nel buio nella poesia di Maria Grazia Calandrone“Roma, all’improvviso, notte”, nel cielo in quella di Marco Zulian (Camro Nuzali)“Un dialogo dalle stelle”, mentre Roberto Cescon con “Le donne dei poeti”, che “sono sante” e per questo  “i poeti sono molto fortunati”, dà la risposta che “poeta è la ciliegina su qualcosa che all’inizio era perfetto”.

Ancora un intermezzo, le “Idee di carta”, incontri con le case editrici e le riviste di poesia, sfilano i titolari delle edizioni “L’obliquo” e “Pulcinoelefante” per i libri, “Capoverso” e “Semicerchio” per le riviste, sono “capitani coraggiosi” che sfidano per amore della cultura le difficoltà di un’editoria  poco remunerativa.

Dopo un simile prologo e intermezzo, con la cerimonia triste e dolce insieme della premiazione alla poetessa scomparsa tutto potrebbe finire, invece è solo l’inizio della maratona poetica: tutti i poeti sono stati insigniti in passato di premi, ci sono dei super premiati, le loro poesie sono state pubblicate in raccolte spesso multiple, ne viene di volta in volta riassunta la storia.

I quadri della rappresentazione sulla poesia si sono succeduti con leggerezza, gli incontri con i poeti  “Di penna in penna” intervallati da siparietti innovativi come “In altra forma” e “Sinfoniette poetiche”; per culminare nelle escursioni sui poeti esteri in “Confluenze” e “Poesia sconfinata“.

Cosimo Cimieri legge le poesie di Giovanna Bemporad ((seduti, da sin., Pascali, Mascolo, Emanuele, Diamanti)

Le innovazioni, dai video al quartetto poetico

L’edizione di quest’anno ha portato alla ribalta la contaminazione della poesia con espressioni diverse, soprattutto in video e in musica, innovazione da promuovere e incoraggiare per l’apertura ai giovani e alle forme contemporanee che pongono al servizio dell’arte le nuove tecnologie e forme di manifestazione. In questo spirito va tuttavia preservata la peculiarità della poesia, che Emanuele ha sottolineato ancora una volta essere “la prima forma d’arte, ha preceduto anche il canto e la musica, perché immediatamente legata alla parola, e non richiede, a differenza delle altre, alcun apparato o strumento per esprimersi”. Poi, nella serata, Fiorenza Mannoia ha dato una grande prova di come si possa coniugare l’arte della parola con quella della musica nel canto.

Ma torniamo alle innovazioni “In altra forma”:  con il video di Caterina Davinio e la “video-poesia” dal titolo “Amore mio” di Daniela Perego  e Carmine Sorrentino, la voce sussurrata mentre una mano scrive prima in blu poi in rosso i versi sulla schiena nuda, fino alla dissolvenza allorché torna solo la voce. Fa parte di una “trilogia”, i due autori parlano entusiasti del loro programma in  corso, ci saranno degli sviluppi.

Poi la “Sinfonietta poetica”, quattro leggii con altrettanti giovani poeti che recitano in successione le loro poesie, ma la continuità è solo nella musicalità delle parole, Mascolo dice che l’idea è venuta dalla “Sinfonietta”  op. 60 del compositore cecoslovacco Leos Janècek, una sorta di sottofondo del romanzo della Einaudi di Haruki Murakani, “1Q84”, due vite separate che si muovono in parallelo nel labirinto spazio-temporale accompagnate dalla sinfonietta: un inno alla libertà, con l’imprevedibilità e l’utopia. Una sorta di quartetto, anzi “due più due”, questa volta poetico, che dovrebbe piacere ai giovani come quelli canori: si passa da una poesia all’altra,  da un poeta all’altro, in una sequenza continua di temi e stili accomunati in un ritmo incalzante  e una musicalità unica. I nomi: Maria Borio e Tommaso Di Dio, Serena Maffia e Domenico Arturo Ingenito. 

Innovativa anche la “poesia performance” di Tomaso Bingo, che nella sua vulcanica presentazione passa dalla carta da parati alle lettere dell’alfabeto fino ad approdare alla lettura alla rovescia delle parole. I suoi suoni onomatopeici sono accentuati da una recita molto espressiva di filastrocche dove “porci” da verbo diviene sostantivo plurale, poi isola gli “orci”, come le tre lettere finali di  “oplà” servono ad evocare “Platone”: un gustoso siparietto  sull’imprevedibilità della poesia.

Torna la meditazione con Flavio Ermini, il suo “Il cristallo appena visibile” parla della nascita che “implica più della morte una mancanza”,  del “compimento dell’arco”, dell'”inerzia di esserci come voce”, fino a concludere che “alla stagione in atto si sovrappone il fuoco divorante dell’esistenza”.

Di penna in penna, 10 poeti italiani

E’ quella ora citata la seconda parte di “Di penna in penna”, che abbiamo anticipato rispetto alla prima per collegare la poesia performativa  che vi era compresa alle innovazioni “In altra forma”. Nella prima parte tre poeti le cui poesie-simbolo sembrano muoversi tra la memoria e l’attesa: Laura Canciani con “La ringhiera” parla di “angoscia contemplativa” e di “parole indipanabili” da “dirottare sui canali”; in “Ultimo canto” Gilberto Mazzoleni “ospite assente in muto sentiero, senza esiti guardo… medito” fino al “solidale conforto agli umani fratelli domando e attendo”; mentre Maurizia Spinelli in “XVIII” evoca il ricordo come “sete di questi versi”, le parole sono il “solo viatico del cuore chiuso nel silenzio dove frastuona la memoria”.

Altre sezioni sono state intervallate, in un’alternanza di contenuti e orizzonti poetici che ha dato ritmo alla giornata e, lo ripetiamo, un’inattesa leggerezza alle nove ore di poesia. Ma qui vogliamo completare la rassegna “Di penna in penna”  per poi varcare i confini geografici restando all’interno di quelli poetici. Nella terza parte, con Nino De Vita ascoltiamo la poesia dialettale, è siciliano di Marsala, il dialetto è come una sua seconda pelle, ricorda le origini, la vita grama ma piena di stimoli e di sentimenti. Come  quelli espressi in “0 friddu (Il freddo)”  un folgorante quadretto  dove Fedele, infreddolito perché ha solo i guanti e non il cappotto, compiange Diego con il pastrano ma non i guanti, forse impietosito se li toglierà per darglieli. E poi poesie alla Luna, alla Terra, ai Libri, recitate dall’autore in siciliano e in italiano, un vero spettacolo!

Delle stagioni dell’esistenza e della natura parlano i versi delle poesie più intense di Umberto Piersanti: “Sulle mura dell’adolescenza”  vede “quella primavera remota della vita”, ma lo attira soprattutto la natura, vuole “buttare la testa a terra per sentirne i sapori e gli odori”, e ci dà una bella immagine della donna, una “fata”: “Ti tremano gli occhi se l’aspetti, ti treman le mani se la spogli”.

Ida Travi s’immedesima nella crescita di Sasa fino ad esclamare: “Mentre cresco  sollevo il bambino alla mia altezza, lo  illumino”, due stagioni dell’esistenza che si riuniscono nell’amore materno. Nelle altre poesie la sua interpretazione è sofferta, un’immagine forte che rimbalzava sullo schermo ed è rimasta impressa.

Quattro poeti, questa volta non uniti in un quartetto, compongono il quarto e ultimo  gruppo selezionato “Di penna in penna”.  Franco Buffoni predilige la poesia perché “va all’essenziale” e lo dimostra con quella da lui scritta sulla Costituzione, che elogia perché “promette il perseguibile,  e non l’imperseguibile, la felicità” come fa, aggiungiamo noi, almeno nel citarla quale finalità ultima, la Costituzione americana.  Mentre l’inedito “Cimiteri”  vi vede “una comunità, un piccolo paese”, fino al “vaso delle ceneri in tinello”.

Vivian Remarque  s’ispira molto alla madre, “cucivi così bene”, la rivede con il “cappello di paglia”, anche le “nevi dell’Himalaya” riportano a lei. E con la  “Poesia d’invidia perla luna” passa dalla contemplazione leopardiana  alla voglia di identificazione: “Oh essere anche noi la luna di qualcuno! Noi che guardiamo, essere guardate, luccicare . Sembrare da lontano la candida luna che non siamo”.

Dalla luna all’acqua con Antonio Riccardi che riesce a creare atmosfere mitiche astraendosi dal suo punto di osservazione in una grande casa editrice per ricercare l’ispirazione autentica. Aleggia il mito nelle poesie della sua raccolta “Acquamara”, ce n’è una in cui scrive delle “Bambine rimaste molto da sole” che “così sono le sirene. Si vedono la sera a certe latitudini nuotare nell’acqua fluorescente la pelle dolce, d’incanto e sotto di rame”, poi si materializzano “all’ombra sotto i portici e sentono rifiorire il rimpianto”.

Valentino  Zwichen  chiude la rassegna dei poeti italiani con un’ondata poetica su Roma, “Piazza del Popolo” e l’acqua della città, che viene “accecata nel buio acquedotto”,  “Bruto e Cesare” e  la “Ragazza romana”. C’è persino il “Tempio di Adriano”, la sede dei “Ritratti di poesia” evocata con l’appello allo straniero a meditare “sull’ulteriore rovina che alberga tra le rovine, dalle “mazzate del barbaro ”  a quelle del “capomastro rinascimentale”  fino alle “persiane di abitazioni che si annidano fra le colonne” per concludere: “Compiangi lo spazio che le distanziava, un’antimateria ideale”.  Metafora dell’antipolitica ?

Una delle interviste di Mascolo ai poeti, nell’immagine Ida Trani

La poesia senza confini, gli 8 poeti stranieri

La poesia oltre confine fa la parte del leone nel pomeriggio, con 8 poeti europei e americani intervallati dai 7 poeti italiani degli ultimi due gruppi  “Di penna in penna” di cui abbiamo già dato conto.

Si inizia con le “Confluenze”, in cui si ha il primo incontro con le poetiche straniere. Dagli Stati Uniti Moira Egan con “Cuori e sassi” parla di “un cuore pietrificato”, e della labilità della memoria mentre in “Note di una pozione”  coniuga poeticamente i fiori e le ombre, il sale e l’acqua in un incontro intimo che termina con “le sue braccia calde intorno a me, la lunga migrazione verso casa”.

Dopo una simile visione quasi onirica Gezim Haidari ha riportato ad una realtà impietosa: “Scrivo questi versi in italiano e mi tormento in albanese”, ha detto nell’intervista come premessa all’evocazione delle sofferenze degli esuli immigrati, dai viaggi della speranza alle condizioni di vita degradate alla disoccupazione; le parole dette sono le ultime parole scritte della sua poesia segnata dal ritorno martellante di “per voi”: si rivolge agli “uomini d’Europa che vi arrangiate ogni giorno”, descrivendone la vita grama da badanti e prostitute, contadini e disoccupati; parla ai barboni che non rinunciano alla libertà e ai missionari “che portate consolazione ai deboli”, si unisce a loro nell’esclamare “per voi che siete soli e fuggite con me”.

Dall’Albania alla Francia e alla Russia, si torna alla poesia di sentimenti personali che trovano gli spunti più diversi. Tra le composizioni lette da Jaqueline Risset, pensiamo a quella sulle “Cicale”, descritte pure nel suono che emettono con lo “sfregamento di elitre il primo rumore: accensione del fuoco nella notte dei tempi”.  Mentre di Natalia Stepanova  ricordiamo un’introspezione aperta alla natura, quando “finito il giorno e non ho voglia di pensare  a domani” vede “integri i fiumi” nelle “ombre che prevengono la notte” e immagina le “ali di penne lunghe, appuntite”, come quelle degli “angeli giovani” che “vendicandosi, sulle schiene curve dormiranno. Con la coscienza limpida”.

Dalle “Confluenze” alla “Poesia sconfinata”, in due parti, ciascuna con due grossi calibri, il primo dei quali, Faek Hwajek dalla Siria, ha fatto tornare nel mondo della realtà sofferta, in una forma ancora più dura di quella dell’albanese Haidari. Qui si tratta del carcere in cui è stato rinchiuso, dove oltre alle sofferenze per le condizioni inumane c’è la mancanza di libertà e l’anelito a riconquistarla. Ci è rimasta impressa la poesia “Dieci compagni”, dove il vuoto lasciato dai carcerati usciti dalla cella non viene occupato subito da quelli stipati nel dormitorio per una sorta di rispetto e pudore; e “Il caffè”, dove l’impossibile sogno della donna desiderata, condiviso dai compagni di cella, li porta a prepararle il caffè nell’alternanza dell’invocazione “ti aspetto” e “vieni”  seguita dalla constatazione “non viene”; finché, se ricordiamo bene, si ottiene il miracolo, la forza del sogno sembra farsi realtà. Come in “Cella 53” dove si rivolge questa volta da solo alla donna dicendole “questo è il giaciglio, Amore. Ti amo”. “L’isolante vicino alla porta” è il solo spazio per far vivere il sogno: “Io sull’isolante e tu vicino a me e dormi così dormo anch’io”. La raccolta è “Sezione interrogatori” del 1982.

L’introspezione riemerge con la spagnola Olvido Garcìa Valdés: ricordiamo che in una delle poesie lette sente “questo conosciuto tremolio delle foglie nella brezza e questo verde di aprile come un vomito nella luce”, una descrizione che si conclude con “l’ossessivo tubare di colombe”. Tra queste due immagini della natura una visione altrettanto sconsolata: “Non sente il cadavere dolcezza né calore, ma sì, invece, il silenzio e il freddo perché si sente ciò che si è”. E poi “nulla perde chi muore, nulla vince nemmeno”. Leopardiana?

Questo nostro interrogativo ci introduce negli ultimi poeti stranieri presentati, due grandi in assoluto. Perché Michael Kruger, dalla Germania, intitola “Leopardi e la lumaca” una sua poesia, dove la lumaca viene vista “come Sisifo”, e il poeta esclama: “Ora penso al tempo, non alla felicità, perché soltanto come infelici siamo immortali”, e aggiunge: “A che saremmo nati, dice Leopardi, se non per riconoscere come saremmo felici a non essere nati?”. Sconsolata anche la conclusione di un’altra poesia allorché esclama: “Più niente da vedere sotto questa pioggia a dirotto. Adesso ce ne andiamo”.  Il poeta alza ancora il tiro: “Il creatore dell’universo si può vederlo come un giocoliere, tutto un maledetto gioco”, poi cede al fascino della notte: “Per lo stupore restiamo senza parola, lui per fregarci ci dà prove del suo grande talento”. Immagini forti fino alla poesia intitolata con un icastico “Undicesimo comandamento”: “Undicesimo, non morire, ti prego”.

Molto diversa la poetica di C. K. Williams, uno dei massimi poeti degli Stati Uniti, che trascorre metà dell’anno a Parigi. Le sue poesie abbinano la profondità del ragionamento all’intensità dell’emozione. Così lo ha spiegato: “La mia poesia parte da un’emozione e si sviluppa nella riflessione. Mentre si pensa si sente sempre di più ciò che si sta pensando, così il pensiero si trasforma in emozione”. I suoi versi sono prosa incalzante, ricordiamo che cita le parole irridenti di Colombo in “Grandi scimmie”, quelle pacifiche “non sono neanche capaci di ammazzarsi a vicenda”. Delle rivoluzionarie poesie che l’autore ha letto, “Aspetta” lascia il segno con l’inizio shock: “Taglia, squarta. Sventra; taglia, squarta, sventra; mannaia, coltello, accetta”, è rivolto al tempo, che da vittima quando si è giovani ora diventa carnefice, al quale si dice sempre “aspetta, però, aspetta”. Ma il tempo sa farsi amare per “il modo in cui ogni mattina ruoti la languida terra, perché altrimenti come saprebbe fare alba, fare crepuscolo, quando dalle sue creature parlanti  non sente altro che ‘Aspetta!”?. Per concludere: “Noi, il cui ultimo angosciato desiderio è che la nostra ultima parola non sia ‘Aspetta’”.

E’ una poesia inedita in Italia, chiude con una riflessione “alta” la nostra rassegna con cui abbiamo cercato, riportando alcuni degli innumerevoli spunti colti fior da fiore, occasionalmente e senza pretesa alcuna,  di rendere il senso dell’intera giornata poetica tra le letture degli autori e le loro confessioni agli intervistatori.

Ida Trani recita le proprie poesie, seduto Mascolo

Con “Maledetti” di Frankie Hi e “Siamo così” di Fiorella Mannoia il gran finale

Terminata la parte poetica, ecco quella musicale, il tradizionale concerto della serata introdotto da un’intervista sulla poesia, e abbiamo già detto chi è stata la “star” quest’anno. Ma con una novità, la presenza di Frankie Hi-NRG MC, prima in un dialogo con Stas Gawronski sulla “potenza della parola” nel tardo pomeriggio, poi in una esibizione ripetuta al termine della serata dopo un duetto con la “star”. E’ lui stesso una “star”, la via italiana al Pop. Secondo Frankie il potere della parola sta “nell’assunzione di responsabilità della scelta di far proprie quelle determinate parole. Deve generare energia per produrne altre. La parola detta è capace di volare, mentre quella scritta resta bloccata”, un rovesciamento dei valori rispetto al “verba volant scripta manent”: le prime si diffondono nella libertà senza vincoli, perciò sono superiori alle seconde, e “il momento creativo attraverso la parola detta può innescare il cambiamento”. E ne ha dato subito  prova.

Ma prima di parlarne ecco la “star” della serata, abbiamo già detto che è Fiorella Mannoia accompagnata da un duo musicale, con un cantante brasiliano. Nell’intervista ha detto che “nella vita ci s’imbatte sempre nella poesia”, con cui lei ha un buon rapporto, cita Pasolini e Saramago che “anche quando scrivono in prosa fanno poesia”. E’d’accordo con De Gregori nel ritenere poesia e canzone “due mondi in movimento su binari paralleli che difficilmente si incontrano”. La canzone è “come una piccola sceneggiata con premessa, svolgimento e conclusione, la poesia invece può restare sospesa”. Non c’è una sequenza temporale fissa tra versi e note, “l’ispirazione può venire dalle parole scritte e poi musicate o dalla musica su cui viene creato un testo”. Le grandi canzoni nascono di getto, musica e parole insieme, com’è stato per “Caruso” di Lucio Dalla.

Ha anche risposto alla domanda su come vengono scelte le canzoni da una interprete come lei. “Io parto dal testo, da quello che dice, devo misurarmi con le cose che leggo. Non posso sopperire alle lacune con virtuosismi vocali che non mi appartengono, mi immedesimo in ciò che canto, vi entro  come in una seconda pelle, la storia contenuta nel testo mi scorre davanti come un  film, la vedo prima di cantarla, mi sento un attore che interpreta il ruolo e vi si identifica. Questo avviene anche su temi maschili, ma se il testo mi riguarda personalmente c’è qualcosa in più”; per il resto nell’interpretazione non c’è differenza, “la sensibilità non ha sesso”.

Consigli da dare non ci sono, se non di prestare attenzione “a ciò che si dice, non a come si dice, la forma espressiva viene da sé quando il contenuto è sentito”. L’esperienza delle collaborazioni è stata molto fruttuosa per lei, “ci si arricchisce, è sbagliato isolarsi”.  Su un tema che l’ha particolarmente toccata, quello dell’emigrazione, è diventata cantautrice, si è immedesimata in una mamma anche se lei non lo è, “ma tutte noi donne siamo mamme”; la canterà con trasporto.

Tra le 10 canzoni che ha cantato, oltre all’intenso “Che sarà che sarà” e a quella da cantautrice, c’è stato quel “Siamo così”, divenuto un inno delle donne che, nel Tempio di Adriano,  lo hanno intonato tutte in coro con lei considerata un simbolo dell’identità e dell’orgoglio femminile.

Ha anche cantato un Rap con Frankie, il quale ha riproposto il suo “Maledetti”, già martellato con la potenza della sua parola esplosiva nel pomeriggio. Con l’onomatopeica ripetizione in un fiume di parole – dai colletti alle mazzette – delle tre lettere finali, l’invettiva contro i colpevoli degli innumerevoli scandali che investono la politica e l’economia è stata lancinante. Un “Je accuse” violento e disperato come fu dolente e accorato il “Povera patria” di Franco Battiato nel 1991.

E allora ci è parsa molto appropriata la conclusione del presidente Emanuele  con cui abbiamo iniziato il nostro resoconto. Nel clima creato dal martellante “Maledetti” di Frankie – che a noi è venuto spontaneo riferire al caso dell’MPS agli onori, anzi ai disonori della cronaca – ha tenuto a ricordare i meriti della Fondazione Roma nella cultura e nella società senza le altrui degenerazioni.

Dopo l’orgoglioso e solidale “Siamo così” della Mannoia verso le donne, la rivendicazione del Presidente dell’abisso che lo separa da chi ha tradito lo spirito delle Fondazioni, è suonata come una rivolta. Diversi i destinatari, uguale la spinta morale. E’ stato un alto e forte: “Non siamo così”.

Info

A cura della “Fondazione Roma Arte-Musei” un agile compendio: “Ritratti di Poesia”, settima edizione, 1° febbraio 2013, pp. 44, con una poesia per ogni poeta intervenuto alla manifestazione al Tempio di Adriano.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Tempio di Adriano nella giornata dei “Ritratti di Poesia”, si ringrazia la Fondazione Roma per l’opportunità offerta. In apertura, il presidente Emanuele nell’intervento iniziale; seguono,Pier Paolo Pascali, nipote della premiata Giovanna Bemporad, ricorda la poetessa  scomparsa (seduti da sin., Mascolo, Emanuele, Diamanti), e Cosimo Cimieri mentre legge le poesie di Giovanna Bemporad,   (seduti da sin., Pascali, Mascolo, Emanuele, Diamanti); poi una delle interviste di Mascolo ai poeti, nell’immagine con Ida Trani, che in quella successiva legge le proprie poesie; in chiusura il quartetto della “Sinfonietta poetica” (sta leggendo Maria Borio, alla sua destra Tommaso Di Dio e Serena Maffia, alla sua sinistra Domenico Arturo Ingenito).

Il quartetto della “Sinfonietta poetica” (sta leggendo Maria Borio, alla sua dx Tommaso Di Dio e Serena Maffia, alla sua sin. Domenico Arturo Ingenito

Rinascimento, 2. L’antico e il Sacco di Roma fino ai fasti farnesiani, al Palazzo Sciarra

di Romano Maria Levante

Ricordiamo ancora dopo un anno la visita alla grande mostra “Il Rinascimento a Roma, nel segno di Michelangelo e Raffaello”, aperta dal 25 ottobre 2011 al 12 febbraio 2012,promossa  dalla Fondazione Roma e organizzata con Arthemisia” al Palazzo Sciarra al Corso. 200 opere in 7 sezioni: dopo aver descritto le opere nei pontificati di Giulio II e Leone X  con il primo articolo,passiamo alle sezioni dal Rinascimento e il rapporto con l’antico alla Riforma di Lutero e il Sacco di Roma, fino ai fasti farnesiani. Presto seguiranno le sezioni su San Pietro, la maniera e gli arredi. Abbiamo già visto il forte influsso dei due “numi tutelari”  Raffaello e Michelangelo, il primo con una propria bottega a Roma e il fascino del suo stile delicato, il secondo con l’attrazione del vigore e della forza spirituale di opere eccelse come la “Cappella Sistina”. E abbiamo riscontrato nelle opere esposte degli artisti dell’epoca i segni dei singoli influssi, sia ricorrendo alle valutazioni dei critici, sia con una ricerca personale che ciascuno può fare, ed era un ulteriore motivo di interesse della mostra. Il primo periodo, con Giulio II e Leone X,  rivissuto nella prima sezione, era ricco di opere alcune delle quali mozzafiato, come quelle esposte di Raffaello, mentre per Michelangelo si restava senza fiato dinanzi alla Cappella Sistina “portata”  nella mostra con un sistema multimediale che dava immagini ravvicinate ad alta risoluzione e in tre dimensioni.

