Echaurren, 1. Roma e l'”horror vacui”, a Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Un  mosaico di quasi 13 metri di lunghezza per 1,75 di altezza è posto all’interno della  stazione di Piazza di Spagna della Metropolitana di Roma: entrando dal vicolo del Bottino si incontra dopo una cinquantina di metri sulla sinistra nel lungo tunnel che porta ai treni. Superate le prime vetrinette pubblicitarie luminose si presentano,  con la luce delle sue tessere bianche e celesti, i preziosi ghirigori nei quali si intravvedono dei motivi che ci richiamano qualcosa. E ne abbiamo conferma quando leggiamo il nome di Massa Echaurren indicato a lato del mosaico, con aggiunta la parola “donazione”. E’ datato 2000,  lo abbiamo notato e ci ha fatto ripensare alla mostra di Pablo Echaurren, il figlio dell’autore di questo mosaico, a cura della Fondazione Roma Museo svoltasi dal 18 dicembre 2010 al 13 marzo 2011 a Palazzo Cipolla. 

“La Grande Cipolla”, 2010

l mosaico, notato per caso, pur se del padre, ci ha fatto ricordato l’artista che ci aveva colpito per la versatilità e profondità dell’ispirazione, cui si è unita la disponibilità a parlare e ad essere fotografato con le sue opere. A quasi due anni di distanza raccontiamo la visita all’esposizione che mantiene tutta la sua validità, per i tanti motivi di interesse da sottolineare.

La mostra, dal 18 dicembre 2010  al 13 marzo 2011, era intitolata “Pablo Echaurren, Crhomo Sapiens”: veniva  inaugurata la nuova destinazione di Palazzo Cipolla all’Arte Contemporanea; nello stesso periodo l’inaugurazione di  Palazzo Sciarra  destinato all’Arte antica con “Roma e l’antico, visione e realtà nel ‘700”, di cui abbiamo scritto a suo tempo. Queste prestigiose sedi espositive, entrambe della Fondazione Roma Museo, sono di fronte sui due lati di Via del Corso, vicino a Piazza Venezia, prima di Largo Chigi: un’accoppiata di grande valore proiettata nel futuro.

E’ stata una dedica corale senza tempo alla Città Eterna, con la visione classica e settecentesca di Roma nel primo, quella contemporanea nell’altro dove Roma era rappresentata con i “Colossei” di Echaurren da sfogliare strato per strato:, uno si intitola “La grande Cipolla”: e quale migliore omaggio si poteva fare al palazzo di questo nome con la visione romana del terzo millennio?

Non solo per questo motivo riteniamo abbia fatto bene il presidente della Fondazione Roma  Emmanuele M. Emanuele ad ospitare l’opera di Pablo Echaurren per un momento così solenne come la consacrazione dello spazio espositivo alla nuova destinazione all’Arte contemporanea. Il motivo che ci sembra prevalente è che questo artista fa entrare nel mondo contemporaneo in tutta la sua complessità e molteplicità di stimoli e di fermenti senza lo shock delle installazioni più avanzate e trasgressive, preparando ai successivi sviluppi con un inizio graduale e istruttivo. Palazzo Cipolla ha poi continuato creandosi un proprio spazio, ben distinto dal Maxxi e dal Macro.

La trasgressione vitale del contemporaneo

La mostra, realizzata con “Civita”, ha inaugurato la nuova destinazione dello spazio espositivo con il suo anticonformismo spinto fino alla trasgressione, nell’arte e nella vita:  ha preso parte attiva a movimenti estremisti e trasgressivi come Lotta continua e gli Indiani metropolitani e ha  “trasgredito” loro avvicinandosi a Marinetti divenuto una icona coltivata con un collezionismo accanito che fa possedere ad Echaurren una raccolte completa sul futurismo. Perché si è avvicinato tanto a Marinetti collocato com’era nell’ultrasinistra? Vide in lui la trasgressione nell’ideologia e nell’arte unita all’intelligenza, e sentì di compiere una trasgressione egli stesso; ci vengono in mente, mutatis mutandis, le situazioni del film “La patata bollente” con Renato Pozzetto e Massimo Ranieri, il fervente comunista attratto dal “diverso” assolutamente impresentabile.

La trasgressione rispetto alle convenzioni nella vita e nell’arte è stata il pane per Pablo Echuarren fin dal rapporto con il “padre trasparente”, il famoso pittore espressionista Sebastian Motta, al cui stile non si è ispirato quando ha capito di avere vocazione per l’arte, ma ha seguito una propria strada apertasi nei banchi di liceo quando i suoi disegnini furono apprezzati e retribuiti da un gallerista, che li vide per caso; nell’arte ha trasgredito ai canoni elitari combinando varie forme espressive senza distinguere tra “alta” e “bassa”,  passando dall’una all’altra in un continuum vitale.

Merito della mostra – curata da Nicoletta Zanella insieme al Catalogo di Skirà – è stato rendere conto in modo equanime dei momenti della poliedrica attività artistica di Echaurren, in un arco di quarant’anni, facendo scoprire risvolti suggestivi e ripercorrere un ciclo di vita contemporanea.

E’ stato questo mondo il protagonista della mostra, come il mondo antico lo è stato in quella dirimpetto: in entrambe, le opere esposte come testimoni, e alcune anche testimonial, di passaggi importanti nella civiltà delle due epoche: a Palazzo Sciarra il fervore per l’Antico nelle varie espressioni, le antichità con le copie e i falsi, le decorazioni e l’emulazione degli artisti, con centro su Roma; a Palazzo Cipolla il fervore per il nuovo, dall’editoria “seria” ai fumetti e ai manifesti, dalla pittura alla ceramica e stoffa, dalla musica alla natura, anche qui con centro su Roma.

Abbiamo visitato a suo tempo la mostra attirati dai termini usati da Emanuele nella presentazione, e sappiamo che non usa la retorica: ne riportiamo un florilegio, eclettismo e strade espressive sempre nuove, effervescente sperimentazione e libertà da ogni pregiudizio, vivace curiosità e spirito di osservazione, vena originalissima e taglio ironico, semplicità di linguaggio e immediatezza espressiva, grande vitalità e potente energia creativa che pervade come elettrizzandola ogni creazione. Li abbiamo allineati testualmente per farne un elenco – è una forma di moda –  delle qualità riconosciute a  Echaurren che, in definitiva, sono i requisiti del vero artista contemporaneo.

Sono proprio tali termini a farci ricercare una lettura particolare della mostra che faccia emergere tutti questi aspetti nello spigolare sui momenti di vita personale e insieme di vita contemporanea.  La sua arte ci sembra proceda per accumulazione: dai primi riusciti tentativi giovanili sulla carta a forme più compiute professionali, anzi nel vivo del mercato e del dibattito non solo e non tanto artistico, quanto politico e sociale; fino all’esplosione nella pittura, una vera eruzione vulcanica. Ne siamo stati travolti senza aver potuto dare ordine al nostro percorso dopo il primo shock iniziale; ora raccontiamo la visita al presente, trasmettendo al lettore le nostre emozioni con immediatezza.

I vertici azzurri di Roma” 2010

Roma, l'”Umbelicus Urbis” et orbis

In effetti il primo shock lo dà il titolo, quel “Crhomo Sapiens” bifronte, chiaro nell’homo sapiens, un ritorno alle origini, forse all’arte o all’anima primigenia; ma il Cr che precede?  Nicoletta Zanella lo riferisce al “cromatismo”, e l’interpretazione autentica della curatrice della mostra  si deve comunque accettare, del resto lo stesso artista parla di “cromoterapia” come rimedio alle ansie; noi ci aggiungeremmo un riferimento al tempo, al dio Crono, che sentiamo pervadere la sua opera sia nel fissare sul calendario le opere datate sia nel dare il respiro dell’eternità a tante altre.

Superato lo shock intellettuale – la sfida a “decifrare” l’insolito titolo  – ecco lo shock visivo, l’eruzione vulcanica. Parliamo della prima sala, talmente nell’ombra  che si vede a stento la pedana centrale nera intorno all’Umbilicus Urbis”; un’ombra fitta solcata alle pareti dai bagliori di forme e colori che sembrano piovere dall’eruzione vulcanica di una pittura esplosiva: un’eruzione di Roma su Roma, non è un’altra Pompei, il magma che cala dall’alto prende forme ben delineate dai colori netti e decisi quanto enigmatici, sarà stato così l’antro della Sibilla? La sala è molto vasta, notevoli le dimensioni dei dipinti alle pareti in acrilico su tela: 2,5  metri di lunghezza per oltre 1,5 di altezza, in 9 grandi pannelli che bucano il buio formando una cintura luminosa e colorata.

I primi a piovere dal cielo spiccando nella suggestiva oscurità sono i “Colossei”: “La Grande Cipolla – The Big Onion” mostra 7 riproduzioni dell’Anfiteatro Flavio che sembrano planare per essere sbucciate strato per strato, così le stratificazioni di Roma; per New York, che non ne ha, “La Grande Mela-The big Apple” si può solo mordere, come fa la celebre “Apple” nel proprio marchio. C’è tanto oro oltre al marrone delle arcate e al verde dei contorni centrali, con del blu tutt’intorno.

Ma è un bordo sottile, il blu diventa il colore dominante, con una tonalità particolarmente intensa, in “I vertici azzurri di Roma”: una pioggia di 15 obelischi, ciascuno con il suo sole sulla punta, al centro l’obelisco sull’elefante della Minerva del Bernini, che diventa un rinoceronte il cui corno è fatto anch’esso ad obelisco. Dagli obelischi ai templi, li porta l’“Alba mammifera”:  nella pioggia di 9 cupole dal cielo l’oro è dominante nei contorni e nei soli, in alto al centro una mano aperta; e dai templi alle croci in “Il sangue e l’oro”, titolo che esprime il cromatismo prevalente. Ancora la Città Eterna in “Il cielo sopra Roma”,  questa volta come Aquila imperiale, su un trono con aureole dorate, è il simbolo dell’impero:ci fa ripensare alla mostra romana di Palazzo Venezia “I due imperi, l’Aquila  il Dragone”, l’impero romano e quello cinese. Intorno alla grande Aquila fluttuano nell’aria inquietanti figure di lugubri uccelli neri dall’occhio rosso, traspare il lato oscuro dell’artista con le immagini angosciose, anche qui l’atmosfera da incubo è rotta dai soli dorati.

In “Liquide effusioni” non c’è Roma ma le figure inquietanti che fluttuano sì, non hanno più forme di uccelli, sembrano animali acquatici che si contorcono e si avviluppano, nel fondo sul verde, blu e nero c’è sempre l’oro a dare il senso della vita.

[4  IMMAGINE CD n. 3]  Finché morte non ci unisca, 2009.

Dalle figure fluttuanti alle mani misteriose, l’una diversa dall’altra e ugualmente inquietanti come lo è il titolo: “Finché morte non ci unisca”, in controtendenza sul noto “finché morte non ci separi”; è un tripudio di colori e di simboli, sulla punta delle dita nella grande mano scheletrita spiccano anche qui i soli dorati, il più grande al centro sul dito ammonitore di una mano blu, che  sembra  la gigantesca mano marmorea dal pugno chiuso e dito alzato di Costantino ai Musei Capitolini; un grande occhio indagatore sulla sinistra del quadro, l’unica forma diversa dalle 10 mani dipinte.

Alla pioggia e all’ammonimento si accompagna  qualcosa di ancora più diretto in “Guardia e Ladra”, irrompe lo scheletro con una spada fiammeggiante tra una pioggia di obelischi e colonne, monumenti ed edifici antichi: l’incubo ha preso una forma che evoca la morte. E prosegue con l’accumulo di teschi, ne abbiamo contati 150, stratificati in tre livelli dal viola al giallo al rosso, in “Catacombelicale”, un’inquietante adunata con espressioni diverse, quasi una muta assemblea; il titolo rimanda al cordone ombelicale della nascita mentre i teschi esprimono per tutti la morte.

Il richiamo catacombale riporta a Roma, a quell'”Umbilicus Urbis”, già citato, che merita di essere descritto nella conformazione e nell’origine. Si tratta di un cerchio di 1 metro in mosaico di marmo bianco, con punti d’oro nei 19 teschi aggregati nella composizione circolare, spicca luminoso sul pavimento al centro della sala come al centro ideale di Roma, nel Foro Romano, al “Mundus”, il varco dell’Ade riservato a Proserpina, inizio e fine nello stesso tempo, il vortice di alfa e omega. Precorre anche temporalmente la pioggia di Colossei e obelischi, cupole e croci, l’autore ha concepito e realizzato l’Umbilicus nel 2006, tutti gli altri sono stati ideati e dipinti nel 2009 e 2010, alcuni per la mostra che così alla contemporaneità ha aggiunto l’immediatezza, la “premiére”.

Queste immagini per Roma tornano anche nelle piccole preziose sculture della stessa sala, “In bocca alla lupa”,  con due teschi al posto dei gemelli e “Parva larva”, uno scheletro inginocchiato che reca  uno specchio barocco sfidando a guardare la propria immagine; “My Navona”, con l’obelisco della fontana dei “Quattro fiumi” tra pietre  bagnate dalla luce  nelle spire di un rettile e “I sette de-collati”, una colonna dal capitello ionico con 7  “pietre” costituite da teschi in argento.  Segni inquietanti meno evidenti in eleganti oggetti e gioielli con materiali pregiati, come “Le Api Barberini” e “Happy New Ear”, “Gioielleria sottomarina” e “Vedi alla lettera C“: c’è qualcosa di allucinato nell’Ape, come nel gioiello a polipo e nella spilla a forma di pesce pronto a scattare.

Questo merita una riflessione, anche se ci piace notare subito come i titoli anche dissacranti aiutino a superare l’atmosfera certamente non gioiosa che alcune immagini creano. Ma l’arte non è fatta per gioire, e quella contemporanea a differenza dal classicismo non va alla ricerca del bello, forse piuttosto del brutto della realtà e dei propri incubi. Lo fa anche Echaurren, e  capiremo perché.

“Finché morte non ci unisca”, 2009

L’esorcismo dell’horror vacui

Nel suo animo c’è qualcosa che nasce dai limiti della condizione umana di “insuperabile ignoranza”: invece di dargli la serena consapevolezza socratica del “so di non sapere” lo rende “artista malinconico” come lui stesso si definisce. Questo qualcosa gli ha dato una spinta verso la catalogazione e il collezionismo, una bramosia di “sapere tutto” di una certa materia e raccoglierlo, possederlo quasi temesse di perdere anche questa limitata sicurezza. “Volevo fare l’entomologo”, dice, oltre che suonare il basso, e si è accostato al mondo di Marinetti scoprendo il futurismo, un trittico di cui lo vediamo protagonista attivo: ha esplorato, scritto e collezionato sul mondo degli insetti, è stato suonatore di basso in un complesso e colleziona tale strumento musicale, è uno dei maggiori collezionisti del futurismo: tutte e tre le cose sono confluite nelle opere della sua arte.

La sua curiosità non si è esaurita nella ricerca teorica e astratta, ha avuto lo spirito dell’esploratore  che percorre in lungo e in largo il territorio di suo interesse e ne diventa protagonista. Così nella sua vita oltre a Lotta continua e gli Indiani Metropolitani abbiamo anche Marinetti e il Futurismo, mondi opposti uniti dalla comune trasgressione che per lui è stata una potente molla di creatività e innovazione. Nessun opportunismo o convenienza lo ha fermato, ha fatto le contaminazioni impossibili tra la sinistra extraparlamentare e la destra futurista, la pittura seria e i manifesti dissacranti, le copertine colte e i fumetti disinibiti, la stoffa e la ceramica. E non in periodi successivi, anche contemporaneamente senza far scacciare la moneta buona  da quella “cattiva”.

Eclettico e poliedrico, quasi inafferrabile, la sua continuità e coerenza forse si può trovare nella discontinuità e nell’incoerenza in un modo nobilitato dall’arte che ironizza anche su se stessa, e non solo nei titoli di molte opere. Ha ragione Emanuele quando nota “un vivace estro ludico, elemento più intimo dell’artista”: emerge prepotente da un corpus di opere vastissimo nel quale il segno distintivo sembra essere la leggerezza anche quando appare greve, per chi sa leggere in quei teschi e in quegli scheletri che possono diventare ossessivi se non si guardano nel modo giusto. La chiave di lettura è quella dell'”horror vacui”  – ce lo ha detto proprio lui – derivante dalla consapevolezza del vuoto incolmabile di conoscenza, una notte della ragione che genera mostri, si potrebbe dire.

Lui stesso esorcizza questi mostri portando sul proscenio i suoi teschi e scheletri, i suoi animali inquietanti: siano raffigurati in volo o in acqua allontanano il maligno proprio perché ne sono l’immagine. “Il male va dove c’è il bene – ci ha detto – non va a trovare se stesso, quindi non viene dove ci sono queste figure”. L’orrore del vuoto si colma riempiendolo di spaventa-passeri, cioè spaventa-maligno, in un esorcismo pittorico che è un punto di arrivo: sono degli ultimi anni le espressioni più inquietanti per chi non ha la rassicurante chiave di lettura; vuol dire che la lunga esplorazione di quarant’anni di “ricerca sul campo” è approdata a certezze o almeno conferme.

Ma la sua leggerezza sfiora tanti altri temi e si serve di tanti altri mezzi e stili. Ne parleremo prossimamente raccontando la sua visione della natura e le altre sue espressioni multiformi.

Info

Catalogo della mostra: “Pablo Echaurren. Chromo Sapiens”, a cura di Nicoletta Zanella, Skirà, 2010, pp. 164, formato cm. 24×28.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia la Fondazione Roma Museo, con Civita, gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura “La Grande Cipolla”, 2010; seguono “I vertici azzurri di Roma” 2010 e “Finché morte non ci unisca”, 2009: in chiusura il mosaico di cui è autore il padre dell’artista, ripreso da Romano Maria Levante nel tunnel della stazione Metro di Piazza di Spagna a Roma.

Il mosaico di cui è autore il padre dell’artista, nel tunnel della stazione Metro di Piazza di Spagna a Roma

Guggenheim, 1. Il museo dell’avanguardia americana, al Palazzo Esposizioni

i Romano Maria Levante

Nel commentare la mostra sull'”Arte Astratta Italiana” con la celebrazione di “QUI Arte contemporanea” nel 60° di Editalia in corso alla  Gnam  fino al 27 gennaio 2013, abbiamo sottolineato il ruolo della rivista e della Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel dare visibilità al nascente astrattismo italiano. Al riguardo abbiamo evocato il ruolo del Guggenheim nell’escalation  dell’astrattismo americano attraverso un vero e proprio mecenatismo, ruolo  documentato nella mostra romana svoltasi dal 7 febbraio al 6 maggio 2012 al Palazzo delle Esposizioni, “Il Guggenheim – L’avanguardia americana 1945-1980”,  che merita di essere ricordata.

Richard Estes, “The Salomon Guggenhein Museum”, 1979 

Sono state esposte  60 opere tra dipinti, sculture e foto dalla celebre collezione, ordinate in 7 sezioni sulle tendenze nell’arte moderna  transoceanica tra il 1945 e il 1980: Espressionismo astratto e Hard Edge, Pop Art e Minimalismo, Post minimalismo e Arte concettuale fino al Fotorealismo.