Pierin del Valga, “Sacra Famiglia”, 1540

Il Rinascimento e l’antico, prima della tempesta

La seconda sezione dedicata ai “Rapporti con l’antico”  era un tuffo a ritroso nel tempo per scoprire motivi di ispirazione ancora attuali nel ‘500, quando il classicismo era molto considerato; del resto lo è stato sempre, ricordiamo quanto documentato nella mostra sul ‘700, con cui è stato inaugurato, nello stesso 2011, lo spazio espositivo di Palazzo Sciarra  per l’arte antica. 

Nel secolo cui era dedicata questa mostra, il fascino dell’antico è accresciuto dal concetto stesso di Rinascimento secondo cui – ripetiamo le parole di Vittorio Sgarbi – “morta Roma antica, rinasceva nella Roma moderna, in cui convivevano a pari livello il nuovo e l’antico”.  Si crea un rapporto stretto tra Roma, gli artisti e l’ideale rinascimentale di far “rinascere” l’antico in veste moderna; sia nello stile, sia nei soggetti e nei contenuti. Ci si ispira ai modelli romani delle terme per l’armonia e la simmetria nelle costruzioni,  la Domus Aurea  diviene un riferimento costante, viene alla luce il gruppo del Laocoonte, si diffondono restauri e copie dell’antico.

L’esposizione ha creato il clima giusto anche questa volta, come era stato per la mostra precedente sul ‘700, si aveva la sensazione di entrare nel Parnaso quando dai corridoi con archetti che segnavano il percorso pittorico si passava alle sale con le grandi sculture  marmoree.

Prima una serie di stampe, lo “Speculum Romanae magnificentiae”  di Dupérac e “Il cortile di Palazzo della Valle con le raccolte di antichità“, copia di Cock  di una delicata incisione di Van Heemskerek, del quale era esposto “Paesaggio con San Girolamo”, dipinto che rigurgita di antichità, dalla grande fontana alle colonne, ruderi e statue sparse ovunque. E soprattutto si ammirava un inatteso disegno di Raffaello, “Veduta (da Bramante?) dell’interno del Pantheon”, prospetto frontale dei due livelli inferiori, con un segno sottile e delicato molto calligrafico.

Ma ecco poi il grande “Gruppo di Dioniso ed Enea”, statua marmorea che si stagliava imponente, due figure di statura molto diversa con i grappoli d’uva e la coppa; e la “Statua di Afrodite”, un nudo reso dinamico dalla posizione accosciata con la mano destra sui capelli e la sinistra  che regge un panno; entrambi del II secolo dopo Cristo.

Le ripetizioni dell’antico nell’ultima parte del ‘500  si trovavano nel piccolo “Laocoonte” in bronzo di Pietro Simoni da Barga, nella “Testa di Laocoonte” di un seguace di Michelangelo e nello “Spinario” di Guglielmo della Porta, un giovane seduto che guarda il piede tenuto con le mani per togliere la spina. Di questo autore, alcuni rilievi a forma di dischi ovali con scene mitologiche, avevano forma circolare quelli più piccoli di Valerio Belli, con scene classiche simboliche.

Sembravano bassorilievi romani antichi “I pugilatori Entello e Darete detti Lottatori Aldobrandini”, 1520; e ricordavano le pitture antiche  tre spettacolari dipinti della cerchia di Perin del Vaga, “Battaglia tra Centauri e Lapiti”, “Due sfingi” e “Danza di putti”, 1542-43.

In questo ispirarsi all’antico non  sorprendeva  un disegno quasi pompeiano,  non nel colore, un beige molto sfumato, quanto nel soggetto, la posa di “Amanti”, 1530,  di Giulio Romano, non “casti”, in un erotismo peraltro limitato all’atteggiamento senza esplicite esibizioni; insieme al disegno era esposto il frontespizio di un libello dal titolo eloquente: “Dubbi amorosi, altri dubbi, e sonetti lussuriosi di Pietro Aretino dedicati al Clero”, edito  nel 1792, presumibilmente con quel disegno,  “nella stamperia vaticana con privilegio di Sua Santità”, e questo era più sorprendente.

Non erano le uniche raffigurazioni di questo tipo, c’era una serie di disegni dal segno sottile e in chiaroscuro che sembravano incisioni, pervenuti nella copia di Gian Giacomo Caraglio, l’originale era di Perin del Vaga, che abbiamo già incontrato nel primo periodo del secolo e ritroveremo.  Sono 7 scene amorose, a partire da “Amore e Psiche”,poi “Parla Cupido”; “Giove e Mnemosine” e “Giove e Antiope”. “Giove  e Io” e “Marte e Venere”, “Mercurio ed Erse” e “Venere e Amore”, tutti accompagnati da otto versetti: sono baci dolci o appassionati, e languidi abbandoni. 

“Statua di Afrodite”, età adrianea, 117-138 d. C.  

Lo scisma di Lutero e il Sacco di Roma

L’arcadia di un’età gaudente della città? Siamo nel 1527, il 6 maggio tutto precipita con la tragica vicenda del Sacco di Roma, una tempesta che “sopraggiunse quasi improvvisa e troncò ogni ulteriore sviluppo di questo crogiuolo di spiriti liberi e geniali, che abbandonarono la città per altri luoghi”, scrive la Bernardini. E si chiede “quali esiti avrebbero potuto raggiungere le ricerche di questi artisti, alimentate dal continuo confronto fra loro e da quello con la grande arte del passato remoto e prossimo, se avessero potuto rimanere a Roma”. Rispondendo così: “La tragedia del Sacco non operò una frattura nella cultura artistica romana, ma certamente ne modificò il percorso”. Una modifica evidente è la scomparsa del fervore artistico, che neppure il ritorno a Roma di Clemente VII riuscì a riattivare, d’altra parte la città aveva dimezzato il numero di abitanti.

Dieci anni prima del “Sacco”  c’era stato un altro trauma, relativo alla sfera religiosa, lo scisma di Lutero dopo l’affissione alle porte della cattedrale di Wittemberg delle sue  enunciazioni. In mostra era evocato dal “Ritratto di Martin Lutero e di Katharina von Bora”, la moglie, di Lucas Cranach, 1529, un abbinamento come manifesto contro il celibato cattolico; l’artista tedesco gli fu amico e seguace diffondendone l’immagine con i dipinti nei quali spicca la semplicità rispetto allo sfarzo papale; e rendendone visibile la dottrina con le illustrazioni nella Bibbia tedesca di Wittenberg. Cranach fu esponente di un algido Rinascimento nordico come si è potuto vedere nella mostra a lui dedicata nel 2010 alla “Galleria Borghese”. Eloquenti nell’irrisione del papato le due illustrazioni dello stesso artista: “La discesa del Papa agli inferi“, 1521, dal libro “Passional Christi und Antichristi”, in cui emula Dante che vi mandò Bonifacio VIII; e “La grande prostituta Babilonia con la tiara pontificia”. 1522, dal “Nuovo Testamento” di Wittenberg.

La terza sezione della mostra, dedicata alla“Riforma di Lutero e il Sacco di Roma”  iniziava con questi esempi significativi, dopo due preziose bolle pontificie di Giulio II, “Liquet omnibus” del 1509 che precede lo scisma, e di Clemente VII,  “Dudum Admonente”, che precede il “Sacco”.  Questo papa, succeduto a Leone X, era il fulcro della sezione, con due grandi dipinti, entrambi di Sebastiano del Piombo (al secolo Salvatore Luciani): “Ritratto di Clemente VII”, 1926, prima del “Sacco”, con mantellina e copricapo rosso sulla veste bianca, giovanile e imponente; e “Ritratto di Clemente VII con la barba”, 1531-32,  sembrano trascorsi ben più dei cinque anni della datazione, mantella e copricapo scuri e soprattutto un velo di depressione nel volto, e non perchè è barbuto; d’altra parte la barba è un ricordo della tragica vicenda del “Sacco”, cominciò a farsela crescere quando era prigioniero all’interno di Castel Sant’Angelo..

Dell’anno successivo una “Coppa con Cesare che parte da Roma”, 1533, attribuito a Nicola da Urbino, con la città stilizzata in alcuni monumenti. E’ la trasposizione simbolica dell’esodo per il “Sacco”? In realtà è vicino il ritorno degli artisti e dei fuorusciti,  sta per salire al soglio Paolo III.

Erano di Martin Van Heemskeerk due drammatiche rappresentazioni del “Sacco”, peraltro datate 1555, quasi trent’anni dopo: La prima “I lanzichenecchi davanti a Castel Sant’Angelo”,  il disegno originale a penna da cui fu tratta l’incisione per la stampa (per cui è al rovescio) che riassume il momento culminante del tragico evento: la scena è altamente drammatica con gli assedianti i cui cannoni sono puntati sul castello intorno alle statue di santi con Papa Clemente VII che si intravede affacciato nell’alto della loggia centrale; la didascalia latina che vi fu apposta  a stampa riassume la conclusione con le parole “Presa la città, papa Clemente fu tenuto in ostaggio nella imponente Mole di Adriano, tuttavia fu liberato con un ingente riscatto”. La seconda – questa volta una stampa a bulino (incisa da Cock che abbiamo visto autore di copie dell’artista definito “inventor”) – “La morte di Borbone”, per una raccolta dedicata all’imperatore  Carlo V. La scena è drammatica, in primo piano il guerriero che cade all’indietro da una scala colpito a morte, in secondo piano i monumenti e i templi della città nel fuoco degli incendi. Anche qui la scritta latina è quanto mai eloquente, nel descrivere la conclusione così: “Dopo l’uccisione di Borbone, l’esercito imperiale travolse le mura di Roma e mise a sacco l’urbe miseranda”.

Papa Clemente VII, che avevamo visto nei due ritratti a olio di Sebastiano del Piombo  era anche in una moneta e in una medaglia di Benvenuto Cellini, anch’esse in mostra, emesse per celebrare l’epilogo della tragica vicenda del “Sacco di Roma” in una forma edificante: la moneta “Due ducati d’oro di Clemente VII”, 1529-30 presenta il papa Clemente VII e l’imperatore Carlo V, non più nemici mentre inginocchiati sollevano insieme la croce; la “Medaglia di Clemente VII con la Pace che brucia le armi”, 1534,  è altrettanto eloquente nei suoi simboli laici, l’allegoria della pace avvolta nella tunica e la cornucopia  che dispensa abbondanza, ma c’è anche il tempio di Giano distrutto al quale è incatenato il simbolo del furore bellico. Nel “recto” il busto di Clemente VII, con la barba come nel secondo dipinto di Del Piombo, ma a capo scoperto. E’ esemplare come tra quadri  e disegni, monete e medaglie, si sia ricostruita in sintesi una fase drammatica e complessa. 

Raffaello Giulio Romano, “Madonna  col Bambino” (“Madonna Hertz”), 1517-18  

Il nuovo inizio con i fasti farnesiani

L’anno della medaglia di Benvenuto Cellini è lo stesso della salita al soglio pontificio di Paolo III della famiglia Farnese, che segnò un nuovo inizio, per cui non ci fu una frattura irreparabile, ma la modifica del percorso artistico di Roma, come ha scritto la Bernardini, la qualesovrintende al Museo di Castel Sant’Angelo dove ci fu l’epicentro del sisma del “Sacco di Roma” e la conclusione; quindi tratta con molta sensibilità questo periodo nei suoi risvolti storici e artistici.

La volontà di recuperare lo splendore perduto, insieme alla celebrazione del nuovo pontefice alimentò  una campagna di ricostruzione urbanistica con realizzazioni di valore nell’architettura e nell’arte che riuscirono a restituire a Roma l’antico decoro. Siamo nel 1934, sono trascorsi solo sette anni dal “Sacco di Roma”, torna il fervore e rientrano gli artisti. La studiosa ne indica la successione: Francesco Salviati è già  arrivato nel 1931 con Clemente VII,  nel 1933 torna Baldassarre Peruzzi, poco dopo Jacopino del Conte, Daniele da Volterra e Pirro Lagorio.

Subito dopo il 1934 torna addirittura Michelangelo, chiamato per riprendere i lavori nella Cappella Sistina con il “Giudizio Universale”, rientra nel 1937 Perin del Vaga, seguito da giovani pittori della sua cerchia. A parte Raffaello, morto nel 1520,  è come se si ravvolgesse la pellicola e ripartisse il film dove si era interrotto, in un crescendo.

Perin del Vaga diventa addirittura pittore ufficiale di Paolo III, che vedeva in lui l’erede di Raffaello e lo affiancò a Michelangelo, che lui già seguiva, pur venendo dalla scuola di Raffaello, avendo fatto anche delle copie del celebre cartone sulla “Battaglia di Cascina”. Furono impegnati dalla committenza papale negli stessi ambienti vaticani, nella  “Cappella Sistina”  e “Cappella Paolina” e nella “Sala Regia”, mentre ad Antonio da Sangallo fu affidata la parte architettonica: precisamente mentre Michelangelo lavorava nel “Giudizio Universale”, dal 1934 al 1941, e negli affreschi della “Cappella Sistina”, tra il 1542 e il 1549, Perin del Vaga era impegnato nella volta della “Cappella Paolina” che non ci è giunta perché distrutta, nella decorazione della “Sala Regia”, dal 1541 al 1547, interrotta dalla morte ancora giovane, e del Basamento del “Giudizio”, nel 1542.

La sezione quarta documentava questa temperie artistica cominciando proprio da Perin Del Vaga,  del quale era esposto il “Disegno preparatorio per la spalliera del Giudizio della Sistina”. 1542, per l’opera di cui abbiamo appena parlato. Poi due dipinti intitolati alla “Sacra Famiglia”,  tra il 1540 e il 1546, con  i tre soggetti Madonna, Bambino e San Giuseppe; torna il tema da lui svolto nel dipinto del 1940 esposto nella prima sezione, che abbiamo già commentato e rispetto ai due di cui parleremo ora aveva in più le antiche rovine e San Giovannino  “presentato” al Bambino.

Riguardo al dipinto del 1540-45,  Costanza Barbieri osserva che “la rotazione dinamica delle teste in opposte direzioni, mutuata da Raffaello, conferisce movimento alla composizione”,  con il Bambino che protende il braccio destro verso il collo della Madonna. Nel dipinto del 1945-46 è l’intero corpo a protendersi: secondo le  parole della stessa studiosa, colpisce soprattutto “per l’intensità emotiva provocata dal movimento del Bambino che, come impaurito, si precipita nelle braccia della Madre che lo accoglie con un’espressione preoccupata e sollecita”; c’è una grazia dei volti  di stampo raffaellesco, in una composizione dal cromatismo contrastato ma su toni delicati.

Subito dopo Francesco Salviati, la cui rivalità nei riguardi del pittore appena citato era tale che  il ruolo preminente a lui conferito dal papa al suo arrivo a Roma nel 1537 –  come pittore ufficiale affiancato a  Michelangelo – lo indusse a lasciare la città due anni dopo, nel 1539. Di Salviati erano esposti tre dipinti: uno, “Annunciazione della Vergine Maria”, 1533.34,  prima dell’arrivo di Perin del Vaga,  e due dopo aver lasciato Roma, “Adorazione dei Pastori”, 1541, “Resurrezione di Lazzaro”, 1547-48, oltre al disegno a matita e acquerello “Cristo e San Tommaso”, 1544. Del primo Gianfrancesco Solferino  scrive che “la potenza cromatica emanata dall’opera si espande oltre il nitore delle membrature architettoniche”; per il  secondo Susanna Mastrofini sottolinea il primo piano della Madonna  e lo sfondo “con antiche rovine e un paesaggio idealizzato dominato sia da toni scuri sia da colori particolarmente accesi che rimandano ancora una volta al Parmigianino”; il terzo, per Paolo Castellani “appare fortemente impregnato della cultura figurativa romana raffaellesca, arrivando a citazioni quasi letterali tratte dall’urbinate”.

Erano esposti anche una “Sacra Famiglia”, 1546, di Marco Pino, e una “Madonna col Bambino e i santi Giovannino e Barbara, 1548, diDaniele da Volterra, ma a questo punto ci sembra di poter concludere la seconda parte della rievocazione della mostra  citando le opere sulla  ricostruzione urbanistica con i prodigi architettonici farnesiani nel “Progetto assonometrico per il completamento di Palazzo Farnese”, 1546, un acquerello attribuito a Jacopo Meleghino, con una vista prospettica molto dettagliata e rifinita, e gli “Orti farnesiani sul Monte Palatino”,  1561, un’acquaforte pittorica  con uno scorcio della parte monumentale con alberi e arredi.

Ci immergiamo ancora di più nell’ambiente di grande fervore realizzativo, che vedrà il “clou” nella sezione successiva  con la Basilica di San Pietro. La ricorderemo prossimamente insieme alle altre opere pittoriche di Michelangelo contenute nella quarta sezione; per poi passare alle due restanti, , la Maniera a Roma a metà secolo e gli arredi. C’è ancora tanto da rievocare per non dimenticare.  

Info

Catalogo: “Il Rinascimento a Roma. Nel segno di Michelangelo e Raffaello”, a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli, Electa, 2011, pp. 360, formato  24  x 28, euro 45; dal Catalogo sono  tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito,  il 12 febbraio u. s., con 4 immagini, il terzo e ultimo uscirà il 16 febbraio 2013, con altre 4 immagini. 

Foto

Le immagini sono state fornite da “Arthemisia” che si ringrazia, con la Fondazione Roma Arte-Musei e i titolari dei diritti.  In apertura  Pierin del Valga, “Sacra Famiglia”, 1540; seguono Età Adrianea, “Statua di Afrodite”, 117-138 d. C. e Raffaello-Giulio Romano, “Madonna  col Bambino (Madonna Hertz), 1517-18; in chiusura Sebastiano del Piombo, “Ritratto di Clemente VII con la barba”, 1531-32. 

Sebastiano del Piombo, “Ritratto di Clemente VII con la barba”, 1531-32

Alberto Sordi, nel decennale il ricordo di Roma, in Campidoglio

di Romano Maria Levante

Molto affollata la conferenza stampa dell’11 febbraio 2013 alla Sala delle Bandiere in Campidoglio per presentare le iniziative che nel decimo anniversario della scomparsa ricorderanno Alberto Sordi. L’affetto per la qualità umana dell’indimenticabile personaggio oltre che per le sue doti di grande attore è stato alla base degli interventi che ne hanno rievocato la figura nei suoi vari risvolti, e sono tanti. In tutti il denominatore comune è l’amore per Roma nell’identificazione con la città e i suoi abitanti. La Fondazione Alberto Sordi da lui voluta è una prova  permanente della sua volontà di essere vicino ai concittadini con atti concreti e non solo con le sue interpretazioni indimenticabili.

Limmagine-logo della mostra 

Nel segno della commozione e del sorriso, la presentazione delle iniziative celebrative ha fatto ripercorrere alcuni dei molti aspetti della sua attività artistica e del suo percorso umano, perché su questi sono state modellate le manifestazioni che lo ricorderanno nel mese di febbraio e poi anche nella prossima estate, in un anno che si potrà definire“l’anno di Alberto Sordi”.

Le iniziative celebrative del febbraio 2013

L’Assessore alla cultura di Roma Capitale, Dino Gasperini, ha illustrato le manifestazioni in programma con riferimenti precisi, sempre in varia misura divertiti e commossi, all’aspetto del personaggio celebrato nella singola iniziativa: attore e regista, speaker radiofonico e doppiatore, una persona di grande umanità che nell’80°  compleanno fu per una giornata Sindaco della sua città, la Roma tanto amata. Si va dalla mostra  celebrativa ai film, dai concerti alle sue evocazioni dal vivo.

Il programma si apre con la mostra“Alberto Sordi e la sua Roma”,che verrà inaugurata il 14 febbraio alle ore 18 al Vittoriano,  e sarà aperta al pubblico dal 15 febbraio al 31marzo 2013, realizzata da “Comunicare Organizzando” e curata dal suo presidente Alessandro Nicosia e da Gloria Satta e Vincenzo Mollica. La mostra farà compiere un’immersione nella sua vita personale e nelle interpretazioni  cinematografiche più legate alla capitale, si vedranno esposte cose facenti parte della sua quotidianità domestica e dell’attività di attore, come oggetti della sua abitazione e costumi di scena, suoi articoli nei giornali e lettere personali,  manifesti e filmati: tutto  materiale messo a disposizione dalla sorella Aurelia. Saranno rievocate le espressioni rimaste famose dei suoi film più noti su Roma, presenti in mostra, da “Un americano a Roma” a “Nestore l’ultima corsa”.

Chi vorrà vedere o rivedere alcuni suoi Film famosi potrà farlo in serate e luoghi diversi. “Amore mio aiutami”, con Monica Vitti,  del 1969, di cui è stato anche regista, restaurato di recente con il contributo dell’assessorato retto da Gasperini, sarà proiettato al Teatro Tor Bella Monaca il 23 febbraio (ore 17 e 21) e al Teatro Biblioteca Quarticciolo il 24 febbraio (ore 17).  E’ la storia patetica e divertente, dal finale amaro, di un tradimento coniugale con fasi alterne di perdono e abbandono: celebre la scena in cui da marito tradito schiaffeggia all’infinito sulla sabbia del litorale la moglie che persiste nel proclamare l’amore per l’altro: Lo stesso 24 febbraio, alle 11 di mattina, alla Casa del Cinema, “Bravissimo”,regia di D’Amico, in cui interpreta la figura molto umana di un maestro elementare che protegge, da nuovo padre, un ragazzo prodigio dalla famiglia sfruttatrice.

L’indomani, 25 febbraio, ultimo giorno del ciclo di celebrazioni,  alle 20,30 alla Galleria Alberto Sordi,  la storica Galleria Colonna, il film forse più legato alla sua città, “Un americano a Roma”: un trasteverino innamorato dell’America di cui cerca di adottarne le abitudini con risultati di grande comicità, ma non sa resistere alla “provocazione” della pastasciutta e ne divora un grande piatto nella scena forse più famosa, fino a salire al culmine del Colosseo inseguendo il sogno americano.

Nel cinema, oltre che attore e regista, è stato anche doppiatore, di attori famosi stranieri  come Antony Quinn e Robert Mitchum, Bruce Bennet e Pedro Armendariz, e italiani come Franco Fabrizi e perfino Marcello Mastroianni. Questa sua attività sarà ricordata con la proiezione, il 23 febbraio alle ore 16, al Macro Testaccio, nello spazio della Pelanda, di un film della serie di Stanlio e Olio, lui dava la voce a Ollio, interpretato da Oliver Hardy: “I diavoli volanti”, regia di Sutherland,  con le esilaranti avventure nella Legione straniera, la diserzione con successiva cattura e condanna alla fucilazione e il finale stravagante: la voce di Sordi si è perfettamente incarnata nel grassone Ollio.

Il cinema di Sordi verrà celebrato anche dal lato della musica, nella grande serata del 23 febbraio alle ore 21 all’Auditorium del Parco della Musica, “Sala Sinopoli”, con l’esecuzione da parte della Gerardo Di Lella Grand’Orchestra delle partiture originali dei film  e delle musiche già eseguite dall’orchestra nel concerto trasmesso dalla Rai nel 2004 a un anno dalla morte dell’attore.