E’ stato un evento vedere opere di un’istituzione che rappresenta molto più di una rinomata sede espositiva o di una preziosa collezione di opere d’arte. Il celebre museo nasce dall’impegno per l’arte moderna del ricco uomo d’affari Salomon Guggenheim, espresso in un’instancabile attività di collezionista dall’inizio degli anni ’30, nell’omonima Fondazione istituita nel 1937 per “la promozione, lo sviluppo e l’educazione in campo artistico e l’istruzione del pubblico”, e nel  “Museum of Non-Objective Painting” di New York creato nel 1939 che già nella denominazione si orientava verso un’arte non-oggettiva, vale a dire non tradizionale e figurativa ma tendenzialmente astratta. E questo con un linguaggio svincolato dall’oggettività per esprimere valori spirituali.

L’apporto di Peggy Guggenheim

Imperniato all’inizio sulle opere di Kandinsky che incarnava questa tendenza innovativa, creò il collegamento decisivo tra gli artisti europei fuorusciti negli Usa per sfuggire all’occupazione nazista e i giovani artisti americani. A questo riguardo fu fondamentale la nipote di Salomon, Peggy Guggenheim, che risiedeva in Europa occidentale dove aveva già formato un’ampia collezione di arte moderna nei suoi viaggi attuando, tra il 1938 e il 1941, il programma di “comprare un quadro al giorno” a contatto con gli ambienti parigini, in particolare con Duchamp e i surrealisti; tra l‘altro sposò Max Ernst. Anche Peggy lasciò l’Europa per New York nel 1941 prima dello scoppio della guerra con la collezione che aveva messo insieme e nel 1942 aprì una sede di arte contemporanea, “Art of This Century”, con il programma di “servire il futuro anziché documentare il passato”. 

Non era un museo come il “Non-Objective Painting” dello zio, ma un centro di incontri e iniziative tra artisti e critici, curatori e collezionisti; organizzava mostre per opere selezionate da una giuria con Duchamp ed Ernst, Mondrian e i curatori; fu scoperto così, proprio nel 1942, segnalato da Mondrian, Pollock, legato subito per contratto al centro che gli organizzò quattro mostre personali lanciandolo nell’olimpo dell’arte. Peggy acquistò molte opere delle mostre che organizzava e ampliò la raccolta anche dopo che il centro fu chiuso nel 1947 per il suo ritorno in Europa.  Il “Museum of Non-Objective Painting” di Salomon era cresciuto e nel 1959 assunse il nome di “Salomon Guggenheim Museum”  nella Fifth Avenue in un edificio dell’architetto Wright dalle forme curvilinee nel panorama squadrato geometricamente dei grattacieli di Manhattan: doveva essere il “tempio dello spirito”. Nel 1976 vi confluì la collezione di Peggy, vastissima anch’essa.

Jackson Pollock, “Argento verde”, 1949 

L’evoluzione dell’arte attraverso il Guggenheim Museum

Il raggio d’azione si era ampliato al di là della pittura “non-oggettiva” iniziale. Divenne fondamentale l’espressionismo astratto alimentato dall’inconscio, poi con la New York School si diffuse l’automatismo in un’arte che rifuggiva dalla riflessione costante e consapevole. Pollock ne è grande esponente per la sua capacità di esprimere il conflitto interiore mediante immagini astratte.  

Nel 1962 divenne curatore del Guggenheim il critico inglese Alloway, a lui si deve il termine “Pop Art”  come espressione della cultura popolare nei suoi aspetti creativi ritenuti fino ad allora minori, come pubblicità, fumetti e cinema.  Nel 1958 aveva scritto: “Il nuovo ruolo delle belle arti è di essere una delle forme possibili di comunicazione, in un quadro che si allarga sempre più a includere le arti di massa”. Mise in pratica questa concezione nella mostra del 1963 “Six Painters and the Object”con Dine e Johns, Lichtenstein e Rauschenberg, Rosenquist e Warhol. che passano dai conflitti interiori a quelli inerenti la vita urbana riflessi attraverso i mass media  e li esprimono  in forme meno personali più vicine ai processi industriali che ai lavori artistici tradizionali.

La dissacrazione procede, dopo la “Pop Art” il distacco emotivo dell’artista prende anche la strada del Fotorealismo  che traduce l’immagine fotografica in una pittura meticolosa con un precisionismo meccanico volto a dare la perfetta verosimiglianza: i soggetti sono quelli della vita quotidiana, come nella “Pop Art”. Alloway parla  di “immagine raddoppiata”, il dipinto e la fotografia di base, ne sono esponenti Bechtle, Blackwell e Close.

Alloway non si arresta, e con lui l’avanguardia americana: Siamo alla “Systemic Painting”, nome di una mostra del 1966 e della relativa tendenza: resta il non espressionismo della “Pop Art”  ma astraendosi dai temi dei mass media e concentrandosi sui problemi di linea, colore e forma della tela. I colori puri e le forme astratte lo fecero definire “Hard Edge”, tra gli artisti Stella e Noland.

Si va ancora oltre, si esplorano i rapporti tra gli oggetti d’arte e gli ambienti architettonici, si  annulla il confine tra pittura bidimensionale e scultura tridimensionale con Kelly, troviamo scultori come Judd con i suoi cubi e le sue forme rettangolari, e Flavin con i tubi fluorescenti. Al  Minimalismo, Post minimalismo e Arte concettuale fu dedicata una mostra con 21 artisti di 8 nazioni nel 1971 e una installazione luminosa di Flavin.  Nel 1991 il Guggenheim acquistò gran parte della collezione del conte Giuseppe Panza di Biumo che aveva raccolto molte di queste opere.

Al Held, “Senza titolo Y”,1960   

Il significato della mostra tra le recenti esposizioni di arte americana e russa

Ci fermiamo qui in una storia nella quale le iniziative del Museo e l’opera dei curatori hanno contribuito allo sviluppo artistico dell’Avanguardia americana. Alla presentazione della mostra sono intervenuti il direttore del Guggenheim di New York Richard Armstrong e quello della Peggy Guggenheim Collection di Venezia, Lauren Hinkson, che ne è la curatrice. Oltre alla grande sede newyorkese nella Fifth Avenue, ve ne sono tre europee, a Venezia sul Canal Grande, a Berlino e a Bilbao, in varie forme legate alla prima; è stata annunciata una sede in Abu Dhabi.

In tale contesto, la mostra del Palazzo Esposizioni ha assunto un significato diverso dalle  esposizioni di grandi artisti con tanti musei prestatori; rispecchia l’impulso dato dal “Guggenheim Museum” all’arte in un’epoca di straordinario fervore innovativo, come ha sottolineato Emmanuele F. M. Emanuele, allora presidente dell’Azienda speciale Expo: “La mostra documenta i formidabili slanci creativi dell’avanguardia artistica statunitense, in un percorso che rappresenta un’esperienza visuale ed emozionale di forte impatto e che al contempo consente di inquadrare storicamente opere, artisti e movimenti decisivi per la formazione della sensibilità culturale occidentale”. 

Una precisazione a questo riguardo: Emanuele è rimasto fortemente colpito dall’arte pittorica americana, tanto che ha portato a Roma  nella sede espositiva della Fondazione Roma di Palazzo Cipolla al Corso, diffondendone la conoscenza in Italia, Edward Hopper nel 2010 e  Georgia O’ Keeffe nel 2011, due visioni artistiche di una contemporaneità diversa da quella che ci ha proposto con le raccolte dell’avanguardia del Guggenheim. Lo stesso Emanuele ha fatto conoscere  nel 2011, l’anno della cultura russa in Italia, al Palazzo Esposizioni, l’arte della parte del mondo che ne era l’antagonista  frontale nella guerra fredda, i “Realismi socialisti” della Russia di Stalin, Krushev e Brehznev,  in una importante mostra a ottobre accompagnata dalla personale di “Rodcenko”, il fotografo dell’Avanguardia russa oppresso dal regime, preceduta a febbraio da una personale su “Deineka”, tra i grandi del “Realismo”. E’ una visione a largo raggio di una modernità dalle tante facce, ciascuna con aspetti peculiari: dalle opere del Guggenheim emerge la ricerca degli artisti dell’Avanguardia di aderire ai mutamenti della società e del mondo in cui vivono oltre a manifestare la propria creatività, e per questo rifuggono dai vincoli per esprimersi in piena libertà.

Seguiamo l’itinerario indicato nelle 7 sale che fanno corona alla rotonda centrale del Palazzo delle Esposizioni, un ambiente descritto così dal direttore del Guggenheim Armtrong: “In quanto istituzione culturale d’eccellenza in Italia, il Palazzo delle Esposizioni è la sede ideale per esporre l’avanguardia artistica del dopoguerra americano: Con i suoi spazi monumentali e le spettacolari prospettive interne, il palazzo offre un luogo d’eccezione per la presentazione dei capolavori di Jackson Pollock, Robert Rauschenberg, Chuck Close e molti altri ancora”. Prossimamente  il resoconto della  visita: dopo la breve storia che abbiamo premesso la parola passa alle opere d’arte.

Info

Catalogo della mostra: “Il Guggenheim, l’Avanguardia americana 1945-1980”,  a cura di Lauren Hinkson, Ed. Guggenheim, Palazzo Esposizioni, Skirà, 2012, pp. 140, formato 28×30 cm.; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I prossimi due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 29 novembre e 11 dicembre 2012. Le illustrazioni dell’articolo riguardano opere  rispettivamente di fotorealismo, espressionismo astratto e hard hedge, pop art: tendenze  che vengono analizzate nei due articoli successivi con immagini di altre opere esposte in aggiunta a quelle di introduzione  generale di cui sotto si danno le didascalie.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo delle Esposizioni alla presentazione, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo, il Guggenheim con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. – In  apertura, Richard Estes,
The Salomon Guggenhein Museum”, 1979; seguono, Jackson Pollock, “Argento verde” , 1949, poi  Al Held, “Senza titolo Y”  1960;  in chiusura, Andy Warhol, “Disastro arancione n. 5” , 1963..

Andy  Warhol, “Disastro arancione n. 5” , 1963 

Accessible Art, due mostre per sei artisti, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Tre artisti in due spazi di “Accessible Art” complementari, in via Giulia 193 e nella vicinissima via delle Zoccolette 28, e un programma con obiettivi inconsueti. Il tutto animato da un’entusiasta curatrice ed organizzatrice, Michele von Buren conosciuta all’inaugurazione della prima mostra aperta dal 19 maggio al 2 giugno 2012, con le opere di tre artisti  in due sedi nelle vie citate e incontrata ancora nella nuova mostra di altri tre artisti aperta fino al 4 dicembre 2012 con tre serate inaugurali il 20, 21 e 22 novembre: location di eccezione  “RvB Arts” e  “Antiquariato Valligiano, attivo dal 1982, con mobili e altri oggetti antiquari “delle regioni alpine  e non solo”.

Alessio Deli, una sua scultura con dietro un suo quadro  

La premurosa e cortesissima Michele von Buren  ci ha avvicinato lei stessa, dopo averci visto parlare con uno degli artisti espositori presente in mostra e prendere appunti. Era ansiosa di spiegare l’impostazione della nuova attività, ma prima ha risposto alla nostra domanda su come ha individuato gli artisti: è alla caccia di talenti emergenti per i quali organizza eventi e mostre, anche in questi casi c’è stata una sua ricerca e quando ha visto opere di suo interesse ha preso contatto con l’artista, per altri sono state segnalazioni indirette che l’hanno portata sulla pista giusta.  

Secondo quali criteri? Giovani emergenti o artisti affermati le cui opere rispondano ai requisiti dell'”Accessibile Art”, per questo  ha parlato dei suoi obiettivi con enfasi pari alla passione che la anima e riesce a trasmettere, insieme alla disponibilità e simpatia, alla grazia e gentilezza.

L'”Accessible Art” si apre alla gente

Gli obiettivi derivano dalla denominazione, “Accessible Art”, che riflette l’intento di avvicinare l’arte contemporanea alla gente comune in modi del tutto nuovi: portare le opere proposte in un ambiente che sia più accogliente della galleria fredda e razionale  e riproponga il calore familiare; e cosa può farlo meglio che il negozio di antiquariato dove il clima domestico è dato dagli oggetti e dai mobili di casa esposti in un arredamento in cui le opere si inseriscono come parti integranti?

Perché questo avvenga senza attriti è necessario che le opere di arte contemporanea offerte siano “comprensibili con  la vocazione ad integrarsi come complemento scenografico d’arredo”. In questo modo è possibile “far superare la diffidenza che l’arte contemporanea, attraverso un linguaggio enigmatico, può generare”. C’è molto coraggio in quest’affermazione, Michele infrange il tabù  del “linguaggio enigmatico” dell’artista contemporaneo ritenuto insindacabile anche se genera sconcerto; e la sua non è una velleità donchisciottesca, non combatte alcuna forma d’arte pur se incomprensibile: solo circoscrive la sua scelta all’arte “accessibile”, con un intento coraggioso: farla entrare nelle case della gente come la accoglie nella casa dell’Antiquariato valligiano e per questo deve essere compatibile con l’ambiente cui è destinata e con la sensibilità di chi deve riceverla.

Un ulteriore obiettivo completa la sua originale e lungimirante strategia: “Rendere l’arte più abbordabile dal punto di vista economico”, così vengono proposte opere “il cui prezzo non supera il tetto dei 5000 euro, lasciando intatto il potenziale dell’investimento”; nel senso che le opere, per il prezzo contenuto rispetto al livello artistico promettono una positiva valorizzazione economica.

Tetto di spesa e potenziale d’investimento sono la chiave di accesso che apre l’arte contemporanea alla gente comune fuori dagli addetti ai lavori, e soprattutto può aprire le loro case per accoglierla. Un “vasto programma” nel senso gollista cioè utopistico? Crediamo e auguriamo non sia così,  l’entusiasmo e il dinamismo di Michele von Buren sono una garanzia. Abbiamo visto tempo fa al Palazzo Esposizioni  la grande mostra sul “Guggenheim Museum” che alimentò fortemente l’avanguardia americana dal secondo dopoguerra  promuovendo mostre e acquisti delle opere di artisti ignoti e coraggiosi.

Michele von Buren come Peggy Guggenheim? La passione c’è e anche l’intento, diversa l’impostazione, ma ora non si tratta più di stimolare l’innovazione  al di fuori di ogni limite e convenzione, piuttosto di avvicinare la gente perché accolga l’arte  contemporanea nella propria casa, perciò l’iniziativa di Michele ci sembra meritevole oltre che innovativa. Che sia in grado di lanciare una tendenza, quella dell’ “Accessible Art”?  Lo auguriamo di cuore. Intanto dopo la prima mostra dal 19 maggio con tre artisti si replica dal 20 novembre con altri tre artisti. 

Abbiamo detto degli obiettivi e delle due sedi, ambienti caldi e accoglienti nelle due vie convergenti, la grande e celebre via Giulia, la piccola anch’essa rinomata via delle Zoccolette dove dalla prima mostra a quella attuale lo spazio espositivo è stato ampliato. Ora parliamo degli artisti.

Luca Zarattini, una sua composizione  

I tre artisti in mostra fino al 4 dicembre

Si tratta di giovani artisti che hanno un “cursus onorum”  ragguardevole, con premi prestigiosi e mostre personali e collettive. 

Cominciamo con Fabrizio Carotti. Le sue foto digitali elaborate mediante tecniche e cure particolari, colpiscono per la loro intensità, definita “caravaggesca” per la forza della luce che scolpisce i soggetti in colori e composizioni  di tipo pittorico. Non sono istantanee ma artistiche messe in scena che lui stesso costruisce. I pregi non sono solo nell’impatto visivo immediato quanto nei contenuti che si rivelano a un esame più meditato: atmosfere di abbandono e di assenza nelle quali il tempo sembra sospeso: la formazione filosofica dell’artista ha certamente un peso nel far sì che l’immagine possa rivelare l’essenza che la anima.

Nel 2011 ha esposto al Padiglione Italia per Urbino nella 54^ esposizione d’Arte alla Biennale di curata da Vittorio Sgarbi nel 150° dell’Unità d’Italia; la selezione di Sgarbi nella manifestazione si è basata sulla segnalazione di uomini di cultura e di spettacolo escludendo gli addetti ai lavori della critica professionista per individuare le opere di arte contemporanea che hanno interessato i più attenti osservatori e testimoni della società odierna, quindi un’idea non dissimile da quella alla base dell'”Accessible Art”, e vedremo come pure nella mostra di maggio c’è stato un espositore della Biennale.  

Una resa pittorica di tipo molto diverso quella delle opere di Luca Zarattini, dove spiccano i materiali usati per composizioni in cui sono presenti elementi figurativi spesso evanescenti: si percepiscono dei visi in un denso impasto materico con materiali comuni come il cemento, il metallo e la plastica. Il fatto che le figure immerse in questo impasto prodotto dall’industria dei nostri giorni  abbiano assonanze classiche può costituire un ponte ideale fra il presente e il passato; del resto la sensazione che dà l’impatto visivo è di trovarsi in una sorta di limbo senza tempo dove si delineano immagini dalle forme indistinte come fossero nei sogni o nella memoria.

L’artista è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna ed è impegnato in una sperimentazione molto interessante che merita di essere seguita per la coraggiosa contaminazione delle pittura con materiali che attengono soprattutto ad altre forme artistiche come la scultura.

Lo notiamo ancora di più  nell’artista di cui abbiamo visto esposte più opere nella mostra e sul quale possiamo soffermarci maggiormente avendo potuto incontrarlo e parlarci di persona nel primo giorno inaugurale, Alessio Deli. Anche lui proviene dall’Accademia delle Belle Arti, nel suo caso di Carrara, dove si è diplomato con il massimo dei voti, è abilitato all’insegnamento delle  “Discipline plastiche” all’Accademia delle Belle Arti di Roma; anche lui ha radici profonde nel classicismo.

Mentre il precedente artista è di estrazione pittorica pur utilizzando anche  materiali scultorei, lui si proclama scultore a tutto campo pur se ha incursioni pittoriche, o meglio sulla superficie piana di un quadro in aggiunta alle forme delle sculture vere e proprie.  E su questa superficie compie elaborazioni complesse con procedimenti di ossidazione e di altro tipo relativi a materiali che rappresentano la sua sperimentazione di certo propedeutica o almeno complementare alla scultura.

Anche quando opera sulla superficie così elaborata non manca di inserirvi rilievi scultorei  fortemente materici quasi a voler porre il sigillo della sua vocazione. Dalla superficie passa al rilievo con teste che balzano fuori come spinte da una molla; e con piccole figure come i gabbiani per i quali –  ci confida l’anticipazione –  pensa a un’utilizzazione massiccia anche simbolica in luoghi particolari come testimonianza dell’esigenza di difendere la natura e l’ambiente. Gli abbiamo detto che i gabbiani sono di casa sulla terrazza del Vittoriano, e che sarebbe bello affiancarvi i suoi.