Ma non ci sarà soltanto la possibilità di rivedere suoi film celebri o riascoltarne le musiche in questi giorni di celebrazione. La sua presenza, già evocata dalla mostra al Vittoriano, si sentirà in modo quanto mai suggestivo con la sua voce nelle stazioni della Metropolitana e nella Galleria Sordi il 23-24-25 febbraio: si tratta dei suoi interventi alla radio, e Gasperini ha ricordato che fu il primo vero personaggio radiofonico nella storia della Rai, volle  avere una sua trasmissione e ci riuscì: almeno una  quindicina di brani esilaranti dai più antichi con Mario Pio  e il Conte Claro.  La sua immagine sarà proiettata la sera del 24 febbraio sul Colosseo mentre si sentirà la sua voce che racconta le sue interpretazioni nei film più famosi, nel cuore della romanità più famoso al mondo,

Diana Gissi, costumista, Bozzetti dei costumi per “Il Marchese del Grillo”  

Con due momenti particolarmente solenni si apre e si chiude virtualmente il programma celebrativo.

L’inaugurazione del “Viale Alberto Sordi: Attore (1920-2003)” il 16 febbraio alle ore 11 a Villa Borgese, “il cuore verde di Roma”, una strada simbolica per l’ubicazione,  dirimpetto alla casa del Cinema, tra le vie dedicate ad Anna Magnani e Marcello Mastroianni, e per le caratteristiche, una strada nel parco dove si può passeggiare e meditare senza l’oppressione del traffico da lui detestato. Le cerimonia sarà accompagnata dalla Banda della Polizia municipale, con i vigili e “pizzardoni” romani da lui celebrati e resi familiari al grande pubblico.

Infine la Santa Messa in sua memoria nella Chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo il 24 febbraio alle ore 11 (ingresso 10,45), per ricordare anche la sua religiosità che le parole da lui dette in un’intervista esprimono in modo istintivo e intenso: “E’ bello credere, e non si crede facendo tanti ragionamenti: io sono cristiano, la vita mi ha sempre più convinto che il cristianesimo è vero. Che bisogno c’è di ragionarci su?”. Un’altra espressione di semplicità e di umanità profonda. 

L’assessore Gasperini ha concluso anticipando iniziative successive ai dodici giorni di febbraio: il 21 aprile nel Natale di Roma il suo cinema verrà proiettato in Piazza del Campidoglio; il 15 giugno ci sarà una celebrazione della sua nascita presso la Fondazione Alberto Sordi; anche l’Estate romana vedrà molte altre iniziative di celebrazione nell’“anno di Alberto Sordi”.

Diana Gissi, costumista, Un altro bozzetti dei costumi per “Il Marchese del Grillo” 

Gli altri interventi di presentazione

Dopo la presentazione del  programma da parte dell’assessore Gasperini, la rappresentante della Fondazione Alberto Sordi, Stefania Binetti, ha portato la sua testimonianza, rivelando che lui ne controllava di persona la crescita a cui teneva tanto. “La Fondazione rappresenta l’ultima sua volontà che resta viva come manifestazione concreta della sua grande generosità”, è la “custodia storica della memoria dell’artista”. Il 12 febbraio alle ore 11 nell’Auditorium dell’Ara  Pacis sarà presentato in anteprima il filmato che fa conoscere i campi in cui opera con la partecipazione del Preside della facoltà di Medicina e del Responsabile UOC Neurologia del Campus Bio Medico.

L’obiettivo primario è l’assistenza agli anziani, e a tal fine dal 2002, su un terreno a sud di Roma da lui donato alla Fondazione, è stata realizzata una struttura d’avanguardia con un Centro polivalente per la salute dell’anziano e un Centro diurno per anziani fragili. Questo obiettivo viene perseguito anche mediante il sostegno all’Università del Campus citato, che sullo stesso terreno nel 2007  ha realizzato un polo di Ricerca avanzata in Biomedicina e Bioingegneria  concentrato sulla ricerca geriatrica e la fisiopatologia dell’invecchiamento, fino all’edificio del 2012 per la didattica   Il meritorio sostegno alla popolazione anziana, sempre più numerosa ma sempre più trascurata, viene esercitato anche attraverso altre forme a difesa della dignità della persona e del suo diritto alla qualità della vita, oltre che alla salute, per cui la Fondazione è stata riconosciuta come Ente Morale dall’ottobre del 1995, in campo scientifico, sanitario e sociale. Nei suoi locali c’è anche un Museo Alberto Sordi con cimeli e documenti, fotografie e altri ricordi donati dalla sorella Aurelia.

La serata del 15 giugno prossimo nell’anniversario della nascita vedrà  la testimonianza di tanti che lo hanno frequentato e hanno molti episodi da ricordare.

Alessandro Nicosia, il Presidente di “Comunicare Organizzando”, che lo ha conosciuto e frequentato, ha parlato dell’emozione provata quando, per realizzare la mostra al Vittoriano, ha consultato le carte private dell’attore, insieme alla persona a lui più vicina che le custodisce, e ha capito che il miglior modo per onorarlo era ricordare il suo rapporto con la città, l’amore “per la sua  Roma”, di qui è nato il contenuto dell’esposizione con il relativo titolo.  E’ stato un rapporto di identificazione che va ben oltre i 56 film in cui c’è Roma sui 189  interpretati. Il percorso della mostra, esteso alla città, parte da una dimensione privata e personale, anzi intima: la sua vita quotidiana nella villa immersa nel verde, espressa attraverso oggetti di uso comune, dalla poltrona al pianoforte, dai quadri ai trofei dei tanti premi avuti, fino alle lettere. “In questa casa sono felice, diceva, il panorama che vedo mi fa sentire proprio a Roma, come se fossi nel cuore della città, ma senza l’inquinamento”. Come la sentiva si vede, anzi si legge nei suoi articoli per il “Messaggero”,  in tanti anni di notazioni serene e divertenti, da profondo conoscitore della città di cui era innamorato e che seguiva in ogni espressione e cambiamento. Una città che lo ha ricambiato con la manifestazione di affetto che vide mezzo milione di persone ai suoi funerali in piazza San Giovanni.

Gloria Satta, che ha curato la mostra con Vincenzo Mollica,  ha parlato della persona, piuttosto che del personaggio, dicendo che si è voluto rievocare il suo mondo allegro, divertente e festoso. “Ha interpretato molti vizi degli italiani, caratteri anche deteriori, mentre lui era esattamente l’opposto, molto mite, simpaticissimo, non si astraeva mai all’affetto degli ammiratori, non voleva deludere nessuno”. Il carattere e la visione della vita e della città emergono dai suoi articoli su Roma -ha detto tornando su un aspetto della mostra – dove esprime le sue opinioni in tono bonario e scanzonato:  ha criticato molto l’avvento dei ‘fast food’, era affezionato alle vecchie osterie, e anche all’avanspettacolo all’Ambra Jovinelli,  sul quale notava:  “Il vero spettacolo era in platea”. Non riusciva a capire come i romani  nel fine settimana si sobbarcassero a file interminabili inscatolati nelle auto verso Ostia e le altre spiagge vicine per il miraggio del mare pagato a caro prezzo.  Detestava questo come il traffico cittadino,  per il resto amava tutto di Roma, anche una certa indolenza dei romani, “E’ segno della saggezza di Roma”, diceva.

Il personaggio radiofonico è stato rievocato da Angelo Melloni della Rai, che ha lavorato per il recupero delle sue trasmissioni e delle sue presenze alla radio  inserite nelle iniziative celebrative.  Preziose le considerazioni di Sordi alla radio su se stesso come attore cinematografico, “nel tempo si possono notare i cambiamenti della voce da quella più squillante giovanile a quella pastosa della maturità”. Nella sala echeggia la sua voce, è il celebre saluto ai “compagnucci della parrocchietta”.

Ha chiuso la presentazione il sindaco Gianni Alemanno, che dopo aver sottolineato anche lui gli aspetti salienti del suo rapporto con Roma, ha tenuto a sottolineare che “nelle sue interpretazioni cinematografiche anche alcuni personaggi negativi  hanno uno scatto d’orgoglio, si va dal finale patriottico di ‘La grande guerra’, in cui si immola con Gassman, alla resipiscenza dell’ufficiale che muta atteggiamento dicendo un sofferto ‘non si può sempre scappare’: è il pieno  riscatto anche da comportamenti negativi, che può essere di insegnamento ai giovani d’oggi”.

Le considerazioni del sindaco riportano alla filmografia di Sordi, vastissima ma con un filo conduttore che è stato valorizzato da lui stesso nella composizione,  per una  indimenticabile serie televisiva, di spezzoni dei suoi film uniti nella “Storia di un italiano”. E’ stato stupefacente notare come pur se composti con diecine di storie diverse, formavano un omogeneo lungometraggio, anzi un lunghissimo metraggio, nel quale si dipanava come in un avvincente romanzo d’appendice, il carattere dell’italiano, spesso pronto a compromessi non commendevoli ma con dei valori di fondo che quando si superano certi limiti vengono fuori con forza: il riscatto di cui ha parlato Alemanno.

Non resta che partecipare alle manifestazioni presentate dall’assessore Gasperini , che non sempre richiedono  appuntamenti precisi. Sarà la vita quotidiana a mescolarsi al ricordo dell’attore, attraverso la sua voce nel sistema di trasporto romano, in particolare nelle stazioni della Metropolitana; inoltre la sua immagine, che verrà proiettata sul Colosseo mentre si sente la sua voce che ricorda l’attore del cinema, lo farà essere  presente nel cuore della sua Roma.  Come è  rimasto sempre nel cuore dei romani e di tutti gli italiani dei quali è stato l’espressione autentica.

Info

Le iniziative dal 14 al 25 febbraio – delle quali sono indicate nel testo ubicazione, date e orari – sono promosse da Roma Capitale, – Assessorato alle politiche Culturali e Centro storico e dalla Fondazione Alberto Sordi con il supporto organizzativo di Zètema Progetto Cultura, la mostra al Vittoriano è realizzata da “Comunicare Organizzando”.

Foto

Le immagini sono state fornite  da Zètema che si ringrazia, con i titolari dei diritti.  In apertura l’immagine-logo; seguono due bozzetti dei costumi per “Il Marchese del Grillo” della costumista del film Diana Gissi; in chiusura un bozzetto dello scenografo del film Lorenzo Baraldi,  i bozzetti sono esposti nella mostra al Vittoriano “Alberto Sordi e la sua Roma” dal 15  febbraio al 31 marzo 2013.  

Lorenzo Baraldi,  scenografo,  Bozzetto di scenografia per “Il Marchese del Grillo”

Rinascimento, 1. Michelangelo e Raffaello a Roma, al Palazzo Sciarra

di Romano Maria Levante

Il tema del Rinascimento romano è di tale interesse da richiedere che non vada dimenticata la grande mostra promossa dalla Fondazione Roma e realizzata con  “Arthemisia”,“Il Rinascimento a Roma, nel segno di Michelangelo e Raffaello”, svoltasi al Palazzo Sciarra al Corso, dal 25 ottobre 2011 al 12 febbraio 2012. Le  200 opere in 7 sezioni hanno consentito  un’immersione nella  storia dei pontificati da Giulio II e Leone X a Paolo III, attraverso Clemente VII, in un’epoca di grande fervore artistico per la presenza dei due sommi artisti e poi dei seguaci  La rievochiamo a un anno esatto dal giorno fissato per la chiusura, poi prorogato per la sua importanza e il suo successo, rivivendo un periodo tanto significativo e fissando così le impressioni di quell’evento.

Raffaello Sanzio, “Autoritratto”, 1509 

Dopo l’inaugurazione con “Roma e l’Antico nella visione del ‘700”, a Palazzo Sciarra è tornata, a fine ottobre 2011,  ‘esplorazione storico-artistica frutto di un’accurata ricerca sul ‘500 romano: un’irripetibile temperie artistica stimolata dalla  presenza contemporanea di  Michelangelo e Raffaello e sviluppatasi nei seguaci ed epigoni lungo il corso del secolo.

Alla base di queste iniziative c’è la strategia espositiva della Fondazione Roma così delineata dal presidente Emmanuele F. M. Emanuele: “Dipanare  con una serie di mostre un percorso quasi pedagogico che consenta ai visitatori di comprendere la magnificenza dello sviluppo della produzione artistica della Città Eterna a partire dal Quattrocento, momento in cui essa rinasce con il ritorno dei Papi dall’esilio di Avignone per avviarsi, secolo dopo secolo, con uno splendore crescente, a diventare il punto di riferimento nuovamente, e questa volta non solo per motivi politici e militari, ma squisitamente artistici del mondo intero”. Di questo percorso il bellissimo Catalogo di Electa, coordinato dai curatori della mostra Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli con i preziosi saggi di insigni studiosi, offre un’inedita ricostruzione sul piano storico-artistico; il suo interesse si accresce con la mostra chiusa perché ne rappresenta una testimonianza  insostituibile.

Il ‘500, in cui si manifesta il Rinascimento a Roma, è per la Città Eterna l’anello centrale tra il ‘400 e il ‘700 già presentati nelle precedenti mostre della Fondazione: un faro luminoso oscurato solo momentaneamente dal Sacco di Roma del 1527, allorché  fu devastata dai Lanzichenecchi, la popolazione dimezzata fino a 25.000 abitanti, gli artisti costretti ad abbandonare la città.

La mostra ha avuto il merito di ricostruirne i diversi momenti nel “percorso quasi pedagogico” di cui ha parlato il presidente Emanuele articolato in 7 sezioni  corrispondenti allo sviluppo sul piano artistico e non solo cronologico. Ha avuto anche il merito di aver accompagnato la sua complessa preparazione con una campagna di restauri  – non limitati alle tele esposte ma estesi ad affreschi, codici e reliquari – che ha riportato all’antico splendore opere di Raffaello e Francesco Salviati, Muziano e Garofano, e la  “Pietà di Buffalo”  attribuita a Michelangelo.

Secondo  Vittorio Sgarbi, in un commento colto al volo all’inaugurazione, con Rinascimento si esprime il sentimento di allora, “che l’antico non era morto ma lo si vedeva rimodellarsi e rinascere”, o in altri termini che “morta Roma antica, rinasceva nella Roma moderna, in cui convivevano a pari livello il nuovo e l’antico”. Lo si vede anche nell’architettura dove – secondo il saggio nel Catalogo di Marcello Fagiolo e Maria Luisa Madonna – “la Roma del Rinascimento è anzitutto un ponte lanciato tra l’antico e il moderno nel duplice segno della Roma instaurata e della Roma sancta, per realizzare il sogno umanistico del restauro della maestà imperiale trasmessa al nuovo ruolo di capitale dello stato pontificio e di rappresentante della ecclesia militans”.

Entriamo così nel vivo delle vicende storiche strettamente legate a quelle artistiche perché i Papi dell’epoca sono stati i grandi mecenati che hanno dato l’avvio al Rinascimento romano. Siamo nel “secondo Rinascimento”, dopo “Il Quattrocento a Roma. La Rinascita delle arti da Donatello a Perugino”,  scrivono  Bernardini e  Bussagli ricollegandosi alla mostra della Fondazione Roma che ha preceduto quella su “Roma e l’Antico nella visione del ‘700”.

E’ un periodo che si conclude con il pontificato di Paolo III della famiglia Farnese il quale, nelle parole dei curatori, “fu non solo l’austero riformatore della Chiesa e il fiero oppositore di Carlo V  ma fu pure il collezionista d’arte, il mecenate munifico, il committente per eccellenza, il latinista raffinato. In una parola fu di nuovo uomo del Rinascimento”. La mostra,  “nel segno di Michelangelo e Raffaello”, è iniziata con la loro presenza contemporanea fino al 1520, allorché muore Raffaello e Michelangelo lascia Roma, per tornarci fino alla morte nel 1564, era  papa Paolo IV. Il primo pontefice mecenate del ‘500 è Giulio II della Rovere, che chiamò Michelangelo per la  “Cappella Sistina”  evocata  in mostra  con le “Stanze di Raffaello” mediante un sistema molto avanzato in grado di esplorarla in modo ravvicinato ad alta definizione addirittura  in 3D.

Raffaello Sanzio, “Ritratto di Tommaso Inghirani detto ‘Fedra’”, 1513 

Michelangelo e Raffaello nella Roma di Giulio II e Leone X

Perché il Rinascimento romano è “nel segno di Michelangelo e Raffaello”?  Lo dice chiaramente la curatrice Bernardini dopo aver citato il passo in cui  Giorgio Vasari parla dell’interesse degli artisti fiorentini “per vedere che differenza fusse fra gli artefici di Roma e quelli di Fiorenza nella pratica”: interesse dovuto alla rinomanza delle opere romane dei due sommi maestri, culminate nella “Cappella Sistina” di Michelangelo e nelle “Stanze” di Raffaello.

“Roma si presentava come il centro assoluto del laboratorio artistico, raggiungendo vette di straordinaria potenza figurativa”, afferma la studiosa, e ne spiega il motivo: “Michelangelo e Raffaello erano i due numi tutelari, i maestri da cui apprendere, cosicché la Maniera che si venne delineando a Roma nel corso dei decenni successivi ebbe un carattere molto peculiare, dovendosi confrontare continuamente con i due giganti dell’arte”. Con questi effetti peculiari: “L’influenza dei due maestri si diffuse ovviamente anche fuori Roma, ma fu nella città eterna che condizionò in modo sostanziale i fatti artistici. I giovani che qui giungevano, studiavano e assimilavano l’arte di Michelangelo e di Raffaello, oltre allo studio dell’arte classica, e queste tre componenti saranno costantemente presenti nelle loro opere, pur con esiti diversissimi”.

Era diversa anche la loro presenza a Roma: Raffaello aveva aperto una bottega vera e propria, Michelangelo lavorava in modo isolato. I giovani trovavano in Raffaello la possibilità di lavorare con lui e il suo  stile delicato e seducente, in Michelangelo uno stile possente con forti contenuti spirituali che esercitava una attrazione anche verso coloro che si erano accostati a Raffaello.

Gli influssi dei due maestri e in più le reminiscenze dell’antico fanno sì che le opere di quel periodo presentino evidenti differenze stilistiche, a seconda dell’influsso prevalente. Si può dire che la tendenza fosse raffaellesca, tenendo conto della bottega e del numero e livello di opere realizzate a Roma, dove Raffaello era stato chiamato nel 1508 da Giulio II per decorare le Stanze Vaticane.

Le opere di Raffaello le descrive il saggio di Alessandro Zuccari, dalla “Disputa del Sacramento” alla “Scuola d’Atene”, dalla “Cacciata di Eliodoro” alla “Liberazione di san Pietro dal carcere”; dal “Trionfo di Galatea” alla “Loggia di psiche” aVilla Farnesina, fino alla “Trasfigurazione” nella Pinacoteca Vaticana. Sulla “Scuola d’Atene”, in particolare, lo studioso scrive: “E’ la più grandiosa architettura che fino a quel momento fosse stata dipinta, e solo a Roma poteva  essere concepita, avendo davanti agli occhi le immense volte della Basilica di Massenzio, gli archi onorari e le altre vestigia dell’età imperiale.

Ma non si tratta di semplici emulazioni, perché Raffaello volle creare ‘un antico nuovo, mai visto eppure sempre più latino, imperiale e cristiano, e universale'”,  citazione da Camesasca. Nella “Cacciata” e nella “Liberazione”, continua  Zuccari, “queste composizioni rispondono ancora a equilibrati schemi simmetrici, ma esprimono un’inedita unità che concilia visivamente le divergenti tensioni; vibrano inoltre di una più teatrale animazione, anche perché ‘non è più lo spazio, ma la luce il principio divino, che ora si identifica nella vita stessa che suscita’”, brano citato dal Condivi. “Inoltre l’intensità del colore, arricchita dagli effetti crepuscolari e dal baluginare delle lampade o degli incendi, contribuisce a creare un senso di ‘vivace saturazione'”.

A questa batteria di capolavori risponde Michelangelo con la potenza delle sue sculture, a partire dalla “Pietà vaticana” che Cristina Acidini definisce “culmine del secolo uscente e viatico per la trionfale apertura del nuovo”, commissionata nel 1497 per il Giubileo del 1500; degli stessi anni il dipinto “Andata al sepolcro”.  Dal 1501 al 1508 lavorò in prevalenza a Firenze, ma a Roma fu impegnato nella “titanica e irrisolta impresa della tomba papale”, e realizzò capolavori scultorei come  il “Mosè” e “I Prigioni”, “Lia” e “Rachele”; nell’ultima parte della vita le due altre “Pietà”, “Bandini” e “Rondinini”  

E la pittura? Nientemeno che la “Cappella Sistina”, ultimata nel 1512, con la quale “impresse una svolta nell’arte dell’Occidente”, nelle parole della studiosa  che aggiunge: “Il vasto affresco immise nella pittura novità sconvolgenti: una visione illuministica multipla, un’umanità di proporzioni eroiche sforzate in pose e torsioni sfidanti, un naturalismo fantastico di luoghi  e di dettagli, una gamma cromatica audace per fulgori, contrasti, cangiamenti”. Silvia Danesi Squarzina aggiunge: “L’attenzione maggiore è rivolta all’anatomia del corpo umano, sia come momento di sereno abbandono e di contemplazione della perfezione di proporzioni del creato, sia come tensione e sofferenza indicibile” nel Cristo in croce.

La stessa studiosa  definisce Michelangelo e Raffaello”le due figure che giganteggiano, nel mirabile panorama artistico della Roma del Rinascimento. La profonda diversità fra  i due artisti si può ben comprendere e apprezzare … analizzando due iter completamente opposti. Se al Sanzio va il merito di rappresentare l’armonia, l’equilibrio e la bellezza, di una stagione felice e anche finanziariamente ricca, che si apre col pontificato di Sisto IV Della Rovere  e si chiude con quello di Leone X Medici, al Buonarroti tocca il ruolo di precorrere, con la sua personalità inquieta, turbata dalla predicazione di Savonarola, la crisi gravissima che si determina nella città e nelle coscienze dopo le tesi di Lutero (1517) e il Sacco di Roma (1527)”. E non è poco, come si può ben capire.

Sebastiano del Piombo (attr.), “Ritratto di Michelangelo che indica i suoi disegni”, 1520 

La prima sezione con i due numi tutelari e i loro primi seguaci

Nella prima sezione della mostra  si trovava quello che sarebbe il “clou” se si fosse trattato solo di una rassegna di capolavori: la mostra è stata anche questo, ma soprattutto il “percorso quasi pedagogico”  di cui ha parlato Emanuele, pertanto  i loro influssi sugli altri artisti qui interessano forse più della loro presenza diretta testimoniata da alcune opere molto pregevoli.

Per Raffaello dal famoso “Autoritratto”, 1509,  al “Putto”, 1911, un affresco su intonaco staccato alto oltre un metro, dal “Ritratto del Cardinal Alessandro Farnese”, 1509-13,  al “Ritratto  di Tommaso Inghirami detto Fedra”. 1513 circa: accomunati dal rosso porpora del mantello, il primo è in piedi e statuario, il secondo raffigurato seduto mentre scrive, lo sguardo al cielo. Erano esposte  anche tre copie da Raffaello, “Ritratto di papa Giulio II Della Rovere”, “Madonna dei garofani” e, di Bugiardini, “Ritratto di Leone X con i cardinali Giuliano de’ Medici e Innocenzo Cybo”, 1519-20. Presenti  dei suoi disegni raffinati, come il “Progetto per la Cappella Chigi” 1511,  e il “Progetto per le terrazze dei giardini di Villa Madama”, 1518.; ma soprattutto lo “Studio per il santo della Disputa”, 1509, notevole nelle forme e nelle linee di volto e panneggio.