La poliedricità di Deli è tale da lasciare sorpresi nel vedere esposte opere di diversa natura e fattura in un percorso che resta coerente con la sua concezione materica e la sua vocazione scultorea. Che esplode nelle grandi sculture dai titoli evocativi: “Odusia”, “Exodus”, “Summer”: sono figure monumentali in lamiera, ferro, plastica e altri materiali di recupero, quindi logorati dall’uso e dal tempo, cosa che conferisce loro il senso del “vissuto”. Maria Luisa Perilli vi vede “fermenti vitalistici di un particolare naturalismo pittorico”,  e questo rimando alla pittura  anche in sculture monumentali accresce l’interesse della sua sperimentazione.  La stessa Perilli  trova nei procedimenti di ossidazione con i quali tratta i materiali l'”occasione di riscatto dell’essere, possibilità di ricrearsi incessantemente, di recuperare quella spiritualità del ‘tempo e del mestiere di vivere’ usurpata, offesa dal relativismo dilagante dell’odierna società”. 

Che sia artista un giovane ad esprimere  “il male della solitudine, della incomunicabilità”  con sperimentazioni materiche che rientrano  a buon diritto nella “Accessible Art”  è confortante sul piano della forma e dei contenuti. Soprattutto perché la sua non è una denuncia senza speranza, anzi è animata da una convinzione che sempre la Perilli definisce così: “Essere progettati per esistere e vivere un tempo antitetico alla dissolvenza”.  E questo con una rinascita dalle sue stesse angosce resa dal riutilizzo dei materiali logori, cui va dato un  significato non solo ecologico ma vitale. Mentre un significato polemico è insito nei tre mitra esposti in mostra costituiti di materiale povero assemblato dall’artista con un forte impatto visivo ma anche simbolico: materiale povero come la povera gente obbligata a combattere guerre non sue. Ma pronta a risollevarsi, e a rinascere.

Al di là di questi significati che la critica colta può attribuire, l’osservatore percepisce le sue opere come direttamente accessibili e adatte ad essere inserite nell’arredamento. L’allestimento della mostra con il quadro sopra la grande cassapanca e a fianco la monumentale scultura è eloquente.

Christina Thwaites,  un suo dipinto da “album di famiglia” 

I tre artisti apripista della “première” di maggio

Sarebbe limitativo  se non ricordassimo i tre artisti della mostra precedente, apripista per così dire dell’ “Accessible Art”, svoltasi dal 19 maggio al 12 giugno. La nostra attenzione fu attirata dalle composizioni semplici di Tindàr. Grandi radici di alberi disegnate a matita con la precisione degli ingrandimenti fotografici su fogli di libri rimpiccioliti con un effetto d’insieme intrigante.

Ci è sembrata un’opera di “Arte concettuale” nel senso di avanguardia americana, cioè basata su un’idea forte, e qui l’idea di base è immediatamente percepibile. Ne parlammo con l’autore e ci confermò la bontà  della nostra intuizione, una  sorta di “prova finestra” che l’opera rientra nell'”Accessible Art” a pieno titolo in quanto comprensibile.  Diverse le varianti sul tema, sempre sotto la grande radice cambiano i fogli, c’è la “Divina Commedia” – l’Inferno, precisa Tindàr –  ma anche il “Canzoniere” di Petrarca, l'”Iliade” in greco fino a un manoscritto dell’800 di un notaio lucchese.

Confessiamo che dinanzi alle pagine rimpicciolite è scattato in noi l’interesse, anche perché nell’anticamera del nostro medico di famiglia c’è un grande quadro con riprodotti tutti i fogli del romanzo dei “Promessi sposi”. Qui c’è in più la grande radice, ed è questa l’idea concettuale:  rendere visivamente le radici della nostra cultura collegandole a parole immortali che ne sono la linfa vitale.

Quasi mimetizzati tra i mobili e gli arredi, inseriti perfettamente nell’ambiente domestico i quadri del secondo artista,  una pittrice inglese che vive a Roma, dove aveva esposto in una mostra collettiva al Palazzo Esposizioni e stava preparando una mostra per il Macro, il tempio del contemporaneo di Roma Capitale; aveva partecipato a un workshop internazionale in Palestina. Christina Thwaites potrebbe essere presa a simbolo dell'”Accessible Art”  nel senso di arte domestica, vicina al clima familiare.

I suoi quadri, che rappresentano volti abbozzati, sono ispirati dalle fotografie di vecchi album di famiglia; ma sono l’opposto del  fotorealismo – la corrente dell’avanguardia americana che riproduceva con una pittura precisionista  ogni dettaglio della fotografia –  c’è una trasposizione umoristica a volte caricaturale, sembrano sagome evocative  derivanti da ricordi resi confusi dalla distanza nel tempo e nello spazio. E proprio per questo mentre si cerca di penetrarne forme e contorni ci si sente  toccati da un che di affettuoso che esprimono.

Infine  i quadri della terza artista, la pittrice romana  Lucianella Cafagna,  formatasi all’Accademia parigina di Belle arti  e alla scuola di Pierre Caron, pupillo di Balthus e del maestro romano Gian Luigi Mattia, un ricco curriculum di mostre personali  e collettive.

Due diverse formule espressive, entrambe figurative, in un’arte che, nella nota critica,  “torna alle cose, al loro racconto, alla loro struggente fuggevolezza e alla bellezza che di queste è sorella”. Una formula di forte impatto cromatico, colori forti e contrastati su forme e contorni netti, composizioni di forme originali e non convenzionali, come quella della figura a terra in una prospettiva singolare delle gambe; l’altra formula è raffinata, dal cromatismo delicato, un’eleganza che richiama il passato, espressa in un’opera di grandi dimensioni, “Lady Jane”, esposta al “Padiglione Italia” della 54^ Biennale di Venezia, di cui abbiamo ricordato i criteri di selezione vicini alla sensibilità comune. Si tratta di una grande figura di donna elegante, enigmatica e carica di mistero, in una teca in plexiglas che le dà quasi un senso religioso. Forse una reliquia di qualcosa che ormai non c’è più ma va conservato e venerato?  Restiamo con questo interrogativo, di certo è una figura che scava dentro nell’animo.

Un impegno da seguire e incoraggiare

Le due mostre di “Accessible Art” a distanza di sei mesi hanno proposto sei artisti con una forte carica innovativa non disgiunta da un rigoroso ancoraggio culturale  e da una sensibilità che fa sentire  le loro opere di indubbia caratura e originalità artistica vicine al comune sentire, quindi  tali da inserirsi  benissimo all’interno di una normale abitazione, anche perché accessibili nel costo.

In diversi casi nello spazio espositivo sono abbinate direttamente a cassapanche e mobili d’epoca o caratteristici in una simbiosi che dimostra la fruibilità pratica unita all’accessibilità economica.

Michele van Buren si è impegnata con uno slancio pari alla sua passione, che ci ha fatto pensare a Peggy Guggenheim, nel sostenere attivamente i giovani sulla strada di un’arte innovativa. E  ha trovato una formula originale che va incoraggiata perché avvicina l’arte contemporanea alla gente e può portarla nelle case, in questo diversa dalla mecenate citata che le ha acquistava per la propria raccolta divenuta  ricca e preziosa fino ad essere incorporata nel museo del grande Salomon.

L’incontro con gli artisti espositori facilita la comprensione e la comunicazione. Il contatto  c’è anche adesso, almeno nelle serate di presentazione: sia nella prima mostra che nella seconda abbiamo potuto incontrare un giovane artista espositore e parlarci a lungo, ne abbiamo dato conto. Si potrebbe sviluppare e valorizzare ulteriormente l’attuale possibilità di incontrare gli artisti.

Di certo l’inventiva e la passione di Michele non farà mancare ulteriori iniziative per promuovere e diffondere l'”Accessible Art”. Le attendiamo con interesse perché meritano di essere seguite attentamente. Per quanto sta a noi, non le faremo mancare l’incoraggiamento. In bocca al lupo!

Info

“RvB Arts” con “Antiquariato Valligiano”, Roma, via delle Zoccolette  28 e via Giulia 193,  pressi Ponte Garibaldi, dal martedì al sabato, orario negozio; domenica e lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518; www.RvBArts.com; info@rvbarts.com

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione delle due mostre, si ringrazia la galleria con l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, gli artisti e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Alessio Deli, scultura con dietro un dipinto; seguono, Luca Zarattini, composizione, poi Christina Thwaites, dipinto da “album di famiglia”; in chiusura, Tindàr, una delle sue radici di alberi disegnate su fogli di libri rimpixccioliti.  

Tindàr,  radice di albero disegnata su fogli di libri rimpiccioliti 

Vermeer, 2. Esterni e interni nell’arte olandese, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Abbiamo già inquadrato la mostra aperta a Roma,  alle Scuderie del Quirinale, dal 27 settembre 2012 al 20 gennaio 2013, “Vermeeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese”,  organizzata insieme a  MondoMostre, curata da W heelock  Jr, Liedtke, Bandera  con Paolucci presidente del Comitato scientifico. Dopo aver parlato della vita e dell’arte di Vermeer, nella temperie artistica del “secolo d’oro olandese”, raccontiamo la visita alle opere esposte,  50  dipinti di artisti olandesi che fanno corona a 8 opere di Vermeer, delle 35 esistenti: piccole dimensioni dalla grande forza.

Vermeer, “Ragazza con il cappello rosso”, 1665-67 

Il pensiero  dei realizzatori su Vermeer

Prima della visita il giudizio dei realizzatori della mostra, che si aggiunge ai pensieri del poeta e dello scrittore riportati in precedenza: è la migliore preparazione alla visione delle opere.

Wheelock Jr. afferma che “in ogni sua pennellata si ravvisa il segno del genio, ogni opera appare insuperata per la qualità dell’esecuzione”. Ma non basta, perché “come dimostra la presente esposizione, Vermeer operava in un ambiente artistico particolarmente dinamico, insieme ad altri pittori di talento come lui dediti all’esplorazione di tematiche simili a quelle trattate nelle sue opere. Molti di essi erano in grado di eguagliare la sua straordinaria abilità nel catturare gli effetti di luce e nel  rendere le superfici per creare immagini della realtà”, e questo valorizza la scelta della mostra di inquadrare gli 8 Vermeer in 50 opere di contemporanei vicini a lui nella vita e nell’arte.  E di consentire anche un confronto diretto nei soggetti corrispondenti delle rispettive sale. “Ciò che differenzia Vermeer dagli altri, e lo rende unico, è la capacità di conferire una qualità atemporale a scene di vita quotidiana. Le sue opere trasmettono contenuti e interessi comuni all’umanità, che continuano a riecheggiare in noi a distanza di secoli dalla loro creazione”.

Entrando nel suo stile  Liedtke scrive: “Nelle maggior parte delle opere di Vermeer lo schema prospettico si percepisce appena, gli interni appaiono del tutto naturalistici e lo spazio sembra la conseguenza dei mutevoli effetti di luce”. D’altra parte “Vermeer ha creato un mondo suo, una realtà più perfetta rispetto a quella che lo circondava”. Nei suoi quadri non vi è nulla dei drammi che lui stesso ha vissuto, “le sue figure sono invece alle prese con l’amore, la speranza, l’arte, la scienza e un piacere privo di eccessi”.  Lo studio della realtà “era considerato dall’artista in modo soggettivo: non un semplice interesse, ma una passione e una fede”, e lo coltivava con grande attenzione per gli artisti vicini alla sua Delft e per l’arte italiana. “Eppure, con tutta la cultura pittorica di cui sono pervase, è probabile che le tele di Vermeer venissero ammirate dai contemporanei per gli stessi motivi per cui le ammiriamo oggi: la bellezza assoluta e la creazione di mondi che appaiono  al tempo stesso reali eppure troppo sereni per esistere al di fuori dell’immaginazione”.

La Bandera va ancora oltre: “Vermeer mostra una capacità notevole di trasformarsi e soprattutto di saper esprimere attraverso una nitida percezione ottica non tanto la realtà quanto un’idea etica, un messaggio di ampie vedute e, attraverso una lettura interiore dei personaggi rappresentati, l’estrema sintesi di un pensiero filosofico”.  Al di là del reale cerca di penetrare “le leggi armoniche che governano la realtà, anche quella quotidiana”. Ma non avviene in modo automatico: ” Questo percorso di identificazione delle leggi armoniche con la realtà si fonda su una serie di processi. La semplificazione, la tecnica, la capacità di rendere la diffusione anche materica della luce, la compattezza smaltata delle superfici”. Il risultato: “Naturalezza, comprensibilità, grandezza che fanno dei dipinti di Vermeer non delle rappresentazioni domestiche, ma immagini universali”.

Per Paolucci “atemporale vuol dire fuori dal tempo, o meglio sopra il tempo”, che mentre scandisce ogni attimo della vita umana ” sospende i suoi effetti nei quadri di Vermeer. Per il maestro di Delft non è importante il tempo. Importante è la contemplazione delle cose. Sapendo bene, tuttavia, che le cose sono inafferrabili. Nessuno lo aveva capito come lui”.  Ecco la conseguenza: ´”Il vero è dunque inafferrabile. Anzi, è un enigma. Di tutto questo Vermeer era consapevole”; per lui e gli olandesi del secolo d’oro, “il vero svelato dall’ombra e dalla luce”  è un’astrazione, “è ascolto del silenzio che abita i luoghi e le cose”. Perciò “lo sguardo a lunga posa di Vermeer è la cosa più grande regalataci, alle origini della Modernità, dal naturalismo e dallo Spiritualismo d’Occidente”.  Seguiamo fino in fondo questo sguardo per coglierne il significato:  “L’autentico carattere distintivo della sua arte è un’approssimazione lenta, implacabile, e incessante, all’ultimo confine della ‘rappresentabilità’, fino al punto estremo in cui la mimesi della realtà si affaccia all’insondabile enigma dell’essere. Per questo la sensibilità moderna ha così amato Vermeer”.

Metsu, “Donna che legge una lettera”, 1664-66

Dagli esterni e interni di chiese a Santa Prassede

La visita inizia alla grande, si entra subito  nella “Stradina”, ci si consenta l’immedesimazione. Il celebre quadro di Vermeer ci accoglie introducendoci nel mondo dell’artista, vicino c’è la “Veduta del Municipio nuovo di Amsterdam” di Van der Heyden,è il mondo degli altri artisti del secolo d’oro. Entrambe le opere ritraggono gli esterni di edifici, la prima è divenuta un simbolo della vita di comunità e della quotidianità,  con le figure di donne al lavoro nel piccolo cortile  e dentro il portone di una casa popolare dalla tipica facciata in mattoni rossi modesta e segnata dal tempo. Imponente invece la facciata del Municipio di Amsterdam, che spicca in piazza Dam rischiarata dalla luce del sole con delle ombre discrete che ne esaltano la tridimensionalità e sormontata da una cupola deformata dalla prospettiva. Sono i due esterni,  privato e pubblico, entrambi presenti.

Ci si chiede come sia lo scenario complessivo, la città di Delft, e si è presto accontentati. Nella 2^ sala ci sono quattro dipinti che ce la mostrano, prima nella panoramica in campo lungo, la “Veduta di Delft  con l’esplosione  del 1654”, di Van der Poel, poi a distanza sempre più ravvicinata con le due opere di Vosmaer, “Veduta di Delft da una loggia immaginaria”, dove il porticato dal cui interno si scopre la cittadina non esiste, è  creato dalla fantasia del pittore in una prospettiva architettonica rinascimentale; e ancora di più con  “Veduta di una città olandese (forse Delft)”  con in primo piano un muro di mattoni diroccato di un casa di campagna che si intravede di lato. Si torna nel vivo dell’ambiente cittadino con “Il canale Oude Delft e la Oude Kerk a Delft”, ritroviamo Van der Eyden in una scena da “città sparita” con molta attenzione a dettagli tipici in una luce calda e avvolgente solcata da ombre leggere.

La curiosità di conoscere l’interno di questa chiesa dal campanile svettante, il cui culmine è circondato da quattro punte come minareti, è anche questa soddisfatta. Vicino troviamo il dipinto  di De Witte,  “Interno di chiesa gotica con motivi della Oude Kerk di Amsterdam”, che pur non essendo quella di Delft ne mostra la struttura forse non dissimile, tenendo conto che l’artista aveva sviluppato il suo stile nella cittadina tra il 1650 e il 1652 prima di trasferirsi ad Amsterdam dove lavorò tra il 1652  e il 1663 continuando a ispirarsi a Delft in contaminazioni immaginarie.  La sorpresa è la luminosità della grande navata che dà un senso di spaziosità orizzontale diverso dalla verticalità gotica, in un interno reso familiare dai fedeli ritratti nei diversi angoli della chiesa;  la scena  la fa sentire accogliente sotto l’aspetto ambientale oltre che  spirituale.

E’ esposto, autore lo stesso DeWitt,  anche “Interno della Nieuwe Kerk a Delfi con Tomba di Guglielmo il Taciturno”:il soggetto è il più importante monumento olandese  con le spoglie del condottiero vittorioso della guerra di indipendenza, assassinato nel 1584. Anche qui la scena è animata da un pittoresco gruppo di visitatori, non manca nulla, uomini e donne, bambini e tre cani: le persone sono ben vestite, quasi un simbolo di pace e prosperità, insieme alla fede e all’orgoglio nazionale per il personaggio di cui si vede la statua e  il sacello. Come nell’altro interno, lo spazio  è dilatato dalla luce sulle grandi colonne e le piccole arcate.

Il medesimo tema nel dipinto dal titolo identico di Van Vliet, reso con maggiore ufficialità, dove sono evidenziati gli stemmi gentilizi e le bandiere, mentre le persone presenti sono della Guardia civile e rendono omaggio all’eroe.

Un altro personaggio è celebrato nel dipinto di  De Lorme, “Cappella della Laurenskerk a Rotterdam, con tomba dell’Ammiraglio Witte de With”:anche lui inserisce elementi immaginari  nella realtà delle chiese, peraltro stravolta dal passaggio dal rito  cattolico al calvinismo, dopo l’ondata protestante. I  monumenti pubblici, come questo per l’eroe della marina olandese, sono immessi nelle cappelle laterali al posto  degli altari e delle statue di santi che vengono rimosse.  

Ci siamo dimenticati di Vermeer, presi dalle visioni architettoniche degli altri artisti gravitanti su Delft? Se fosse così la mostra ce lo ricorda subito in un dipinto in carattere con i luoghi di culto fin qui visti da vicino. Ecco nella 3^ sala il dipinto di maggiori dimensioni rispetto agli altri, “Santa Prassede”, che fa parte del primo periodo in cui si dedicò a soggetti religiosi e mitologici, poi abbandonati per i temi di vita quotidiana. L’opera deriva da un quadro dell’artista fiorentino  Felice Ficherelli, vissuto tra il 1605 e il 1670 circa, che lo realizzò nel 1650, cinque anni prima di quello di Vermeer datato intorno al 1655.  In mostra sono esposti affiancati, non si intravedono differenze evidenti né nel modo con cui è raffigurata la santa – a parte il crocifisso aggiunto in quello di Vermeer forse per richiesta di una possibile committenza ecclesiale o per la sua conversione all’atto del matrimonio con la giovane cattolica Catharina Bolnes –  né nel formato;  guardando bene, però, la mano del maestro olandese rifulge nella luce che fa risplendere il volto della santa, nei lineamenti  idealizzati, nei colori più intensi e nelle pieghe che marcano la veste in modo più deciso.

Vermeer,“La suonatrice di liuto”, 1665-67

Scene di vita quotidiana nei cortili e negli interni di case olandesi

Dopo questo intenso primo piano che ricorda le tradizionali immagini sacre, nella 4^ sala  si entra non più nelle chiese ma nelle case olandesi, sono riprese scene di vita con figure caratteristiche quali  “Il tamburino disobbediente” di Maes, “Il suonatore di violoncello” e “Donna che legge una lettera” di Metsu, “Due soldati e una cameriera con un trombettiere” di De Hooch e “Due uomini che fumano e bevono” di Van Ostade.  Il motivo militare è associato a quello musicale, molto importante all’epoca. C’è anche il motivo della  scrittura, l’Olanda era tra le nazioni più alfabetizzate e l’invio delle lettere molto diffuso. Vediamo “Ufficiale che scrive una lettera”  e “Donna che sigilla una lettera”, di Ter  Borch. Scene intime e raccolte di interni con la cura dei particolari, dal pavimento all’arredamento,  a volte primi piani delle persone. Più corali, anche se restano intime e raccolte, “La visita” di De Hooch e “Compagnia musicale” di Van Loo.

Ritroviamo alcuni di questi artisti con scene di vita quotidiana  nella 5^ sala, con “Curiosità” di Ter Borch,   e  altri quattro di De Hooch: due nei cortili, “Ritratto di famiglia in cortile a Delft” e “Donna con bambina in cortile”, due in interni, “Giocatori di carte in una stanza illuminata dal sole”  e “La camera da letto”: in entrambi la luce entra da grandi vetrate illuminando una scena corale e una più raccolta.

Ma ecco il prezioso Vermeer, “Giovane donna con bicchiere di vino”, in realtà il soggetto è una scena galante: un intraprendente corteggiatore  offre alla fanciulla il bicchiere di vino, lei lo prende nella mano,  ma respinge con grazia l’ “avance”  girando il volto e distogliendo lo sguardo, mentre è seduto in disparte un giovane malinconico con la testa appoggiata sulla mano destra. Nella vetrata c’è l’immagine allegorica della Temperanza, mentre  un  tavolino con della frutta, una brocchetta e un tovagliolo, e il quadro alla parete completano l’arredamento della stanza  con il pavimento a mattonelle alternate chiare e scure; un’ambientazione  ricondotta a De Hooch.  Opposte le interpretazioni date al sorriso della fanciulla: di accettazione delle attenzioni oppure di cortese distacco nel pieno controllo della situazione; comune il riferimento al clima petrarchesco,  anche se la donna non appare irraggiungibile, vi è il legame con una realtà  non  ispirata dalla moderazione, ricordata nella figura allegorica della temperanza che con una briglia tiene a freno le passioni.

Vita quotidiana con un’intensa introspezione psicologica, dunque. Ne vedremo prossimamente altri esempi significativi nel seguito della visita.

Info

Roma, Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio, 16, Roma,  Domenica-giovedì ore 10,00-20,00; venerdì-sabato ore 10,00-22,30, lunedì chiuso, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro  9,50. Tel. 06.39967500. http://www.scuderiequirinale.it/; http://www.mondomostre.it/.  Catalogo “Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese”, a cura di Sandrina Bandera, Walter Liedtke, Arthur K. Wheelock Jr.  Skira 2012, pp. 248, formato 24 x28 , euro 38; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 14 novembre 2012 con le immagini di “La stradina” e “Santa Prassede” di Vermeer, di “Veduta di Delft con l’esplosione del 1654” di Van der Poel e  “La camera da letto” di De Hooch; il terzo e ultimo articolo uscirà il 27 novembre 2012.  

Foto

Le immagini sono state fornite dalle Scuderie del Quirinale, si ringrazia  l’Ufficio stampa con i titolari dei diritti per la cortese concessione. In apertura “Ragazza con il cappello rosso”, 1665-67, di Vermeer;  seguono “Donna che legge una lettera”, 1664-66, di Metsu e “La suonatrice di liuto”, 1665-67, di Vermeer; in chiusura “Giovane donna con bicchiere di vino”, 1659-60, di Vermeer.

Vermeer,“Giovane donna con bicchiere di vino”, 1659-60

Cinema, 3. Ciriello e i bozzetti di altri artisti, a Montecosaro

di Romano Maria Levante

Si è chiuso il 17 novembre a Roma il “Festival internazionale del film” con il Marc’Aurelio d’oro  a  “Marfa Girl” di Larry Clark, il premio alla regia a Paolo Franchi e alla migliore attrice a Isabella Ferrari, entrambi  per il film “E la chiamano estate”. Al posto della cronaca del finale di un Festival  dimesso, mentre cala il sipario sulla festa del cinema ci piace concludere in bellezza la nostra carrellata sui bozzetti originali creati dai pittori cartellonisti per i manifesti cinematografici,  oltre 100 opere esposte nella mostra permanente di Montecosaro, Macerata, “Cinema a Pennello”.

Averardo Renato Ciriello con Johnn Wayne in “Sentieri selvaggi”,  regia John Ford, 1956

Il realizzatore, Paolo Marinozzi,  accanito collezionista,  li ha raccolti nel palazzo patrizio di famiglia e li ha riprodotti e descritti nel bel Catalogo edito dal suo “Centro del Collezionismo”. Ne abbiamo parlato nel primo articolo, ricordandone la genesi, mentre nel secondo articolo abbiamo  descritto la prima parte della galleria espositiva; ora concludiamo il racconto della visita con altri artisti e il decano Averardo Renato Ciriello.

Manfredo e Crovato, Biffignandi e Nano, Casaro e Gasparri

Facciamo la conoscenza dei bozzetti di Manfredo Acerbo:  nero è l’inatteso sfondo di “Sette uomini d’oro” e “Costa azzurra” dato il diverso cromatismo dei titoli, nero il tratto marcato de contorni del corpo femminile in”Sette volte donna”, nero lo sfondo di “L’amante sconosciuto”. E’ blu invece lo sfondo che fa risaltare il viso dorato di Laurence Olivier in “Amleto”, mentre la grafica dello sky line a tratti stilizzati in marrone scuro rende più luminosi i due volti in primo piano anche perché hanno “Il sole negli occhi”.

E’ stato  premiato nel 1954 come miglior pittore cinematografico dell’anno con Campeggi, attivo anche nella ritrattistica e nelle opere sacre in cui si firma con il solo nome “Acerbo”.  Marinozzi  usa questi termini: “Il cinema ha in lui  il pittore capace di innalzare ad arte il messaggio di un’immagine fugace”.  Che in fondo è la migliore definizione che si possa dare ai cartellonisti cinematografici.

Luciano Crovato  ha lavorato nello studio Casaro e ha collaborato con Rodolfo Gasparri, curando in modo particolare la grafica, il colore e la composizione, elementi fondamentali del cartellone cinematografico come della pittura. “Nel costruire le immagini – citiamo ancora Marinozzi  – privilegia sempre la supremazia dell’elemento narrativo, tracciato attraverso quello che i formalisti russi definirebbero ‘i motivi’ del racconto”.

Andiamo a verificare questa definizione  con i bozzetti esposti, come “Rullo di tamburi” e “L’ultimo gladiatore”, spicca la figura del protagonista che brandisce la pistola e il gladio, mentre in “Moby Dick”  è molto espressivo Gregory Peck con in mano l’arpione su un mare tempestoso.  Molto diversi i ritratti ammiccanti di Totò in “I soliti ignoti”, e di  “Miranda”  incorniciata da un grande cuore, come quelli di “Il maresciallo Rocca” e “Linda e il brigadiere”, con Nino Manfredi, Gigi Proietti e Stefania Sandrelli.

Scene affollate disegna  Alessandro Biffignandi in “Guerra e pace” e “Scandali a Hollywood”; poi le figure e i volti pensosi dei protagonisti in “La diga sul Pacifico”, che spiccano sugli sfondi scuri.

Entrato a 17 anni nello studio Ciriello, all’inizio i suoi disegni sono completati dal maestro, poi passa allo Studio Favalli.  Illustratore di libri e riviste, è attivo anche sul mercato americano.

Tutt’altro che “nano” appare Silvano Campeggi, nonostante  usasse tale attributo scherzoso come propria sigla. E’ stato allievo addirittura di Ottone Rosai, fu introdotto nel cinema da Luigi Martinati; ha innovato nella cartellonistica con il suo tratto essenziale e originale.

Troviamo  audaci intuizioni  in “Non mangiate le margherite”, tre fiori giganti coprono  il corpo nudo di Doris Day su uno squillante sfondo verde; uno sfondo anch’esso uniforme ma celeste è in “Uno straniero a Cambridge ” con una spilla altrettanto gigante. Originalissima  “La pantera rosa” con la testa di Claudia Cardinale inserita nel corpo, peraltro grazioso e delicato, dell’animale.  L’attrice è vista nella sua leggiadria in “La ragazza con la valigia”,  un’immagine deliziosa, mentre in “Un fidanzata per papà”  le attrici diventano carte da gioco. Tradizionali ma pur sempre con tratti originali “Una donna di paglia” e “La ragazza del quartiere”, dovei le due coppie con Sean Connery nel primo e Robert Mitchum  nel secondo sono riprese in modo non convenzionale.

Alfredo Capitani è passato dalla scenografia teatrale iniziale alla grafica di manifesti per manifestazioni di varia natura nel ventennio fino al cartellonismo cinematografico, espresso anche in striscioni e insegne per le sale a Roma. Poi l’incontro decisivo con Ballester  e Martinati con i quali fondò un’agenzia di pubblicità cinematografica intitolata alle loro iniziali B.C.M.

Non segue lo stile preciso nei dettagli di Ballester, punta sull’immediatezza e sul colore per la “chiamata” dell’osservatore come una “revolverata”, per usare le sue parole riportate da Marinozzi; alcuni bozzetti sono dipinti con Martinati e firmati “Maralca”. L’attenzione viene richiamata su Rita Hayworth  in “Gilda” e in “Gli amori di Carmen”, sempre con lo stesso partner, Glenn Ford.

Pure Renato Casaro agli inizi si impegna in cartelloni per un cinema cittadino, poi la Lux lo chiama a Roma dove si forma nello Studio Favalli come illustratore firmando Renè.  Studia lo stile dei maggiori del settore italiani e stranieri non per conformarsi ma per innovare rispetto al livello raggiunto, fino ad assumere una posizione di spicco nel cartellonismo cinematografico.

La sua modernità spicca nelle originali interpretazioni di “Gli anni ruggenti”, con il berretto marziale che lievita in alto e “La cosa buffa”, con le tessere del puzzle a comporre il nudo di donna; nonché nella cupola portata via dal deltaplano in “Manolesta” e nella grande testa sospesa sulla folla di “Un pomeriggio di un giorno da cani”. Ma sa essere anche  fumettistico nei film mitologici  e comico in quelli di Franchi e Ingrassia. Raggiunge il culmine nei ritratti, come quello straordinario di Claudia  Cardinale su fondo verde nel bozzetto di “Nell’anno del Signore”.

Anche Rodolfo Gasparri ci dà un ritratto di alto livello dell’attrice, tinta pastello su fondo bianco, per “C’era una volta il West”; tinte e  sfondi chiari ai ritratti dei visi  in “I quattro dell’Ave Maria” e, in diverso contesto, “La matriarca”. Altri ritratti di notevole efficacia quelli di Giancarlo Giannini in “Mimì metallurgico ferito nell’onore”, in due diversi atteggiamenti esilaranti, e di Gian Maria Volontè,  dall’espressione decisa in “Sbatti il mostro in prima pagina”, la sua  testa sembra uscire dalla pagina  con le sagome scure dei carabinieri nella fotografia della scena del delitto. 

Una vocazione ferma la sua, tanto che venne a Roma con la decisione di  dipingere per il cinema. Suoi anche i bozzetti per i film del figlio Marco attore nella serie “Mark il poliziotto”. La maggior parte di quelli esposti  è a tinte forti  e  fondi scuri come in “Nevada Smith” e “Il dito nella piaga”, “Gott mit uns, Dio è con noi” e “Né onore né gloria”.

Sta per concludersi questa carrellata, siamo a Giorgio Olivetti che precede il clou della nostra rassegna, Averardo Renato Ciriello con cui divise nel 1956 il premio di miglior pittore cinematografico dell’anno. E’ stato illustratore di libri per l’infanzia e del “Calendario di Frate Indovino”.  L’opera più rinomata è il manifesto per “la Dolce vita”, nei cataloghi delle case d’asta.

Sfondo nero in “Una pistola per Ringo” e “Cyrano di Bergerac”, arancio dorato in “I cavalieri del Nord ovest”, verde in “La notte senza legge”. In “Gengis Khan, il conquistatore”, ritroviamo il titolo a  caratteri monumentali visto in “Bn Hur”, con il cuneo umano della cavalcata mongola.

 Manfredo Acerbo con Laurence Olivier in “Amleto”, regia Laurence Olivier, 1948  

Il decano dei pittori cinematografici: Averardo Renato Ciriello

La carrellata dei bozzetti in mostra è particolarmente vasta, meriterebbe una trattazione  ben più ampia, ma siamo giunti al termine della visita, abbiamo detto al “clou”:  Marinozzi ci guida alla sala riservata ad Averardo Renato Ciriello, nelle pareti un caleidoscopio di immagini  coinvolgenti.

Abbiamo lasciato Ciriello per ultimocome si fa per l’ingresso in scena del protagonista, lo è stato nella stagione di creatore di migliaia di bozzetti per il cinema preceduta e accompagnata dall’attività di illustratore eclettico di riviste e libri. Grande esperto di disegno e di tempera, nelle sue opere molto curate c’è la padronanza della tecnica unita all’estro e alla passione del pittore autentico.

Ha creato un modello di eccitante bellezza femminile nelle copertine della “Signorina Sette”, proseguendo questo filone in “Menelik” con gli audaci nudi di attrici; tra i libri da lui illustrati  per ragazzi “L’isola del tesoro”, “Il principe  e il povero” e “Ben Hur”. Ha avuto, tra gli altri premi, la “Tavolozza d’argento” per il manifesto di “Sansone e Dalila e il premio  nel 1956 del migliore cartellonista dell’anno con Giorgio Olivetti. E’ pittore di tele ad olio dall’elevata caratura figurativa, attività divenuta esclusiva allorché è terminata  quella di illustratore e cartellonista cinematografico per l’ingresso delle nuove tecnologie nei settori prima per lui prevalenti.

Marinozzi ne parla con affetto ed ammirazione, e scrive: “E’ ritenuto un vero e proprio mito vivente sia dai colleghi pittori che dai numerosi estimatori. Attualmente risiede e dipinge a Roma”.

Nella sala a lui dedicata sono esposte opere dai criteri compositivi e pittorici diversi. Il primo particolare che notiamo è  l’ingegno nel concepire le teste dei due protagonisti che si innestano nei due corni d’Africa in “Ci rivedremo all’inferno”  e nel raffigurare la corsa del cavallo sul pelo dell’acqua in “Assassinio sul Tevere”, nonché la grande pistola sulla testa come un copricapo in “Il giustiziere della notte” e il rosso violento sulle braccia di Lancaster e Curtis  mentre volteggiano in “Trapezio”, per esprimere visivamente la tempesta di passione che li fa avvampare.

Ma i bozzetti che ci hanno colpito di più sotto il profilo artistico sono quelli con la turba di indiani dietro il protagonista, uno è un gigantesco John Wayne  nel pieno della battaglia di “Sentieri selvaggi”, l’altro  “Il conquistatore” di Dick Powell. Ebbene, si ha una incredibile sensazione di movimento, le nuvole di polvere sembrano materializzarsi e così gli indiani a cavallo le cui figure si ricompongono da lontano per la maestria con cui sono solo sbozzate in modo da rendere il loro effetto pittorico solo alla distanza in cui avviene la visione.  

Il motivo della scena di massa in secondo piano dietro i protagonisti lo ritroviamo anche in ambienti storico-mitologici, da “Il gladiatore di Roma” e “Ercole contro Moloch” a “Sodoma e Gomorra” e nelle immagini di guerra come “Quella sporca dozzina” e “Marines: sangue  e gloria”.

Da queste composizioni su un doppio livello alle sintesi con i soli protagonisti: dall’arguzia maliziosa di “Irma la dolce”  alla forza icastica da tre dimensioni di “Sfida a White Buffalo”. Sono tante le immagini che sfilano dinanzi ai nostri occhi, con fissati i momenti più drammatici o esilaranti: dal corpo appeso nudo sopra le fiamme di “Un uomo chiamato cavallo” al viso verde terrorizzato di “La coda dello scorpione” fino al cappio sulla testa in “Viva la muerte…tua”; e poi l’espressione comica del protagonista che contrasta con le minacce intorno a lui in “L’arbitro” con i tifosi scatenati e “Lo chiamavano tressette… giocava sempre col morto”, con le pistole spianate.

Il fatto che a immagini di vicende appassionanti di ogni genere si affianchino le procaci “pin up” delle sue copertine mostra in tutta  evidenza  l’ampiezza del suo raggio stilistico e di contenuti. Che lo qualifica tra i più grandi e poliedrici, in grado di nobilitare con l’arte i soggetti rappresentati. 

Anche per questo, e non solo per essere il decano dei pittori cinematografici, ci siamo soffermati in modo particolare sulle sue opere e siamo andati a trovarlo nella sua casa romana con Graziano Marraffa, fondatore e presidente dell’Archivio storico del cinema italiano, in un incontro da ricordare.  Ci attendiamo ulteriori celebrazioni della sua opera che resta nell’arte e nel costume.

Silvano Campeggi (Nano) con Doris Day in “Non sfogliate le margherite”, regia Charles Walters, 1960

Dai bozzetti il film della memoria personale e collettiva

Termina così la nostra carrellata. Abbiamo descritto l’opera di alcuni dei maggiori artisti in mostra, per lo più citati nel racconto di Marinozzi o autori dei bozzetti riprodotti in questo e nei due precedenti articoli come esempi della forza trasmessa ai manifesti cinematografici nei quali l’aggiunta di titoli e nomi in caratteri vistosi  poteva oscurare il livello pittorico, più evidente nei bozzetti originali, veri quadri d’autore.  Dal parziale e rapido excursus  derivato dalla nostra visita alla mostra si può avere un’idea di ciò che i visitatori vi possono trovare su scala molto più vasta.  

Il film a cui si assiste passando in rassegna i bozzetti pittorici in originale è quello della memoria personale, quindi di noi stessi, delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti.

Ma questo film ci parla anche di una storia collettiva, dove vanno collocate le singole vicende. E’ la storia del nostro costume  nazionale e di quello di altri grandi paesi. Si rivivono le stagioni  cupe del banditismo e quelle tristi dell’emigrazione, i drammi di ogni tipo, poi i tanti momenti lieti come quelli immortalati dalla commedia all’italiana come specchio di caratteri e di vita vissuta.

L’epopea del  Far West alimenta una parte consistente della storia americana, e troviamo tanti altri stimoli drammatici e comici, poetici e leggeri: incontri e scontri di sentimenti, amore e morte, epica e farsa, gioia e dolore. La vita dipanata in tanti quadri d’autore.