Michelangelo era  rappresentato nel dipinto di Sebastiano Del Piombo, “Ritratto di Michelangelo che indica i suoi disegni”, 1520, il ben noto viso dalla lunga barba e un album con fogli disegnati; c’era pure una copia del “Mosè”   attribuita ad Ammannati. Per il resto soltanto uno “Studio per una figura maschile nuda seduta” e, nello stesso foglio, lo “Schema della costruzione della centina per l’impalcatura della volta della Cappella Sistina” . La sua arte era testimoniata inoltre dalla possibilità di vedere  i minimi particolari sulla volta della “Cappella Sistina”e su una parte del “Giudizio Universale” nella riproduzione virtuale dell’apposita sala multimediale, a cura dell’ENEA, insieme alla “Loggia di Amore e Psiche”  di Raffaello; e da michelangioleschi disegni di architetture, come quello del Vignola, che  ritroveremo per la cupola di San Pietro.

C’era un dipinto di Lorenzo Lotto, l‘artista impegnato con altri nelle Stanze Vaticane prima che fossero monopolizzate da Raffaello per cui lasciò Roma: si tratta  di “San Girolamo in meditazione”, 1909, il santo con i suoi libri coperto dalla cintola in giù da un mantello rosso, in un ambiente naturale composito nel primo piano e nel panorama dello sfondo.  Gli autori su cui ci soffermiamo sono, però, quelli nei quali si possono riconoscere accostamenti con l’uno o l’altro o con entrambi i “numi tutelari”: anche quelli della bottega di Raffaello, pur restando fedeli allo stile del loro maestro, erano attratti dal vigore plastico e dalla forza spirituale di Michelangelo.

Di Giulio Romano erano esposti “Cristo in gloria con quattro santi”, 1520, e “Madonna con Bambino e san Giovannino”. 1523,  in lui la Bernardini sente il linguaggio “più eroico e monumentale”; mentre  in altri della stessa scuola lo trova “più ornamentale e decorativo”. Il primo di questi era Perin del Vaga (al secolo Pietro Buonaccorsi) di cui erano esposti “Tarquinio Prisco e l’augure Atto Navio” , 1517-19, e “Sacra Famiglia”, 1540, a lui attribuito. Su questo artista che ritroveremo più avanti, quando succederà a Raffaello alla sua morte, la Bernardini  si esprime così: “Riesce ad operare una sintesi tra i due opposti linguaggi, rielaborando la composizione michelangiolesca  con un lessico raffaellesco”; e indica un ulteriore motivo di interesse della mostra, il ricercare  gli elementi più caratteristici dei due influssi. Un altro è Baldassarre Peruzzi, ritroveremo anche lui, con esposte tre opere: una “Sacra Famiglia”, 1515, dove alla dolce Madonna raffaellesca si accosta un vigoroso San Giuseppe che ricorda il Mosè; “Cerere”, 1520, viso di Madonna, “Luna e Eudimione”, 1530, con una certa forza compositiva .

Una coppia altrettanto interessante era costituita da  Sebastiano Del Piombo (al secolo SebastianoLuciani) e dal Parmigianino (al secolo Francesco Mazzola). Del primo il michelangiolesco “Cristo alla colonna”, 1537, ci torneremo più avanti,  quando diventerà protagonista. Del Parmigianino una delicata “Visitazione”, 1527, quasi un’incisione, con le due figure femminili in piedi che si abbracciano avvolte nei loro panneggi. La Bernardini sottolinea come nella sua “Visione di San Girolamo”, 1526,  per la chiesa di San Salvatore in Lauro, “rende omaggio a Michelangelo nella monumentalità delle figure, ricorda Leonardo in particolare nell’atteggiamento della mano, e riflette il messaggio di Raffaello nella grazia e nell’eleganza delle  sue forme e nella chiarezza dell’impostazione”.  Ecco  come trasformare le influenze in propri  pregi stilistici e compositivi.

Abbiamo ancora due coppie di artisti, Girolamo Genga,  di cui era esposto “Lo sposalizio mistico di santa Caterina”, terzo decennio, e Domenico Beccafumi, con “Testa di giovane”,1530-35; poi Alonso Berruguete, con la “Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Elisabetta”, 1508-14 e  Pedro Machuca, con la “Sacra Famiglia”, 1518:  nelle due ultime opere,  arrischiando la ricerca degli influssi, ci è parso di trovare raffaellesca la Madonna e michelangiolesco il Bambino.

La prima sezione si concludeva con tre dipinti del Garofalo (al secolo Benvenuto Tisi), due di tipo religioso,  “Madonna col Bambino in gloria e i santi Francesco d’Assisi e Antonio di Padova”, 1528-29, e “Cristo e la Samaritana al pozzo”, 1550; uno di tipo cavalleresco “Pico trasformato in picchio”, 1535, un impianto complesso su più piani del tipo di quello già visto in “Luna e Endimione” di Baldassarre Peruzzi. La ricerca  degli influssi e delle analogie continua.  

Termina così la prima parte della rievocazione della visita, dopo aver accennato ai caratteri salienti della fase storica dove l’arte a Roma era dominata dai due “numi tutelari”. Nel 1527 ci fu il Sacco di Roma, poi il ritorno degli artisti allontanatisi dalla città devastata. Le sezioni successive erano dedicate al Rinascimento e il rapporto con l’antico, la Riforma di Lutero e il Sacco di Roma, i fasti farnesiani e la Basilica di San Pietro, la maniera di Roma a metà secolo e gli arredi. Ci torneremo presto, per ricordare come si dispiega la storia cittadina intrecciata all’arte di un secolo irripetibile.

Info

Catalogo: “Il Rinascimento a Roma. Nel segno di Michelangelo e Raffaello”, a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli, Electa, 2011, pp. 360, formato  24  x 28, euro 45; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.I successivi due articoli sulla mostra usciranno, in questo sito, il 14 e 16 febbraio 2013, ciascuno con altre 4 immagini.

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Le immagini sono state fornite da “Arthemisia” che si ringrazia, con la Fondazione Roma Arte-Musei e i titolari dei diritti.  In apertura  Raffaello Sanzio, “Autoritratto”, 1509; seguono Raffaello Sanzio, “Ritratto di Tommaso Inghirani detto ‘Fedra’”, 1513 e  Sebastiano del Piombo (attr.), “Ritratto di Michelangelo che indica i suoi disegni”, 1520; in chiusura  Michelangelo Buonarroti, “Apollo-Davide”, fine 1530.

Michelangelo Buonarroti, “Apollo-Davide”, fine 1530

Quirino, 2. Retrospettiva “Stagione del Sorriso” 2011-12

di Romano Maria Levante

Abbiamo già ricordato le grandi iniziative della stagione precedente quella attuale: dalla riapertura dopo otto anni del Quirinetta con un Cartellone e un’Accademia internazionale d’arte drammatica; al programma d’avanguardia “Mad Revolution” con creazioni innovative e avanzate; da “Autogestito”, una settimana di “performance” di gruppi selezionati, fino alle attività di valore civile come “In scena diversamente insieme” e “Teatro Ragazzi”, per figli e famiglie.  Ora il cartellone  “La Stagione del Sorriso” 2011-12,  13 spettacoli da ottobre 2011 a giugno 2012.  Come il precedente articolo anche questo è illustrato con immagini degli spettacoli in corso e in programma della stagione attuale di cui, nelle didascalie, si ricordano le date fino a maggio 2013.

“La governante”

“La Stagione del Sorriso”  da ottobre a dicembre 2011

Iniziò con  Raffaele Paganini, dal 4 al 16 ottobre 2011, in “George Gershwin… Diario di un americano a Parigi”,  una partenza folgorante dove la finzione si mescolava alla realtà del musicista che, non ancora trentenne, soggiornò veramente a Parigi, affascinato dalla musica di Ravel e dalla cultura europea.  Non si può non ripensare al film di Vincente Mannelli con Gene Kelly, entrato nella memoria personale e collettiva, ma il libretto di Riccardo Reim animato dalle coreografie di Luigi Martelletta  con il riferimento diretto all’esperienza parigina trasforma la commedia musicale, già emozionante, in un viaggio nell’anima e nel talento dell’artista con la creatività e la gioia di vivere nonostante il presagio della prematura fine.

Un solo giorno di sosta, come è stato quasi sempre per l’intera stagione, e dal 18 al 30 ottobre ecco sul palco Massimo Ranieri, in “Chi nun tene curaggio nun se cucca ch’e femmene belle”. Protagonista un artista poliedrico e popolare che garantisce un’esplosione di vitalità toccando diverse corde, dalla canzone alla recitazione, dal ballo all’acrobazia, una gamma completa. I motivi sono stati i più vari, dall’umorismo all’ironia, dalla comicità alla commozione, dall’orgoglio alla solidarietà. Scenette e monologhi intrecciati ai canti intorno al tema del coraggio, come nel titolo,  rovesciando valori consueti: non si celebrano gli eroi e i vincitori ma i deboli e i “vinti”  che abbiano la capacità di sognare dando così corpo all’evangelico “gli ultimi saranno i primi”. Un bella prova d’attore del suo calibro ben sperimentato ma capace sempre di sorprendere.

I primi venti giorni del mese successivo, dal 1° al 20 novembre, è sceso in campo, è il caso di dirlo, Geppy Gleijeses con “L’affarista”, un classico di Honoré de Balzac, in coproduzione con il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, al suo fiancoMarianella Bargilli  per  la regia di Antonio Calenda. Mercadet “mosso da una sorta di libido del denaro, che vive come una nevrosi esistenziale” attende invano il socio Godeau fuggito con la cassa. E’ una figura dell’oggi, e questo ha dato impulso alla produzione dello spettacolo: “Oggi, signora, tutti i sentimenti svaniscono e il denaro li sospinge. Non esistono più interessi perché non esiste più una famiglia, ma solo individui… se riuscite a far fortuna senza suscitare lamentele, diventate deputato, o ministro”.

Dal 22 novembre al 4 dicembre lo spettacolo scritto e interpretato da Filippo Timi, che al titolo “Favola” aggiungeva  un tocco di ansioso mistero con “C’era una volta una bambina, e dico c’era perché ora non c’è più”.  Con il  protagonista c’erano “due donne, due amiche, due impeccabili mogli e un terribile e scabroso segreto da nascondere”; e diventava più fitto il mistero evocato nel passaggio dal sorriso della favola all’asprezza della vita nella quale “una notte magica di Natale busserà alla tua porta, e nulla sarà mai più come prima”. “Ogni uomo è una trappola”, dice Mrs Fairytale, “Dobbiamo imparare ad essere cattive” esclama Mrs. Emerald,  per poi concludere “Ho paura, ti prego abbracciami”. E l’amica: “Vieni qui, tesoro mio”. Un invito per gli spettatori.

Dopo questo intermezzo moderno, dal 6 al 18 dicembre  William Shakespeare  nel classico “La bisbetica domata” , protagonisti Vanessa Gravina ed Edoardo Siravo,  con le musiche di Goran Bregovic a la regia di Armando Pugliese. Il teatro nel teatro, nel prologo la stessa beffa fatta al carbonaio (qui calderaio) nel “Marchese del Grillo” interpretato da Alberto Sordi. Un misto di comicità e riflessioni, le due facce della vita. Tre i mondi che si intrecciano nella commedia: quello popolare del calderaio rappresentato con realismo, il mondo della scena proiettata in un futuro immaginifico da “anni sessanta”, infine l’ambiente domestico dove il  caparbio Petruccio  che ha conquistato l’irrequieta Caterina  cerca di domarla tra i suoi “servi ibseniani”.

Con “Le bugie dalle gambe lunghe” , dal 26 dicembre 2011 all’8 gennaio 2012, si  passò al nuovo anno. Il testo che Eduardoscrisse  nel dicembre 1946 subito dopo “Filomena Maturano”, messo in scena dalla compagnia di Luca De Filippo che ne è stato regista e interprete con 11 attori. Ritornato a grande richiesta dopo il successo della precedente stagione dovuto anche all’attualità del tema della verità e della menzogna.  Gli intrighi delle coppie intorno a un uomo semplice e onesto lo portano alla fine a rinunciare alla difesa della verità e ad adeguarsi amplificando le menzogne.  Le bugie con le gambe corte sono dei bambini; hanno le gambe lunghe – disse Eduardo –  “le bugie che tutti noi dobbiamo aiutare a camminare per non far cadere l’impalcatura della società”.

“Il fu Mattia Pascal” 

Da gennaio a maggio 2012 con il sorriso

Il  primo mese del 2012 si chiuse con Giuliana De Sio, dal 10 al 29 gennaio, nello spettacolo di Woody Allen“La lampadina galleggiante”, regia di Armando Pugliese, definito “una favola postmoderna, semplicissima e illuminante al tempo stesso, delicata e divertente, pervasa da un umorismo sottile e intelligente”. E’ un’aspra critica al mito del “sogno americano” le cui anomalie si riflettono nella crisi esistenziale di una famiglia che vede fallire le ambizioni dei componenti in un’atmosfera metafisica fatta di amare realtà cariche di simboli. Con  un Woody Allen inedito: “Qui è tutto diverso, più intimista e solitario, l’ironia è leggera, amara, sconsolata; i personaggi inseguono qualcosa che non trovano mai, e i loro sogni svaniscono in uno straziante senso di impotenza”.

Dalle crisi esistenziali  americane a quelle italiane dal 31 gennaio al 19 febbraio con  Giobbe Covatta ed Enzo Iachetti, in “Niente progetti per il futuro”, testo e regia di Francesco Brandi.  I protagonisti disegnati sulle qualità sceniche dei due popolari personaggi, il garagista semplice e concreto, ma con velleità filosofiche, e il Vip televisivo opinionista tuttologo, ma egoista ed egocentrico, si incontrano su un ponte di periferia, dove hanno deciso di togliersi la vita: il garagista perché tradito dalla fidanzata, il personaggio televisivo perché vede la sua carriera distrutta e si sente trascurato anche dalla “starlette” di successo che ha sposato da poco. Dall’incontro tra le disperazioni personali espressione di due mondi lontani il dramma che sfocia in commedia.

Non poteva mancare Luigi Pirandello, l’opera in scena dal 21 febbraio all’11 marzo era “Questa sera si recita a soggetto”, con Mariano Rigillo e Anna Teresa Rossini, regia Ferdinando Ceriani.  Il titolo ne riassume il ben noto contenuto, al centro il mondo del teatro, con i suoi conflitti: l’autore sopraffatto dal regista, questo dagli attori, loro dal pubblico, finché non prevalgono i personaggi. E’ stato presentato come “una grande struttura funambolica in perenne equilibrio tra illusione e verità che può riassumersi proprio in questa breve esclamazione dell’autore: ‘Tutto il teatro recita’”.  In effetti avevano un ruolo anche le luci e il sipario utilizzato per dividere o riunire secondo i momenti il pubblico e il palcoscenico dove si monta e si smonta la macchina teatrale, “potente affresco di vita”.

L’alternanza tra l’intensità classica e la leggerezza moderna portò alla ribalta, dal 20 marzo al 10 aprile,  “Il Catalogo” di Jean Claude Carriére, traduzione e regia di Valerio Binasco, titolo che trattandosi di un noto Don Giovanni della Parigi bene ricorda quello mozartiano. Interpreti Isabella Ferrari ed Ennio Fantastichini, definiti dal produttore Tumminelli “un binomio davvero perfetto, artisticamente in grado di abbinare capacità, classe ed originalità”. E’ una storia di  solitudine e incomunicabilità tra il seduttore impenitente che ha catalogato in un album le proprie conquiste e l’intraprendente Suzanne che si installa nella sua casa sovvertendone la vita. “Tutto si gioca nel dialogo tra un solo uomo e una sola donna” sul tema classico dell’incontro fatale e imprevedibile.

Ancora leggerezza moderna unita a profonda riflessione sulla condizione umana nello spettacolo “A Santa Lucia”, dal 10 al 22 aprile,  testo inedito e musica di Raffaele Viviani, con16 attori, tra cui Lello Arena e la coppia padrona di casa Marianella Bargilli e Geppy Gleijeses che  ne è stato anche il regista. Un altro incontro tra due mondi che si incrociano fisicamente nel borgo napoletano sotto Castel dell’Ovo, da cui il titolo, in un ristorante dove “cocottes” e prostitute, ubriachi e tossicomani, nobili decaduti e poeti in bolletta entrano in contatto e si scontrano con gli abitanti del quartiere, i “luciani” così descritti da Geppy: “Arrostiti dal sole, ‘nzuariati’ dal mare, fermi nel tempo come lo scoglio”, mentre il cocainomane recita: “Così viene assopita la miseria della vita”.

Si è restati nel clima di Napoli dal 24 aprile al 6 maggio, con uno spettacolo che ne è l’epopea musicale, “Novecento napoletano” nella nuova edizione con Federico Salvatore e Rosaria De Cicco, scene e regia di Bruno Garofano. Ha vent’anni  il grande successo teatrale e musicale di un’opera che impegna 100 artisti tra interpreti e danzatori, musicisti e comparse in un “happening” fatto di quadri a tema e coreografie frutto di accurate ricerche che consentono di evitare i luoghi comuni del folklore strapaesano nell’atmosfera, qui ispirata ai pittori d’epoca; e anche il cliché della canzone napoletana fatta non di gorgheggi ma di intense interpretazioni risultato di una lettura poetica non di maniera; un’immersione in un mondo affascinante animato da arte e sentimenti.

Il gran finale dall’8 al 20 maggio con “I Rusteghi” di Carlo Goldoni, adattamento e regia di Gabriele Vacis,  con otto attori per dare corpo alla malinconica storia degli ultimi anni veneziani del commediografo, quando il successo gli aveva voltato le spalle anche per la restaurazione della Commedia dell’Arte lanciata da Carlo Gozzi. La sua crisi personale si confonde con quella di Venezia che ha fatto esaurire la fonte dell’ispirazione. Ci sono diversi “rusteghi”, oltre al mercante Pantalone in questa atmosfera:  “Cupa e vagamente claustrofobica questa commedia parla ancora al nostro tempo, all’intolleranza travestita da moralismo, alla difficoltà di mettersi in relazione, alla mancanza di comunicazione in un’epoca che proprio della comunicazione fa il proprio vessillo”.

Il marito ideale” 

La magia del teatro nella commedia umana al  Quirino

Anche il teatro è comunicazione, tra palcoscenico e platea e nella stessa platea, dove si crea una magia con opere e autori, personaggi e interpreti, e ogni sera, di fatto, “si recita a soggetto”. Del resto una “recita a soggetto” era stata anche la mattinata di presentazione, con alcuni dei principali protagonisti della stagione alternatisi sul proscenio, aprendosi al pubblico nel parlare del proprio spettacolo prima di entrare nei personaggi interpretati assumendone l’identità al posto della propria.

La magia nasce dal prestigio del teatro che evoca storiche rappresentazioni, con l’indimenticabile figura di Vittorio Gassman, un vero Pigmalione: ricordiamo al “Quirino” un suo “laboratorio” teatrale nel quale avemmo la sorpresa di riconoscere, assurta al ruolo di attrice, la bionda mascherina che l’anno precedente ci aveva accompagnato alla poltrona; nasce dalla bomboniera gremita ogni sera di pubblico con l’atmosfera suggestiva ed emozionante che sembra unica e irripetibile, invece torna con la serata successiva; nasce dall’arte degli interpreti e registi scelti  tra i mostri sacri e i giovani emergenti e dalle opere rappresentate, un  mix di grandi classici e di novità dal forte impatto.

Il titolo della stagione richiamava il sorriso, e ce n’era tanto; ma c’era anche tanta riflessione. “Iucunda oblivio vitae” e “Castigat ridendo mores”  erano  le iscrizioni che spiccavano in un piccolo teatro di provincia della  nostra adolescenza, ci sono tornate in mente dal programma della  “Stagione del sorriso”: il “Cartellone 2011-12” di cui è stata protagonista la commedia umana.

Info

Il  primo articolo retrospettivo sulla stagione 2011-12 è uscito, in questo sito, l ‘8 febbraio 2013, con 4 immagini degli spettacoli  “Il Principe di Honburg” e “La grande magia”, “Due di noi” e “La coscienza di Zeno”. Per la stagione in corso 2012-13 cfr. i 2 articoli usciti, in questo sito, il 15 ottobre 2012 con 8 immagini: il primo con“Re Lear” e “Il discorso del Re”, “Rain man”  e “La grande magia“; il secondo con “Miseria e nobiltà” e “Rain man”,”Otello” e “Cyrano di Bergerac”,  

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Le immagini degli spettacoli del Cartellone 2012-13 sono state cortesemente fornite dall’Ufficio stampa del Teatro Quirino Vittorio Gassman che si ringrazia. In apertura “La governante”, dal 16 al 19 aprile 2013; seguono “Il fu Mattia Pascal”, dal 2 al 12 maggio,  e “Il marito ideale”, dal 14 al 19 maggio 2013; in chiusura  Pippo Pattavina in “La governante”.

Pippo Pattavina in “La governante”

Caravaggio, 3. I seguaci a Roma tra il 1610 e il 1630, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

Si conclude la rievocazione, a un anno dalla chiusura,  della visita alla mostra svoltasi a Palazzo Venezia dal 16 novembre 2011 al 5 febbraio 2012, “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”, con 140 dipinti dei seguaci di Caravaggio e Annibale Carracci.  Dopo l’impostazione della mostra abbiamo descritto le prime 5 sezioni, la “Madonna di Loreto” dei due artisti a confronto, poi i seguaci di Annibale Carracci e quindi gli influssi di Caravaggio nel primo decennio del ‘600,  nelle committenze pubbliche e private. Concludiamo con i caravaggeschi del secondo decennio fino al tramonto nel terzo decennio, allorché il classicismo e il nuovo stile barocco avranno il sopravvento.

Cecco del Caravaggio, “Giovane musicista in una bottega di strumenti musicali”, 1615 

Abbiamo terminato il racconto degli influssi di Caravaggio nel primo decennio del ‘600 commentando l’opera del francese Regniér come interprete di un caravaggismo il cui massimo esponente era Bartolomeo Manfredi che – scrive Rossella Vodret, ideatrice e curatrice della mostra, – “con la sua ‘manfrediana methodus’ divenne il più popolare divulgatore dei modi caravaggeschi, attirando nella sua orbita soprattutto i giovani francesi arrivati in massa a Roma nel primi anni della seconda decade”.

I caravaggeschi italiani del secondo decennio

“Incoronazione della Vergine con i santi Giovanni Battista, Maria Maddalena e Francesco” è l’opera dell’artista che era esposta nella sezione riservata alla committenza pubblica, quella dall’allestimento spettacolare con il profilo di  altari  sopra i quali si ergevano le grandi tele. “L’anomalia che ha impedito, fino a pochi anni fa, l’identificazione dell’autore sta proprio nella mancata  corrispondenza dell’opera con la ‘maniera notturna’ di Caravaggio”, commenta Massimo Paolini. In effetti, Manfredi veniva  considerato più notturno di Caravaggio e poco propenso alle pitture sacre: “Tutto quello che si conosceva di lui si svolgeva dopo il tramonto, nell’ora e nei luoghi delle taverne, e anche i rari episodi di Vangelo che aveva rappresentato si volevano scelti con cura tra quelli serali o ambientati nei recessi più bui delle galere”. Invece l’Incoronazione della Vergine  non ha nulla di oscuro, le figure sono su due piani, sopra il livello divino, sotto quello terreno, divisi da una spessa nuvola, non c’è nero nel fondo ma una luce calda in alto e fredda in basso. Di caravaggesco il forte realismo delle figure e qualche balenìo della luce, lo ritroveremo nelle committenze private e come riferimento per i giovani francesi. Anche qui non c’è mera imitazione ma adesione stilistica e contenutistica sovrastata comunque dalla  personalità dell’artista.

Lo stesso avviene per Orazio Gentileschi, già incontrato tra i primi caravaggeschi, per il secondo decennio era esposto “San Francesco riceve le stimmate”, dai contorni chiari e dalle lunghe ombre: secondo Michele Nicolaci “l’illuminazione, pur mantenendo una connotazione fortemente naturalistica, risulta nello stesso tempo emanazione della presenza divina, secondo una lettura stratificata del significato simbolico della luce, propria peraltro di Caravaggio”. 