Sono vicende riassunte nelle parole di Paolo Marinozzi “Lotte, intrighi, duelli, ritmi, gelosie, tormenti”. E allora possiamo  dire che il più grande spettacolo del mondo è proprio qui.

Lo ricordiamo alla chiusura del “Festival internazionale del film”, che forse potrebbe ritrovare maggiore “appeal”  richiamandosi di più alle sue radici. Di queste fanno parte i bozzetti cinematografici di artisti troppo spesso sottovalutati e dimenticati che hanno concorso alla storia del cinema e del costume nazionale, saldamente ancorata alla memoria e alla sensibilità popolare. Che è la grande assente in un cinema relegato dalle grandi praterie del passato alla riserva indiana odierna.

Info

Montecosaro (Macerata), Palazzo Marinozzi a Porta San Lorenzo, visite guidate su Appuntamento. Infoline 0733.229164. museo@ cinemaapennello.it; www. cinemaapennello.it.  Catalogo “Cinema a Pennello. Un bozzetto di storia”, di Paolo Marinozzi, edito dal “Centro del Collezionismo”, Montecosaro, giugno 2011,  formato 24×28 cm, pp. 304 su carta patinata a colori.; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sulla mostra sono usciti in questo sito  il 15 e 17 novembre 2012: sono illustrati con le immagini dei bozzetti, il primo con quelli di Casaro e  Ballester, Brini e Iaia dei film “Nell’anno del Signore” e “Fronte del porto”,  “Bellissima” e “I dieci Comandamenti”, protagonisti rispettivamente Claudia Cardinale e Marlon Brando, Anna Magnani e Charlton Heston; il secondo con i bozzetti di Cesselon e Putzu, Maro e Simeoni dei film  “La donna più bella del mondo” e “La vita agra”“La prima notte di quiete” e “Accattone”, protagonisti Gina Lollobrigida e Ugo Tognazzi, Alain Delon e Franco Citti.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’autore Marinozzi con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura Averardo Renato Ciriello con Johnn Wayne in “Sentieri selvaggi”,  regia John Ford, 1956;  seguono Manfredo Acerbo con Laurence Olivier in “Amleto”, regia Laurence Olivier, 1948 e Silvano Campeggi (Nano) con Doris Day in “Non sfogliate le margherite”, regia Charles Walters, 1960; in chiusura Gian Maria Volonté in “Sbatti il mostro in prima pagina”, regia Marco Bellocchio, 1972.

 Gian Maria Volonté in “Sbatti il mostro in prima pagina”, regia Marco Bellocchio, 1972
 

Mondrian, 2. L’approdo nella “perfetta armonia”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Abbiamo ricordato come un capolavoro di Mondrian sia esposto tra i precursori  alla mostra sull'”Arte astratta italiana” in corso alla Gnam fino al 27 gennaio 2013:  cosa che lo ripropone a un anno dall’evento espositivo “Mondrian, la perfetta armonia” svoltosi a Roma al Vittoriano dall‘8 ottobre 2011 al 29 gennaio 2012. Resta inoltre il bel  Catalogo Skirà del curatore, Benno Kempel, direttore del Gemeentemuseum dell’Aia, prestatore  di gran parte delle opere esposte, che fa rivivere le intense emozioni provate nella visita.  Dopo aver parlato della sua figura e ispirazione e delle opere del primo periodo, realismo e simbolismo, completiamo il percorso con gli altri stili da lui praticati, il luminismo e il puntinismo, il cubismo  e l’astrattismo fino alla “perfetta  armonia”.

“Composizione con grande piano rosso, giallo, nero, grigio e blu”, 1921

Luminismo e puntinismo

Superato l’iniziale  realismo con il simbolismo, anch’esso una fase di transito sotto la spinta dalla teosofia,  ecco il luminismo, passaggio determinato dall’incontro con Jan Toorop, che aveva introdotto in Olanda questi tre movimenti, e del quale sono esposte in mostra delle opere, come di van Heemskerck e Gestel, altri artisti in contatto con lui frequentandone con Mondrian  la residenza estiva.

Era situata nella cittadina di Domburg, sulla costa della Zelanda, che  fu come la celebre Barbison  per gli impressionisti francesi o l’altrettanto nota Bretagna per Van Gogh: la scoperta della luminosità della natura si traduceva nell’esplosione  dei colori. Siamo nel 1908, è la rivoluzione, dai paesaggi scuri e monocromatici a una vivacità cromatica e forti contrasti segnati dall’abbagliante luce solare: spiccano il rosso, il giallo e l’azzurro-blu, diventeranno esclusivi alla fine del percorso come colori puri. In questa fase  la pennellata si spezza: come negli impressionisti, è fatta di tocchi rapidi e interrotti, che visti a distanza ricompongono l’effetto della luce.

Mondrian non si ferma qui, passa al puntinismo nello stile di Seurat  in modo che la scomposizione delle pennellate consente di aggiungere alla luce il dinamismo.

Cambia tutto, dunque? No, pur nella forma cromatica e stilistica del tutto nuova si ritrovano molti soggetti precedenti, in particolare le “Dune” e i “Fari”, nonché i “Campanili”, con il significato simbolico legato all’orizzontale, segno femminile, e al verticale, segno maschile, che interagiscono combinando la fluidità naturale con il moto ascensionale  verso l’armonia teosofica. Il cromatismo figura spesso nel titolo, come “Duna, schizzo a colori vivaci” e “Duna, schizzo in arancione, rosa e blu”, “Mulino Ootzijdse con cielo blu, giallo e viola”e “Faro a  Westkapelle in rosa”, fino a “Studio pointilliste di una duna con crinale a destra”.  

E’ difficile che chi ha nella mente il Mondrian astrattista geometrico possa soltanto immaginare queste opere senza prenderne visione. La natura resa nella morbidezza dei colori puntiformi diventa quasi un’immagine onirica ma reale; non solo dune ma anche “Due alberi” e “Pineta spontanea”,dal cromatismo delicato; fino alle tinte forti di un rosso intenso in “Notte di luna II, Laren”  e “La nuvola rossa”,  esempi del nuovo cromatismo su soggetti consueti: nel secondo c’è in più la volontà di andare oltre, verso una semplificazione delle forze che agiscono a livello cosmico.

Puntinismo dai forti colori  anche in rari “Ritratti” di persone, come “Contadino della Zelanda”, segno che ha voluto provare questo stile  persino su soggetti che esulavano dalle sue scelte primarie.

Sono  30 i dipinti della mostra che hanno documentato le tre correnti pittoriche, simbolismo, luminismo e puntinismo, dopo il realismo. Ma non saranno le ultime prima dell’astrattismo.

Dal cubismo al “clou” dell’astrattismo puro 

Ancora frastornati dall’esplosione impressionista di colori dopo l’oscurità realista dei paesaggi iniziali, nella visita alla mostra siamo saliti al piano superiore del Vittoriano dove è cambiato ancora tutto: abbiamo visto più di 20 quadri cubisti, di cui 13 diMondrian. Sono state citate nella presentazione dell’artista le parole del curatore Tempel sulla sua scoperta del cubismo, soprattutto di Picasso, nel 1911: si era trasferito a Parigi e, dato che i suoi tentativi erano fuori strada, ricominciò con la scomposizione delle immagini, prendendo le distanze dalla realtà.

Nella mostra questa ricerca è stata documentata con precisione dalla serie di “Alberi ” con la progressiva segmentazione che, riducendoli a linee spezzate e frammentate su un piano senza profondità, segna il rivoluzionario abbandono della prospettiva. Su un soggetto che racchiude i motivi di sempre – il tronco verticale e i rami orizzontali che interagiscono perdendo la configurazione realistica e il colore – domina il monocromatismo marrone e verde scuro dei cubisti.

Ha un valore didattico la sequenza degli alberi perché rivela come si consumi in modo progressivo il distacco crescente dal figurativo verso l’astrazione restando ancorati alla realtà di partenza che appare però trasfigurata nei segni divenuti puri. Una sequenza dello stesso tipo porta alla “Composizione in ovale con piani di colore 9”  attraverso una serie di ovali sempre più stilizzati della facciata di una chiesa.

In “Paesaggio con alberi”, un incastro di forme indistinguibili, la mutazione va oltre il cubismo pur desumendone gli elementi compositivi di base. Lo fa anche van Heemswkerk con un soggetto analogo, ma torna presto nella riconoscibilità in “Bosco I”  e “Bosco II”,  nonché in “Albero”.

La figura umana resta rara soprattutto nel Mondrian cubista: c’è un “Autoritratto”, disegno con forti tratti a segnarne le fattezze del viso, e “Il grande nudo”, una volumetria statica di particolare rigidità.

Siamo, dunque, al superamento della rappresentazione figurativa della realtà andando oltre i cubisti che scomponendola come le facce di un diamante esaltavano le tre dimensioni e mantenevano la profondità; Mondrian cerca la semplificazione e l’essenziale, in lui, sono parole di Kempel, “il gioco ritmico delle linee acquisisce un’importanza vitale”.

Ma c’è ancora un riferimento alla realtà naturale pur se trasfigurata. Il Rubicone dell’arte astratta lo passa con una serie di quadri ispirati alle facciate di palazzi parigini in demolizione con dei manifesti. Furono fonte di ispirazione, precisa il curatore, “soltanto per via del gioco ritmico di linee e piani che l’artista vi scorgeva” e non per l’aderenza alla realtà che veniva definitivamente abbandonata. Siamo nel 1914, segue di un anno il primo quadro astratto di Kandinskij del 1913.

Ora non è più a Parigi, è rientrato in Olanda per una breve visita al padre, ma vi è dovuto restare per lo scoppio della prima guerra mondiale; ormai ha preso l’abbrivio e non gli serve più il clima parigino al punto che, tornato nella capitale francese dopo la guerra, lo trova sorpassato rispetto ai propri progressi. Il soggiorno olandese è fondamentale, nel 1917 con Theo van Doesburg e altri fonda il movimento De Stijl il cui manifesto del 1918 parla di maturazione dell’artista opposto alla “dominazione dell’individuale nelle arti plastiche, e cioè alla forma e al colore naturali, alle emozioni” per una nuova arte con “proporzioni bilanciate tra l’universale e l’individuale”.

Mondrian le ha raggiunte con l’universalità dalla sua arte unita a una forte impronta individuale. Nel suo articolo “A New Realism” aveva scritto che “l’arte non è un’attività istintiva ma intuitiva”, quindi non è conservativa, e “la cultura mira allo sviluppo dell’intuito a spese dell’istinto”, favorendo l’innovazione e il cambiamento. E’ alla ricerca dell’equilibrio ottimale tra colori e loro assenza, tra linee e piani, tra l’orizzontale e il verticale, cioè tra i suoi motivi di sempre che non ha mai trascurato pur nella copiosa produzione con espressioni artistiche molto diverse.

Trova questo equilibrio all’interno della concezione di De Stijl che concepiva l'”opera d’arte totale”, con pittura e scultura, architettura e design riunite senza alcuna gerarchia, nella quale anche la musica aveva il suo posto con il senso del ritmo che dava il movimento vitale e insieme l’armonia ricercata. Il nuovo verbo era il “neoplasticismo”, nel quale la plasticità della realtà era superata con una forma astratta fatta di linee e piani e con i colori primari: le linee seguivano regole semplificate, soltanto orizzontali e verticali, nessuna obliqua, i colori puri rosso-giallo-blu con i “non colori” bianco, nero e grigio, nessun colore derivato. La composizione doveva essere asimmetrica ma con un forte dinamismo in modo da dare la sensazione di una perfetta armonia tra linee, piano e colori;

Una particolarità di Mondrian sta nell’aver sostituito un effetto spaziale alla tradizionale prospettiva e alla distinzione tra sfondo e primo piano, in questo andando oltre gli artisti di De Stijl; con i quali condivide il dinamismo dato dal colore al piano: il giallo sembra che si allarghi, il blu si restringa e il rosso resti fermo. I relativi piani interagiscono con le linee orizzontali e verticali in una fusione dinamica con il colore, senza gerarchie neppure tra queste componenti. Non solo si ha un effetto tridimensionale, ma l’immagine sembra estendersi oltre la cornice  per ricongiungersi alla parete in modo da integrare pittura e architettura, un punto chiave della concezione di De Stijl sulla compenetrazione tra le diverse arti. Il tutto si traduce in una sensazione di equilibrio e di armonia.

E’ un primo traguardo raggiunto dopo tanta ricerca. Come nella vita con l’approdo a New York, preceduto dalla breve sosta a Londra, per sfuggire alla minaccia nazista dopo che nel 1936 il suo “atelier”  in Rue deu Départ era stato demolito: vi trovò ciò che cercava, modernità e dinamismo, vitalità e frenesia, in altri termini l’allegria come nella musica jazz che tanto lo coinvolgeva. Intanto negli anni ’30 la sua fama cresceva, i musei acquistavano le sue opere, si moltiplicavano le mostre.

Per vedere le opere con cui Mondrian raggiunge il culmine della vita artistica, al Vittoriano abbiamo lasciato il piano con il cubismo suo e di altri artisti olandesi e siamo tornati al piano inferiore da cui eravamo saliti dopo il realismo e simbolismo, il luminismo e puntinismo.

Siamo entrati nel “sancta sanctorum”, con la musica in sottofondo alla visione per penetrare  nello spirito dell’artista che traduceva il ritmo musicale nel dinamismo del quadro; e  anche in un senso della vita anch’esso dinamico, tradotto nella passione ludica per il jazz e per il ballo.

Ecco le sue opere che rappresentano il “clou” della sua arte e quindi della mostra, il raggiungimento dell’essenza della realtà superandone l’apparenza da cui era partito esplorandone le forme e i contenuti con diverse modalità stilistiche ed espressive. Per questo i titoli sono anodini, quasi tutte “Composizioni” identificate da un numero e spesso dai colori, ne abbiamo contate 11; così anche le 20 opere esposte di altri artisti olandesi, come Moss e Gorin, forse a lui i più vicini  con Huszàr; poi Vordemberge-Gildewart e Domela, Dekkers e Baljeu. Al centro la famosa “Sedia rossa e blu” di Rietveld e la ricostruzione della “Casa privata” di Theo van Doesburg, che porta in architettura le linee e i colori puri, nel vederla sembra che dalla “planimetria” dei quadrati e rettangoli di Mondrian  si sia passati ai volumi dell’abitazione,  un effetto che non si dimentica.  

L’impressione di una visita così diversa dalle altre resta negli occhi e nelle orecchie: si continua a sentire anche dopo il “Rag time” con cui sfumavano le musiche in successione nella colonna sonora della sala dove la “perfetta armonia” diveniva qualcosa di percettibile.

Nulla di meglio per concludere delle parole di Mondrian del 1914 che rappresentano una summa della sua arte: “Costruisco combinazioni di linee e di colori su una superficie piatta, per esprimere una bellezza generale con una somma coscienza. La Natura (o ciò che vedo) mi ispira, mi mette, come ogni altro pittore, in uno stato emotivo che mi provoca un’urgenza di fare qualcosa, ma voglio arrivare più vicino possibile alla realtà e astrarre ogni cosa da essa, fino a che non raggiungo le fondamenta (anche se solo le fondamenta esteriori!) delle cose”.

In che modo? “Attraverso linee orizzontali e verticali costruite con coscienza, ma non con calcolo, guidate da una intuizione, e create con armonia e ritmo”. Sono “forme basilari di bellezza” che possono diventare “un’opera d’arte, così forte quanto vera”.

Questo abbiamo potuto vedere nel “clou” della mostra al Vittoriano al culmine del suo percorso movimentato di arte e di vita; e si può rivivere nella carrellata di forme e di colori delle  diverse sezioni del Catalogo Skirà, con l’approdo alla “perfetta armonia” di un equilibrio anche interiore.

Info

Catalogo: “Mondrian. La perfetta armonia”, a cura di Benno Tempel, Skirà,  formato 28 x 30, pp. 224, ottobre 2011. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 13 novembre 2012.

Foto

Le immagini sono state cortesemente fornita da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, che si ringrazia, con il Gemeentemuseum dell’Aia  e i titolari dei diritti. Sono tutti dipinti di Mondrian: in apertura l’approdo alla “perfetta armonia” in “Composizione con grande piano rosso, giallo,nero., grigio e blu”, 1921, seguono tre sue opere anteriori di cubismo e astrattismo. Nell’articolo precedente sono inserite le immagini di altre 4 opere di Mondrian di realismo, puntinismo e luminismo.

Cinema, 2. I bozzetti di Cesselon e altri artisti, a Montecosaro

di Romano Maria Levante

Nel giorno di chiusura a Roma del “Festival internazionale del film”, 17 novembre, descriviamo la carrellata dei bozzetti originali creati dai pittori cartellonisti per i manifesti cinematografici,  esposti nella mostra permanente di Montecosaro, Macerata, “Cinema a Pennello”: sono  più di 100 per un elevato numero di film, ambientati nello spazio espositivo d’eccezione costituito dalle sale su due piani di Palazzo Marinozzi. Il padrone di casa è il collezionista appassionato che li ha raccolti  riproducendoli anche in uno splendido Catalogo edito dal  “Centro del Collezionismo” dove racconta la sua accanita “caccia al bozzetto d’autore”. Ce ne ha parlato nella visita alla mostra.

Angelo Cesselon con Gina Lullobrigida in “La donna più bella del mondo”,  regia Leonard e Pierotti, 1955 

Abbiamo già dato conto di questa “caccia” a cui va riconosciuto il merito di aver messo al sicuro un patrimonio d’arte e di costume che rischiava di andare disperso. Ma ora, come raccontare un set così vario e articolato, 100 opere di oltre sessanta artisti, alcuni presenti con parecchi bozzetti ?

Ne indichiamo un nucleo che riteniamo rappresentativo del quale citiamo gli autori, nella gran parte noti solo agli addetti ai lavori,  con qualche cenno biografico tratto dal ricco Catalogo di Paolo Marinozzi; e i titoli dei film che sono entrati nella memoria collettiva. In alcuni casi descriviamo le opere come avviene nel raccontare le mostre d’arte, ma per lo più dobbiamo limitarci ai titoli con qualche riferimento agli attori raffigurati. Crediamo sia sufficiente per farsi un’idea dei bozzetti.

Lasciamo così  al lettore l’esercizio di richiamare alla mente i manifesti dei film di allora fino a quando potrà recarsi a visitare la mostra di persona, cosa che consigliamo caldamente; è una gita piacevole nel ridente paesino delle Marche con il Palazzo Marinozzi  che svetta sulla collina. Con le illustrazioni di questo e degli altri due articoli sulla mostra diamo un quadro  di “come eravamo”.

Nella scelta dei protagonisti facciamo riferimento soprattutto ai nomi citati da Paolo Marinozzi nel racconto sulla genesi della sua preziosa collezione, ricordando  alcuni “mostri sacri” del  cartellonismo cinematografico alla base del quale, non va dimenticato, c’è anche la vera pittura.

Cesselon e Ballester, Iaia e Putzu, Maro e Brini

Cominciamo con Angelo Cesselon, che invece di cercare sintesi narrative preferisce l’espressione dei volti, concentrandosi su occhi e bocca. Per Marinozzi “nell’esecuzione pittorica dei volti la sua perfezione stilistica è semplicemente insuperabile”. I colori sono brillanti, nel 1955 fu premiato come migliore artista dell’anno, nel 1958 come miglior ritrattista internazionale.  Dopo questa presentazione quello che ci interessa  è il set dei suoi bozzetti nella saletta a lui dedicata: c’è la storia del cinema italiano e di quello americano, lo si vede subito dai titoli.

Per Cinecittà “Ladri di biciclette e “Umberto D”, “Due soldi di speranza” e “Don Camillo”, “Sette uomini d’oro” e “L’armata Brancaleone” ; per Hollywood  “Il grande campione” e “I marciapiedi di New York”,  “L’uomo di Laramie” e ” Il Gigante”,  “I due volti della vendetta” e “Il ritratto di Jennie”, quest’ultimo manifesto è riportato nella copertina del Catalogo, con il tenero bacio di Joseph Cotten sulla guancia di Jennifer Jones, per l’occasione evanescente rispetto alla sensualità prorompente di “Duello al sole” e “Ruby fiore selvaggio”. Restano impressi il viso incantevole e il florido busto di una splendida Gina Lollobrigida in “La donna  più bella del mondo” e la figura imponente di un fiero Victor Mature in “Zarah Khan”.

Da Cesselon ad Anselmo Ballester, vero “mostro sacro”: inizia a dipingere bozzetti per il cinema appena diciassettenne, continua per 50 anni divenendo, sono sempre parole di Marinozzi, “l’esempio artistico più alto per tutti gli altri cartellonisti”, siamo al vertice universalmente riconosciuto. Punta sull’espressione dei personaggi come riflesso dei sentimenti mossi dalla trama, usa colori forti associati a tinte scure a sottolineare la drammaticità della vicenda soprattutto per il cinema americano.

Ritroviamo l’atmosfera infuocata di “Ombre rosse” e “Fronte del porto”, il vortice nero di “Io ti salverò” e il forte abbraccio di “Tom Dooley”. Nel cinema italiano i suoi bozzetti ci riportano ai film popolari strappalacrime,  come “La sepolta viva” e “La cieca di Sorrento”, “La nemica” e  “Il padrone delle ferriere”. Il volto drammatico di Anna Magnani di “Roma città aperta” e la figura delicata di Michele Morgan di “Senza domani” concludono la sua galleria di figure intense.

Il rosso colpisce in alcuni  bozzetti di Ermanno (Piero) Iaia, vincitore nel 1956 di un premio internazionale della Metro Goldwin Mayer, illustratore di libri e riviste, copertine di dischi e figurine. Vediamo questo colore brillante  nel mantello del  maestoso Charlton Heston sul terreno roccioso  di “I dieci Comandamenti” e  nello sfondo corrusco di “I compagni”; che diventa infuocato in “Giù la testa” e chiude come in una gogna la testa di Burt Lancaster in “Novecento”.

Sfuma nell’arancio lo sfondo di “Sedotta e abbandonata” con un affollarsi di teste angoscianti dietro la morbida figura della Sandrelli.  Ma ci sono anche i verdi di “La Grande guerra” e “La parmigiana”,  “La voglia matta” e “Una breve vacanza”, e poi l’immagine cult di “Il Padrino”. Suo il ragazzo in corsa la cui figura viene moltiplicata come nel celebre dipinto di Balla “Bambina che corre sul balcone”, ma qui le repliche dei fotogrammi più che dinamismo esprimono dissolvenza, via via più sbiadite fino a sfumare nel nulla, è il film “Il sole anche di notte” dei fratelli Taviani.

Arnaldo Putzu con Ugo Tognazzi in “La vita agra”, regia Carlo Lizzani, 1964

Arnaldo Putzu è passato al cartellonismo cinematografico come grande ritrattista, furono inizialmente le tipografie che frequentava a promuoverlo presso i produttori. Punta sulle scenette piuttosto che sui singoli anche se poi richiama l’attenzione  sui  protagonisti: lo vediamo nel  bacio in primo piano di “Addio alle armi” e  nella “passeggiata” di Marisa Allasio di “Poveri ma belli”, che ricorda quella famosa di Marilyn Monroe in “Niagara” tre anni prima; ritroviamo la Allasio in primo piano su un fondale di scenette esotiche in “Maruzzella”. Spiccano la prorompente Sophia Loren di “Ieri, oggi, domani” e  il volto dall’espressione disincantata di Ugo Tognazzi in  “La vita agra”.

Il cinema americano è ben rappresentato dalla  figura di  Yul Brynner  che spicca su un fondale arancio di teste e di girasoli in “Il romanzo di un ladro di cavalli”, e dalla grande testa nera  su un fondo più intenso del precedente in “Io sono il più grande”.

Di Otello Mauro Innocenti (Maro) va ricordato che fu disegnatore ufficiale della Titanus per film dalla “Ciociara” a “Rocco e i suoi fratelli”, da “Il sorpasso” a “Il giardino dei Finzi Contini”. Vediamo esposto lo splendido bozzetto di “La prima notte di quiete”, su fondo nero la figura del protagonista Alain Delon diventa un cielo azzurro, immagine di intensità straordinaria;  in “I nuovi mostri” lo sfondo è bianco, nera è la figura di Alberto Sordi irridente con quattro gambe, intorno le teste dei coprotagonisti. 

E’ anche il cartellonista dei film “musicarelli” e di quelli di Franchi e Ingrassia, di “I vichinghi” e “Detenuto in attesa di giudizio”, “L’armata Brancaleone” e “I magliari”, tante sono le corde del suo arco.

Una tecnica fortemente espressiva quella di Ercole Brini, che nel 1953 riceve il premio di miglior pittore cinematografico dell’anno.  Comincia con il cinema neorealista ma sarà molto attivo anche nel cinema americano. Grande capacità di sintesi, esemplare l’immagine di “Bellissima” che riassume l’intera vicenda  negli occhi della Magnani mentre stringe a sé la sua bambina.

Uso dell’arancione in “Ben Hur” del quale è divenuta una pietra miliare l’immagine scolpita del titolo, e in “La collina del disonore”, mentre con “Una rosa per tutti” sceglie la seducente figura femminile in primo piano. E che dire di “La caccia” e “Quel treno per Yuma”, “La collina del disonore” e “La notte”?

Otello Mauro Innocenti (Maro) con Alain Delon in “La prima notte di quiete”,  regia Valerio Zurlini, 1972 

De Seta e Simeoni,  Giuliano e Lorenzo Nistri, Mos e Picchioni

Enrico De Seta è stato innanzitutto illustratore satirico, ha fatto parte della redazione di “Marc’Aurelio” e di “Il Travaso delle Idee”; per questo abbondano le immagini umoristiche, da “Gli zitelloni” a “La congiuntura” di Ettore Scola. Il suo campo d’azione spazia poi dalle figure serene di “I vitelloni” e “Fortunella” a quelle altamente drammatiche di “Uragano sul Po” e “Il brigante Musolino”.

Il cinema americano è presente con un cartellone nel cartellone, l’immagine di Spencer Tracy in “L’ultimo hurrà”. Un presidente anche nei bozzetti del figlio Bob, “Quei quattro giorni di novembre”, con John Kennedy dietro la bandiera americana  macchiata del suo sangue.

Particolarmente ricca l’iconografia bozzettistica di Alessandro Simeoni, sia nella scala cromatica sia nella cifra stilistica, dal figurativo all’astrattismo e alla pop art. Le sue scenette sono popolate e movimentate, fondi scuri da cui spiccano le immagini.  Così “La dolce vita”, il monumentale manifesto divenuto prezioso,  e “La notte brava”, i due bozzetti di “Accattone” insieme a “Il bell’Antonio” per l’Italia;  “Splendore nell’erba” e “I tre volti della paura” per il cinema americano.

Tra gli italiani  anche le serie sulla violenza urbana  come “Roma a mano armata”e “Squadra volante”  e i delicati “I girasoli” con i protagonisti distesi nel mare di fiori e “Per grazia ricevuta” come un collage di immagini votive,  mentre “La morte cammina coi tacchi alti” ha una sequenza di immagini surreali dall’espressione allucinata alla “Munch”che via via si schiacciano al suolo.

Giuliano Nistri, grande illustratore e disegnatore anche satirico, dalla “Tribuna illustrata” al “Travaso delle Idee”,collabora con la Rko e la Lux. Rende l’atmosfera del film fissando un’emozione: così “I vitelloni” in due bozzetti molto diversi, uno il pontile con le piccole sagome nere sul fondale della gigantesca testa rossa di Sordi, l’altro con gli sfaccendati al caffè immersi in un’atmosfera resa crepuscolare dal celeste dello sfondo e del pavimento.

In  “La strada” una scena violenta in primo piano contrasta con il grande viso della Masina clown sullo sfondo; così in “Zorba il greco” dove dietro i due che lottano c’è la grande testa di Antony Quinn. E’ in primo piano invece l’intenso abbraccio di”Gli indifferenti”, intrigante ossimoro con il titolo, mentre lo slancio interiore  in “Summit”  è nelle due figure accostate prima dell’abbraccio.

Lorenzo (Enzo) Nistri, un autodidatta che si ispira prima a Ballester, Martinati e Capitani,  poi è attirato dalla modernità di Brini, collabora  con alcuni dei maggiori registi, Germi, Rosi e Visconti. Lavora anche nella grafica pubblicitaria e nell’editoria come autore di copertine di libri.

Usa tinte forti per film intensi del cinema americano, da “Notorius” a “Lo spaccone”, “La donna che visse due volte” e “Intrigo internazionale”.  Colpisce  il bozzetto di “La dolce ala della giovinezza”  – dove ritroviamo in primo piano Paul Newman già visto nel bozzetto di “Lo spaccone” –  per l’intensità dell’abbraccio, e quello di “Va e uccidi” per il contrasto delle tre figure, la ragazza allucinata in primo piano, l’uomo in piedi con la pistola e il grande viso rosso fuoco che occupa l’intero fondale. Tutt’altro clima, naturalmente,  in “Pane,  amore e…” e “Colazione da Tiffany”, chiari e sereni. C’è poi la galleria di ritratti inediti di grandi dive: Audrey Hepburn  in due versioni, una sofisticata l’altra sportiva,  Marilyn Monroe, Claudia Cardinale e Sophia Loren.

Di  Mario De Berardinis (Mos) va ricordata la naturale propensione per l’illustrazione e la passione per il cinema: scattata la scintilla tra i due poli eccolo a Roma ispirarsi a Ciriello e a Gasparri, di quest’ultimo frequenta lo studio grafico. E’ stato un protagonista della cartellonistica italiana e internazionale, con diverse firme, dal nome intero alle iniziali fino a Mos e Almos.

Nei suoi bozzetti  emergono tratti calligrafici con tinte e sfondi chiari  come in “Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica” e  “Roma bene”;  e toni  intensi in “Il giorno della civetta” e “La stanza del vescovo”, con il rosso e il nero a marcarne l’atmosfera.

Sfondi chiari e anche intensi in Franco Picchioni (P. Franco),, grafico pubblicitario attivo nel mondo editoriale  come illustratore fino ad entrare nello Studio Paradiso e quindi nel mondo del cinema dove incontra Casaro cartellonista in ascesa. Unisce l’abilità ritrattistica negli intensi primi piani  alla cura dell’ambientazione documentandosi con metodo e rigore.

I bozzetti in mostra vanno da un forte primo piano di Clark Gable in “Mogambo”, con a lato  il bel viso di Ava Gardner, all’inusuale panoramica della partita di calcio in “Il profeta del goal”, passando per le immagini vigorose di “Gi invasori” e “Perseo l’invincibile”.

Una latitudine espressiva e compositiva  quanto mai vasta, in  questo come nella gran parte dei pittori cartellonisti. Diventa sconfinata nella galleria che presenta le loro opere: non è terminata, continua prossimamente per dare nuovi e sempre emozionanti stimoli alla nostra memoria.

Info

Montecosaro (Macerata), Palazzo Marinozzi a Porta San Lorenzo, visite guidate su Appuntamento. Infoline 0733.229164. museo@ cinemaapennello.it; www. cinemaapennello.it. Catalogo “Cinema a Pennello. Un bozzetto di storia”, di Paolo Marinozzi, edito dal “Centro del Collezionismo”, Montecosaro, giugno 2011,  formato 24×28 cm, pp. 304 su carta patinata a colori; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sull’impostazione della mostra e la sua genesi è uscito in questo sito il 15 novembre 2012, con i bozzetti di 4 artisti che fanno parte dell’odierno excursus: Casaro e Ballester, Brini ed Ermanno (Piero) Iaia, per i film “Nell’anno del Signore” e “Fronte del porto”, “Bellissima” e “I dieci Comandamenti”, con protagonisti rispettivamente Claudia Cardinale e Marlon Brando, Anna Magnani e Charlton Heston. Il 19 novembre  uscirà l’articolo conclusivo con altre 4 immagini: in apertura, il bozzetto di Ciriello per “Sentieri selvaggi” con John Wayne e una straordinaria carica di indiani. poi  bozzetti di Campeggi con Doris Day, Manfredo con Laurence Olivier e Gasparri con Gian Maria Volontè.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’autore Marinozzi con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura,  Angelo Cesselon con Gina Lollobrigida in “La donna più bella del mondo”,  regia Leonard e Pierotti, 1955;  seguono Arnaldo Putzu con Ugo Tognazzi in “La vita agra”, regia Carlo Lizzani, 1964, e Otello Mauro Innocenti (Maro) con Alain Delon in “La prima notte di quiete”,  regia Valerio Zurlini, 1972; in chiusura, Alessandro Simeoni  con Franco Citti in “Accattone”, regia Pier Paolo Pasolini, 1961. Abbiamo scelto quest’immagine conclusiva in omaggio al poeta, scrittore e grande regista di film coraggiosi e innovativi scomparso tragicamente nel 1975 sul quale è in corso a Roma, al Palazzo Incontro,  una mostra celebrativa attraverso le interpretazioni date da 22 artisti contemporanei ad 11 sue poesie selezionate, di forte impegno civile. La mostra dal titolo “PPP: Una polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”  sarà aperta fino al 23 dicembre 2012, ne raccontiamo la visita in due articoli usciti su questo sito l’11  e 16 novembre 2012.  

Alessandro Simeoni  con Franco Citti in “Accattone”, regia Pier Paolo Pasolini, 1961 
 

Cinema, 1. Cento bozzetti originali nel museo permanente, a Montecosaro, Macerata

di Romano Maria Levante

Il Festival del film a Roma ripropone dal 9 al 17 novembre 2012 l’annuale rassegna e il “red carpet”, ma come il cinema non suscita le emozioni del passato. Le abbiamo rivissute visitando la  mostra permanente “Cinema a Pennello” a Montecosaro, Macerata, Palazzo Marinozzi, dove sono esposti i bozzetti originali di più di 100 film, raccolti con pazienza certosina e autentica passione da Paolo Marinozzi, che si è mobilitato con il suo “Centro del Collezionismo” realizzando con questa ricca esposizione un “unicum” al mondo in un delizioso borgo di  provincia nelle Marche. Ci sembra un doveroso riconoscimento ricordare la mostra a margine dei programmi del Festival.

Renato Cesaro con Claudia Cardinale in  “Nell’anno del Signore”, regia Luigi Magni, 1969 

Ne è stata madrina Claudia Cardinale,  che nel presentare la mostra ha  candidamente espresso il suo stupore perché “questa iniziativa, particolarmente significativa, anziché in città predisposte come Roma, Venezia, o Cannes, avvenga in un minuscolo centro marchigiano”. 

Sottolineare queste sue parole nei  giorni del Festival del film romano dovrebbe  servire a richiamare l’attenzione  del mondo del cinema verso quella  parte della sua storia legata all’arte pittorica,  e alla storia del costume. E’ una storia che rimanda agli artisti i quali hanno portato le vicende dei film nella fantasia popolare  fissandole in immagini che ne evocavano mille altre: arte pittorica ma anche capacità di sintetizzare contenuti vasti e profondi con la magia del pennello.

Una eccezionale galleria iconografica

Basta sfogliare lo splendido  Catalogo edito dal “Centro del collezionismo” che contiene  una eccezionale, preziosa  galleria iconografica:  i bozzetti su carta patinata dai brillanti colori  con schede biografiche degli artisti. Se ne scopre  la vita e la formazione, l’attività professionale  spesso di illustratori che si incrocia con il lavoro per i manifesti cinematografici. Una sorpresa per noi: vi troviamo Walter Molino, che nel 1941 successe ad Achille Beltrame come copertinista della mitica “La Domenica del Corriere”:  solo pochi manifesti per dei film comici, che comunque lo collocano nella schiera dei  cartellonisti cinematografici, ha poi ritratto molti personaggi dello schermo. Il suo successore nell’ultima fase della “Domenica”, Averardo Renato Ciriello, invece, ha una posizione di preminenza nel gotha dei cartellonisti cinematografici, con migliaia di manifesti al suo attivo.

Ci sono anche gli “anonimi ma belli”, artisti non identificati di cui la mostra espone immagini di film invece molto noti, da “Viva Zapata!”  di Kazan a “Il fiore delle mille e una notte” di Pasolini,

E’ una straordinaria rassegna d’arte e di costume, perché i manifesti dei film che sono stati poi stampati  in diversi casi esposti nella mostra a confronto con i bozzetti,  hanno contribuito molto al successo della pellicola: “Più del titolo del film, talvolta, attira la locandina. Anticipa la trama, l’ambientazione, il nome dei protagonisti”, è il commento anonimo ma veritiero dietro un bozzetto.

Anche questa “massima” è stata scovata da Paolo Marinozzi, che la contrappone alla scarsa considerazione dei committenti verso l’autore del bozzetto, definito “artista senza fama” nelle etichette poste sul retro, ma la spiegazione è evidente: soltanto così potevano evitare gli oneri molto maggiori di una valutazione come opera d’arte. Era  un mecenatismo alla rovescia che svaluta la propria committenza con una miopia pari all’attenzione esasperata ai costi della fase promozionale.

L’umiliazione che ne derivava non riguarda solo gli artisti, ma tutti gli spettatori grandi e piccoli che si sono immedesimati in quelle immagini per la loro forza espressiva, segno di grande valore artistico. Fa bene Marinozzi a dare risalto alle parole di Milo Manara, che consideriamo una consacrazione di questo valore: “Da bambino pensavo che gli autori dei manifesti del cinema fossero i più grandi artisti mai esistiti in ogni tempo. Altro che Michelangelo, altro che Van Gogh”. E lo spiega: “C’era una tale potenza e contemporaneamente un tale realismo in quelle immagini che ne ero totalmente soggiogato. Mi affascinavano molto di più degli stessi film”.  Ed ecco il perché: “Su una unica immagine, a tinte forti e drammatiche, era racchiuso molto di più di quanto il film mi avrebbe poi raccontato in un’ora e mezza”. Se questo è vero, e crediamo lo sia, si può immaginare lo “tsunami” di emozioni che dà una mostra in cui di questi “racconti” ce ne sono un centinaio.