Abbiamo ritrovato Carlo Saraceni, in “San Bennone recupera le chiavi dal ventre del pesce”. Laura Bartoni nota “alcune analogie con la tecnica caravaggesca, come l’utilizzo di incisioni, ma distanziandosene invece nella stesura del colore”; nella  composizione “il forte chiaroscuro  contribuisce alla resa drammatica dell’episodio miracoloso, animato da una luce mobile”.

Altri artisti le cui opere erano esposte nella sezione della committenza pubblica sono Giuseppe Vermiglio e Tommaso Salini, David de Haen e Dirck Van Baburen, lo Spadarino (al secolo Giovanni Antonio Galli)  e l’Orbetto (al secolo Alessandro Turchi). Tutte opere in materia religiosa, con i caratteristici effetti di luce caravaggeschi e  un forte realismo pur nelle figure rituali.

Ma passiamo alla sezione con la committenza privata nel secondo decennio del ‘600, è molto nutrita e si può dire che per individuare le derivazioni caravaggesche non occorrono sofisticate analisi critiche, come per le opere precedenti.  Ecco Bartolomeo Manfredi, di cui prima abbiamo commentato un dipinto non corrispondente alla “maniera notturna”, che con “Bacco e un bevitore” mostra l’applicazione del “”Manfrediana methodus”, prima “caravagensis methodus” che consisteva nel prendere le figure tipiche – dai bevitori ai musici, dagli zingari ai giocatori – per rappresentarle “attraverso quella ‘maniera addolcita’ di aderire alla realtà cruda  di Merisi”. E certamente l’immagine di Bacco  ridente, diverso dal “Bacchino  “malato” ne è un esempio,  

Un’altra opera di Manfredi  richiama l’Incoronazione della vergine,  nella composizione su due livelli separati da una nuvola, e nei colori: si tratta del “Sacrificio di Isacco”,  Francesca Paculli  spiega che questa e l’altra opera appartengono al primo periodo allorché seguiva altri modelli prima di essere totalmente preso da Caravaggio fino a divenire “più notturno” di lui. A questa seconda fase appartiene “Madonna con Bambino”, nella quale “deriva da Caravaggio l’idea di far emergere dall’oscurità i corpi della Vergine con il Bambino in primo piano  attraverso il fascio di luce dorata  che proviene da destra”; ma nel contempo “il dipinto esprime  un fare più raffinato”.

Troviamo pittori italiani delle più varie provenienze, oltre ai bolognesi e ai toscani che abbiamo citato nella seconda parte della nostra cronaca della visita alla mostra.  Da Napoli viene Battistello Caracciolo, del quale sono esposte due opere: “David con la testa di Golia” ripropone il ben noto tema con uno stile caravaggesco, la luce fa emergere il corpo di Davide dall’oscurità, e schiarisce anche il volto mozzato di Golia evidenziando i forti contrasti nelle espressioni dei due visi così diversi. In “Amore dormiente” il corpo completamente nudo balza anch’esso dall’oscurità, la critica più recente ha visto richiami al dipinto di Caravaggio e alla statuaria classica.

Di Bartolomeo Cavarozzi, da Viterbo, la “Sacra Famiglia”, opera “caratterizzata –  nota Francesca Pasculli –  dall’indagine naturalistica in chiave caravaggesca e dominata da un’attenzione alla riproduzione sofisticata del reale”, che consiste in “una stanza dominata dal buio,  pochi gli elementi paesaggistici, l’attenzione del pittore è focalizzata esclusivamente al  gruppo sacro, in primo piano”. C’è anche “San Girolamo nello studio”,del quale la studiosa sottolinea “l’aspetto ‘narrativo’ che l’artista  vuole conferire alla composizione” come nell’opera di Caravaggio, dove sul nero della stanza la luce fa risaltare il santo e i libri sul tavolo e nelle mani.

Anche il bolognese Leonello Spada si è cimentato con “San Girolamo”,  in una inconsueta immagine seduto di profilo su sfondo nero mentre scrive  su un grande quaderno. In “San Giovanni evangelista” – osserva Giorgio Leone – “i particolari compositivi e cromatici  uniscono ascendenze carraccesche e suggestioni caravaggesche” e qualche residuo tardo manieristico”.

Di “Giuseppe spiega i sogni dei prigionieri” del marchigiano  Giovanni Francesco Guerrieri,  Barbara Guelfi, citando  Melasecchi, scrive: “Si tratta della sua opera più caravaggesca, sia per la gestualità delle figure, sia per l’incidenza della luce e il realismo spinto dei numerosi dettagli che arricchiscono la scena”. Nel  suo “La Maddalena penitente”  c’è quello che Pizzorusso ha definito un “incunabolo di luce caravaggesca”; inoltre, secondo Melasecchi citato dalla Guelfi, “la potente illuminazione che evidenzia la spalla e il braccio della fanciulla, come la descrizione  minuziosa dei tessuti e degli oggetti sono ormai lontane dalla capziosa eleganza e dallo stile sintetico della tarda maniera”: la rivoluzione di Caravaggio  ha conquistato l’artista.

Anche in “Compianto sul Cristo morto”  del genovese Bernardo Strozzi, le figure risaltano nel buio dello sfondo con una straordinaria gestualità nelle mani e le espressioni intense dei volti. Laura Stagno, citando Pesenti, osserva: “E’ nella scelta di questo tipo di impianto e di illuminazione che si manifesta la precoce sensibilità dell’artista  verso i modelli caravaggeschi”.

Troviamo di nuovo anche  Cecco del Caravaggio, con “Fabbricante di strumenti musicali“, nel quale Gianni Papi, a parte la costante dello sfondo scuro, coglie “nell’atmosfera ambigua esaltata proprio dall’incoerenza degli  atteggiamenti e degli elementi in gioco” e anche “nel taglio compositivo, per lo sguardo puntato sfrontatamente verso chi guarda”  un preciso riferimento alle due celebri opere di Caravaggio, “Suonatore di liuto” e “Ragazzo morso dal ramarro”.

Del romano Antiveduto Gramatica era esposto il “Suonatore di tiorba”, che Papi accosta al “Fabbricante di strumenti” di Cecco, trovandovi un’ “atmosfera fortemente caravaggesca” e sottolineandone l’alta qualità  per “la fulgida ricchezza del denso cromatismo dalla luce scura”. Anche di “Madonna con Bambino e sant’Anna”, lo stesso critico sottolinea “la temperatura convintamente e aggiornatamene caravaggesca” dell’opera e la definisce “un bell’esempio del linguaggio tipico di Grammatica, del suo colore ombroso, dei suoi bianchi luminosi che emergono sulle superfici scure e sature”. Non si potrebbe descrivere meglio l’atmosfera del quadro.

Antiveduto Gramatica, “Suonatore di tiorba”, 1611-12

I caravaggeschi stranieri, in particolare francesi e  olandesi

La sezione dedicata agli stranieri iniziava con due francesi, a parte  il “David con la testa di Golia” di un terzo francese, Nicolas Régnier, che abbiamo anticipato citandolo al termine del primo decennio. Si tratta dei giovani artisti affluiti a Roma ed entrati nell’orbita di Bartolomeo Manfredi.

Il primo è il parigino Simon Vouet, di cui era esposto il caravaggesco  “La buona ventura”, di cui Rossella Vodret – a cui risale l’attribuzione avendo scoperto la firma nel retro –  sottolinea che “dipende stilisticamente dalle coeve composizioni di Bartolomeo Manfredi, come denotano il fondo scuro e il punto di vista molto ravvicinato, nonché il carattere popolare  dei personaggi e la loro gestualità espressiva”. Inoltre potrebbe esservi un riferimento diretto alla “Buona ventura” di Caravaggio, perché –  scrive Luca Calenne – “nonostante a personaggi qui dipinti da Vouet manchino l’eleganza e la raffinata psicologia di quelli caravaggeschi, essi sono stati ripresi ‘ad vivum’, cioè dal vero, così come lo stesso Merisi avrebbe fatto per realizzare la sua ‘zingara’”.  Dello stesso autore “Amanti, con la figura maschile che emerge dall’oscurità del fondo, quella femminile di profilo in piena luce, che mostra – secondo Vittoria Markova – “la concezione personale che l’artista aveva  del linguaggio del caravaggismo, che per Vouet rappresentò il punto di partenza nella formazione di una propria maniera”.

L’altro francese è  Claude Vignon, con il “Martirio di san Matteo”, del quale Paola Bassani Patch scrive: “Come non riconoscere della tela di Arras una precisa filiazione del quadro omonimo di Caravaggio per la Cappella Contarelli?” Ma aggiunge che l’autore “sfida e rifiuta il modello di Merisi”,  in particolare “ricorre certo ancora una volta al chiaroscuro, ma non nega colori e impasti”, il risultato è che “l’immagine non dà tregua allo spettatore e sembra quasi rovesciarglisi addosso in tutta la sua ferocia e sconcertante rozzezza”.

C’era  poi Jusepe de Ribera, con due opere, “San Gregorio Magno” e “Negazione di san Pietro”: del secondo, ritenuto di cultura francese, Brejon de Lavergnée e Cuzin   hanno sottolineato – ricorda Gianni Papi – “la temperatura fortemente caravaggesca  e il rapporto compositivo con la “Negazione di san Pietro”  eseguita da Caravaggio nei suoi ultimi mesi napoletani”.

Ma ecco la carica degli altri stranieri, cominciamo da Louis Finson, di Bruges, con le opere che più caravaggesche non potrebbero essere, addirittura “Autoritratto” richiama platealmente il “Bacchino malato”:  Francesca Pasculli sottolinea “l’assimilazione di modelli e motivi caravaggeschi elaborati in questo caso secondo il linguaggio proprio della  pittura olandese”  e, citando Capitelli,  nota “l’elaborazione della resa plastica, un tono grottesco e beffardo”. Altrettanto in “Maria Maddalena in estasi”  il caravaggismo è tale da essere stato ritenuto prima opera di Caravaggio e poi copia di un suo dipinto sul tema, era a Napoli dove si trovava anche Finson.

Seguiva Dirck van Baburen, con due opere religiose: “San Sebastiano curato da  sant’Irene e la sua ancella”  e  “Cattura di Cristo con l’episodio di Malco”.  Nel primo – scrive Valentina White- “l’artista, in linea con  le soluzioni proposte da Caravaggio, affronta il soggetto  selezionando nell’ambito del racconto sacro il momento di più alta intensità drammatica, funzionale a ottenere un maggior coinvolgimento emotivo” . Nel secondo “è evidente il  riferimento al Martirio di san Matteo  di Caravaggio per la Cappella Contarelli”.

Di Giusto Fiammingo, oltre ad  “Angelo con i chiodi della passione di Cristo”  – caravaggesco soprattutto nelle luci e ombre  –  era esposto “La fuga del giovane nudo dopo la cattura di Cristo”,  figura evangelica cui diede molto rilievo D’Annunzio identificandosi nel “giovane della sindone” del Vangelo di Marco quando gli apostoli fuggono all’arresto di Cristo:” Vi fu però un giovane che lo seguiva, con il corpo nudo avvolto in un lino, e lo presero. Ma lui lasciata la tela di lino fuggì nudo”. Vedere l’immagine tanto cara al Poeta è  motivo di emozione per chi vi si è appassionato.

Non poteva mancare “Giuditta con la testa di Oloferne”, è di Gerard Seghers : “La luce, oltre a costruire plasticamente la scena, osserva Celeste Napolitano, contribuisce ad aumentare l’effetto drammatico della stessa”, e questo è caravaggesco, oltre al volto dell’anziana; mentre il profilo della giovane “ha un aspetto classico, vicino più all’arte dei Carracci e dei loro seguaci bolognesi  che al realismo caravaggesco, che dimostra addirittura un’ispirazione archeologica”.

Pietro Paolini, “Cantore”,  1625

I seguaci di Caravaggio del  terzo decennio e la dissolvenza

Con il ritorno dei Carracci  ed i seguaci bolognesi si entra nel terzo decennio quando i maggiori caravaggeschi vengono meno: è già morto  Borgianni,  poi muore Manfredi,  Saraceni è tornato a Venezia e Gentileschi riparte per Genova,  ritorna in Olanda Honthorst. “I loro allievi – osserva Rossella Vodret –  per non uscire fuori mercato si affrettano ad aggiornare i modelli del naturalismo alla luce della tendenza vincente: il classicismo bolognese-emiliano, a cui si affiancarono presto le nuove prepotenti istanze barocche”. Movimento “fortemente  sponsorizzato dal nuovo papa”.

Le due sezioni dedicate al decennio 1620-1630, per le opere pubbliche e private,  erano molto nutrite, presentavano una trentina di artisti, dei quali ricorderemo  i nomi, soffermandoci soltanto su coloro che erano presenti con più opere, a cominciare da  Trophime Bigot, con cui iniziamo quest’ultima rassegna perché è ancora fortemente caravaggesco: vediamo “Giuditta e Oloferne” e “San Francesco d’Assisi in preghiera”, in entrambi la luce emessa da una candela è protagonista perché crea gli scorci soprattutto dei volti e dei corpi sul  nero profondo delle composizioni.

Segue Nicolas Tournier con “Giovane uomo con bicchiere” e “Sinite parvulos” , quest’ultimo definito da Brejon de Lavergnée. “permeato di classicismo” pur nella luce caravaggesca.

Luce che c’è anche in Pietro Paolini, “Ritratto d’attore” e soprattutto “Cantore”, nel quale si aggiunge lo straordinario volto con la bocca spalancata , che ha vistosi  precedenti caravaggeschi

Nelle due opere di Giovanni Serodine, “Elemosina di san Lorenzo”  e “Commiato dei santi Pietro e Paolo condotti al martirio”, Mariella Nuzzo trova l’influsso di Caravaggio nello “schema dispositivo delle figure”  e nella “disgregazione dei volumi per mezzo della luce e del colore” di cui agli “ultimi esiti delle ricerche del Merisi” .

Ancora un francese, Valentin de Boulogne,  “Negazione di san Pietro” è caravaggesca nella composizione e nel personaggio in primo piano, ma la Melasecchi, citata da Vittoria Markova, “ravvisa giustamente l’influsso degli artisti bolognesi che giungevano a Roma, in primo luogo di Guido Reni”. Con “San Giovannino”  l’influsso caravaggesco si attenua,  per la prorompente figura del Battista, secondo Brejon Lavergnée,  “il giovane Valentin ha a disposizione numerose fonti di ispirazione sia passate che recenti: egli vagheggia Leonardo, Raffaello e Bronzino, ma anche le creazioni di Caravaggio e Guido Reni”. Lo stesso critico, nel commentare “Ultima Cena”, il terzo dipinto esposto, sottolinea che il tema, “così importante per i cristiani, non era stato mai affrontato da Caravaggio né da Manfredi e l’artista francese ne propone una versione del tutto personale, umana  e commovente”.

In “Concerto” del Rustichimo (al secolo Francesco Rustici), – osserva Vittoria Markova – “non vediamo la fonte di luce, ma è evidente che ci troviamo  di fronte a una scena notturna con illuminazione artificiale”. La luce, invece, è violenta  in “Morte di Lucrezia”, su cui Rossella Vodret  scrive: “Il dipinto evidenza in modo chiaro come Rustici non avesse assimilato ‘in toto’ la lezione cavaraggesca, bensì invece come egli abbia saputo prendere da essa quelle soluzioni formali capaci di affascinare lo spettatore, e accostare a questo linguaggio, frutto della sua elaborazione personale, il luminismo proveniente dalle sperimentazioni nordiche di Gerrit van Honthorst”.

Le due opere di Angelo Caroselli,il grande  “Morte di san Gregorio Magno e liberazione delle anime dal Purgatorio”  e il piccolo “San Venceslao” si allontanano dal caravaggismo: resta il fondale scuro con qualche bagliore luminoso sulla tunica e la corazza e poco altro.

Concludiamo con Orazio Riminaldi,  in “I Santi Quattro Coronati” , secondo Graziella Becatti, i  “personaggi, immersi in una suggestiva alternanza luce-ombra, hanno corpi scultorei” e si richiamano alla “Manfrediana Methodus”; mentre in “Martirio dei santi Nereo e Achilleo” abbandona il fondo nero per un cielo nuvoloso. Con “l’addolcimento del caravaggismo di Manfredi e il riferimento al classicismo” di tradizione ellenica e di matrice rinascimentale.

La  galleria comprendeva tante opere singole, di artisti che ci limitiamo a citare ma sono altrettanto validi ed espressivi: Maestro di Serrone e  Cavarozzi, Francois e Nunez del Valle, Petrazzi e Stanzione,  Tanzio da Varallo e  Benci, lo Spadarino e  Rombouts,  Manetti e l’Orbetto.

E si concludeva con la spettacolare “Allegoria dell’Italia”, di Valentin de Boulogne , l’artista francese di cui abbiamo parlato, un dipinto di circa metri 3,5 per 3,30 metri  con una figura trionfante che Ripa inizia a descrivere così: “Qui la vedete in piedi, con sotto le arme una veste color porpora broccata in oro. Sull’elmo porta come cimiero il Carattere…”.; poi prosegue con la lancia puntata sul drago e lo scudo,  le chiavi e la corona. Brejon de Lavergée ricorda la severa critica di Haskell secondo cui l’immagine vittoriosa è “un tentativo piuttosto maldestro di applicare lo stile caravaggesco a un tema che non si presta molto”; ma conclude che  “si tratta invece di un grande dipinto che colpisce per la sua decisa impostazione classicista”.

Si conclude così il percorso dei  primi tre decenni del ‘600 su cui la mostra ha offerto tanti elementi per un esame approfondito: questo spirito di ricerca, insieme alla ricchezza espositiva, la fa ricordare come un evento a un anno dalla chiusura. Siamo al termine del terzo decennio,  il trionfo dell’Italia nell’Allegoria di Valentin de Boulogne è una conclusione che prendiamo come auspicio perché il Paese possa superare questi tempi difficili risorgendo trionfante dalla crisi che attraversa.

Info

Catalogo ” Roma al tempo di Caravaggio,1600-1630,  Opere”, a cura di Rossella Vodret, Skirà, Milano novembre 2011, pp. 406, formato 24 x 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sono usciti, in questo sito,  il 5 e il 7 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno.

Foto

Le immagini sono state fornite alla presentazione della mostra dall’associazione “Civita” che si ringrazia insieme alla Soprintendenza per il polo storico-artistico e museale di Roma e ai titolari dei diritti. In apertura Cecco del Caravaggio, “Giovane musicista in una bottega di strumenti musicali”, 1615; seguono Antiveduto Gramatica, “Suonatore di tiorba”, 1611-12, e Pietro Paolini, “Cantore”,  1625;  in chiusura Valentin de Boulogne, “Allegoria dell’Italia”, 1627-28.

Valentin de Boulogne, “Allegoria dell’Italia”, 1627-28

Quirino, 1. Retrospettiva delle grandi iniziative

di Romano Maria Levante

A metà della stagione 2012-13, di cui  abbiamo dato conto con due articoli al suo inizio, nell’ottobre scorso,  è bene ricordare i risultati di quella trionfale 2011-12. Lo faremo illustrando il testo con immagini degli spettacoli in corso e in programma dell’attuale stagione, “Il Grande Teatro”, creando così un ponte tra i due cartelloni.  Nel momento della crisi più profonda del Teatro Valle, orfano dell’Eti nel quale era inquadrato il Quirino di Roma, Geppy Gleijseses non solo annunciò l'”escalation” dopo il raddoppio degli incassi nel primo anno di gestione, ma lanciò il prestigioso Quirinetta come nuovo spazio di una vera stagione teatrale con un programma di 13 spettacoli e sede dell’“Accademia internazionale di arte drammatica”; confermando le iniziative teatrali culturali e sociali del 1° anno di gestione. Promesse mantenute.

Lorenzo Glejieses in “Il Principe di Homburg”

Le importanti iniziative del 2011-12  al Teatro Quirino

Il Quirinetta  è stato il “clou”, oltre alla stagione teatrale 2011-12 all’insegna del sorriso. Già  dal 24 maggio al 1° giugno 2011 ci furono intense serate con 12 spettacoli di “Autogestito” , diretto da Marianella Bargilli, la “Rassegna di Teatro Indipendente, Giovane, Curioso, Civile”. Il teatro fu  “invaso” da centinaia di giovani spettatori di una manifestazione  concepita come “vetrina e incubatrice di giovani talenti”. Consiste nella selezione di gruppi teatrali da ogni parte d’Italia,  in base al talento e alla creatività, alla serietà e alla fantasia, con la novità del premio allo spettacolo più votato da tre apposite giurie: una di attori e professori,  le altre due di abbonati al teatro e studenti delle medie superiori.  Si alternarono temi drammatici, come “Il viaggio di Nicola Calipari”  e “Bad People in Guantanamo, a temi leggeri e di  attualità come “Essere Adriano Celentano”; e poi  spettacoli di mimo e musica  con orchestra popolare e coro a sei voci fino al concerto di chiusura . In apertura ci fu la “versione ri-sorgimentale” di “Dignità autonome di prostituzione”, spettacolo fuori concorso di Luciano Melchionna dedicato all’Unità d’Italia.

E nel settembre 2011 la terza edizione di “Mad Revolution”, la manifestazione diretta da Lorenzo Gleijeses, con le “performance” dell’Avanguardia innovativa e trasgressiva,  la cui sigla Mad sta per Maestri, Avanguardie, Derive  del teatro contemporaneo, apripista di lusso del cartellone principale. Danza dell’Africa e Maghreb, dai riferimenti civili e politici, con solisti formati tra l’Africa e l’Occidente in collaborazione con i grandi dello spettacolo, quindi nulla di meramente folcloristico e tanto meno tribale, ma ancoraggio a una forte cultura locale che intende affermarsi. Il  mondo arabo era evocato dalla storia di Lawrence d’Arabia in contemporanea su due spazi teatrali romani diversi, il Teatro Quirino e il Teatro India, con l’ambizione di “essere qui e altrove, radicati e  aperti, persi nella montagna e liberi nel mare”. Per restare nella danza ci fu la serata di un grande maestro che vive fuori dell’India  con una  performance sulla danza sacra di Kerala.  Altro tema di una sacralità ben diversa “I Tre Studi per una Crocifissione”  dell’autore e performer Dario Manfredini, che si cimentò su testi dei due grandi drammaturghi Fassbinder e Koltés. E poi musiche techno e “sterzate musicali”, “cinema da camera” , anzi “tattile e incarnato”, fino a “Cerimonia” di Lorenzo Gleijeses, a suggellare il programma, “una folla festante di artisti e di discipline eterogenei che hanno come tratto comune la ricerca dell’innovazione nei diversi linguaggi”.

Si pensò anche ad abbinare cultura e solidarietà con il sostegno della Fondazione Roma-Terzo Settore, e al riguardo Geppy Gleijeses rivolse un pieno apprezzamento al presidente Emmanule F. M. Emanuele per l’impegno nella comune realizzazione di “In scena diversamente insieme”, a cura di Alvaro Piccardi, il teatro che ha come attori gli esclusi, quali disabili, reclusi e soggetti di etnie emarginate, definito “un grande progetto sociale, culturale, filantropico, educativo”. Si tratta di un laboratorio teatrale che utilizza la scena come “percorso di inserimento nel tessuto sociale”; le finalità non sono meramente assistenziali, bensì promozionali di nuovi talenti trovati dove non possono esprimersi. L’operazione si è proposta di  “valorizzare il grande patrimonio umano e creativo sommerso che vive dentro ognuno di noi, di risvegliare attitudini nascoste o sconosciute capaci di avvicinare l’uomo all’uomo e l’uomo alla sua storia”, da cui può ricevere stimoli la stessa società. Non è solo formazione, ha portato a uno spettacolo vero e proprio con effetti anche catartici. Sono stati realizzati nel 2011 tre laboratori con i relativi spettacoli: per i reclusi, coinvolti sul piano emotivo e intellettuale in un’esperienza che ha aperto le sbarre per una rieducazione e un reinserimento attraverso la presa di coscienza suscitata dalla forza coinvolgente del teatro;  per i giovani di varie etnie, per riaffermare la propria identità confrontandola con quella dei compagni di quest’avventura; per i “sordi e normodotati”, integrati  con il mezzo  teatrale che si serve, oltre al suono e alla parola,  anche del linguaggio del corpo che spesso li precede nella comunicazione.