Anselmo Ballester con Marlon Brando in “Fronte del porto”, regia Elia Kazan, 1954 

Gli incontri fatali di Marinozzi

Ma se è travolgente e immediato l’effetto visivo ed emotivo della straordinaria galleria di bozzetti,  la ricerca è stata lunga, la raccolta paziente. Ce ne ha parlato direttamente Marinozzi, guidandoci nella visita: la stessa individuazione degli autori dei bozzetti spesso è risultata problematica, e non è stato facile poter avere le loro opere in molti casi disperse anche a causa della loro sottovalutazione. 

Ricorda ogni momento della sua accanita “caccia al bozzetto”,  a partire dal “colpo di fulmine” avuto nel 1992  quando nel 25° anniversario della scomparsa di Totò organizzò come collezionista una mostra di oggetti e riviste, programmi teatrali e brochure, foto di scena e … manifesti cinematografi. Armando Giuffrida titolare della libreria Metropolis lo introdusse nel mondo dei pittori dei manifesti che conosceva alla perfezione. Mentre  parlava delle loro qualità e diversità stilistiche, ricorda Marinozzi, “riuscì magicamente a trasmettermi una specie di suggestione ipnotica, identica a quella provata tanti anni prima, proprio davanti  a un cartellone del cinema, quando mi trovavo solo, attonito ed incantato ad ammirare quello splendore in cinemascope”.

Poi Antonio Decima, che ne aveva molti “tenuti come reliquie”, gli diede l'”assist”  per la mostra alla galleria romana del “Mascherino” curata da Stefano Dello Schiavo, dove finalmente riuscì ad avere i primi due bozzetti: “”Li tenni per un po’ tra le braccia, come si fa con un figlio atteso da tanto tempo. Fissai come folgorato quei dipinti per alcuni interminabili momenti in un  silenzio irreale… Tornai a casa in pullman con al mio fianco due nuovi compagni di viaggio”.

Ne raccoglie poi altri, insieme a dei manifesti  e  nel 1995 li espone all’aperto  sotto le logge di Sant’Agostino a Montecosaro;  lo aiuta  Benito Boschetti di un’agenzia di Servizi per il  Cinema, al quale si è rivolto per i manifesti dei film di Abbe Lane da lui celebrata  con una manifestazione alla quale presenziò lei stessa: un avvenimento per un piccolo paese marchigiano come Montecosaro. M il vero avvenimento per lui fu la mostra  romana al Palazzo Esposizioni nel centenario della nascita del cinema intitolata “Cinema dipinto”, che presentava alcuni capolavori del cartellonismo cinematografico; perché  poté conoscere di persona i maggiori artisti del settore.

A questo punto Marinozzi diventa un fiume in piena, nel raccontare la sua caccia al bozzetto seguendo la pista degli artisti conosciuti e degli altri che riuscì a identificare a poco a poco. Il suo racconto è punteggiato di  notazioni personali. come l’ “impresa titanica” di fare scambi con il collezionista che usava la tattica “della supervalutazione del suo usato e della rottamazione del mio”. Ma l’avventura inizia con quella mostra, riporta  a casa il primo bozzetto, dipinto da Pietro Ermanno Iaia, con Stefania Sandrelli in “Sedotta e abbandonata” ,  da allora fu lui a esserne sedotto.

Seguirono molti incontri fatali. Con Arnaldo Putzu del bozzetto di “Marisa, la luna e tu”; che ritrasse anche sua moglie Valeria, un segno degli stretti rapporti  che è riuscito a stringere con gli artisti.  La Magnani in “Bellissima”  nel bozzetto di Ercole Brivi è stata la conquista successiva.  Anche gli incontri con gli eredi dei maggiori artisti sono stati intensi, ricorda quelli con la figlia di Angelo Cesselon, di cui avrà tra gli altri il  bozzetto di “Umberto D”  e con le figlie di Anselmo Ballester, il più grande pittore di cinema, il cui “Fronte del Porto” gli fu portato da Giuffrida.

L’incontro con Averardo Renato Ciriello, che definisce “il più celebre degli illustratori viventi” e loro decano, ispirato dall’omaggio resogli da Vincenzo Mollica, è stato speciale: l’artista di persona gli ha portato a Montecosaro non solo i bozzetti, vere opere d’arte come lo spettacolare “Sentieri selvaggi”, ma anche ritratti di attrici “messe a nudo” per il settimanale Menelik dopo aver creato le pin up per le  copertine  della rivista “Signorina Sette”, un fenomeno di costume.

Viene poi  Sandro Simeoni  di cui ricorda: “Quando mi portò il bozzetto di “Accattone” sembrava tenere in braccio una creatura, la sua creatura descrittami nei minimi particolari con pasoliniane memorie, davanti al camino, come se raccontasse una autentica favola. E per me lo era veramente”.

Enrico De Seta , scomparso ultracentenario, lo incontrò nella sua villetta nella campagna romana, e fu prodigo di racconti e di aneddoti della sua lunga vita artistica. Fu il figlio Bob, con il quale visionò parte della produzione artistica del padre, a dargli il bozzetto di “I vitelloni””,  “che ad ogni sguardo riesce sempre ad emozionarmi”,  esclama con la sua consueta vena autentica e spontanea.

Conosce nel 2005 Enzo e Giuliano Nistri, autori dei bozzetti dei film di Catherine Spaak, ad una manifestazione in onore dell’attrice, e la figlia del pittore Mario De Berardinis, incontrerà poi la compagna di vita di Manfredo Acerbo, ma non riuscirà a strapparle la “Tunica”,  e Luigi Crovato, cui si deve il bozzetto di “I soliti ignoti, Alessandro Biffignardi e Silvano Campeggi, il grande “Nano”, Renato Casaro e la moglie del pittore Rodolfo Gasparri, di Castelfidardo.

Dei film del regista marchigiano, Romolo Marcellini, è riuscito a recuperare  i bozzetti di Ballester, per “M.A.S.”, e di Mauro Innocenti per “Tabù n. 2”. Ci teneva molto, “forse anche a questo spirito campanilistico devo qualcosa, come riuscire ad accumulare in tanti anni di intense ricerche, alcuni esemplari di pezzi unici che, in questo piccolo paese, raccontano la storia iconografica del cinema mondiale”.  E non sono mancate “scelte sofferte”, cita solo la rinuncia al Rolex e a preziose tavole.

Ercole Brini con Anna Magnani in “Bellissima”, regia Luchino Visconti,  1951 

Racconti e immagini che fanno storia: dell’arte, del cinema e del costume

Sono racconti che fanno storia, la storia dell’arte figurativa al servizio del cinema, in una simbiosi che oggi assume aspetti molto diversi. Non c’è più il pennello degli artisti, alla pittura si sostituisce la tecnologia digitale, fatta di computer e di “mouse”, l’estro si esprime con la freddezza della grafica. Marinozzi  si dichiara “nostalgico di antiche emozioni, vissute come uno dei tanti bambini incantati davanti ad un grande cartellone”, e ci fa ripensare al film di Jacques Tatì che esprimeva visivamente questo sentimento che non è retrogrado ma molto umano.

Ma proprio questo dà alla sua opera un valore definitivo,  come la riscoperta di “civiltà sepolte” , o meglio di reperti che potevano andare perduti. Invece non solo sono salvati dalla distruzione che sarebbe seguita all’oblio, ma sono stati portati alla luce e messi a disposizione di tutti in una  terra aperta alla cultura, esposti nell’antico palazzo patrizio, ai margini del borgo medioevale,  che  fa pensare a un castello a protezione di questi valori dell’arte e dell’umanità.

Entrati nella memoria personale e collettiva , meritano di essere riproposti  per continuare a sognare. “Il sogno è sempre più sbiadito e lacerato”, dice Marinozzi; ma per merito suo torna a brillare e a risplendere.

Il racconto di Paolo Marinozzi si è dipanato  con aneddoti e particolari pittoreschi, il tutto animato da una forte passione e da  una gioia quasi infantile nel descrivere le sue conquiste. Un film nel film, va definito, dato che il film principale è da lui realizzato nel set del palazzo di famiglia.

Dopo il racconto, la visita alle numerose sale e salette dei due piani del palazzo dove sono esposte le opere. E non a caso abbiamo parlato di set, i bozzetti si integrano nell’ambiente al quale danno il colore e il calore delle  loro immagini, non sono semplici quadri in  successione ma tessere di un mosaico in cui il palazzo nobiliare ha una parte non secondaria. Sembra il terreno in cui  si svolge una storia  piuttosto che una sede espositiva, ed è giusto che sia così. Perché i  bozzetti oltre a raccontare con la loro sintesi artistica la propria vicenda, nella  loro successione incalzante esprimono la storia di un costume e forse di una civiltà, al di sopra delle frontiere: vi è rappresentato il cinema mondiale, in un percorso di oltre  mezzo secolo.

Come nei due tempi cinematografici, la storia si sviluppa in due piani del palazzo, nel susseguirsi di scene tra una stanza e l’altra. Sono unite, come nelle antiche case nobiliari, con la continuità delle singole “enclave”  nelle quali sono esposti i quadri. Fino all’arrivo al salone centrale, dal soffitto riccamente affrescato, dove la sensazione di assistere a  una vera storia che si snoda in un ambiente “vissuto” è reso plasticamente dalle riproduzioni , questa volta in manichino, delle  attrici sedute sulle sedie quasi in una magica evocazione. Ma non si incontrano i misteri dei castelli, tutto è aperto e palese, sono stati ricavati anche degli angoli con suggestivi abbinamenti tra bozzetto e manifesto.

La visita sta per iniziare, non si può esaurire in poche battute, ne parleremo prossimamente.

Info

Montecosaro (Macerata), Palazzo Marinozzi a Porta San Lorenzo, visite guidate su Appuntamento. Infoline 0733.229164. museo@ cinemaapennello.it; www. cinemaapennello.it. Catalogo “Cinema a Pennello. Un bozzetto di storia”, di Paolo Marinozzi, edito dal “Centro del Collezionismo”, Montecosaro, giugno 2011,  formato 24×28 cm, pp. 304 su carta patinata a colori.; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 17 e 19 novembre 2012, il primo con i bozzetti  di Cesselon, Putzu, Maro e Simeoni, il secondo con quelli di Ciriello, Campeggi, Manfredo e  Gasparri.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’autore Marinozzi con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; per la  figura e l’opera degli autori delle immagini inserite nel testo cfr. i due articoli successivi del 17 e 19 novembre. In apertura, Renato Cesaro con  Claudia Cardinale in  “Nell’anno del Signore”, regia Luigi Magni, 1969; seguono  Anselmo Ballester con Marlon Brando in “Fronte del porto”, regia Elia Kazan, 1954, ed Ercole Brini con Anna Magnani in “Bellissima”, regia Luchino Visconti,  1951; in chiusura, Ermanno (Piero) Iaia con Charlton Heston in “I dieci Comandamenti”,  regia Cecil B. De Mille, 1956. 

Ermanno (Piero) Iaia con Charlton Heston in “I dieci Comandamenti”,  regia Cecil B. De Mille, 1956

Vermeer,1. Lo sguardo e la luce, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Una mostra dall’allestimento molto particolare a Roma, alle Scuderie del Quirinale, dal 27 settembre 2012 al 20 gennaio 2013, “Vermeeer il secolo d’oro dell’arte olandese”, organizzata dall’Azienda speciale Expo con MondoMostre, curata da Arthur K W heelock  jr della National Gallery di Washington e Walter Liedtke del Metropolitan Museum di New York con Sabrina Bandera soprintendente  al patrimonio artistico di Milano e Antonio Paolucci, presidente del Comitato scientifico delle Scuderie.  50 opere  di artisti del secolo d’oro olandese che fanno corona a 8 opere di Vermeer, delle 35 esistenti; sono di piccole dimensioni, con grande forza espressiva.

Vermeer, “La stradina”, 1658

Un allestimento sobrio e speciale

E’ inconsueto raccontare la mostra soffermandosi sull’allestimento, ma è la chiave per seguirne il percorso didattico e di ricerca insieme, e dare al sottotitolo il suo vero significato. Questa volta non si tratta dell’operazione alquanto frequente di lanciare il grande nome come specchietto per le allodole la cui presenza serve ad accreditare una platea di artisti minori cui si riferisce la scritta in piccolo. Del grande nome sono presentati, sì, “solo” 8 quadri, ma sono  poco meno di un quarto di quelli esistenti  gelosamente custoditi e inibiti al trasporto per la loro fragilità; inoltre i 50 quadri di pittori olandesi  della sua era non sono riempitivo, trattandosi di artisti di qualità che hanno condiviso e innovato  con lui motivi, stile e contenuti, in una stagione di intenso fervore artistico.

L’allestimento è in carattere con tutto questo, nelle 10 sale delle Scuderie dopo l’apertura  con un celebre “esterno” di Vermeer, gli esterni dei suoi conterranei coevi, poi si susseguono i temi salienti di interni  vissuti da persone e visi in una vita quotidiana  intima e raccolta, con l’interpretazione degli altri artisti e al centro, quasi incastonato, il “suo” quadro.  Sulla tonalità neutra del grigio dei rivestimenti alle pareti, spiccano a caratteri vistosi i titoli delle singole opere come capitoli di un libro da tenere a mente, in aggiunta alle consuete etichette recanti tutte le indicazioni. In ogni sala sono esposte opere con un filo conduttore comune, i titoli danno conto dei singoli svolgimenti.

Più che a sorprendere con effetti spettacolari si mira a far riflettere, a penetrare lo spirito del “secolo d’oro” per trovare al centro di ogni tematica  il culmine dell’arte rappresentato dall’opera di Vermeer. Un’eccellenza da scoprire nel confronto ravvicinato, alla ricerca della specialità nel segno e nel colore, nell’espressione e nella luce che lo rende il più grande tra pur valenti e rinomati artisti.

L’Olanda del secolo d’oro

Ma cos’è questo “secolo d’oro” della pittura olandese? Come nasce e attraverso quali circostanze della storia e della vita si è elevata la figura di Vermeer, così diversa dai grandi pittori di sempre? Sono domande a cui è bene trovare una risposta per  poter apprezzare appieno i capolavori esposti, e dare alla visita un valore  pedagogico con una vera ricerca del significato di stili e contenuti.

Dopo un conflitto durato quasi un secolo, dal 1568 al 1648,  l’Unione delle Province Unite che si erano ribellate al dominio absburgico con la pace di Munster nel 1583 raggiunge l’indipendenza: ogni provincia ha un governo autonomo, e la provincia olandese assume un ruolo dominante. La strenua lotta per raggiungere l’indipendenza, insieme a quella per difendere le terre poste sotto il livello del mare con le dighe, dà al popolo olandese una grande forza che si manifesta in un fiorente sviluppo dei commerci e dell’economia, con il sorgere di una borghesia molto intraprendente. Pur nel rigore del calvinismo protestante, dopo l’aspra lotta religiosa con i cattolici, c’è tolleranza e apertura alle scienze e alle arti, che crea spazi per esercitare liberamente lo spirito creativo. Rembrandt ad Amsterdam,  Hals alla vicina Haarlem, Vermeer a Delft sono stati i più grandi.  

La classe borghese con il suo interesse ad acquistare quadri sul mercato privato viene a sostituire il mecenatismo imperiale, ecclesiastico e  aristocratico presente in altre nazioni oltre che in altre epoche. Ne deriva che l’arte non è più vincolata ai temi religiosi, mitologici o nobiliari,  ma si orienta verso la realtà di quel periodo, fatta di vita quotidiana  e virtù civili;  non c’è più la rabbia dei decenni precedenti quando i soggetti erano violenti e dissoluti, con la pace va in scena la vita familiare. Gli artisti possono esprimere la propria creatività  ispirandosi a ciò che vedono, trovano sbocco solo nel mercato interno, quindi i quadri sono di piccole dimensioni  e i temi intimi e privati.

Già nel 1550, mentre Vermeer è in fase di formazione su temi mitologici e religiosi, troviamo De Hooch e  Steen con cortili e scene che si svolgono in strada  oppure in ambienti domestici in una disarmante semplicità; e Ter Borch, a cui si ispirò per riprendere scene di vita domestica, mentre l’elemento psicologico irrompe con  Van Mieris. La luce è la grande specialità di Fabritius che  ebbe un’influenza diretta su una delle  opere più celebri di Vermeer  il quale aveva due suoi quadri.

Siamo passati, nel “secolo d’oro”, dagli esterni agli interni, alla psicologia e ai volti con espressioni intense che la riflettono: altri nomi si aggiungono, De Witte e Van der Heyden, Maes e  Metsu, Sweerts e Shalcken,  Dou e  Ochtervelot,  Netschwer e Van Vliet, tutti presenti in mostra. E non sono semplici comprimari, anche se Vermeer è  l’eccellenza: è una carrellata di ambienti raccolti e di figure sommesse che dà la misura della pittura civile e intimistica di un’Olanda libera da qualunque vincolo che ne limiti la libertà politica, economica, e  soprattutto, artistica.

Van der Poel, “Veduta di Delft con l’esplosione del 1654”, 1654

La vita e l’arte di Vermeer

La città dove Vermeer è nato ed è rimasto per tutta la vita, a parte  qualche viaggio ad Amsterdam e L’Aia, è tra le più fiorenti:  Delft con 35 mila abitanti è al centro di commerci  anche di arazzi e porcellane cinesi, c’è una ricca classe borghese interessata all’arte. Si ritiene che, pur nel clima di libertà e autonomia da vincoli di committenza, Vermeer possa aver avuto un riferimento preciso, con un compratore abituale che forse gli ha suggerito alcuni particolari di dettaglio, ma non è certo.

E’ noto che dipingeva non più di un quadro ogni 4 mesi, in media 3 all’anno, impegnandosi con cura certosina e utilizzando materiali di pregio; collegando questo aspetto con la fine prematura a 43 anni si comprende perché abbia prodotto meno di 50 quadri in tutta la sua vita, per di più di piccole dimensioni, un decimo di quanti ne producevano altri artisti, senza pensare alle grandi pale. Piero Citati lo attribuisce alla pigrizia, agli impegni per la famiglia e il commercio o alla mancanza di compratori, e aggiunge: “O invece aveva bisogno di molto tempo perché i motivi si formassero e, a poco  a poco, lentamente, cristallizzassero, come perle prodotte da una misteriosa conchiglia”.  

Fu eletto decano della “Gilda” di San Luca di Delft nel 1662-63 e poi nel 1670-71, ma a parte questo non si metteva in vista. Nelle sue opere si riflette il suo riserbo e la riservatezza, discendeva da una famiglia modesta,  a vent’anni sposò Catharina Bolnes, una ragazza cattolica benestante  e abbracciò quella religione in modo convinto. La sua casa era vicina a una chiesa e a una scuola di Gesuiti;  era modesta, anche se dipingeva interni eleganti con la sua immaginazione. Ebbe 11 figli, viveva anche con la suocera vera padrona di casa essendo la moglie sempre incinta,  la sua vita procedette senza difficoltà fino alla crisi del 1972: la guerra con la Francia lo abbatté sul piano economico e psicologico, sopravvisse soltanto per tre anni vissuti nell’indigenza e nell’angoscia.

L’esordio come artista e la sua formazione furono ben diversi nella forma e nei contenuti da quella che sarebbe stata la sua cifra pittorica. Iniziò dipingendo scene mitologiche e opere religiose di grandi dimensioni, secondo la pittura tradizionale, fino alle nuove tendenze che si andavano profilando nell’ambiente artistico e che contribuì a determinare. Nel 1955 a 23 anni abbiamo “Santa Prassede”, che riproduce un quadro di un pittore fiorentino, al punto da mettervi la doppia firma,  come si vedrà in mostra; poi “Cristo nella casa di Maria e Marta” e “Diana e le compagne”.  

Ci si chiede se questi primi lavori, che forse trovarono acquirenti in parenti o amici, sono il frutto della conversione al cattolicesimo e se sperasse in grandi committenze ecclesiastiche . Di certo la situazione politica ed economica  dell’Olanda  e di Delft  non poteva portare a committenze di questo tipo, mentre si aprivano gli sbocchi cui si è accennato nel libero mercato dell’arte alimentato dagli acquisti della borghesia che non prediligeva simili temi ma soggetti vicini alla vita reale.

Questo lo portò alla pittura di genere cominciando con le vedute cittadine e con scene di vita quotidiana sin dalla seconda metà degli anni ’50 nel ‘600,  già dipinte da artisti dell’epoca che ebbe modo di conoscere rendendosi conto che aveva doti ben superiori per eccellere in quel campo. D’altra parte la formazione su temi  religiosi e mitologici lo aveva portato a una visione improntata alla dignità e alla nobiltà che, in soggetti e modalità ben diverse, rimase comunque il suo sigillo.

De Hooch, “La camera da letto”, 1658-60

Il giudizio di uno scrittore e di un poeta

Cosa si può dire della sua arte, come preparazione alla visita  delle sue opere in mostra?  Ci piace premettere il giudizio di uno scrittore e di un poeta ai commenti critici dei realizzatori, con i quali introdurremo la visita alle opere esposte.

Ecco il pensiero dello scrittore Pietro Citati, in un commento molto approfondito  che raggiunge toni lirici: “Non gli interessava inventare ma vedere”. La forma e il colore, gli oggetti e le persone, e soprattutto la luce, Citati li vede atteggiarsi “in modo sempre nuovo, nello splendore quieto della sua mente.  Tutto accadeva nella sua mente, che era il suo occhio, la sua mano, la sua luce, la sua camera oscura”. Della luce dice che non la riproduce come la vede, essendo molto diversa da quella reale che, tra l’altro, dopo un attimo è già mutata mentre viene fissata sulla tela. La sua luce “arbitraria, illogica, irrazionale”  fa sì che il momento non sia né effimero né eterno, “con un tocco sottilissimo lo rende assoluto”; l’azione è sospesa tra quiete e movimento, tra presenza e assenza, attesa e contemplazione, equilibrio e delicatezza. Perché “la sua mente guardava il mondo, lo rispecchiava e lo rifletteva in se stessa”.  Il  tutto nella quiete data da sentimenti raccolti nel profondo dell’anima, comprimendo “la ricchezza dell’immaginazione in un  piccolo spazio, in qualche tocco di colore e in pochi sprazzi di luce”.  Ma anche se le composizioni sono semplici, nei soggetti, nelle figure e nei particolari, la luminosità toglie ogni senso di ristrettezza, apre l’immagine dandole un’ampiezza e un’intensità che rispecchia i sentimenti.

Il grande  Giuseppe Ungaretti ha scritto: “Lo dicono il pittore della luce. Dicono che cercasse la luce. Difatti cercava la luce. Si veda com’essa vibri, per lui, dai vetri, com’essa muova l’ombra, ombra della luce, ombra quasi impalpabile di ciglia mentre lo sguardo amato si socchiude, sguardo quasi – nel suo protrarsi nella memoria e nel desiderio –  imitasse il segno dell’ombra”. Ma precisa subito: “Bisogna però stare attenti nel parlare di luce. Forse, cercando la luce, Vermeer trovava altro, forse la meraviglia sublime della sua pittura è nell’aver trovato altro”.  Un enigma anche questo che il poeta risolve così: “Il  vero resta nella giusta sua misura, pur scappandone e divenendo metafisico, facendosi idea, forma immutabile, per non divenire alla fine se non puro colore, o meglio accorta, misurata distribuzione di puri colori, l’uno nell’altro compenetrandosi, l’uno dall’altro isolandosi”. Perché la luce è “essa stessa un colore” ed è anche “l’anima d’ogni colore”.

Neppure Ungaretti, dunque, come Proust  e Giorgio Morandi,  Ingmar Bergman ePietro Citati,  ha resistito all’attrazione fatale di Vermeer e si è immerso nella sua poetica pittorica riportandoci agli aspetti visivi e cromatici che sono la manifestazione esteriore dei misteri metafisici. A  questo punto è venuto il momento di visitare  la mostra in cui il grande artista è in buona compagnia, contornato com’è da tanti campioni del “secolo d’oro” nel ‘600  olandese. La racconteremo prossimamente.

Info

Roma, Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Domenica-giovedì ore 10,00-20,00; venerdì-sabato ore 10,00-22,30, lunedì chiuso, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro  9,50. Tel. 06.39967500. http://www.scuderiequirinale.it/; http://www.mondomostre.it/.  Catalogo “Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese”, a cura di Sandrina Bandera, Walter Liedtke, Arthur K. Wheelock Jr., Skira 2012, pp. 248, formato 24×28, euro 38; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I successivi due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 20 e il 27 novembre 2012. 

Foto

Le immagini sono state fornite dalle Scuderie del Quirinale, si ringrazia  l’Ufficio stampa con i titolari dei diritti per la cortese concessione. In apertura “La stradina”, 1658, di Vermeer,  seguono “Veduta di Delft con l’esplosione del 1654”, 1654, di Van der Poel  e “La camera da letto”, 1658-60 di De Hooch; in chiusura “Santa Prassede”, 1655, di Vermeer.

Vermeer, “Santa Prassede”, 1655

Mondrian, 1. Il percorso d’arte e di vita, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

‘L’esposizione di un quadro di  Mondrian tra i riferimenti ideali, nella mostra in corso alla Gnam dal 20 ottobre 2012 al 27 gennaio 2013 su “L’arte astratta italiana”,  riporta alla ribalta la mostra “Mondrian, la perfetta armonia” svoltasia Roma al Vittoriano dall‘8 ottobre 2011 al 29 gennaio 2012. E’ stato un evento del quale resta un segno profondo a distanza di un anno, trattandosi dell’accurata ricostruzione, rigorosamente strutturata in termini cronologici e stilistici, del suo percorso di vita e di arte con l’esposizione di 70 sue opere relative a tutte le fasi pittoriche, e il contorno di ben 40 opere di altri artisti olandesi in un’interessante associazione di stili e contenuti.

“Faro a Westkapelle con nuvole” 

Per dare il senso dell’evento, ben al di là di una pur importante mostra, iniziamo ricordando l’intervento degli Assessori alla cultura di Comune, Provincia e Regione, dopo l’introduzione di Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando”, nonché il saluto dell’ambasciatore olandese, Alphonsus Stoelinga; mentre il giorno dopo, ospite d’onore all’inaugurazione la principessa ereditaria d’Olanda Maxima con il Ministro dei beni culturali Giancarlo Galan.

Il motivo di tanta mobilitazione? Il livello di eccellenza dell’artista e le sue poche mostre in Italia; a Roma mancava dal 1956, quando lo portò Palma Bucarelli. L’itinerario da paesaggista a simbolista, da luminista a puntinista, da cubista ad astrattista, ne fa una figura eccezionale sul piano artistico e umano: “Una crescita continua e un cambio di passo fino a raggiungere la sua perfezione: ‘l’armonia perfetta’, come si intitola la mostra”, è la premessa di Alessandro Nicosia.

L’assessore al Comune Dino Gasperini ha dato una notizia, il lancio del logo unico del sistema espositivo romano all’inaugurazione della mostra, che corrisponde ai 140 anni dell’artista.  E dopo la parola delle istituzioni, quella della cultura artistica: a presentarlo sono stati Claudio Strinati  e il curatore della mostra e del Catalogo Skirà Benno Tempel, direttore del Gemeentemuseum dell’Aia che ha offerto i prestiti della vasta Collezione di opere di Piet Mondrian e di altri artisti olandesi.

La presentazione di Tempel e le musiche scelte da Strinati

Strinati ha parlato della scelta di brani musicali, da lui curata, il corredo sonoro alla parte finale della mostra: si è ispirato al tema dell’armonia. Mondrian  era molto appassionato di musica, dopo cena a New York andava nei locali da ballo e pur essendo per altri versi un esempio di sobrietà amava l’aspetto ludico della vita.

I brani musicali prescelti sono ripartiti tra Europa e America, dal futurismo – con la musica che nasce dalle macchine – al boogie-woogie; poi quelli ispirati all’altro aspetto di Mondrian, figura simbolica e per certi aspetti  mistica, musica dodecafonica, del tardo romanticismo e musica geometrica-razionale. La corrispondenza tra questi brani e le opere del periodo più maturo sta nel ritmo: per lui l’opera d’arte, che non aveva steccati di genere, doveva dare un senso di benessere e soddisfazione, come fanno le musiche.

Il curatore Tempel ha evocato l'”armonia perfetta” che si crea tra il museo dell’Aia e le opere di Mondrian esposte in tale sede; e ha cercato di riprodurla nell’allestimento della mostra. L’immagine dell’artista non può essere quella stantia del passato, il suo percorso corrisponde allo sviluppo dall’arte dal XIX al XX secolo. Ha iniziato da paesaggista, quando questa era la visione dell’epoca con un’Europa essenzialmente agricola, poi ha seguito l’evoluzione della vita nelle città; in fondo è stato analogo il percorso delle generazioni di europei passati dalla vita in campagna all’urbanesimo.

La sua qualità è stata sempre altissima in ogni fase; l'”armonia perfetta” si crea quando si avvicina alla teosofia. Parla del rapporto tra orizzontale e verticale, presente già nelle opere paesaggistiche improntate al realismo; e cita le dune  orizzontali e i fari verticali. Altro elemento teosofico è che “distruggere è positivo perché porta il nuovo”. Una prima svolta nel 1911, quando scoprì il cubismo e capì che per essere moderno doveva cambiare stile e soggetti e abbandonare l’Olanda. Fu un gesto coraggioso, a 40 anni era uno dei pittori più famosi nel suo paese, lasciò tutto per andare a Parigi dove non era conosciuto. Si mise a studiare e dipingere opere cubiste, ma superò presto questa fase.

Cercava l’armonia tra verticale e orizzontale per cui andò oltre Picasso dipingendo su un unico piano. Tornato in Olanda nel 1917 fondò “De Stijl”, uno dei movimenti più moderni che cercava un nuovo stile per proiettarsi nel futuro, e nella prima guerra mondiale si diffuse anche in Germania, lanciando il “neoplasticismo”. L’evoluzione di Mondrian nella modernità fu tale che quando tornò a Parigi dopo la guerra fu deluso, per lui gli artisti avevano fatto passi indietro, compreso Picasso.

Il suo “atelier” veniva dipinto con gli elementi della sua pittura, fino a configurare un ambiente tridimensionale. L'”armonia” nella sua concezione si riferiva anche al movimento, alla musica, al ritmo. Fino al gusto ludico del ballo come inno alla vita, una vita strettamente aderente all’arte.

Un’opera di realismo

Dal realismo al simbolismo

Il curatore della mostra ha inquadrato così la persona e non solo l’artista con tratti precisi che ne rendono lo spessore culturale e umano. Tutto il suo percorso ha dello straordinario, e sovverte tanti criteri consolidati come quello che veniva richiesto, la coerenza stilistica e di contenuti sul piano artistico; in lui abbiamo invece una adesione alle correnti pittoriche in auge nei diversi periodi della vita senza che questo possa essere ascritto a conformismo, è il voler essere sempre  al passo dei tempi in una ricerca che sin dall’inizio ha un obiettivo preciso, la “perfetta armonia”.  

E quando ha raggiunto tale obiettivo, si è avuta una vera esplosione di opere che segnano il compimento del suo percorso, divenute punti di riferimento anche per il design, la moda e la pubblicità odierne: l’espressione più moderna del senso ludico della vita da lui amato.

Per la “perfetta armonia” oltre che all’arte si rivolge alla dottrina teosofica, cercando soluzioni non semplici nè convenzionali, e mostrando una piena coerenza arte-vita pur nei cambiamenti radicali in entrambe: così nel passaggio tra uno stile pittorico e l’altro, e dall’Olanda ad altri paesi, tra l’Europa e l’America, con l’approdo a New York nel quale trovò la modernità a cui puntava nell’arte.

Gli stessi suoi “atelier” ne sono una prova, anche senza voler entrare nello stile di vita dove il ballo e il senso ludico sono stati sempre importanti: dall’arredo tradizionale con vecchi mobili e tappeti dello studio di Amsterdam a quello spettacolare di Parigi dove – lo dice Tempel “i visitatori  avevano come l’impressione di entrare fisicamente in un quadro dell’artista”, fino all’ultimo in America, spoglio ed essenziale, rinnovato ogni giorno per riprodurvi “il ritmo pulsante di New York e dell’amata musica jazz”.  Di qui l’idea di introdurre la sua musica nell’esposizione.

Ma seguiamone l’evoluzione nel percorso della mostra iniziata con i dipinti paesaggistici improntati al realismo della Scuola dell’Aia i quali, se confrontati con quelli della piena maturità artistica, lasciano increduli che si tratti dello stesso artista: sono molto scuri, di un figurativo in cui la gente comune è inserita nell’ambiente in modo tale da esserne assorbita, come lo era la loro vita di contadini, pastori e pescatori.

Tonalità monocorde senza vivacità cromatiche né contrasti, vi si adatta la definizione di “Scuola grigia” data agli artisti dell’Aia, ma solo sul piano esteriore. In realtà dietro c’era la concezione del filosofo francese Hyppolyte Taine sullo stretto rapporto tra opera d’arte e costumi di un popolo, e sull’influenza dell’ambiente. L’attenzione al paesaggio era, dunque, un fatto culturale oltre che artistico, e in questo spiccano le peculiarità dell’Olanda, in lotta con il mare che ha un livello superiore alla terraferma, dal quale si protegge con dune e dighe.

Nella prima  sezione abbiamo visto circa 30 opere, oltre alle sue quelle di Maris e Weissenbruch, Roelofs e Gabriel.  Del primo ben 5 dipinti, l’“Ovile” e il “Mulino di pietra”“Scena di foresta” e “Mucche tra i giunchi”, ambiente georgico anche se non arcadico per certe ombre molto cariche; di Marris anche “La sposa”, molto diverso, una suggestiva apparizione luminosa nelle tenebre. Degli altri tre artisti visioni molto simili di specchi d’acqua in ambiente lacustre o paludoso.

Un’opera di simbolismo 

Per Mondrian citiamo alcuni titoli che ne rendono il contenuto, siamo tra il 1894 e il 1907.

In una delle prime opere  troviamo il rosso, eccezione alla tinta scura monocorde: è “Timpani posteriori di  una casa colonica di Achterhoek con figure”,  inconsueto il primo pano della donna con in braccio il  bambino.  Paesaggi ricorrenti sono il “Boschetto di salici” e “Boschetto di salici vicino all’acqua”,  il “Canale di irrigazione”con  mucche o salici e “Case coloniche” con corda di bucato o alberi lungo il fiume, “Un’ansa del Gein” e “Corso d’acqua”, “Sera, ovile e cascina” e “Campo”, “Pineta” e “Due alberi”.

Rileviamocome gli alberi siano un motivo persistente e vedremo che non è solo perché il realismo porta a ispirarsi alla natura e l’albero è un elemento centrale del paesaggio. Dell’albero farà il ponte tra realismo ed astrazione con una progressiva inarrestabile stilizzazione. Intanto vi trova gli elementi simbolici a lui cari, nella verticalità del tronco e nell’orizzontalità dei rami; quelli che diventano centrali nei “Fari” e nelle “Dune”  e indicano che anche in questa fase iniziale del suo percorso cerca di andare oltre la realtà.

Abbiamo accennato alla matrice spirituale, la ricerca dell’armonia per un’arte universale, secondo i principi del movimento teosofico di Rudolf  Steiner ed  Helena  Blavatsky che seguì nei primi anni del ‘900; ma solo con la  creazione del gruppo De Stijl, oltre un decennio dopo, furono precisate le incidenze delle concezioni filosofiche sulla sua arte pittorica, che è stata sempre molto personale, ai massimi livelli e con la continuità di una copiosa produzione in tutte le proprie tappe stilistiche.

Si può dire che dopo il realismo abbracciò il simbolismo insito nella teosofia, ma come ispirazione piuttosto che come uso di simboli nei suoi dipinti. I motivi  sono diversi,  alcuni paesaggistici dal “Molino”  in un fondale tenebroso o ripreso in primo piano sempre in campo scuro, al “Grande paesaggio” gravido di ombre; altri sui temi a lui cari, come il “Faro a Westkapelle con nuvole”  o gli “Studi per 5 silouette di alberi”, delicati disegni a carboncino che mostrano l’interesse ai dettagli  mentre l’olio su tela “Profilo di albero”  immerge di nuovo nell’oscurità simbolista. E poi i fiori, il dipinto della “Calla”, un’orgia di rossi e verdi, niente a che vedere con il candore dei quadri che farà Georgia O’ Keeffe su analogo soggetto; e gli studi a carboncino del “Giglio  a coda di volpe”. con la stessa cura nel riprendere i particolari degli studi sugli alberi.

Il simbolismo si fa evidente  in dipinti su temi inconsueti, come i ritratti: lo vediamo dagli occhi spalancati in “Ritratto di ragazza in rosso” e soprattutto dall’intero impianto di  “Devozione”, una giovane figura femminile dai lunghi capelli rossi il cui corpo quasi si trasfigura negli steli dei fiori, vi è stato trovato un simbolo  di “stato  mentale”; in “Passiflora”, altra figura femminile diafana dagli occhi chiusi  con due corolle di fiori  ai lati, è stato visto un “simbolo di malattia”;mentre in “Metamorfosi, crisantemo morente, il fiore funerario è considerato il simbolo teosofico che morte e distruzione sono un progresso verso l’alto, non la fine.

Chiudono la sezione due suoi “Autoritratti”, uno qualificato  “Volto isolato”, l’altro “Occhi”, in carboncino dal segno marcato che ne fa una figura tenebrosa d’altra epoca: simbolo anche questo.

Il percorso continua con il luminismo e il puntinismo, poi il cubismo fino all’astrattismo puro per il raggiungimento dell’“armonia perfetta”. Ne parleremo prossimamente.

Info

Catalogo: “Mondrian. La perfetta armonia”, a cura di Benno Tempel, Skirà,  formato 28 x 30, pp. 224, ottobre 2011. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito il 18 novembre 2012.

Foto

Le  immagini sono state cortesemente fornita da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, che si ringrazia, con il Gemeentemuseum dell’Aia  e i titolari dei diritti. Sono tutte opere di Mondrian: in apertura “Faro a Westkapelle con nuvole”, seguono sue opere di realismo, simbolismo, luminismo.

Un’opera di luminismo