C’era anche il “Teatro Ragazzi” rivolto alle scuole e alle famiglie con la formula “Dire Fare Vedere Teatro”. Si è cercato di istituire un rapporto non occasionale  abbinando allo spettacolo teatrale laboratori, visite guidate e incontri con gli artisti. L’intento è anche pedagogico oltre che promozionale, si presentano “spettacoli che uniscano al divertimento l’insegnamento di valori fondamentali della vita come la lealtà, la giustizia sociale, la non violenza, l’integrazione razziale, la democrazia, l’uguaglianza, la libertà, l’onestà e il rispetto dell’altro”; sono parole cui possono dare contenuti, altrimenti  ignorati,  i riferimenti alla letteratura per ragazzi, ai classici del teatro o ai temi legati all’attualità, dove si orienta la produzione dei relativi spettacoli.  Sono state coinvolte anche le famiglie con rappresentazioni nei  pomeriggi del sabato, la mattina della domenica e nelle feste natalizie, che possono vivere con i loro bambini  e ragazzi nello stesso prestigioso Teatro Quirino, quindi a parità con la stagione principale che impegna invece le serate di tutti i giorni.

La ciliegina su una torta già molto farcita sono stati gli “Eventi”, quattro spettacoli di eccellenza, due musicali all’inizio di ottobre 2011, con Pierre Santini ed Enzo Moscato; due nell’ultima decade di dicembre, una serata di balletto con Martin Zanotti e una in omaggio al cantautore  dimenticato  Umberto Bindi. Infine impegno civile: Giuseppe Ayala in “I miei anni con Falcone e Borsellino”.

Luca De Filippo in “La grande magia”

I risultati, la formula,  il significato delle iniziative e del Cartellone 2011-12

Tutto questo fu illustrato alla presentazione del  Cartellone 2011-12,  in una mattinata prima  dell’estate 2011 nell’affollata platea del Quirino, con  molti degli artisti che ne sarebbero stati i protagonisti. Il mattatore fu l’attore e regista, direttore e imprenditore teatrale Geppy Gleijeses, che espose i risultati di eccellenza: oltre 14.000 euro di incassi giornalieri, rispetto ai 10.000 della stagione precedente e ai 6.500 dell’ultima stagione dell’Eti,  il  numero di abbonati triplicato, l’occupazione dei posti in teatro salita all’87% dal già alto 75% del primo anno della nuova gestione, fino ai 3 dipendenti assunti oltre  ai 17 del personale in essere confermati a suo tempo.

“Non è stato semplice – commentò –  ma era uno dei primi teatri italiani e meritava un rilancio ulteriore”. L’inizio è stato il passaggio dall’ente pubblico Eti, poi soppresso, al gruppo privato vincitore della gara europea. Una formula che non ha trascurato il “restyling” esteriore, negli arredi, negli allestimenti e nei servizi: è un  teatro aperto 18 ore su 24, per 330 giorni, con libero accesso ad una libreria di 2500 volumi,  a musica, film e video teatrali, dove si incontrano i protagonisti, e un “bistrot”-ristoro a prezzi bassissimi molto frequentato: è “un teatro casa, un teatro popolare, non elitario, in grado di contribuire ad abbattere le barriere sociali e il dramma dell’alienazione e dell’isolamento”.  Anche per questo ” il Quirino Vittorio Gassman è per numero di spettatori il primo teatro di prosa di Roma e non solo”: i quasi mille posti furono occupati, lo si è detto, all’87%.

Chiave del successo sono stati i contenuti: l’impegno a “tenere alta l’asticella della qualità insieme alla praticabilità per realizzare quel mix che Vittorio Gassman, cui il Quirino è dedicato, chiamava ‘Teatro d’arte popolare’ e consente di utilizzare al meglio ogni sera le 960 poltrone del teatro”.

“Il teatro deve costituire una barriera contro il virus del degrado e della barbarie che viene inoculato quotidianamente nelle nostre menti”,  ha ribadito Geppy  presentando le iniziative del Quirino. Tra le multiformi attività incentrate sul teatro ha sottolineato per il suo  valore la riapertura dopo otto anni di chiusura del “Quirinetta”, lo splendido teatro disegnato da Marcello Piacentini nel 1927,iniziativa resa possibile dall’accordo con l’immobiliarista che lo detiene e con l’impresa culturale -ambientalista  di Willer Bordon, il quale ne ha parlato lui stesso: uno spazio polifunzionale con  una apposita stagione teatrale, e con la sede dell'”Accademia internazionale di arte drammatica”.

Lunetta Savinio ed Emilio Solfrizzi  in “Due di noi”

Per l’abbinamento tra cultura e solidarietà “In scena diversamente insieme” ha questo nobile intento: “Abbiamo deciso di aiutare con la cultura a migliorare gli uomini, di inserire i giovani nel mondo di un lavoro meraviglioso come questo, di favorire il reinserimento nella società italiana, di reclusi, disabili, non udenti, tossicodipendenti, di integrare tra loro con la magia dell’arte scenica, razze diverse e storicamente avverse, di creare una grande scuola con maestri di ogni nazionalità, di indicare, insomma, alla nostra Italia piagata, una strada e forse disarmonica rispetto agli indirizzi attuali: la crescita sociale e morale dell’individuo attraverso la cultura e la solidarietà”.

Ma non si pensi a un percorso serioso e paludato. Ne è stata prova il Cartellone 2011-12 del Quirino il cui titolo era tutto un programma. Dopo “La Grande stagione” del 2010-11,  “La Stagione del Sorriso”, denominatore comune dei 13 spettacoli è stata dunque la leggerezza: “Non per una fuga qualunquistica dai rovelli quotidiani – ha precisato Geppy – ma perché anche i nostri rovelli possono essere leniti dal buonumore e da un pizzico di ironia”.  E’ stato preveggente perché quando diceva queste parole non si erano ancora addensate le nubi scure che opprimono il paese, con gli effetti di una devastante crisi finanziaria tradotta in una pesante recessione economica. Il teatro così inteso diventa un farmaco, gli antichi parlavano del “tetrafarmaco”: nelle attuali angosce esistenziali e collettive, anche nella stagione passata,  è stato come  un…  salvavita.

Un impegno  notevole, nel quale rientrano le produzioni del Teatro Quirino anche con il Teatro Stabile di Calabria, e le coproduzioni con altri teatri, in tutto ben undici.  Oltre a quest’intensa attività, i programmi speciali di cui si è detto, i cui temi meritano di essere ripetuti:  il Quirinetta e “Diversamente insieme”, “Mad Revolution” e “Autogestito”, “Teatro ragazzi” ed “Eventi”.

Come si poteva suscitare il sorriso mantenendo alta l’asticella della qualità?  “Abbiamo cercato quasi chirurgicamente di offrire grandi titoli e grandi attori, registi affermati e giovani talenti, musica e sonorità nuove o familiari”, disse Geppy, presentando i suoi campioni. Lo fece anche fisicamente nella mattinata degli annunci, ricordiamo Luca De Filippo  e Giuliana De Sio, Filippo Timi e Lello Arena, Vanessa Gravina ed Edoardo Siravo, Raffaele Paganini e Musumeci Greco per il duello nello spettacolo di Massimo Ranieri, assente “giustificato” come altri  impegnati altrove. Siparietti simpatici e disinvolti sugli spettacoli da loro interpretati; sentire e vedere gli attori parlarne dalla platea confidando le loro attese ed emozioni è stato intrigante e suggestivo.

Prima di ricordare il Cartellone 2011-12  che prese avvio il 4 ottobre 2011, non possiamo non dare una rapida spigolatura fior da fiore del programma del  Quirinetta, il cuispettacolo inaugurale, per i suoi 320 posti, avvenne il 6 dicembre 2011 con Elio Germano in “Thom Pain” di Will Eno; tra i  nomi che spiccavano negli altri 12 spettacoli fino a maggio citiamo Cannavacciuolo e gli Oblivion, Maddalena Crippa e Margherita Buy, Patrick Rossi Gastaldi e Valerio Aprea. Giuseppe Battiston e Gianmaria Testa, Lucrezia Lante della Rovere e Marianella Bargilli; e gli autori Gaber-Luporini ed Erri De Luca, Roberto Saviano e Gelardi, Lunari e Massimo Sgorbani, Osvaldo Guerrieri e Concita De Gregorio. Lo spettacolo conclusivo, nel maggio 2012,fu  “Muratori”  di Edoardo Erba con Nicola Pistola e Paolo Triestino, regia di Massimo Venturiello.

A questo punto, dopo averne dato l’impostazione  e indicato alcuni dei principali protagonisti, dobbiamo rinviare l’illustrazione dei 13 spettacoli da ottobre2011  a  giugno 2012 di quella che è stata intitolata “La stagione del Sorriso”. Ne riparleremo,   inseriremo altre immagini del nuovo cartellone 2012-13, “il Grande Teatro”, quelle di grandi mattatori.

Info

Il secondo articolo restrospettivo sulla stagione 2011-12, uscirà in questo sito il 10 febbraio 2013,. con altre 4 immagini dei relativi spettacoli. Altri due articoli, sulla stagione in corso 2012-13,  sono usciti in quetsto sito, entrambi il 15 ottobre 2012,  con 8 immagini degli spettacoli fino al febbraio 2013: nel primo articolo, “Re Lear” e “Il discorso del Re”, “Rain man” e “La Grande magia”; nel secondo articolo, “Miseria e nobiltà” e  “Rain man”, “Otello” e  “Cyrano di Bergerac”.  

Foto

Le immagini degli spettacoli del Cartellone 2012-13 sono state cortesemente fornite dall’Ufficio stampa del Teatro Quirino Vittorio Gassman  che si ringrazia. In apertura, Lorenzo Glejieses in “Il Principe di Homburg”, dal 12 al 17 febbraio 2013; seguono Luca De Filippo in “La grande magia” dal 19 febbraio al 10 marzo e Lunetta Savinio con Emilio Solfrizzi in “Due di noi”, dal 12 al 24 marzo;  in chiusura,  Giuseppe Pambieri in “La coscienza di Zeno”, dal 2 al 14 aprile 2013.

Giuseppe Pambieri  in “La coscienza di Zeno”

Carracci, 2. I seguaci a Roma fino ai primi caravaggeschi, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

Dopo aver presentato la mostra “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”,  tenutasi  a Palazzo Venezia dal 16 novembre 2011 al 5 febbraio 2012cheesponeva 140 dipinti dei seguaci di Caravaggio e Annibale Carracci,raccontiamo la visita soffermandoci sui principali artisti delle due “squadre” nelle sezioni dedicate alle rispettive committenze pubbliche e private. Risalta il  delicato classicismo dei seguaci di Carracci e il forte realismo dei caravaggeschi in un confronto inedito che accresce l’interesse  oltre a quello dovuto al valore delle opere, molte mai esposte prima.

Carlo Saraceni, “Santa Cecilia e l’angelo”, 1610

Abbiamo già descritto il folgorante ingresso alla mostra con il confronto ravvicinato sulla raffigurazione della “Madonna di Loreto” rispettivamente di Annibale Carracci e Caravaggio che marcava visivamente le impressionanti differenze stilistiche e di contenuto sullo stesso tema.

Ora entriamo  nel vivo del confronto tra le “squadre” di seguaci, nello spettacolare allestimento di Pier Luigi Pizzi che valorizzava lo speciale spazio espositivo di Palazzo Venezia i cui saloni evocavano le navate delle cattedrali nelle opere di committenza pubblica;  mentre richiamavano le più discrete sale nobiliari per le opere di committenza privata. Nelle prime un fondale rosso e altari virtuali con sopra le grandi tele, nelle seconde un sobrio  fondale bianco, la moquette sempre rossa.

L’alternativa a Caravaggio degli epigoni di Carracci, 1600-1630

Cominciamo la rassegna richiamando  “La Madonna di Loreto” posta all’inizio della mostra  nelle due interpretazioni di  Annibale Carracci e Caravaggio, di analogo soggetto ma diversissimo contenuto. L’artista bolognese sfodera il suo classicismo con un’immagine maestosa e ispirata, quasi assunta in cielo con gli angeli che portano la Santa casa in un volo divino: l’artista lombardo esprime invece la profonda umanità della Vergine, in un realismo che ignora ogni elemento miracolistico e sottolinea il carattere popolare della Madonna e dei due  pellegrini, poveri e devoti.

Nessun altro raffronto diretto, di Caravaggio era esposto solo il “Sant’Agostino” di cui abbiamo già parlato, in uno splendido isolamento, anche perché era fresco di attribuzione  non ancora pacifica. Di Annibale Carracci due grandi tele: in “San Diego di Alcalà intercede per Diego Enriquez de Herrera” alla figura del santo e del suo protetto si aggiunge il Cristo in alto sopra una nuvola sorretto dagli angeli com’era la Madonna di Loreto in volo sulla Santa casa; in “Santa Margherita”, una sola figura nel paesaggio con  vegetazione, il classicismo è nel soggetto, mentre l’ambiente è improntato al naturalismo di matrice lombarda e veneta. “Lo stile, scrive  nel Catalogo Barbara Guelfi citando Dempsey, è quello caratteristico della maniera romana di Annibale, e prova come egli stesso stesse rielaborando le idee bolognesi alla luce delle esperienze romane”.

Ed ora la carica dei “bolognesi” che seguirono Carracci a Roma, nella sezione dedicata alla committenza pubblica, la più spettacolare di questa categoria e delle altre corrispettive, per la grande dimensione dei dipinti e la loro collocazione monumentale.

Il primo è Antonio Carracci, con “San Giovanni Battista nel deserto”,  per il quale vi è qualche incertezza nell’attribuzione; al riguardo Alessandro Zuccari, dopo numerosi raffronti con le tante opere sullo stesso personaggio “precursore” che con il dito alzato indica la venuta di Cristo,  afferma che la ripulitura del restauro “permette ora di apprezzare la qualità del dipinto sia sul piano compositivo sia nell’impostazione luministica  e cromatica, così da rendere più probabile l’attribuzione ad Antonio Carracci”.

Ma il più grande è forse Guido Reni, il cui “Martirio di santa Caterina” richiama nella composizione i motivi di Carracci, con gli angeli che la assistono dall’alto, c’è anche qualcosa di Cavaraggio. La Guelfi lo individua così: “Se elementi caravaggeschi sono particolarmente evidenti nella figura del carnefice, nella robustezza dell’angelo e nei decisi contrasti di luce e ombra, questi sono tuttavia ricomposti all’interno del vocabolario reniano, che ingentilisce le forme in una preziosa tessitura cromatica”.

Altrettanto il dipinto di Giovanni Lanfranco, “La Vergine col Bambino sulle nuvole con i santi Carlo Borromeo, Caterina d’Alessandria e Agostino”  per la maestosità della Madonna sospesa al centro della scena richiama il “caposcuola”, per i tratti del volto e le due sfere il Correggio “in una felicità cromatica che è tipicamente lanfranchiana”, commenta  la  studiosa ora citata.

In “Santa Maria Maddalena e due angeli”  il Guercino (al secolo Giovan Francesco Barbieri),presenta le figure angeliche non più ascetiche e sospese in alto ma vicine alla santa appoggiata a un tavolo come persone amiche, in un’atmosfera umbratile che la stessa studiosa  chiama  “romanticismo pittorico”.  Del Guercino, nei vicini Musei Capitolini  c’è stabilmente una vasta esposizione culminante nel gigantesco “La sepoltura di Petronilla”, in un’apposita sala all’ingresso della straordinaria galleria d’arte. Tornano ad essere puttini in volo come in una nuvola gli angeli che recano ghirlande per “I santi Domitilla, Nereo e Achilleo”, del Pomarancio (al secolo Cristiano Roncalli),  al centro Domitilla nella luce con lo sguardo verso l’alto, come la “Santa Cecilia” di Raffaello,  ai lati i due santi nell’oscurità.

Dai bolognesi ai fiorentini e, più in generale ai toscani. Ritroviamo il motivo degli angeli putti sulla nuvola  in Agostino Ciampelli, “Pietà con angeli” , un motivo di gloria inconsueto nella tragica scena che sembra richiamarsi a Michelangelo, vi si trova  “il classicismo bolognese di matrice carraccesca – commenta  Giorgio Leone – e la luce di matrice caravaggesca”.  

Non sono scene di “Pietà”, ma pur sempre di martirio cristiano, quelle di Passignano (al secolo Domenico Cresti), “Lucina recupera il corpo di san Sebastiano nella Cloaca Maxima”  e di Giovanni Billivert, “Martirio di san Callisto”: Il Passignano, citiamo le parole di Federica Gasparrini, nella solidità delle figure “sembra risentire delle ultime istanze del naturalismo classico, e, in particolare, carraccesco”. Anche in Bilivert, che ha contrasti chiaroscurali, gli elementi di classicismo  sono nella ricerca di plasticità; Adriano Amendola, cita  “Hongewerff   che vi ravvisò una mancata comprensione del lessico caravaggesco”.

Del tutto diverso “San Gregorio Magno benedicente” di Anastasio Fontebuoni, che viene collegato a Ciampelli e Passignano: fu affascinato dalla rivoluzione di Caravaggio, e se ne vedono chiari segni nella figura sbalzata dal buio con forti effetti di luce, ma segue canoni classici tardo-manieristi  di cui, secondo Consuelo Lollobrigida, “recupera la stessa magniloquente solennità”

Arthemisia Gentileschi, “Susanna e i vecchioni”, 1610

A Roma, la “calata” degli emiliani e dei toscani andava ad invadere un campo dove operano due grandi dell’epoca, celebri per diversi motivi: Il Cavalier D’Arpino e Giovanni Baglione.

Del Cavalier d’Arpino (al secolo Giuseppe Cesari), era esposto il dipinto  “Santa Barbara riceve dall’angelo il vestito bianco”,  in un’immagine delicata, la santa martire con lo sguardo in alto verso l’angelo in un’atmosfera assorta e luminosa, il corpo dalle forme morbide e modellate in una posa quasi sensuale in quella che Valeria Merino chiama “quella ricorrente oscillazione di Cesari tra fascino terrestre ed estasi celeste”. Per la studiosa, “è  universalmente annoverato tra i capolavori del Cavalier d’Arpino, realizzato in un periodo particolarmente fecondo di committenze pubbliche e private che portano l’artista a raggiungere il culmine della  sua intensa a attività creativa”.

Giovanni Baglione  era presente con “Apparizione dell’anglo a san Giuseppe” , “un’opera di transizione in cui prolungamenti di pittura figurativa tardo-manierista convivono accanto a nuove sollecitazioni di mitigato naturalismo”; scrive Guendalina Serafinelli;  e cita le parole di Morandotti  che lo raffronta all’angelo del celebre “Riposo durante la fuga in Egitto” come “una delle prime attestazioni della fortuna di Caravaggio nella Roma degli artisti”.

Alcuni di questi artisti si incontravano ancora nella sezione dedicata alle “opere private”, di minori dimensioni, collocate semplicemente nelle pareti su fondo bianco i cui temi erano mitologici o eroici, oltre che religiosi. Primo tra loro il Cavalier d’Arpino, in “David con la testa di Golia”, figura delicata, fasciata da una luce dorata, il cui viso innocente contrasta con  l’espressione disperata della maschera che regge con la sinistra.  

Tra i bolognesi,  dopo un “Tabernacolo portatile” di Annibale Carracci e la sua scuola, le opere su temi profani proseguivano con l’ovale di Lanfranco, “Alessandro Magno rifiuta l’acqua da bere offertagli da un solfato”, una composizione classica di esaltazione del personaggio come tramite per esaltare il committente, cardinale Peretti Montalto. 

Abbiamo ritrovato anche il Pomarancio,  in “Sacra Famiglia con angeli”, nel quale Marco Pupillo vede “un intento narrativo e non semplicemente devozionale” e cita Ileana Chiappino di Sorio  secondo cui “elementi in primo piano fanno pensare che la raffigurazione alluda al ‘Riposo nella fuga in Egitto'”, un richiamo caravaggesco, quindi.

Di nuovo i fiorentini,  Ciampelli con  “Cristo e la Maddalena”,  nella sua classicità  rituale, “completamente privo di qualsiasi enfasi drammatica, questo dipinto ha più il carattere devoto delle sacre rappresentazioni”, commenta  Federica Gasparrini.  La studiosa ci dà anche un preciso inquadramento del dipinto di Passignano, “Cristo nel sepolcro”,  nel  quale “la nobiltà d’ispirazione e l’associazione di un colorito cupo, intenso, e di una fattura controllata e ampia dimostrano un debito del pittore nei confronti del classicismo monumentale ed eclettico dei bolognesi a Roma”. Certo l’influenza della scuola di Annibale Carracci si fa sentire.

Tra i nomi che abbiamo incontrato per la prima volta nelle opere private, il bolognese  Domenichino (al secolo Domenico Zampieri), con “Sibilla cumana”,  che  secondo la critica richiama la Santa Cecilia di Raffaello, modello anche di Guido Reni. Barbara Guelfi cita Spear secondo cui “Domenichino vivacizza  la sua eroina col contrapporsi dei movimenti del corpo, l’aria vigile ed effetti chiaroscurali chiaramente accentuati”; effetti di luce chiaravaggeschi anche in “San Pietro liberato dal carcere da un angelo”, copia da un dipinto dello stesso autore.

E il fiorentino Ludovico Cardi, detto il Cigoli, con due opere esposte, “Sacrificio di Isacco” ed “Ecce Homo”,  temi dipinti anche dal Caravaggio, anzi il secondo fu commissionato dal cardinale Massimi al Cigoli, al Passignano e a Caravaggio, e sembra che il primo prevalesse nel giudizio. Di Cigoli Elisa Acanfora  sottolinea il classicismo ma anche “la distanza profonda con il patetismo del tardo Annibale Carracci”  e aggiunge che “si coglie altresì la diversità radicale rispetto all’andamento serrato e concatenato, nell’azione violenta, con cui Merisi aveva rappresentato l’analogo soggetto”.

Non si esauriva negli artisti citati la vasta galleria delle due sezioni della mostra dedicate ai pittori bolognesi e toscani al seguito o epigoni di Annibale Carracci.  C’erano anche  Savonanzi e Cagnacci, Vanni e  Fontebuoni,  Ciarpi e  Pietro da Cortona  – al quale, ricordiamo, nel Musei Capitolini è dedicata una vasta sala  –  Lilio e  Badalocchio. Quanto abbiamo riportato dà, comunque un’idea anche della complessità dei riferimenti per cui ritenerli un'”alternativa al Caravaggio”  è in qualche caso riduttivo perché l’influsso del Merisi si nota in diversi casi.

Domenichino, “Sibilla cumana”, 1617

I primi caravaggeschi romani

Si tratta degli influssi iniziali del primo decennio del ‘600, quando il grande artista era ancora in vita. Ne fu preso anche Paul Rubens, di cui la mostra esponeva  “Adorazione dei pastori“, dove gli effetti di luce sul gruppo della natività e sugli angeli in volo sono impressionanti. Scrive Barbara Guelfi , citando Probaska: “L’imponenza e la solidità delle figure tengono conto dei personaggi caravaggeschi  e anche l’impianto luministico, ricco di contrasti, è in linea con le opere del lombardo viste a Roma”.

Meno pronunciati gli effetti luminosi nel toscano Orazio Gentileschi, “San Michele Arcangelo e il diavolo”, . di cui Massimo Francucci scrive:: “Colpito dai  modi caravaggeschi, riesce a prender parte al successo crescente della pittura naturalista, pur declinandola secondo la propria propensione al raffinato e all’elegante che nel ‘San Michele’ si evidenzia nella resa materica dei tessuti e degli oggetti metallici, condotta ai limiti dell’inganno ottico”.

Tornavano prepotenti gli effetti luminosi in Orazio Borgianni, “Sacra Famiglia  con angelo musico, santa Elisabetta e Giovannino”,  e richiamavano quelli visti nel dipinto di Rubens; si tratta di un’opera dalle vicende misteriose, di cui Marco Gallo dopo molti raffronti e una descrizione minuziosa scrive: “Nella pala, Borgianni attese a rendere in linguaggio corrente ‘caravaggesco’ , avvalendosi di stilemi meridiani apparenti ma non sostanziali, ciò che in realtà è una sapiente costruzione di  richiami iconografici (e tematici) al mondo di Raffaello”. Di Borgianni c’era anche  “Visione di san Francesco”, con intensi effetti di luce caravaggeschi e dolci figure raffaellesche.

Per il veneziano Carlo Saraceni in “Madonna  con Bambino e Sant’Anna”, Laura Bartoni parla di “avvicinamento alla poetica caravaggesca, ma l’interpretazioen di Saraceni è originale: i particolari anatomici della Vergine e del bambino, colpiti dalla luce diretta, diventano ‘pure forme geometriche’ assumendo un particolare rilievo”. Suo anche  “Predica di  san Raimondo Nonnato”,dove più che la luce, abbastanza uniforme, colpisce il realismo: secondo Marco Gallo “produce una perfetta  metafora del vecchio ‘locus communis’ della ‘pittura parlante’, che è invece muta per natura, e il silenzio che si fa eloquente”, il santo predica con la bocca sigillata dagli infedeli. Di Gerrith van Honthors, detto Gerardo delle notti, “Derisione di Cristo” è un’esplosione di luce caravaggesca  che rompe le  tenebre, recata da una torcia dentro il  dipinto.

Siamo alle opere di committenza privata, abbiamo ritrovato Gentileschi, Borgianni e Saraceni. Di Gentileschi  una “Madonna con Bambino” e “David che contempla la testa di Golia,: attribuiti all’inizio allo stesso Caravaggio, tale è l’effetto della luce che piove sulle carni e il realismo delle figure; ma poi, scrive Massimo Francucci citando Mancini, gli è stata riconosciuta, con la paternità delle opere, “una piena libertà d’azione e l’indipendenza dal retaggio caravaggesco”.  C’erano anche due opere della figlia Artemisia Gentileschi, “Madonna con Bambino” e “Susanna e i vechioni” quest’ultimo  definito da Rossella Vodret “sensazionale, dipinto nel 1610 a soli 17 anni”.

Il dipinto di  Borgianni, “David in preda all’ira decapita Golia” è stato visto come allegoria dell’ira, tale è la violenza nelle espressioni e nell’intera composizione, accentuata dalla luce altrettanto caravaggesca. Marco Gallo .fa rilevare come “il pittore proponesse un’interpretazione divergente da quella praticata dai Cavaraggeschi cosiddetti ortodossi”. Ben diverso  “Santa Cecilia e l’angelo” di Saraceni, ,del quale Laura Bartoni  parla di “interpretazione lirica del realismo caravaggesco, cui partecipano il luminismo e la raffinata croma della tela”.

Centrali in questa sezione erano i tre dipinti di Giovanni Baglione, il grande rivale che diviene caravaggesco: Sia in “San Giovanni Battista” che in “Estasi di san Francesco d’Assisi” l’influsso della luce e del realismo di Caravaggio sono evidenti.  Il primo, secondo Vittoria Markowa, “è forse una delle opere più caravaggesche risalente all’intermezzo caravaggesco che Baglione visse all’inizio del secolo”, prima dello scontro polemico e giudiziario tra i due; il secondo, un tema dipinto anche da Caravaggio, mostra forti differenze e una ripresa dal basso che rappresenta, scrive Michele Nicolaci, un “retaggio manieristico”. “Amor sacro e Amor profano”  è ritenuto “il capolavoro del cosiddetto ‘intermezzo caravaggesco’ di Baglione, e fu tale – ricorda lo studioso – da “suscitare la preoccupazione e lo sdegno di Caravaggio, non solo per l’esplicita imitazione del suo stile, ma anche per il rischio insito nell’insediarsi del rivale nell’elitario circuito di mercato”.

Le due opere esposte di Cecco del Caravaggio (al secolo Francesco Boneri), mostrano il forte influsso del maestro. Per la “Caduta di Cristo sulla via del Calvario”  nei “corpi bagnati dalla luce, muscolarmente scolpiti”; per “Martirio di san Sebastiano”, con “il sorprendente anticonformismo di Boneri, che si mostra anche più audace di Merisi nel rinnovare le iconografie”,  nelle frecce che trafiggono il santo impugnate in modo ambiguo da un “riflessivo soldato. Malinconico e dandy”,  come osserva Gianni Papi, che trova in Cecco “forti rapporti stilistici  con le più precoci espressioni del naturalismo partenopeo e con le opere lasciate da Caravaggio a  Napoli”.

Se Boneri  ha preso il nome di Caravaggio, Hendrick ter Brugghen  si è cimentato con “La Buona Ventura”, fatto inconsueto nei caravaggeschi, l’unica opera che l’artista dipinse in Italia. “Il contrasto tra il volto della giovane e quello della vecchia accostata è un ‘topos’  della pittura caravaggesca”, commenta Mina Gregori, sottolineando anche “la diversità di espressione e di significati”.  La studiosa ricorda che un simile soggetto fu trattato anche dal francese  Vouet in un dipinto della Galleria Barberini nel cui retro la Vodret in sede di restauro ha visto nome e data 1617.

Dopo l’olandese, due spagnoli.In “San Pietro penitente” di Luis Tristàn, una pianta dalle foglie grandi è stata definita da Roberto Longhi “una commovente cifra caravaggista”; mentre, per Leticia Ruiz Gòmez, “più legata ancora a Caravaggio è la collocazione dell’apostolo, seduto in primo piano e fortemente illuminata su uno sfondo scuro, le gambe accavallate e scoperte, come i piedi, e dipinte con un realismo puntiglioso che ricrea i muscoli, le vene e altri dettagli dell’epidermide”.

“Adorazione dei pastori”  di Juan Bautista Maìno rientra in quella che Mina Gregori chiama  “la pittura italianizzante di Maino” il quale trasse “diretta ispirazione dai modelli conosciuti nel giovanile soggiorno italiano: Caravaggio, Borgianni, Gentileschi, Annibale Carracci e Guido Reni”.

Infine un francese, che peraltro appartiene al secondo decennio, è Nicolas Régnier, il tema  “David con la testa di Golia”, i contrasti di luce sono caravaggeschi, ma non c’è la violenza dell’omonima opera del Merisi prima citata, il volto è “compiaciuto e amareggiato insieme”; e nel cogliere “l’intimità dell’animo con disinvoltura” – osserva Maria Lucrezia Vicini – l’artista appare “interprete maturo del caravaggismo del suo tempo che trova in Bartolomeo Manfredi il suo massimo seguace”.  Entriamo così nel secondo decennio, quando esplode il caravaggismo. Ne parleremo prossimamente concludendo con il terzo decennio quando il caravaggismo si estingue.

Info

Catalogo:” Roma al tempo di Caravaggio,1600-1630,  Opere”, a cura di Rossella Vodret, Skirà, Milano novembre 2011, pp. 406, formato 24 x 30;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito, il 5 febbraio, il terzo e ultimo uscirà il 9 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno.

Foto

Le immagini sono state fornite alla presentazione della mostra dall’associazione “Civita” che si ringrazia insieme alla Soprintendenza per il polo storico-artistico e museale di Roma e ai titolari dei diritti. In apertura Carlo Saraceni, “Santa Cecilia e l’angelo”, 1610; seguono Arthemisia Gentileschi, “Susanna e i vecchioni”, 1610,  e Domenichino, “Sibilla cumana”, 1617;  in chiusura Orazio Gentileschi, “David contempla la testa di Golia”, 1610-12.

Orazio Gentileschi, “David contempla la testa di Golia”, 1610-12.
 

Israel now, 24 artisti israeliani, al Macro Testaccio

di Romano Maria Levante

Un evento la mostra  “Israel Now” sul tema “Reinventare il futuro” al Macro Testaccio, a Roma, dal 1° febbraio al 17 marzo 2013. Lo è per numero di espositori, ben 24, e per la vitalità espressa nelle opere che attengono ai diversi filoni della contemporaneità, dalle installazioni alla fotografia, dai video alla pittura e grafica. Il filo conduttore è il dinamismo di Israele, che oltre alla tecnologia, ricerca e progresso scientifico, si manifesta anche nell’arte investita dalle innovazioni nei materiali e nei mezzi espressivi. Patrocinata delle più alte istituzioni, sostenuta dall’Ambasciata di Israele in Italia e dalla nuova Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti, è curata da Micol Di Veroli.

Una foto della serie “My mother and I” di Elinor Carucci

Il presidente della Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti, Piergaetano Marchetti, si è soffermato sul dinamismo di Israele e sulla collaborazione con l’Italia in campo scientifico cui deve aggiungersi quella in campo artistico.

Si potranno rimuovere  così le inerzie esistenti con la spinta che può venire da un paese giovane, ricco di energie e creatività che sono un potente fattore di crescita. Non solo operando sull’arte contemporanea, naturalmente, ma sull’insieme di valori e tradizioni, storia e cultura per creare importanti sinergie. C’è il progetto di esporre nei principali musei israeliani  capolavori di Botticelli, Caravaggio ed altri grandi maestri per trasmettervi e condividere la nostra cultura e la nostra storia. La capacità di Israele di avere una visione proiettata nel futuro trova basi solide nella riflessione sul comune patrimonio culturale.

Particolarmente significativo che la mostra si apra subito dopo il Giorno della Memoria per riaffermare la volontà di guardare avanti con il propellente costituito dall’arte. E’ la prima mostra del genere in Italia, e nel tema “Reinventare il futuro” c’è tutta la forza di volontà di un popolo giovane e vitale con il ricco retroterra storico e culturale della sua multi etnicità e integrazione.

L’addetta culturale dell’Ambasciata di Israele Ofra Fahri, nel sottolineare il ruolo primario assegnato alla cultura e all’arte, ha ricordato che le principali istituzioni israeliane in questo campo precedono la creazione dello stato di Israele, la Bezalel Academy of Arts è addirittura del 1906, il Museo d’Arte di Tel Aviv del 1932. “Insomma Israele è il Paese – ha affermato – che ha fatto fiorire il deserto grazie alla forza dei suoi sogni, e lo ha anche reso uno dei luoghi più vivaci e culturalmente stimolanti al mondo, grazie alla sua fiducia nella cultura e nel futuro”. Gli artisti espositori sono di varia estrazione, dalle grandi città ai piccoli kibbuz, di diversa fama, dai più celebri agli sconosciuti, di diverse età e forme espressive. Lo stato israeliano sostiene l’arte.

Il direttore del Macro, Bartolomeo Pietromarchi ha inquadrato la mostra negli eventi internazionali a largo raggio che impegnano lo spazio romano per il contemporaneo, dando alla mostra sull’arte israeliana un rilievo particolare essendo tra quella meno conosciute dell’Occidente soprattutto nei suoi aspetti non legati al conflitto che è talmente dominante da oscurarne le altre potenzialità. Ha definito la mostra “un’occasione preziosa di riflessione su un fare artistico in cui tradizione e sperimentazione, Oriente e Occidente, passato e futuro, coesistono in un equilibrio in costante rinegoziazione”. E’ questa la migliore premessa alla visita alle opere dei 24 artisti  nei due vastissimi ambienti del Macro Testaccio, i cui spazi sono la migliore cornice per il contemporaneo: sembra di essere nei giganteschi hangar degli aerei, circondati da un fluire di immagini e visioni.

Le installazioni

Il filo conduttore della mostra, come ha detto la curatrice Micol Di Veroli, è la visione del futuro in un allestimento che fa pensare ai diversi quadri di una rappresentazione con una varietà di mezzi e forme espressive che è essa stessa un’idea di futuro. Ma non manca il difficile presente inquieto e minacciato, come non mancano riferimenti al passato ma senza angosce e inquietudini troppo accentuate, piuttosto con l’apertura alla speranza.

Per i mezzi e le forme espressive, partendo dalle più innovative, abbiamo le installazioni, come i componenti elettricidel “Campo 1666”  e “Campo 4011”, 2009-10, di Shay Frisch, elementi modulari generatori di energia, qui linearmente disposti sul pavimento e collocati a corona circolare nella parete, a costituire campi elettromagnetici fonti di stimoli percettivi e sensoriali. Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna i moduli occupavano intere pareti all’ultimo piano, e Achille Bonitoliva aveva dedicato loro una valutazione critica ampia e circostanziata da par suo.

Con Tamar Harpaz l’installazione “Two Rode Together”, 2008, è una fonte di luce e movimento, “The Horse in motion” è l’immagine di un cavaliere che percorre le pareti tutt’intorno, ottenuta con un procedimento meccanico-visivo mentre l’immagine di un treno crea un contraltare: due “linee temporali” si toccano senza congiungersi, nella scena si è coinvolti visivamente ed emotivamente.

Simbolica la video.installazione di Dani Gal, “Zen for TV…”, 2010, ispirata da un film per la televisione tratto da un romanzo di autore israeliano del 1940 che fu bloccato dalla censura prima della messa in onda nel febbraio 1978 perché poneva in cattiva luce l’esercito di Israele a causa dell’espulsione degli arabi palestinesi dal loro villaggio; nonostante il forte spirito nazionale degli israeliani, il mondo della cultura reagì con forza a questa limitazione alla libertà di espressione.

Due porte fluttuanti formano l’installazione di Yifat Bezalel, diversi titoli a forme contemporanee ed avanzate create nel 2012 per esprimere un concetto antico: il superamento del mondo materiale per una dimensione spirituale in un’atmosfera rarefatta; addirittura sono ripresi due salmi di Davide in un insieme modernissimo.

GuyZagursky, con“Follow the White Rabbit”, 2008, presenta una sorta di plastico che raffigura un conglomerato urbano immerso in una luce bluastra, come fosse un acquario, quasi ad esprimere la tensione di una comunità oppressa dalla difficile realtà  verso la suggestione di un  sogno che tutto avvolge in un’atmosfera protettiva.

Ancora più geometrica l’installazione di Nshum Tevet, “Islands”,  2012, anch’essa protesa verso una realtà alternativa rispetto a quella rappresentata da moduli definiti “costantemente in bilico tra presenza scultorea ed architettonica”.  Siamo nella trasfigurazione materiale, ogni oggetto assume un’essenza diversa da quella presente, reale e tangibile.

Sono opere enigmatiche, come lo è “Moving”, 2003, di Maya Attoun, che a prima vista sembra riferita a planisferi e orbite celesti con i grovigli disegnati sulla parete; poi ci si accorge che c’è anche la musica e la scultura, il “ready made” e il “wall paper”, in una convergenza di linguaggi senza alcuna logica apparente.  Giorgia Calò interpreta così quei disegni: “Tendono piuttosto a scandire lo spazio, mappando la relazione tra il prima  e il dopo, l’ordine e il disordine, rifiutando qualsiasi tipo di lettura consequenziale”.  La cercheremo  cominciando dalle fotografie.

Una foto della serie “Orthodox Eros” di Lea Golda Holterman 

Le sequenze fotografiche

Ce ne sono in sequenza, come fotogrammi di storie da raccontare in immagini ferme, quasi per imprimere un messaggio forte. Le serie fotografiche sono cinque, solo in una si tratta di temi privati, nelle altre quattro le immagini toccano temi più generali e inquietudini diffuse.

Entra nel privato Elinor Carucci, “My Mother and I”, 2003,  rappresenta la vita familiare nell’alternanza di amore e gioia, dolore e comprensione; ma sono i sentimenti di tutti, per questo la visione si allarga al contesto sociale, e l’universalità dei sentimenti sembra essere il messaggio finale, mentre gli stupendi occhi del bambino possono essere presi a simbolo  di un popolo giovane che guarda lontano con l’innocenza e insieme la determinazione ad andare avanti.. Per questo abbiamo scelto questa immagine come apertura..

Lea Golda Holterman affronta orgogliosamente il tema dell’identità, il bambino è cresciuto. “Orthodox Eros”, 2009-11, pone a raffronto le immagini stereotipate dell’ebreo ortodosso con grandi modelli del passato presi dalla mitologia e dalla Bibbia. E’ una galleria di figure che supera i cliché abusato  con la comparazione.

Già nelle fotografie appena commentate emerge una sottile inquietudine legata all’identità. L’inquietudine cresce nelle sequenze legate allo stato di nazione assediata vissuto da Israele.

Shai Kremer lo esprime scavando nella memoria storica con immagini di fortezze militari abbandonate nella terra di Israele, titoli come “Kalya”, 2009,  richiamano le località. Sono vestigia di antichi conflitti in un paesaggio che da un lato ne trasmette la memoria, dall’altro la supera testimoniando “la caducità di ogni creazione dell’uomo”.

Dalla memoria storica si passa all’attualità dei conflitti con le fotografie di Michel Chelbin: “Young Prisoners”, anche “Lena e Katya”, della Russia e dell’Ucraina, 2009, non sono immagini violente ma apparentemente calme, però si sente serpeggiare la paura in un’atmosfera che comunque  si apre anche alla normalità e quindi alla speranza.

Questo sentimento appare evidente nelle immagini di vita militare contemporanea di Adl Nes, “Soldiers”, 1994-2000, dove quotidianità e serenità contrastano con l’aggressività legata a questi ambienti e con la visione eroica, per riportare in una dimensione di normalità con l’umana debolezza al posto dell’eroismo.

Un  fotogramma del video “Butterfly  di Leigh Orpaz 

I video 

L’allestimento nei due vastissimi ambienti del Macro Testaccio valorizza i video, intervallati dalle installazioni e sequenze fotografiche. Si può dire che dominano la mostra esprimendo vivacità e inventiva. Forse anche in queste scelte c’è una idea di futuro fatta di movimento e dinamismo.

Iniziamo con il video più sorprendente, corredato da due piccole sculture di precursori etnici: è il documentario di Boaz Arad,intitolato “Zefil Tefish”, 2005, su una performance culinaria che, richiamandosi alle tradizioni diventa un’esplorazione sociologica sull’identità etnica di Israele. Si risale all’est europeo, agli Ashkenazi, per approdare alla società multiculturale contemporanea, il tutto tra lazzi e ironie. In primo piano l’artista nel privato,  con le scherzose quanto provocatorie  domande che rivolge  alla madre.

Nel video di Ofri Cnaani la dimensione privata riguarda due sorelle legate da un rapporto quasi di simbiosi, che vengono rappresentate in forme aperte a diverse percezioni e interpretazioni. Immagini come quella con le due figure assorte in piedi in una specie di fondo di piscina senz’acqua mentre sul bordo si affollano belle ragazze in accappatoio bianco restano impresse. E’ la ricostruzione di un testo del Talmud, così anche la fede risulta evocata.  Il titolo è “The Sota Project”, 2011.

Keren Cytter si ispira al documentario antropologico tra realtà e finzione con sfumature sociologiche e addirittura filosofiche. Nulla di cerebrale, le immagini parlano al sentimento comune, vanno dalla figura della ragazza impegnata alla scrivania alle lavoratrici chine sulla riva del fiume nel loro faticoso lavoro, dando corpo al titolo “The hottest day of the year”, 2011.

Non c’è calore, invece,  nella Wall Street di Orit Ben-Shitrit. Il video “Vive le Capital”, 2012, scava nei rapporti con il denaro attraverso le immagini più diverse, monologhi seri e scene paradossali e trasgressive, con salti temporali all’epoca di Cosimo dei Medici e di Luigi XIV, un happening incalzante.

Il calore torna con una visione del futuro che accende la speranza nel video “Mary Koszmary”, 2007, la trilogia filmica di Yael Bartana: dalle tre pareti del box ricavato nello spazio espositivo i video presentano le immagini del Movimento per il rinascimento ebraico in Polonia, folle immedesimate in un sogno nazionalistico che rovescia il tradizionale miraggio della terra promessa, qui sembra esserlo la madre patria Polonia, la nuova forma del futuro è anche un ritorno al passato.

Il freddo penetra nella pelle con “Level One” e “Butterfly”, 2012, video di Leigh Orpaz: viene dai tre momenti raggelanti collegati, due tracciati autostradali nella neve e il gerontocomio con lo spaesamento e l’abbandono. Dopo il sogno polacco, è come se la memoria collettiva si perdesse nel freddo esteriore e interiore,  quasi che l’esperienza umana avesse trovato il suo triste compimento.

Ma le immagini di Yehudit Sasportas mostrano un approdo ben diverso. In “The Lightworkers”, 2010, alla neve e alla desolazione si sostituisce una foresta che si apre a poco a poco tra squarci di luce e acque sorgive;  nella bellezza della natura si sente pulsare la vita, è questo il futuro a cui ci piace pensare.

Poi irrompe la scienza, che è l’anima e la generatrice di un futuro sempre diverso e sorprendente. Uri Nir ci rende partecipi di un processo vitale attuato iniettando del sangue nel tessuto di una medusa per creare una nuova realtà organica e quindi una nuova forma: il tutto reso visivamente da pulsazioni che rimandano anche allo scorrere del tempo, intrinseco alla creazione e alla vita. Il titolo è in carattere con l’esperimento scientifico scandito dal tempo: “00.02.09””, 2007.

Michal Rovner ricorre a un paradosso visivo per esprimere il caotico movimento della società odierna verso un progresso che porta invece ad una regressione primordiale;  “Culture Plate # 7”, 2009-11, è una apparente coltura di batteri rossi che si muovono in modo incessante e confuso, ma si rivela essere formata da esseri umani ripresi dall’alto  rimpiccioliti al punto di sembrare microbi: un modo per richiamare l’essere umano alla sua misera consistenza organica.

La parte pittorica e grafica

Non è finita la mostra, c’è anche una parte pittorica e grafica, come nell’opera  di Gal Weinstein: sembrano fotografie di una terra arida e brulla, mentre  si tratta di tavole dalla superficie ruvida e graffiata come una lana d’acciaio. Una superficie extraterrestre, “Rusted Planet (Mars)”, 2012, il pianeta rosso è carico di mistero su ciò che può celarsi al di sotto. E’ qui il futuro da reinventare?

Un collegamento con il passato della realtà presente è operato da Meital Katz-Minerbio che dipinge oggetti prodotti in periodi di ottimismo per il futuro, come telefoni d’epoca e altri marchingegni quali  “Black box”, 2010, con la testa  di “Il visionario”, 2009,  posta su un vassoio.

A queste immagini a cavallo tra passato e presente affianchiamo quelle primitive disegnate da Shahar Yahalom che chiudono il ciclo riproponendo la potenza della natura al di sopra di ogni altra forza. “Waterfull” e “Face in the Mud”, 2012, sono grafiche espressive della presenza dominante del paesaggio e del mondo animale che sovrasta l’essere umano.  Non si attenua la spinta al futuro, ma è un richiamo alle superiori leggi naturali.

Ci sembra possa essere la morale da trarre nel “reinventare il futuro” senza alterare gli equilibri né trascurare le forze endogene che hanno fatto la storia della terra e reggono le sorti dell’umanità. In questa cornice si collocano le vicende e i sentimenti, i  sogni e le aspirazioni per un futuro migliore.

Abbiamo visto le forme espressive di 24 artisti di estrazione e fama molto diversa. I più conosciuti sono, oltre a Frish che lavora e vive a Roma,  Bartana e Nes, Rovner, Sasportas e Tevet; i più giovani Cnaani, Gal e Cytter. Esprimono l’impegno nella cultura e nell’arte dello stato di Israele e sono accomunati dalla visione comune di “Reinventare il futuro”.

Diamo il dovuto riconoscimento a Micol Di Veroli  che nel selezionarli ha interpretato il tema in senso lato, dando modo agli artisti di esprimere liberamente i loro sentimenti senza vincolarli troppo al soggetto proposto. Risultato raggiunto.Info

MACRO, Museo d’Arte Contemporanea di Roma: Testaccio, Piazza Orazio Giustiniani 4, ore 16,00-22,00, la biglietteria chiude mezz’ora prima,  da martedì a domenica, chiuso il lunedì; ingresso intero euro 6, ridotto 4. Testaccio + via Nizza, valido 7 giorni: intero euro 14,50, ridotto 12,50. Per i residenti un euro in meno in Via Nizza e nel cumulativo, gratuità e riduzioni secondo la normativa vigente; prenotazioni gruppi, visite guidate. Tel. 06.671070400, call center 06.06.08. http://www.museomacro.org/. Catalogo della mostra: “Israel Now. Reinventing the Future”, Editore Drago, 2013, pp. 120,    formato 15 x 23,5. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia il Macro con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura  una foto della serie “My mother and I” di Elinor Carucci;  seguono  una foto della serie “Orthodox Eros” di Lea Golda Holterman e  un fotogramma del video “Butterfly  di Leigh   Orpaz; in chiusura l’installazione “Follow the White Rabbit” di Guy  Zagursky.   

L’installazione “Follow the White Rabbit” di Guy  Zagursky 

Caravaggio, Carracci, 1. Maestri e seguaci a Roma, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

Una grande mostra merita di essere rievocata a un anno esatto dalla sua chiusura, si tratta di “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630” tenuta a Palazzo Venezia dal 16 novembre 2011 al 5 febbraio 2012:una carrellata sulla temperie artistica romana dei primi tre decenni del 1600 con i “compagni di strada” e i seguaci di due grandi artisti, Caravaggio e Annibale Carracci. Il  realismo dell’uno e il classicismo dell’altro riflessi in 140 dipinti, nella spettacolare scenografia di Pier Luigi Pizzi.  Ne ripercorriamo la visita con lo spirito di allora  tornando virtualmente in quelle sale come a teatro.

Caravaggio (attr.), “Sant’Agostino”, inizi 1600

La mostra è stata ideata e curata, con il monumentale Catalogo Skirà, da Rossella Vodret, allora soprintendente per il patrimonio storico-artistico e il polo museale di Roma; hanno partecipato all’organizzazione l’associazione “Civita” e “Munus”, con il sostegno della Fondazione Roma – Arte – Musei e il contributo di Banca Etruria ed Ericsson, realizzando un modello di apporto di privati che andrebbe sviluppato sempre più, data l’entità dei costi da sostenere. Nella presentazione si è parlato di 900 mila euro per la mostra, cui vanno aggiunte le ulteriori spese  per la promozione. Straordinaria la presenza di opere di circa 30 chiese romane, oltre che di 60 musei e sedi pubbliche.

L’importanza della mostra

Desideriamo sottolineare questi apporti perché hanno consentito, in un periodo di crisi e tagli alla cultura, di dare vita ad una “sacra rappresentazione” intensa e suggestiva, non ci viene di definire altrimenti la forza scenica che si sprigionava dall’allestimento d’autore della mostra. Il fatto che fosse contemporanea all’esposizione quella a Palazzo Sciarra, nello spazio per l’antico della Fondazione Roma-Museo,  “Il Rinascimento a Roma  nel segno di Michelangelo e Raffaello”,dal 25 ottobre 2011 al  12 febbraio 2012, ne accresceva la portata culturale e la carica spettacolare.

A poche diecine di metri di distanza – tanti  ne corrono tra via del Plebiscito angolo Piazza Venezia, e via del Corso prima di largo Chigi – scorrevano i periodi cruciali di due secoli portentosi: il ‘500 con i due numi tutelari, il “Sacco di Roma” e la folgorante ripresa; e i primi tre decenni del ‘600, con il fascino magnetico di altri due grandissimi. Quelli che avevano visitato“Roma e l’Antico, realtà e visione nel ‘700”, con cui la Fondazione Roma Museo aveva inaugurato il nuovo spazio espositivo  di Palazzo Sciarra, hanno potuto  fare l'”en plein” di tre secoli  mirabili, ai quali si aggiunge il ‘400, il secolo cui la Fondazione dedicò un’altra grande mostra più indietro nel tempo.

Il presidente della Fondazione Emmanuele F. M. Emanuele ha parlato di “continuazione ideale di un percorso storico-artistico e culturale e di una felice coincidenza”, tale da dare a Roma “la concretezza del ruolo di Capitale d’Italia e della cultura italiana”. E’ stato un modo di celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, dato che la mostra “individua il nucleo storico da cui si dipana gran parte delle correnti artistiche italiane e straniere del XVII secolo: primo fenomeno culturale di respiro veramente europeo destinato a segnare una svolta epocale nella storia della civiltà”.

Tutto questo non ha intimidito il visitatore, la mostra ha proposto un altro approccio, più vicino al sentire comune, quello della competizione. Due i grandi capiscuola dalle diversissime qualità stilistiche: Caravaggio con il suo realismo crudo e Annibale Carracci con il suo classicismo delicato. Si confrontavano all’ingresso della mostra sullo stesso soggetto, la Madonna di Loreto, e la “disfida” proseguiva nell’esposizione con i seguaci che si cimentavano sui temi sacri come due squadre in competizione al seguito dei rispettivi capitani. Nel paese di Coppi e Bartali e delle curve nord e sud questo interesse si è aggiunto all’elevato valore culturale e alla forza spettacolare.

Anche nella mostra parallela a Palazzo Sciarra c’era un motivo affine: la ricerca degli influssi di Michelangelo o di Raffaello nei singoli artisti, e anche la compresenza dei motivi di entrambi nelle composizioni degli autori che mettevano nello stesso dipinto gli elementi caratteristici dell’arte di ciascuno. Una sorta di “caccia al tesoro” che continuava nei 140 dipinti del ‘600 a Palazzo Venezia.

Il set teatrale di “storie bellissime”

Nella presentazione  è stato sottolineato come i quadri esposti – spesso poco noti e alcuni in mostra per la prima volta – hanno dietro  “storie bellissime”; e mentre  il ‘600 a Napoli  e in Umbria è stato raccontato, di  Roma si è parlato poco, eppure c’erano 2000  pittori su una popolazione in aumento dai 50 ai 100 mila abitanti dopo il sacco della città del 1527.  A un grande Caravaggio si affianca un grande Carracci, che celebra il trionfo della pittura come immaginazione in un secolo complesso nei temi e negli autori; un secolo agitato dalla questione religiosa e dalla pretesa contraddizione tra il realismo di Caravaggio e il bello di Carracci, mentre tra loro non mancavano le convergenze.

Il ‘600 è un’epoca di multiculturalismo, alimentato dalla mescolanza di artisti con le esperienze  più varie, le vite avventurose e turbolente, la voglia di confrontarsi. Se oggi alcuni possono sembrare minori, allora erano vere  “star”. Nel 1600 vi fu il grande Giubileo con 2-3 milioni di pellegrini, era stata sconfitta la paura del luteranesimo, ma c’era un debito pubblico enorme, pari alle entrate di un quarto di secolo, un terzo del debito era dovuto agli interessi; colpisce la somiglianza con i problemi attuali. Si è ricordato che il primo palazzo a Piazza Navona fu costruito solo alla metà del ‘500.

Rossella Vodret  ha sottolineato l’interesse di una mostra diversa “dopo l’overdose di Caravaggio”, cui già aveva  partecipato in modo originale con le mostre di Palazzo Venezia  “La bottega del Genio” e “La Cappella Contarelli”  in aggiunta alla grande mostra “Caravaggio” alle Scuderie.

Roma era diventata, anche con le ricche committenze papali, la capitale d’Europa per l’arte, e reagiva alla paura riformista con restauri e arredi finemente decorati. Vi lavoravano artisti affluiti da altri paesi, soprattutto Francia e Olanda, che potevano scambiare le esperienze delle rispettive scuole, in un processo di rinnovamento rapido e coinvolgente. Così dopo il Rinascimento romano del ‘500 con i due numi tutelari Michelangelo e Raffaello, nel primo trentennio del ‘600 da un altro sommo, Caravaggio, “prese il via – sono parole della Vodret – la più straordinaria rinascita artistica della Città eterna, i cui esiti saranno percepiti in tutta Europa fino alla fine del XVII secolo”.

La mostra ha raccontato quel periodo nelle sue sezioni per lo più cronologiche, dove hanno trovato spazio gli autori stranieri: spagnoli, fiamminghi, francesi. La città assorbiva  l’arrivo di nobili  come i Barberini, Ludovisi, Borboni, le nuove committenze venivano da loro e dalla Chiesa. Nella sfilata dei quadri non c’erano paesaggi, l’uomo sempre al centro nel dare alla pittura il senso del dramma, perché  lasciato solo, le figure spesso dolorose, le solitudini angosciose. Il visitatore veniva portato dentro i personaggi e le loro solitudini, e le 7 sezioni, espressive al pari di altrettanti film, mostravano come le diverse personalità di artisti avessero recepito gli stimoli in modo differente.

Dopo questi brevi accenni che fanno entrare nell’atmosfera del tempo, rievochiamo la visita alla mostra calandoci nel set teatrale progettato da Pier Luigi Pizzi. Il rosso intenso della moquette del  pavimento accoglieva e, in qualche modo, accompagnava il visitatore. La galleria era imponente, Pizzi aveva riservato per le grandi tele di committenza religiosa collocazioni in altari ben delineati sul fondale rosso che facevano sentire il fascino del sacro, le luci e ombre dell’ambientazione nelle chiese prestatrici. Per le opere della committenza privata invece spazi spartani, spiccavano nel bianco delle pareti come appese nel salone nobiliare. Una dicotomia che tornava  nell’alternanza reiterata tra committenza pubblica e privata per i seguaci  di Carracci prima, di Caravaggio poi.

Annibale Carracci, “Madonna di  Loreto”, 1604-05 

I due grandi Maestri a confronto

La mostra parallela di Palazzo Sciarra  si dipanava tra le committenze dei papi fino a Paolo III, con cui fu superato il trauma del sacco della città, quella di Palazzo Venezia si sviluppava tra quattro pontefici, Clemente VIII Aldobrandini e Paolo V Borghese, Gregorio XIV Boncompagni e Urbano VIII Barberini. Veniva superato un altro trauma, quello luterano e andava in scena il primo trentennio, che pose le basi dello sviluppo artistico nell’intero ‘600.

I primi anni del XVII secolo furono segnati dal confronto tra due grandissimi della pittura italiana: Annibale Carracci, capofila della corrente classicista, e Michelangelo Merisi, Caravaggio, dal realismo rivoluzionario. Scomparvero entrambi prematuramente nel mese di luglio: nel 1609 Carracci a 49 anni, nel 1610 Caravaggio a 38 anni. Un fatale parallelismo, quasi coincidenza,  come nel realizzare entrambi, intorno al 1605,  le due “Madonna di Loreto” che aprivano la mostra.

Questo raffronto diretto diventa l’archetipo dei confronti che si potevano fare tra i loro seguaci, quindi è bene parlarne in modo circostanziato. Ma prima di “gustarlo”, va sottolineato come l’impronta  dello stile dei due Maestri fosse molto diversa. Annibale Carracci era ispirato al classicismo di derivazione raffaellesca, con immagini idealizzate, Caravaggio invece introdusse un realismo naturalistico crudo con immagini forti, anche violente.  Il confronto, nelle parole della Vodret “da solo, vale più di mille parole per le differenze abissali che caratterizzano i due dipinti”.

Seguiamo l’allora soprintendente, ideatrice e curatrice della mostra, nella sua analisi molto dettagliata: il suo è un modo di accostare opere e stili al quale è stato utile ispirarsi nei numerosi confronti possibili tra le opere dei seguaci dei due maestri su temi simili o suscettibili di raffronti.

Annibale Carracci imposta la scena su uno schema simmetrico”, e si tratta di una scena miracolosa, due angeli incoronano la Madonna con Bambino su una nuvola  poggiata sulla Santa casa di piccole dimensioni con portale, finestra e tetto spiovente, sorretta in volo da tre angeli, su un cielo luminoso, una “luce universale”, e in basso un paesaggio oscuro. Luigi Spezzaferro  ha visto l’immagine “come un emblema, o forse meglio un’icona” trovandovi due mani, pittoriche, una più leggera nella Madonna, l’altra negli angeli “più solidi e disegnati, nonché più memori di Raffaello”. A parte questo riferimento al lavoro della “bottega”, tutti i volti sono idealizzati e così i corpi ispirati alle forme classiche nelle vesti e nelle proporzioni non mostrano tensioni né la fatica di reggere la Santa casa in volo. La Madonna è come in trono, ricorda la gloria dell’Ascensione in cielo, la terra in basso è oscura e lontana, è un altro mondo ben diverso da quello del miracolo.

Nel dipinto di Caravaggio tutto cambia, la scena è rivoluzionata, non c’è la Santa casa che pure nel culto della Madonna di Loreto è al centro della venerazione trattandosi dell’evento miracoloso. La Madonna è appoggiata a uno stipite sopra a uno scalino, dettagli che si possono ricondurre alla  Santa casa soltanto perché il titolo del dipinto lo suggerisce, nulla farebbe pensare che è  scesa dal cielo, tanto meno portata da angeli che non ci sono. E non c’è nulla di miracoloso, la luce non è “universale”, da sinistra provengono le tipiche bordate luminose dell’artista, che mettono in risalto aspetti realistici e umani dei due gruppi a sinistra e a destra della composizione, lungo una diagonale che lascia vuota, anzi buia, la parte centrale. Molto umana la Madonna, una venere popolana con il bambino; poi i due pellegrini, lei con la cuffia sdrucita, lui dai piedi sporchi e gonfi.

Proprio questi particolari hanno fatto definire il dipinto “La Madonna dei pellegrini”: la devozione che li ha spinti al lungo cammino sostituisce il miracolo che ha fatto volare la Santa casa, c’è tanta umanità nella loro preghiera e nel capo dell’umile Madonna reclinato verso di loro. Come c’era tanta maestà nella Madonna di Carracci al centro di una simmetria costruita sui cinque angeli che circoscrivono la composizione senza che vi sia alcuna presenza umana, neppure secondaria.

Ad Annibale Carracci fu commissionata dal cardinal Madruzzo per la chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo dov’era la Cappella dedicata alla Madonna di Loreto, starebbe a rappresentare la preghiera della Vergine per la salvezza delle anime del Purgatorio; a Caravaggio dalla vedova del marchese Cavalletti, già membro della confraternita  Santissima Trinità dei Pellegrini per la chiesa di Sant’Agostino molto frequentata dai pellegrini. Forse in queste diverse committenze e destinazioni si può trovare un motivo dell’interpretazione opposta dello stesso soggetto; ma solo come spunto iniziale, il resto sta nel diverso stile e nella peculiare attitudine dei due artisti. Anche nei riferimenti religiosi si possono vedere i differenti versanti, quello ortodosso e classico della chiesa trionfante nella sua gloria in Carracci; quello spiritualista di ispirazione francescana della chiesa povera che non evoca la gloria dei cieli ma l’umiltà e l’umana comprensione in Caravaggio.

Abbiamo citato la chiesa di Sant’Agostino come sede del dipinto di Caravaggio; ebbene, una sorpresa della mostra è stata la presentazione di un dipinto del 1600 che raffigura “Sant’Agostino”  attribuitogli di recente anche se non c’è unanimità; per questo nell’ambito della mostra c’è stato un confronto tra i critici su diverse posizioni a questo riguardo. Per parte nostra abbiamo ammirato l’opera, esposta da sola in un piccolo ambiente: è un dipinto di 1 metro per 1,20, la figura del santo seduto che legge un libro posto sul tavolo a sinistra e scrive su un foglio sulla destra è nell’oscurità; la luce spiove sul volto, il libro e la mano, un’atmosfera suggestiva di meditazione e raccoglimento.

Caravaggio, “Madonna di Loreto” (o “Madonna dei pellegrini”), 1605

Dai “campioni” alle due “squadre” di artisti

Così abbiamo presentato i “campioni”,  capitani delle due squadre composte da artisti di valore i cui 140 dipinti esposti costituivano una galleria d’arte spettacolare. L’esposizione ripercorreva  i primi tre decenni del 1600 separando committenze pubbliche e private per le due “squadre”. Iniziava con la “squadra” di Annibale  Carracci, del quale erano esposte varie opere: si trattava di artisti bolognesi suoi seguaci, Domenichino e Guido Reni, Albani e Lanfranco; e di toscani che erano già arrivati a  Roma come Passignano e Fontebuoni, Ciampelli e BiIlivert.  Nella città eterna c’era la presenza dominante del Cavalier d’Arpino e di  Baglione, il rivale-biografo di Caravaggio.

Ai seguaci di Caravaggio era dedicata la parte prevalente della mostra, pur se si cercava di mantenere il parallelismo evocato dalla comparazione iniziale dei dipinti dei due Maestri con il raffronto dei dipinti degli allievi. Non erano giustapposti, ma si potevano confrontare per la contiguità delle rispettive sezioni finché, divenuti più numerosi i caravaggeschi, era naturale  fare il confronto tra loro, alla ricerca degli elementi tratti dallo stile e dai contenuti del grande Maestro. Tra questi  anche Rubens, che cercava di riproporne gli  effetti di luce e lo stesso  Baglione, il rivale che si ispirava al suo stile quando era ancora in vita nel primo decennio del secolo. A questo periodo appartengono Orazio Gentileschi e Borgianni, Saraceni e gli spagnoli Maino e Tristan.  

Tra il 1610 e il 1620 soprattutto Manfredi lanciò una vera e propria “moda caravaggesca” che attirava i giovani artisti francesi, affluiti in gran numero a Roma: tra loro Regnier, Valentin e Vouet. Divennero caravaggeschi pittori spagnoli come De Ribera,  fiamminghi e olandesi, come Seghers e Giusto fiammingo, Baburen e De Haan, in testa Gerardo delle notti, al secolo Gerrit van Honthors. Gli italiani hanno varie provenienze: con Artemisia Gentileschi figlia di Orazio c’è Caracciolo di Napoli e Cavarozzi di Viterbo, Turchi di Verona e Strozzi di Genova, Spada di Bologna e Guerrieri delle Marche, un campionario degli artisti di tutta Italia presi dal genio di  Caravaggio.

Entrando nel terzo decennio, scomparsi i capiscuola nel diffondere lo stile caravaggesco e tornati nelle loro città i maggiori epigoni, questo movimento si attenuò e il caravaggismo divenne solo una componente dei nuovi orientamenti stilistici del classicismo e soprattutto del barocco, che il papato adottò e sponsorizzò con le sue committenze per i trionfo del cattolicesimo sull’eresia luterana.

Ne dava un valido esempio il quadro posto simbolicamente a chiusura della mostra, opera del francese Valentin, definito dalla Vodret “l’ultimo caravaggesco rimasto a Roma, dove morirà nel 1632”: è stato dipinto nel 1629, il titolo è “Allegoria d’Italia”, cosa di meglio nella celebrazione del 150° dell’Unità di questa premonizione?  Tanto più nel difficile momento attraversato dal Paese.

Non si può non citare, dopo il significato e l’impostazione della mostra, lo sterminato “albo dei prestatori”, ben 86  tra cui le 30 chiese di cui si è detto, a riprova dell’enorme sforzo organizzativo; e l’intenso lavoro di restauro che ha impegnato una ventina di soggetti e istituti specializzati.

Il monumentale Catalogo

Degli artisti citati parleremo direttamente in riferimento alle opere esposte delle quali cercheremo di dare una carrellata raccontando la visita che è stata istruttiva  e insieme emozionante. E’ inconsueto  trovare riunite tante opere inedite sotto il profilo espositivo accostate in base alle loro peculiarità, stilistiche e di contenuto,  molto spiccate e riconoscibili. Se poi sono inserite in un allestimento teatrale di rara suggestione si può dire che è stato un evento meritevole di essere ricordato.

C’è un altro elemento che vogliamo sottolineare, il monumentale  Catalogo, curato dalla stessa Vodret, per la sua particolarità. Le parti introduttive sono ridotte al minimo, due pagine di presentazione, una  del presidente Emanuele, l’altra del Ministro dei Beni culturali e due pagine di inquadramento di Rossella Vodret dal titolo “Non solo Caravaggio”; le  400 pagine che seguono sono tutte dedicate ai dipinti, sottotitolo dell’intestazione “Roma al tempo di Caravaggio, 1600-1630, Opere”. Per ciascuna di esse una sontuosa riproduzione a piena pagina e soprattutto una scheda critica di straordinaria ampiezza e profondità. Sono stati mobilitati ben 54 critici, tra cui la stessa curatrice di mostra e Catalogo, con la loro guida si può penetrare all’interno di ogni opera. Lo abbiamo fatto e nella rievocazione della visita citeremo quello che dei loro commenti ci ha aiutato a  capire meglio il singolo dipinto; soprattutto per gli aspetti relativi alla vicinanza o meno ai due maestri di riferimento Carracci e Caravaggio prima, il solo Caravaggio poi. Si potrà notare che anche i seguaci di Carracci e del classicismo non restano insensibili alla rivoluzione caravaggesca.

Un’ultima cosa desideriamo far notare: per molte opere l’attribuzione  è frutto di assegnazioni precedenti ad altri artisti, Caravaggio compreso, e di ripensamenti. Ciò conferma l’intensa temperie artistica e le contaminazioni stilistiche di scuole diverse che richiedono una speciale attenzione nell’applicare la chiave di lettura caravaggesca ad opere dalla fisionomia perlomeno complessa.

In fondo, aver rinunciato a ricostruzioni e interpretazioni d’insieme dei caravaggeschi nelle tre fasi individuate e descritte nel sintetico inquadramento della Vodret porta a cercare una propria interpretazione di opere e artisti, e a questo fine le indicazioni dei critici si rivelano fondamentali.  Perciò si raccomanda questo catalogo come memoria storica di un approfondimento epocale.

E’ stato un cammino esaltante, lo rivivremo prossimamente rievocando la visita alla mostra che si articolerà nelle sezioni che scandiscono i primi tre decenni del 1600.

Info

Catalogo:” Roma al tempo di Caravaggio,1600-1630,  Opere”, a cura di Rossella Vodret, Skirà, Milano, novembre 2011, pp. 406, formato 24 x 30 cm; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I successivi due articoli sulla mostra usciranno,  in questo sito, il 7 e 9 febbraio 2013.

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Le immagini sono state fornite alla presentazione della mostra dall’associazione “Civita” che si ringrazia insieme alla Soprintendenza per il polo storico-artistico e museale di Roma e ai titolari dei diritti. In apertura Caravaggio (attr.), “Sant’Agostino”, inizi 1600; seguono Annibale Carracci, “Madonna di Loreto”, 1604-05, e Caravaggio, “Madonna di Loreto” (o “Madonna dei pellegrini”), 1605; in chiusura, Pieter Paul Rubens, “Adorazione dei pastori”, 1608.

Pieter Paul Rubens, “Adorazione dei pastori”, 1608